UN REGNO SENZA RE
Sottolineiamo
la velata presenza all’interno di una teoria scientifica, al di là dei suoi
contenuti specifici, di un risvolto di innegabile consistenza, e che investe
l’inscindibile relazione che collega l’opera dello scienziato alla sua
ideologia. Infatti, come se scienza e matematica costituissero un veicolo per
trasmettere contenuti che le trascendono, le convinzioni di natura filosofica
degli scienziati risultano in qualche modo trasposte ed inserite all’interno
delle loro enunciazioni formali, non sempre in modo evidente.
Questa
tendenza a trasmettere attraverso il sistema della scienza personali concezioni
del mondo costituisce la caratteristica primaria del pitagorismo, o se si vuole
della mentalità iniziatica. Che ovviamente non si è estinta, ma si evidenzia
altresì al giorno d’oggi nei settori culturali più disparati. Nell’ambito della
fisica moderna, ad esempio, al di sotto dei raffinati assetti formali, è
presente un carattere di fondo che confluisce in una visione misticheggiante
della realtà, di tendenza panteista ed eraclitea.
Per
dimostrare quanto affermato, prenderemo in considerazione alcune significative
dichiarazioni di Albert Einstein, il più famoso scienziato dell’epoca moderna,
che rientrano nella sfera delle proprie concezioni personali, ma che
riecheggiano anche nelle sue opere strettamente scientifiche, per lo meno come
premesse. Spesso, infatti, lo scienziato tedesco nei suoi scritti è solito
unificare due aspetti tipici del sapere, di per sé differenziati: misticismo e
razionalismo. Mistica e ragione hanno infatti caratterizzato e determinato la
sua personale visione del mondo, generalizzata e tradotta in dottrina
scientifica. La sua fede nella religione cosmica, nel dio di Spinoza per
intenderci, lo ha portato ad esaltare la dimensione naturale e relativa della
realtà, nella quale intendeva ricercare le tracce eterne di una presunta
divinità, tuttavia senza persona.
Può
essere utile ricordare che l’esaltazione della legge cosmica dell’eterno
divenire, alla quale secondo questa linea interpretativa sarebbe soggetta la
totalità degli enti, sottintende un’inevitabile svalutazione dell’essere
individuale e della realtà presente. Einstein confermò tale implicazione,
affermando che: <<Mi sento talmente
parte di tutto ciò che vive che non m’importano per niente l’inizio e la fine
dell’esistenza concreta di una singola persona in questo flusso
eterno>> (Lettera
di Einstein a Hedwig Born, 18 aprile 1920).
Questa
gelida dichiarazione, che allude all’esistenza di una regola generale (flusso eterno) alla quale ogni individuo
sarebbe comunque inevitabilmente soggetto, evidenzia un tipico aspetto della
mentalità di Einstein, e dei pitagorici in genere, riscontrabile anche nella sua
concezione scientifica. E che in sostanza consiste, nell’ambito della
conoscenza, nel privilegiare il formalismo e la legge matematica precostituita,
dunque la deduzione, rispetto al contesto induttivo.
È
indicativa in tal senso la risposta, che con buona volontà valutiamo ironica,
data dallo scienziato tedesco ad uno studente che gli chiedeva come avrebbe
reagito se la sua teoria della relatività generale non fosse stata confermata
sperimentalmente. Einstein rispose: <<In tal caso mi spiacerebbe proprio per il
buon Dio: la teoria è giusta!>> (A.
Einstein, Pensieri di un uomo
curioso, Mondadori, Milano 1997, p. 124).
Ripetutamente,
Einstein dichiarò il rifiuto della tesi dell’immortalità dell’anima e la sua
personale tendenza a concepire l’uomo esclusivamente nella stretta dimensione
naturale, negando senza mezzi termini l’idea di un Dio Padre, disposto a
mettersi in comunione con l’uomo, per accoglierlo in una beatitudine infinita. A
questo riguardo egli, tra l’altro, dichiarò senza ombra di dubbio: <<Non credo in un Dio personale e non ho mai
nascosto questa mia convinzione, anzi l’ho espressa chiaramente… L’immortalità?
Ce ne sono di due tipi. Una vive nell’immaginazione delle persone, ed è perciò
un’illusione. C’è un’immortalità relativa che può mantenere la memoria di una
persona per qualche generazione. Ma c’è una sola vera immortalità, dal punto di
vista cosmico, ed è l’immortalità del cosmo stesso. Non ce ne sono
altre>>
(in
S. L. Jaki, Dio e i cosmologi, Città
del Vaticano 1991, p. 66, nota 17).
Questa
visione, più che altro interiore e misticheggiante dell’universo, sembra aver
indotto Einstein a concepire un’immagine scientifica che la rispecchiasse. Egli
infatti non solo non disgiunge le proprie convinzioni private dall’aspetto
formale della propria teoria, ma ci tiene a generalizzare questa regola, dal
momento che afferma: <<Ribadisco
che è una religiosità cosmica il motivo più nobile della ricerca
scientifica>> (Pensieri
di un uomo curioso,
p. 112).
Questa
premessa, in un certo senso metodologica, suggerisce che sia la teoria della
Relatività Ristretta che quella Generale possano considerarsi sostanzialmente
come dottrine filosofiche, dal momento che al loro interno si è come inserito
l’ideale che le ha ispirate, ovvero: il credo nel panteismo cosmologico. Queste
teorie, pertanto, pur se formulate in rigoroso ed inoppugnabile linguaggio
geometrico, rappresentano il fiore all’occhiello di un’ideologia fondata
sull’immanenza. Dunque, tutta tesa alla ricerca di fattori interni alla
dimensione reale, che ne giustifichino e ne rendano comprensibile l’esistenza. E
come a conferma di tale prospettiva, lo scienziato tedesco dichiarò: <<Nessuna idea concepita dalla nostra mente è
indipendente dai nostri cinque sensi>> (Ib.,
p.
119),
intendendo così escludere di principio ogni possibile relazione fra Dio e
l’uomo.
Secondo
le linee tracciate dalla filosofia einsteiniana, l’universo appare come regolato
da immutabili leggi matematiche le quali, quanto più si generalizzano, tanto più
si idealizzano. Einstein però non chiarisce da dove si originino tali leggi,
quale ne sia la fonte, o perché siano formulabili in questo modo particolare, e
non in un altro.
Anzi,
proprio la loro intelligibilità costituisce, a suo parere, il lato
incomprensibile del mondo naturale. In quest’ottica di fondo, l’universo intero
non può che obbedire e sottostare a leggi inviolabili ed eterne che non
possiedono nessuna matrice logica, nessuna causa intelligibile, e che dunque
possono essere persino ricollegate al mito, dal momento che: <<Tutto è determinato… da forze sulle quali
non abbiamo alcun controllo. Lo è per l’insetto come per le stelle. Esseri
umani, vegetali, o polvere cosmica, tutti danziamo al ritmo di una musica
misteriosa, suonata in lontananza da un pifferaio
invisibile>> (Ib.,
p. 110).
Questa
musica suadente e misteriosa, suonata da un “pifferaio magico”, lega tutta la
realtà al mito, ed al mito più oscuro, dal momento che come afferma lo
scienziato ogni essere vivente è destinato (condannato) a danzare, senza
comprenderne il motivo. È chiaro che tale prospettiva, caratterizzata da un
determinismo inalterabile che esclude ogni libertà, non rappresenta che
un’opinione. Tuttavia, il fatto di essere stata espressa da una delle più grandi
personalità scientifiche di tutti i tempi, le attribuisce il fondamento e
fascino che altrimenti non avrebbe.
Al
di là di tale sprezzante giudizio, che peraltro ignora l’argomento della libertà
umana, e di come egli solo sia la causa del male che compie, riteniamo che
proprio a causa di questa visione semplicistica e grezza della divinità, la
filosofia einsteiniana non possa che fornire un quadro altrettanto fosco e
aberrante del cosmo, caratterizzato da un assolutismo scientifico in cui pare
dissolversi, insieme al valore proprio di ogni essere, il senso stesso di un
mondo che perennemente esisterebbe di per sé, senza alcuna ragione intima, senza
alcuna meta finale. Ma conclusione ancor più grave, senza alcuna possibilità di
apertura verso la dimensione sacra e
trascendente.
Nessuna
sorpresa dunque se, con l’affermarsi della Relatività, l’universo è divenuto
simile ad un complesso labirinto, se non proprio groviglio, matematico, di
esclusiva pertinenza della comunità e delle discipline scientifiche. Peraltro,
proprio le celebri equazioni di Einstein, basi universali di questo mondo
mitizzato, espresse in un linguaggio di certo non accessibile ai “profani”,
hanno indotto ad assolutizzare la geometria, esaltandola al punto da ritenerla:
<<non solo uno strumento
concettuale creato per leggere l’armonia della natura, ma la logica stessa delle
sue strutture, il mezzo con cui i concetti basilari di misura si insediano nella
moltitudine delle leggi fisiche… La geometria presiede a tutte le regole della
natura, quando essa cambia, tutto cambia di necessità>> (F.
de Felice, Gli incerti confini del
cosmo, Milano 2000, p. 28).
Il
senso di questa affermazione è notevole, se non esagerato. Esso indica che il
formalismo geometrico utilizzato nella teoria di Einstein, viene
identificato addirittura con il fenomeno
fisico descritto, fino a prenderne il sopravvento, svuotandolo dunque di ogni
consistenza oggettiva. Infatti, se davvero: <<la fisica costituisce un sistema logico di
pensiero che si trova in uno stato di evoluzione, e le cui basi non si possono
ottenere mediante un qualsiasi metodo induttivo, ma esclusivamente attraverso la
libera invenzione>> (A.
Einstein, Pensieri degli anni
difficili, Torino 1965, p. 74),
allora non possiamo pretendere di individuare una realtà ontologica effettiva in
entità create “attraverso libere invenzioni”, ed esistenti perciò solo nella
“fantasia razionale” dello scienziato.
Dovrebbe
peraltro essere chiaro che l’incomprensibilità di alcune fondamentali e famose
idee della teoria relativistica – il “secondo principio di relatività”, il continuum quadridimensionale dello
spazio-tempo, la sua curvatura, ecc. –, trova origine nella pretesa (di per sé
fondata) di voler attribuire un riscontro ed un senso reale ad entità
matematiche, che invece, per loro stessa natura, esistono solo nella mente di
chi le ha escogitate, unificando, attraverso “libere invenzioni”, ideologia
privata, linguaggio formale ed enti reali.
Questa
sintesi di dottrina-ragione-realtà, costituisce peraltro l’essenza più intima
del pitagorismo iniziatico, adottato dalla metodologia scientifica moderna. Ma è
proprio in tale unità che si cela l’insidioso passaggio dal vero del mondo, al
verosimile della rappresentazione. Passaggio che spesso comporta l’acquisizione
non solo di scienza palese, ma anche di dottrina (materialistica)
mascherata.
Per
Einstein infatti – al pari del suo amato maestro Spinosa, che non separò Dio dal
mondo naturale –, il credo nella religiosità cosmica costituisce un tutt’uno con
la sua, forse fin troppo celebrata, opera scientifica. Ed è per questo motivo
che tutto l’edificio relativistico, che senza dubbio costituisce una delle più
grandi acquisizioni della scienza moderna, è tuttavia come impregnato dall’idea
di una “presenza” impersonale, che <<si rivela nell’armonia di tutto ciò che
esiste, ma non in un Dio che si occupa del destino e delle azioni degli esseri
umani>> (A.
Einstein, Pensieri di un uomo
curioso, p. 110).
E
proprio dalle nebbie di tale prospettiva, non può che emergere l’immagine di un
mondo virtuale, senza senso, regolato da un “pifferaio invisibile”, che con la sua arcana musica trattiene
“grandi” e “piccoli” all’interno di un regno dissacrato. Senza forma. E senza
Re.
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