La
rivoluzione
ricerche
storiche
sopra
l'origine e la propagazione del male in Europa
di
Monsignor Gaume
VOLUME
SESTO
Traduzione
italiana di Gaetano Buttafuoco
MILANO
Tipografia
Pirotta e C.
1857
_______________
INDICE
DELLE MATERIE
PARTE
SETTIMA
Cenni
preliminari
CAPITOLO
I.
Il
Razionalismo in sé stesso
Il
Razionalismo, gran pericolo del tempo nostro. - Al pari della
Rivoluzione di cui è anima si risolve in distruzione e
ricostruzione. - Quadro. - Tre gradi nell'errore. - Eresia,
scetticismo, razionalismo. - Definizioni. - Il razionalismo in sé
stesso. - Nell'ordine religioso. - Nel sociale. Nel filosofico.
- Due materiali manifestazioni del razionalismo: l'antichità pagana
e la Rivoluzione francese.
CAPITOLO
II.
Razionalismo
e Rinascimento
Origine
storica del Razionalismo. - Testimonianze dei protestanti e dei
filosofi. - Tomasio. - Spizelio. - Bayle.- Voltaire. -Tutti i
razionalisti.»
CAPITOLO
III.
Il
Razionalismo prima del Rinascimento
Vera
origine del Razionalismo. - Suo regno nell'antichità. - Abolizione
di questo regno operata dal Vangelo. - Tentativi di razionalismo nel
medio evo. - Scot Erigene. - Abelardo. - Amauri de Bène. - Davide di
Dinant. - Raimondo Lulli. - Nessuno di questi filosofi fu vero
Razionalista. - Il medio evo. - L'antipode del Razionalismo. - Prima
del Rinascimento non v'era razionalismo in Europa
CAPITOLO
IV.
Cagione
dei tentativi del Razionalismo prima del Rinascimento
Contatto
dell'intelligenza cristiana con l'antichità pagana, - Donde tutti i
tentativi del Razionalismo. - Contatto con la Grecia sofista e
l'islamismo materialista. - Fisica e metafisica di Aristotele recate
a Parigi. - Sua filosofia proscritta dai padri della Chiesa d'oriente
e di occidente: Tertulliano, Sant'Ireneo, Origene, Lattanzio,
Eusebio, Ermia, san Basilio di Cappadocia, san Gregorio Nazianzeno,
sant'Epifanio, sant'Ambrogio, san Giovanni Crisostomo.
CAPITOLO
V.
Cause
dei tentativi del Razionalismo prima del Rinascimento
Nuove
testimonianze dei Padri contro Aristotele. San Girolamo,
sant'Agostino, san Cirillo d'Alessandria, Enea di Gaza, Enrico di
Lione, san Bernardo, il concilio di Parigi nel 1209. - Opere
d'Aristotele condannate al fuoco. - E però prima fase della fortuna
d'Aristotele dal cominciar della Chiesa sino al tredicesimo secolo;
proibizione assoluta delle sue opere. - Decreto del cardinale di
Courçon. - Seconda fase della fortuna d'Aristotele. - Tolleranza
della sua dialettica. - Bolla di Gregorio X - Terza fase della
fortuna di Aristotele -Autorizzazione ad insegnare la fisica e la
metafisica espurgate. – Riassunto.
CAPITOLO
VI.
Cagione
dei tentativi del Razionalismo prima del Rinascimento
Importanza
delle nostre ricerche. - Quarta fase della fortuna di Aristotele:
permesso, comandato anzi alla gioventù l'insegnamento di parecchie
sue opere tra le altre della sua Metafisica. - Risultamento di questa
concessione. - Testimonianza di Gerson e di Clemengis. - Quinta fase
della fortuna d'Aristotele: ordine di insegnar la sua morale e la
massima parte dei suoi trattati. - Nuovi risultamenti di questa
concessione. - Testimonianze di Tritemo e dell'arcivescovo di Rouen.
- Occasione del Protestantismo. - Riassunto. - Quattro fatti
principali
CAPITOLO
VII.
Il
Razionalismo dopo il Rinascimento - Italia
Ricomparisce
tale quale si mostrò nelle scuole della filosofia pagana di cui
rinnova i principii e i più gravi errori. - Razionalismo politico. -
Formulato da Machiavelli. - Dovunque diffuso. - Prove. - Razionalismo
filosofico insegnato dal Rinascimento e dai Rinascenti. -
Testimonianze: Spizelio, Pier Mathieu. - Principali Razionalisti
italiani: Pomponaccio, Porzio, Cesalpino, Vernia, Cesare di Cremona,
Simon Simonio, Pietro Aretino, Nanno, Orefo, Cosimo de' Medici,
Machiavelli, Pomponio Leto, Calderino, Bruno.
CAPITOLO
VIII.
Il
Razionalismo dopo il Rinascimento - Italia
Razionalismo
nei costumi o emancipazione della carne. - Danni da esso recati. - Il
principe di Parma e la sua corte. Nifo, Poliziano, Alessandro
Piccolomini, Bembo, Beroaldo, Gregorio Leti, Bolzanio, Poggi
CAPITOLO
IX.
Il
Razionalismo dopo il Rinascimento - Italia
Poggio
tipo dei letterati del Rinascimento. - Suo libertinaggio conforme a
quello dei modelli classici. - Sue Facezie. - Origine e natura
di quest'opera. - Lungo tessuto d'empietà e di oscenità. - Successo
scandaloso che ottiene. - Tradotto, imitato, arricchito, prima fonte
del torrente d'immoralità che deturpa l'Europa. - Poggio nemico
della Chiesa. Sua lettera a Leonardo Aretino su l'eretico
Girolamo di Praga. - Impugnatore d'ogni autorità. - Provocatore alla
Rivoluzione - Lettera di Magliabecchi sui poeti italiani del
Rinascimento.-Giudizio di Salvator Rosa.»
CAPITOLO
X.
Il
Razionalismo dopo il Rinascimento
In
seguito alla politica, alla filosofia ed alla poesia, le belle arti
si emancipano. - Che facciano pittori, incisori, statuarii diventati
liberi pensatori. - Cantano la carne e i suoi allettamenti. - Critica
rigorosa delle loro opere fulminata da Salvatore. - Da Erasmo. - Da
Properzio. - Abbomini dell'arte divenuta, pagana. - Profanazione
delle Chiese. - Continui insulti alla pietà e al pudore. - Critica
del giudizio finale di Michelangelo. - La musica fatta pagana e
sensualista. - Suoi funesti effetti. - Profanazione del culto
cristiano. - Eguali effetti nel resto d’Europa.
CAPITOLO
XI.
Il
Razionalismo dopo il Rinascimento
Dall'Italia
il Razionalismo passa in Germania - Danni che vi produce. -
Testimonianze di Cornelio a Lapide, di Lobkowitz. - Hutten, testo dei
razionalisti in Germania. - Importanza della sua biografia. - Suoi
scritti. - Trionfo di Capnion. - Lettere degli uomini neri. - Suoi
rapporti coi liberi pensatori di Francia. - Sua triade romana.
-I Razionalisti moderni invocano la forza per estirpare il
cristianesimo. Non sono che gli eco di Hutten e degli altri liberi
pensatori del Rinascimento.
CAPITOLO
XII.
Il
Razionalismo dopo il Rinascimento - Inghilterra, Spagna, Belgio.
Dall'Italia
il Razionalismo passa in Inghilterra. - Testimonianze. - Guasti che
vi produce. - Prepara il protestantismo. - Dopo il Rinascimento
continua a regnare in questo paese. – Il signor Alloury. -
Razionalismo in Spagna. - Testimonianze. - Nel Belgio. -
Testimonianze. – In Polonia e nel Settentrione. - Prove. - Erasmo,
tipo ed apostolo del libero pensare. - Sue opere. - Sua influenza. -
Scandalo delle sue lettere. -Singolare giustificazione dei
Rinascenti. - Il Razionalismo nato dal Rinascimento, sempre vivo nel
Belgio. - Che debba pensarsi della presente educazione.
CAPITOLO
XII.
Il
Razionalismo dopo il Rinascimento - Francia
Rabelais
continuatore di Poggio.- Montaigne libero pensatore ed epicureo nei
suoi scritti. - La Boetie. - Charron. - Budée. – Copp. – Rueil.
Lefebvre d'Étaples. - Lamothe-Levayer.- Bayle. - Bodin. -
Cartesio.»
CAPITOLO
XIV.
Il
Razionalismo dopo il Rinascimento
Desportes
- Regnier. - Amyot - Malherbe - Saint Evremond.- Motto
di madama di Maintenon. - La pleiade poetica. - Sacrificio del capro.
- Gli artisti insegnano il libero pensare. - Loro opere. - Effetto
dell'insegnamento letterario ed artistico del libero pensare. -
Ateismo dogmatico e pratico. - Gran numero d'atei in Francia. –
Testimonianze.»
CAPITOLO
XV.
Origine
filosofica del Razionalismo moderno.
Il
Rinascimento vero padre del Razionalismo. - l Razionalisti moderni
educati tutti alla scuola dell'antichità pagana. – Tutti ardenti
ammiratori della pagana antichità. - Tutti hanno attinto la loro
filosofia alla scuola dell'antichità pagana. - Testimonianze non
sospette. - La filosofia pagana sola ammirata, sola acclamata dai
Rinascenti. - L'Europa divisa in due campi ostili: il campo
d'Aristotele e il campo di Platone. - Entusiasmo incredibile per
Aristotele. - Fatti curiosi.
CAPITOLO
XVI.
Origine
filosofica del Razionalismo moderno.
Entusiasmo
per Platone. - Testimonianze. - Storia di Marsilio Ficino.
Prepara alla morte Cosimo de’ Medici leggendogli Platone. -
Professa platonicismo a Firenze. - Suoi discepoli. - Ficino adora
Platone. - Lo loda dovunque. - Sue iperboli. - Abuso della Santa
Scrittura. - Istituisce la festa di Platone. - Fonda un'accademia di
Platone. - Il platonicismo predicato in Germania, in Inghilterra, in
Ungheria, a Roma. Fr. Patrizi scrive al papa perché sia ovunque
imposto l'insegnamento della filosofia di Platone. - Pretende sia
l'unico mezzo a convertire i peccatori e a ricondurre sulla retta via
gli eretici.
CAPITOLO
XVII.
Origine
filosofica del Razionalismo moderno
I
padri del Razionalismo moderno, discepoli tutti dei filosofi pagani.
- La filosofia pagana altro non è che il Razionalismo in atto. -
Prove. - Storia degli errori e delle sette della filosofia pagana. -
Perfetta somiglianza della moderna filosofia con la pagana. - Prove.
CAPITOLO
XVIII.
Origine
filosofica del Razionalismo moderno
Stratagemma
dei razionalisti, celano il loro principio e i loro errori sotto la
maschera dell'antichità. - Testimonianza decisiva di Brucker e del
signor Cousin. - Vanità delle loro proteste di reverenza verso
l'autorità della Chiesa. - Rinnovano tutti gli errori e tutte le
sette filosofiche dell'anlichità. - Arrivano all'ultimo termine. -
Ultima prova della origine filosofica del Razionalismo moderno. - Il
concilio di Laterano. - Analisi della Bolla Regiminis apostolici.
- Che ne insegni essa dello stato degli animi e dell'entusiasmo per
la pagana filosofia
CAPITOLO
XIX.
Ultima
parola del moderno Razionalismo
Nel
passato, tre effetti del Razionalismo: il Protestantismo, il
filosofismo del diciottesimo secolo, la Rivoluzione francese. -
Minacce per l'avvenire. Distruzione della religione. -
Testimonianze. - Associazione formata a questo fine. - Distruzione
della società. - Testimonianze. - Associazione formata a questo
fine. – Conclusione.
_________________________________
LA
RIVOLUZIONE
PARTE
SETTIMA
_____________
Cenni
preliminari
Il
Cesarismo da una parte, il Protestantismo dall'altra, tali furono, lo
abbiamo detto, i due elementi di che si compose il Volterianismo, lo
spirito antisociale cioè, ed antireligioso del XVIII secolo. Abbiamo
accettato e discusso un tale teorema nelle antecedenti pubblicazioni.
Ora l'istoria colla scorta degli originali monumenti ne additò
Cesarismo e Protestantismo sorti dal Rinascimento e dagli studi di
collegio. Ne dimostrò inoltre che altro non sono e l'uno e l'altro
se non che il libero pensare o il Razionalismo applicato alla società
ed alla religione.
A
compiere la genealogia del male nei moderni tempi resta a vedere
donde sia venuto lo stesso Razionalismo. Tale è ora il nostro scopo.
La dimostrazione del principio capitale che vogliamo porre sarà
incontrovertibile, ove ne sia dato provare le tre seguenti
proposizioni.
1°
Prima del Rinascimento non v'erano Razionalisti in Europa. 2° Dopo
il Rinascimento se ne trovano dovunque e in gran numero. 3° Il
Rinascimento li ha prodotti e prodotti naturalmente come l'albero
produce il suo frutto.
Più
ci inoltriamo nel nostro lavoro d'investigazione, più cresce
l'interesse, perché le questioni si fanno sempre più fondamentali,
e ci accostiamo all'ultima soluzione. Di tal modo il viaggiatore
intento alla ricerca della sconosciuta sorgente d'un fiume, sente,
più s'avanza, farsi più viva la sua curiosità e più profonde le
sue commozioni. Da tre secoli tutta la scena storica dell'Europa
drammatica tanto e tanto svariata, è tutta piena della lotta
della Chiesa, che è la ragion divina contro la ragion di stato e la
individuale: e queste due forze, al paganesimo classico attinsero
il linguaggio e l'ammanto di tutte le parti che sostennero.
Spettacolo, pare a noi, di mirabile interesse; ma sotto la larva di
queste due formidabili potenze nascondesi il principio più
formidabile ancora che le anima e tende a ricostituire in seno
all'Europa cristiana il culto della ragione e lo stato pontefice e
re delle antiche città.
Questo
principio noi procureremo svelare: vedranno allora i meno accorti
donde esca il torrente che invade l'Europa. Avremo la sintesi
dell'epoca moderna, una al certo delle più solenni della storia, e
col secreto degli avvenimenti compiuti possederemo la chiave dei
grandi problemi che s'agitano sotto gli occhi nostri. Tutto riferendo
al Razionalismo ed al Risorgimento di cui è il primogenito, quindi
al Paganesimo risorto trionfante in seno all'Europa, abbiamo la
formola che spiega i quattro ultimi secoli. Un dato che basta e basta
solo a spiegare tutt'una serie di fenomeni è a buon dritto
considerato come un conveniente principio di soluzione. E però
nell'ordine fisico la legge di attrazione che spiega in soddisfacente
modo e spiega sola i fenomeni del sistema planetario è ammessa come
vero principio di soluzione, e sino a che una nuova legge più chiara
e più compiuta venga a supplantarla, la legge dell'attrazione sta
come base e bussola della scienza.
Così
nell'ordine morale. Se si presenta un principio, un fatto con la
scorta del quale rendesi in soddisfacente modo conto di tutta la
storia di un tempo e senza di cui non possiamo rendercene conto, è
un buon mezzo di soluzione e che debba come tale esser tenuto, finché
un principio più vero, una legge più compiuta venga a surrogarlo.
Ora né la Rivoluzione francese, né il Volterrianismo, né il
Cesarismo, né il Protestantismo bastano a spiegare il male presente.
Al contrario il Razionalismo é il Rinascimento, cioè il Paganesimo
nelle sue molteplici manifestazioni, basta a ciò, e basta solo (1).
Se,
come osiamo sperarlo, la verità di questa formola emerge, da quanto
abbiamo detto manifesta, le grandi quistioni religiose e sociali del
nostro tempo saranno ben semplificate, il rimedio al male indicato,
e, ciò che a nostro avviso è di capitale importanza, poste in piena
luce le cagioni della lotta che ferve in tutta Europa: perché sarà
dimostrato che ora v'ha duello tra il paganesimo e il
cattolicismo.
Prima
di terminare questi cenni, ricordiamo alcuni fatti compiuti da poco,
i quali danno un nuovo appoggio alla grande e santa causa, che vinta
o perduta deciderà infallibilmente dell’avvenire. «Badi l'Europa,
dicevamo noi sin dal principio; la Rivoluzione non è né morta né
convertita». Ed ella non solo rivelò, non ha guari, la propria
esistenza a luminose prove, ma ancora continua le sue invasioni.
Dappertutto ella mostrasi quale fu, quale sarà sempre, la negazione
armata d'ogni ordine religioso e sociale non posto da lei.
In
Spagna, mentre noi scriviamo, la sola proposta di restituire al
clero, spogliato dei suoi beni e delle sue prerogative, il sacro
diritto che gli appartiene sull'educazione fa sollevare la tempesta.
Trionfa audace in Isvizzera col trattato di Neufchàtel; nel Belgio,
con la sommossa, con l'indulgenza dei governi; in Francia moltiplica
i tentativi di regicidio ed ordisce trame di cui i tribunali scoprono
tre volte in due anni il sanguinoso carattere.
A
Napoli colpisce il re la cui testa era stata messa a prezzo; a
Torino, divenuta suo baluardo, glorifica i suoi Bruti sino a tanto
che possa come nel 93, innalzar loro altari. Da per tutto fa recinte,
disciplina i suoi soldati, scambia parole d'ordine. Vorrebbesi invano
dissimularlo: un'orda di barbari ne circonda, il terreno è minato:
sinistre nubi oscurano l'orizzonte: l'Europa ha paura di qualcuno e
di qualche cosa. Il male sta nelle anime, ma un male profondo,
endemico, universale. Chi si raccoglie innanzi a Dio per penetrarne
la vera cagione? Chi ne applica il rimedio? I re usano la forza; la
Borsa specula, la società danza, alloppiatore o alloppiato si
direbbe che il mondo arriva ai giorni di Noè: Infatti, come nei
giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano
moglie e marito, fino a quando Noè entrò nell'arca, e non si
accorsero di nulla finché venne il diluvio e inghiottì tutti, così
sarà anche alla venuta del Figlio dell'uomo. (Mt 24, 38).
IL
RAZIONALISMO
_______________
CAPITOLO
I.
Il
Razionalismo in sé stesso
Il
Razionalismo, gran pericolo del tempo nostro. - Al pari della
Rivoluzione di cui è anima si risolve in distruzione e
ricostruzione. - Quadro. - Tre gradi nell'errore. - Eresia,
scetticismo, razionalismo. - Definizioni. - Il razionalismo in sé
stesso. - Nell'ordine religioso. - Nel sociale. Nel filosofico.
- Due materiali manifestazioni del razionalismo: l'antichità pagana
e la Rivoluzione francese.
***
Se
gli è vero che non vi è società senza credenze, domandiamo che
s'abbia a pensare dell'attuale società, che avvenire e che felicità
abbia diritto ad aspettarsi. Chi dice credenze, dice un qualche cosa
di certo, di immutabile al disopra d'ogni discussione, e che come
legge santa e sacra s'impone a tutte le intelligenze per dirigerle, a
tutte le volontà per reggerle in modo uniforme. Chi dice credenze,
dice un'autorità superiore all'uomo, che parla all'uomo, e la cui
parola, legge e verità tutt'insieme, è tenuta per tale e come tale
obbedita.
Ora
dove sono ai dì nostri le generali credenze dell'Europa, in fatto di
religione, di politica, di filosofia? Qual è il numero dei loro
discepoli? quale a un bisogno quello sarebbe dei loro, martiri?
Conoscete voi la fede delle nazioni come nazioni? A che si riduce il
simbolo della maggior parte degli uomini nelle classi colte in
Francia, in Inghilterra, in Germania, in Spagna, in Italia, dovunque:
qual è il loro decalogo? Contate se siete da tanto le sette
filosofiche in che si fraziona il culto mondo: meno numerose e meno
pronte a succedersi sono le frasche degli alberi, meno opposte tra
loro la luce e le tenebre. Dov'è la fede politica? Quanto v'ha di
comune fra i partiti non potrebbe scriversi sull'unghia del pollice?
Vuol
compiangersi questa generazione assai più che accusarla. Come vivere
in un'atmosfera corrotta e conservare una robusta sanità? Qual è
l'atmosfera d'Europa? Il dubbio sotto tutte lo forme; il dubbio che a
tutto s'attacca, tutto corrode, che in mezzo alle stesse cattoliche
nazioni si manifesta con bestemmie che il Protestantismo come
Protestantismo non ha mai proferite. Dopo diciotto secoli di
Cristianesimo, ode l'Europa, ed ode senza impallidire, senza correre
né alle armi, né agli altari, frasi di questo genere: Dio non è
altro che una parola, la società è anarchia; l'autorità, tirannia;
l'Evangelo, un mito; il Cristianesimo un'opera umana, un sistema
ornai decrepito; Gesù Cristo, un uomo; l'anima, una chimera; il
cielo, un sogno; l'inferno, una favola: la verità e l'errore
variabili a seconda de' secoli e de' climi; il bene e il male esseri
di convenzione; il pudore, la buona fede, l'amicizia, la fedeltà
pregiudizi dei sciocchi a vantaggio degli accorti; la pubblica
coscienza, una commedia; i più neri delitti, il suicidio, il
regicidio, eroici fatti.
Per
mezzo dei libri, dell'educazione, dei teatri, dei giornali, dei canti
popolari, delle sociali consuetudini questo dubbio come terribile
ariete batte a raddoppiati colpi i fondamenti della religione, della
società, della famiglia, della proprietà stessa. Siffatto è il
male che punge d'inquietudine il cuore di chiunque si dia la pena di
riflettervi; male mai sempre lamentato dalla voce dei Sovrani
Pontefici (2), e i cui progressi continui minacciano il mondo di
qualche cataclisma sconosciuto nel passato, se pur non annunciano i
tempi divinamente profetati nei quali appena rimarrà qualche
scintilla di fede sulla terra.
Sulle
ruine che ammucchia, il dubbio pretende ricostruire una religione,
una società a sua immagine, di cui la ragione sarà dea e regina.
Ascoltiamo i suoi sacerdoti: «Le dottrine che debbono presiedere
alla nostra vita morale, spetta a noi il farle; ché i nostri
vecchi altre non ce ne tramandarono che di sterili, decrepite.
Bisogna dunque fabbricarne di nuove. Tal necessità del tempo nostro
è compresa o piuttosto sentita. da tutti (3)». E dove prenderanno
essi i materiali del loro lavoro questi nuovi architetti di Babele?
Eccone la risposta, degna per l'essenza, come per la forma, di loro.
«Vi son quattro cose, dice un di loro ch'io detesto egualmente: il
tabacco e le campane, i cimici e il Cristianesimo» (4). Un altro:
«Proverò che il Cattolicismo imbestialisce l'infanzia;
proverò poscia che la corrompe (5)». Questi: tutte le idee false
che son nel mondo in fatto di morale e di estetica son venute dal
Cristianesimo» (6).
Rimosso
il Cristianesimo a che fonte attingeranno essi? Nella ragione.
«Bisogna, dicono, che la ragione stabiliscasi finalmente sovrana nel
suo dominio. La sua volta è venuta di ordinare la società e
governare lo Stato. La ragione e la libertà fan vece degli dèi
decaduti del cristianesimo. Non v'ha più altro culto, altra
religione che la religione della ragione e il culto della libertà»
(7). Quanto alla morale è bella e preparata, la morale di Socrate.
«La morale di Socrate, aggiungono, è la morale umana per
eccellenza, la morale di questo mondo e di questa vita: la morale del
Vangelo è morale sovrumana, morale dell'altro mondo e dell'altra
Vita. L'una ha per fine la virtù laica, l'altra la mistica
perfezione. L'una fa degli uomini, l'altra dei santi: Ora è mo'
scritto che tutti gli uomini siano vasi d'elezione? Bisogna avere il
necessario prima di cercar il superfluo (8). Questo è parola per
parola il linguaggio dei loro avoli del 93.
Ecco,
nella doppia sua missione di distruggere e ricostruire, il
male che avviluppa e che invade il mondo attuale. Chiamasi
Razionalismo. Qual è la sua natura, la sua origine, quale l'epoca
della sua comparsa fra le cristiane nazioni? Ci studieremo
rispondere.
La
soggezione della ragione dell'uomo alla ragione di Dio per mezzo
della fede è lo stato normale dell'umanità. Sia osservata una tal
legge fondamentale e l'ordine regna nel mondo perché regna
nell'individuo. A quello stato di intellettuale salute si oppongono
tre precipue malattie: l'Eresia, lo Scetticismo e il
Razionalismo: le quali tre malattie segnano i diversi gradi per
cui l'uomo, allontanato da Dio, giunge al suicidio della propria
ragione ad annullar il pensiero ed al rovesciar l'ordine universale,
(9). Tra essi corrono segnalate differenze.
L'eretico
è una ragione umana in ostinata rivolta contro la ragione divina su
uno o parecchi punti chiaramente definiti dalla Chiesa. Ricusando
soggettarsi ad alcune verità l'eretico china la fronte dinanzi a
moltissime altre. Inconseguente con se stesso or ammette or rifiuta
l'autorità di Dio; quell'autorità che per non contraddire a sé
stesso dovrebbe od ammettere del tutto, o del tutto negare, stantechè
parla la stessa autorità. L'eretico è sulla via dello Scetticismo e
del Razionalismo, ma si arresta sul limitare.
Lo
scettico è una ragione umana in rivolta su tutti punti contro la
ragione divina, per un giusto castigo, caduta nel dubbio universale:
specie di marasma intellettuale in cui l'uomo ha occhio e non vede,
orecchie e non ode. E l'estremo limite che separa l'uomo ragionevole
dal bruto.
Il
razionalista è una ragione in rivolta piena, universale contro la
ragione divina ed anche contro ogni ragione, e di più in adorazione
davanti a sé stessa. L'eretico ha ancor fede in qualche cosa, lo
scettico non ha fede in nulla, nemmeno in sé, ma la fede a Dio
negata il razionalista la colloca in se medesimo. Se scetticismo è
debolezza, Razionalismo è orgoglio. Lo scettico sprezza la ragione,
il razionalista l'adora.
E
però Razionalismo non è soltanto una mancanza di fede in Dio ma
una fede opposta nell'Uomo. In forza del Razionalismo l'uomo
balza Dio dal trono della sua intelligenza(, per collocarvisi egli
stesso: in una parola il Razionalismo è la deificazione della
ragione, la quale prendendo il posto del vero Dio, se ne arroga le
prerogative, e pretende esercitarne i diritti:
Nell'ordine
religioso il razionalista sostiene non aver bisogno della rivelazione
sendo che basta la sua ragione; non aver bisogno della grazia di Dio,
stante che abbastanza forte è la sua volontà; in fine, non aver
bisogno d'espiazione per mezzo del sangue di Gesù Cristo, perocchè
la sua virtù è abbastanza pura per non ricevere da Dio quanto
possiede da sé stessa; e il razionalista fa capo al Naturalismo
pagano.
Nell'ordine
sociale il razionalista non riconosce altra autorità che la sua;
pretende che l'uomo basti a fondare le società per conservarle e
reggerle; che a lui spetti segnarne lo scopo e dar modi a
raggiungerlo, che nessuno ha il diritto di opporsi alla sua sovrana
volontà, e che questa volontà, fonte del vero e norma del diritto,
è infallibile e come tale debba esser tenuta: e il razionalista fa
capo al Cesarismo pagano.
Nell'ordine
filosofico il razionalista non ammette alcuna verità che non si
affaccia alla sua ragione, al tribunal della quale ogni insegnamento,
ogni dottrina debba comparire per essere giudicata, accolta
definitivamente o rigettata; sicché la sua ragione forma la verità
e pretende rinvenir in sé stesso l'ultima ragion delle cose: per la
via dell'eclettismo, il razionalista fa capo all'apoteosi pagana
della ragione.
Come
vedesi il Razionalismo è l'ultimo termine cui la rivolta dell'uomo
contro Dio possa pervenire. Se passa ai fatti, la rivolta diventa la
Rivoluzione propriamente detta; sublima quanto debba essere
atterrato e quanto debba essere sublimato atterra. Sua manifestazione
suprema è l'abolizione del culto di Dio e lo stabilimento del culto
dell'uomo nella sua ragione e nella sua carne. Il Razionalismo è
dunque l'uomo decaduto, l'uomo del peccato che sollevandosi contro
ogni autorità, contro ogni tradizione religiosa e sociale, fa
adorarsi ed adora sé stesso. Dall'origine del mondo un tal fenomeno
mostruoso non si vide che due volte nella sua plastica
manifestazione, la prima nell'antichità pagana, la seconda nella
rivoluzione francese. Arroge che l'anticbità pagana s'è perpetuata
fino ai nostri giorni in tutti i popoli fra i quali il Cristianesimo
non ripristinò il culto di Dio, e che questa antichità dopo il
Risorgimento fa continui sforzi a postarsi di nuovo fra le cristiane
nazioni col doppio culto della ragione e della carne. Ed ecco
luminosissima prova del risorgere dello stesso principio e della
identica sua prevalenza in epoche tanto l'una all'altra lontane.
Or
come mai dopo diciotto secoli di fede questo principio è risorto in
Europa? Come l'uomo del peccato, l'uomo che s'innalza al di sopra di
tutto ciò che è Dio per non riconoscere altro Dio che sé medesimo:
come mai quest'uomo greco-romano colpito a morte e sepolto dal
Cristianesimo, sbucò tutt'ad un tratto pieno d'astio e sitibondo di
vendetta dal suo sepolcro? Chi riscaldò le sue ceneri? chi lo ha
restituito alla vita? chi lo ha fatto crescere gigante che minaccia
il Cristianesimo, lo balestra, lo combatte incessante, lo tiene
dovunque in lotta e si lusinga d'un luminoso trionfo? Tali sono le
gravi quistioni che imprendiamo a disaminare.
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CAPITOLO
II.
RAZIONALISMO
E RINASCIMENTO
Origine
storica del Razionalismo. - Testimonianze dei protestanti e dei
filosofi. - Tomasio. - Spizelio. - Bayle.- Voltaire. -Tutti i
razionalisti.
***
Un
antico protestante, Tomasio, facendo la genealogia dei Razionalisti,
che chiama atei o ateisti, scrive queste notevoli parole: «La
storia, dice egli, presenta un fatto bene straordinario. Dal dì che
il Vangelo aveva fugato il Paganesimo più non s'erano veduti atei in
Europa. Era serbato al quindicesimo secolo il mostrarne di nuovo.
Tornato nel mondo l'antico Paganesimo mise i suoi frutti, e furono
visti a comparire non solo atei ma una scuola d'ateismo; e questa
scuola sorse nel centro stesso della cattolicità in Italia; ebbe a
fondatori e discepoli uomini innamorati della bella antichità, che
risuscitarono errori da più secoli sbanditi dal mondo cristiano ...»
(10).
Spizelio,
altro protestante anteriore a Tomasio, accenna allo stesso fatto.
«Chi oserebbe negare, dice egli, che il Rinascimento delle lettere
in Italia al quindicesimo secolo, abbia riscaldato, coltivato,
commentato gli antichi sistemi di Lucrezio, di Epicuro, di Orazio ed
altri, come risuscitò la greca filosofia, la medicina e le
matematiche? che dopo questo Rinascimento un gran numero di
professori insegnando le alte scienze abbiano propinato, alla
gioventù il veleno dell'ateismo, sotto pretesto dell'autorità degli
antichi?» (11). E però tanti trattati in favore della immortalità
dell'anima pubblicati allora in Italia, e il decreto del concilio
Lateranense presieduto da Leon X e di cui faremo più tardi parola.
Bayle
non meno chiaramente si spiega. «Lamentiamo, dice egli, il gran
numero d'ateisti o di genti che non hanno alcuna religione. Un tal
lamento cominciò soprattutto dacché le belle lettere
ripigliarono stanza nell'occidente dopo la presa di Costantinopoli.
Surse nelle molte opere pubblicate a provare o la verità della
religione cristiana o l'esistenza di Dio. Il mondo, la corte e gli
eserciti, fu scritto in un dialogo stampato nel 1681 (12) son pieni
di deisti, di gente che tengono tutte le religioni in conto di umani
trovati. Queste menti temerarie dubitano di tutto. Hanno in pronto
obbiezioni contro i libri del vecchio e del nuovo Testamento che
danno loro facoltà di non crederli opera degli autori di cui portano
il nome. Perciò quanti ai nostri giorni san mettere in carta i
propri pensieri si propongono difendere la religione contro tutti gli
increduli: a ciò mirano tutti gli sforzi» (13).
E
la stessa mira continua da Bayle sino a noi. Questa direzione delle
forze cattoliche cominciò col Rinascimento: da questo punto vedesi
l'Europa inondata d'apologie della Religione. Che significa tal nuova
tattica se non che il Cristianesimo, il quale sino al rinascimento
teneva l'offensiva, fu costretto a prendere la difensiva? - Che
significa la difesa su ogni punto se non che l'attacco su ogni punto?
E che cos'è che combatte su ogni punto il cristianesimo? Non lo
scisma, non l'eresia, ma il Razionalismo soltanto, cioè la ragione
deificata di nuovo come nell'antichità pagana. E Bayle ben a ragione
pone sott’occhio un tal fatto decisivo troppo per bene dirigersi
nell'attuale conflitto.
«Numerosissimi,
soggiunge egli, sono gli increduli. I viaggiatori ne scoprono quasi
dovunque, segnatamente nei paesi di libertà ed ove poi sono in
fiore le lettere. Che se, per non ripetere gli esempi già
riferiti, vi nominassi alcuni dei moderni notati d'ateismo, un
Averroe, un Calderino, un Poliziano, un Pomponaccio, un Paolo Bembo,
un Cardano, un Cesalpino, un Torello, un Cremonio, un Berizard, un
Viviani, potreste voi col P. Rapin credere che solo qualche
autoruccio di madrigalo, qualche scapato, qualche cortigiano, qualche
donna galante siano capaci di irreligione? Tal taccia non può darsi
forse a filosofi, medici, umanisti fra i più vantati (14)?
In
un'altra opera Bayle insiste su questo fatto caratteristico dei tempi
moderni e parla a così dire ancor più manifesto. Questo uomo al
quale non può negarsi d'aver ben conosciuto lo spirito e le tendenze
d'Europa contemporanea, di tal modo si esprime: «Non sapreste
sbandir dalla mente di certuni ... che quegli stessi che dissiparono
le tenebre diffuse dai scolastici per tutta Europa non abbiano
moltiplicato gli spiriti forti e schiuso l'adito all'ateismo ed al
pirronismo o al dubbio sui più grandi misteri del cristianesimo.
Ma non solo vuol della irreligione accagionarsi lo studio della
filosofia, ma altresì quello delle belle lettere, perché pretendesi
che l'ateismo non abbia cominciato a mostrarsi in Francia, se non
sotto al regno di Francesco I, e cominciasse a ricomparire in Italia
quando gli umanisti vi rifiorirono. Non trovo atei fra noi prima
del regno di Francesco I, né in Italia se non dopo l'ultima presa di
Costantinopoli, quando Argiropulo,Teodoro di Gaza, Giorgio di
Trebisonda, coi più celebrati uomini della Grecia, ripararono alla
corte del duca di Firenze. Quanto vi ha di certo si è che la massima
parte dei begli ingegni e degli uomini colti che fiorirono in Italia
allorché le belle lettere cominciarono a rinascere dopo la presa di
Costantinopoli non avevano religione (15)».
A
tali non sospette testimonianze, aggiungiamo quella di Voltaire,
ricordando che nessuno meglio dei filosofi, dei protestanti, dei
razionalisti, conosce la genealogia del libero pensare. «Al
quindicesimo secolo, dice egli, i teisti o i deicoli più devoti a
Platone che a Gesù Cristo, più filosofi che cristiani
temerariamente respinsero la Rivelazione ... Eransi sparsi in tutta
Europa e si moltiplicarono dappoi con prodigioso eccesso. È la sola
religione su la terra che sia stata la più plausibile.
Originariamente composta di filosofi, tutti fuorviati in un modo
uniforme, passata poscia nell'ordine medio di coloro che vivono negli
ozi compatibili con limitate fortune, salì fra i grandi di tutti i
paesi e di rado discese nel popolo» (16).
«Di
quel tempo, continua lo storiografo del razionalismo, un
ateismo funesto, che è l'opposto del teismo, surse in presso che
tutt'Europa … credesi che allora vi fossero più atei in Italia che
altrove. Questa specie d'ateismo osò manifestarsi apertamente in
Italia sullo scorcio del sedicesimo secolo. Quanto ai filosofi che
negano l'esistenza d'un Essere supremo, o non ammettono che un Dio
indifferente alle azioni degli uomini, e che punisce il delitto con
le sole sue naturali conseguenze, la paura e i rimorsi; quanto agli
scettici che lasciate dall'uno dei lati le insolubili
quistioni, si sono ridotti ad insegnare una morale naturale, furono
comunissimi in Grecia, in Roma e cominciano a divenirlo fra noi
(17).»
Ne
sembra impossibile scrivere con maggior aggiustatezza la genealogia
del Razionalismo, o, come lo definisce Voltaire, della religione
plausibile. Sconosciuto in Europa prima della giunta dei Greci di
Costantinopoli, nasce dallo studio dei filosofi pagani, riposti in
onore dal Rinascimento. Dai dotti, che primamente invade, si estende
come macchia d'olio ai letterati comunali; da, questi ai nobili ed ai
grandi, smaniosi d'esser tenuti in conto di spiriti forti, e finisce
col diventar la religione delle generazioni di collegio. Una sola
classe sfugge al contagio, il popolo non messo dall'educazione a
contatto col vecchio paganesimo. In seno alle moderne nazioni il
Razionalismo produce gli stessi frutti dati nell'antichità greca e
romana: l'ateismo, il deismo, il naturalismo, il sensualismo, e il
caos quindi intellettuale, il crollo generale dell'ordine religioso e
sociale con le rivoluzioni, i delitti e le calamità che ne sono
inevitabile conseguenza.
Alle
testimonianze citate facilissimo sarebbe aggiungerne altro moltissime
non meno esplicite ed attinte alla medesima fonte. Rousseau,
Condorcet, d'Alembert, Elvezio, Mably, Lutero, Gentillet, Saint-Just,
Camillo Desmoulins e quanti abbiamo già citati, parlano lo stesso
linguaggio di Bayle, di Voltaire e di Tomasio. Gli è dunque un fatto
attestato dalla storia che filosofi, protestanti, danno d'unanime
accordo merito al Rinascimento di quanto si piacciono chiamare
emancipazion del pensiero; che tutti proclamano non il
sedicesimo secolo, secolo del Protestantesimo teologico, ma il
quindicesimo, secolo del Protestantesimo filosofico e letterario,
come l'epoca immortale in cui, giusta la frase di Brucker, fu
rotta la cavezza che attaccava la ragione alla fede, la filosofia
all'autorità, e che non v'ha alcuno che non saluti Firenze e Italia
come culla di questa gloriosa rivoluzione. Ecco quanto il
Razionalismo stesso ne dice della sua origine. E come nessuno meglio
di lui conosce la sua discendenza, teniamo la sua testimonianza per
vera, sino a tanto che i contraddittori ne abbiano dimostrata la
falsità, e da essa moviamo. Ora questa testimonianza afferma tre
cose: 1° che il Razionalismo era sconosciuto in Europa prima del
Rinascimento; 2° che comparve al quindicesimo secolo; 3° che fu
portato in Italia dai Greci cacciati da Costantinopoli. Ciò
basterebbe; pure se la testimonianza del Razionalismo sembrar potesse
insufficiente o sospetta, la commenteremo con la storia; in una
quistione di tanta importanza nulla che giovi ad ottenere certezza
vuol essere trascurato.
Epperò
gli è vero storicamente e indipendentemente dalle addotte autorità
che i Razionalisti erano sconosciuti in Europa, prima del
Rinascimento?
Gli
è vero che da quel tempo in poi crebbero a dismisura nei paesi di
Occidente?
Gli
è vero che nacquero dal commercio dei popoli cristiani con
l'antichità pagana, riposta in onore dai Greci venuti da
Costantinopoli?
I
capitoli seguenti risponderanno alla triplice domanda.
____________________
CAPITOLO
III.
IL
RAZIONALISMO PRIMA DEL RINASCIMENTO
Vera
origine del Razionalismo. - Suo regno nell'antichità. - Abolizione
di questo regno operata dal Vangelo. - Tentativi di razionalismo nel
medio evo. - Scot Erigene. - Abelardo. - Amauri de Bène. - Davide di
Dinant. - Raimondo Lulli. - Nessuno di questi filosofi fu vero
Razionalista. - Il medio evo. - L'antipode del Razionalismo. - Prima
del Rinascimento non v'era razionalismo in Europa
***
Sendo
il Razionalismo l'adorazione che l'intelligenza creata, tributa a sé
stessa, primo razionalista fu quello che, sin nei cieli, osò dire:
«Mi innalzerò, collocherò il mio trono sulle alture, sarò
somigliante a Dio», e che sulla terra disse ai padri del genere
umano: «Disobbedite e sarete come Dei». Da una parte l'azione
incessante dell'angelo ribelle sull'uomo divenuto suo schiavo;
dall'altra, la trasmissione per via di generazione del virus satanico
deposto nei capi della razza umana, mantennero di secolo in secolo,
in seno all'umanità, il fatal germe del Razionalismo. Dopo un lungo
e lamentevole trionfo nell'antichità pagana, lo vediamo atterrato
dal Cristianesimo, e sino al tempo del Rinascimento, incatenato in
tutt'Europa battezzata.
Vogliamo
dire con ciò che nel corso del medio-evo nessun tentativo si vedesse
di rivolta, nessuna velleità di Razionalismo? No certo. La storia ne
accenna anzi un gran numero. Ma il Razionalismo di quel tempo, e il
Razionalismo dopo il Rinascimento, differiscono tra loro come la
ghianda dalla quercia, il ruscello dal fiume, un fatto particolare e
passeggero da un fatto generale e permanente, un errore maledetto da
un sistema applaudito.
Sin
dal nono secolo, Gian Scot, addetto alla Corte di Carlo il Calvo,
tenta risuscitare alcuni principii di Razionalismo pagano, da gran
tempo deposto nella obliata tomba dei filosofi di Roma e della
Grecia. Nel suo libro De divisione naturae, attribuendo alla
ragione forza e diritti che non ha, l'autorizza a scandagliare ed
anche a spiegare a modo suo i più profondi misteri. Ma a differenza
dei pari Razionalisti, dei Razionalisti dei nostri giorni, Scot curva
ancora la testa sotto i principali dommi cattolici. Di tal modo
ammette il mistero della santa Trinità e la divinità della Bibbia,
professando sempre una specie di panteismo indiano. In mezzo a questo
misto di verità e d'errori gli è assai mal arduo discernere qual
fosse il principio fondamentale della sua filosofia e in che limiti
ne facesse l'applicazione. Si ha argomento a considerare Scot assai
più come un eretico precursore di Lutero, che come un vero
Razionalista , legittimo avo dei moderni Razionalisti.
Checché
ne sia, è notevolissima cosa come alla scuola dei pagani autori
abbia attinto Scot e il suo principio filosofico e i suoi errori.
Prima di arrivare alla corte di Francia aveva molto viaggiato, sapeva
di greco, e s'era appassionato per Aristotele di cui applicò il
metodo sillogistico allo studio della Religione. «Non bisogna
meravigliarsi, dice l'autore della sua vita, di quanto parecchi dotti
notarono, che la filosofia di Scot fosse somigliantissima a quella
degli Indiani. Perché non sarebbe cosa né nuova né sorprendente
che Scot e gli autori di queste filosofie avessero da sé stessi
prodotto, e ciascuno del canto suo, uova e pulcini. Sappiamo d'altra
parte come i filosofi Aristotele e Platone, presi da Scot a guide
e maestri, saccheggiassero bene spesso i tesori dei filosofi
indiani» (18).
Gli
è evidente che il libro di Scot sollevar dovesse la indignazione, e
fosse dalla scienza dell'epoca colpito d'un solenne anatema:
differenza caratteristica tra il medio-evo e i tempi attuali (19).
Al
dodicesimo secolo troviamo Abelardo, lo spirito forse più
indipendente delle età di fede. Inebriato delle lodi, da tutte parti
compartite all'acutezza del suo ingegno, il giovine e brillante
professore credesi da tanto di spiegare e far comprendere agli altri
i più sublimi misteri. Ma non asserisce mai come i moderni
Razionalisti che osano rivendicarlo in loro antecessore: «In fatto
di filosofiche credenze e religiose, la ragione d'ogni uomo è
suprema autorità». Tuttavia, gravi errori cadono dalla bocca e
dalla penna d'Abelardo, san Bernardo li confuta, due concilii li
condannano. Il dolore d'Abelardo, la sua vergogna, la sua
disperazione, provano meglio che tutti i discorsi la sua fede nel
principio d'autorità; in modo più certo ancora e più consolante,
la sua conversione la rende autentica. Abelardo ritratta tutti gli
errori, fa la pace con san Bernardo, si ritira dal mondo e domanda al
sovrano pontefice la permissione di passare il resto dei suoi giorni
nell'abbazia di Cluni. Il papa vi consente e Abelardo, tutto dato
alla preghiera ed alla penitenza, forma, sino alla morte,
l'edificazione della sua devota comunità.
Ed
ecco come Pietro il venerabile superiore di Cluni ne ragiona. Quale
dei nostri Razionalisti potrebbe meritarsi eguale elogio? «Non mi
ricorda, dice egli, d'aver veduto un suo pari in umiltà. Leggeva di
continuo, pregava spesso, osservava un perpetuo silenzio, che non
rompeva se non costretto a parlare o nelle conferenze tenute alla
comunità. Interamente dato alle sue letture ed ai suoi esercizi di
pietà, fu attaccato da una malattia che ben presto lo ridusse agli
estremi. Tutti i religiosi son testimonio della devozione con cui
fece allora prima la sua confessione di fede poi quella dei suoi
peccati, e della santa avidità con cui ricevette il viatico del
Signore (20)»
Tra
il figlio che nel trasmodamento della passione disobbedisce al padre
senza cessar perciò dal riconoscere i diritti della paterna
autorità; poi, rientrato in sé stesso, espia il suo fallo con le
lacrime di un manifesto pentimento, e il figlio che disobbedisce
negando questa stessa autorità, e sino all’estremo si fa gloria di
questa sacrilega negazione, tutti san discernere l'enorme differenza.
Per testimonianza della storia la differenza tra Abelardo e un
Razionalista è la stessa. Aggiungiamo che nella lettura degli autori
pagani Abelardo aveva attinto il principio dei suoi errori (21).
Sicché, raffrontandolo al suo predecessore Eugenio Scot e al suo
successore Amauri, troviamo che i tre campioni principali della
rivolta intellettuale del medio-evo s'erano pervertita la mente al
contatto del paganesimo.
Nel
secolo XIII, Amauri o Amalrico di Bène mette fuori in un corso di
filosofia alcune panteistiche proposizioni. Il suo oracolo è un
filosofo greco di nome Alessandro contemporaneo a Plutarco. Felice
d'aver trovato un maestro la cui oscurità può lasciare al discepolo
la gloria dell'invenzione, Amauri si permette insegnare: «che
Creatore e Creatura sono una medesima cosa; che le idee creano e sono
create (22)». Conosciute appena queste bestemmie l'Università di
Parigi levasi ad un corpo e le condanna. Amauri se ne appella alla
Santa Sede, e con ciò prova di riconoscere il principio d'autorità.
Amauri può essere un eretico, non un Razionalista. Arroge che lo
spirito generale di quel tempo era contrario per modo ad ogni rivolta
intellettuale che, per rappresaglia contro il novatore, morto in
questo lasso di tempo, ne fu tratto il corpo dal cimitero e risepolto
in luogo profano.
Discepolo
d'Amauri, Davide di Dinant non trovò miglior accoglienza del suo
maestro. Quantunque al medio-evo le grandi quistioni dei realisti
e dei nominali procedessero di conserva continuamente col
materialismo e il panteismo, nondimeno gran mercé al principio
tutelare dell'autorità, egualmente rispettato dai due partiti,
nessuno propugnò scientemente e ostinatamente l'uno o l'altro di
questi formidabili errori.
Il
quattordicesimo secolo vide comparire Raimondo Lulli.
Bisogna
che i moderni Razionalisti siano ben imbarazzati nel crearsi una
genealogia per mettere questo personaggio fra i loro proavi. Raimondo
Lulli è tutt'altro da quello ch'essi lo fanno: teologo, filosofo,
medico, chimico, fisico, giureconsulto, uomo di stato, religioso
applaudito da tutt'Europa per ben sessant'anni: tre volle missionario
in Africa, ov'è ucciso dagli infedeli. Poi onorato come santo,
Raimondo è tenuto autore di venti opere nelle quali troviamo mista
la verità coll'errore. Nel 1374 papa Gregorio XI condannò quanto
contenevano di riprensibile. Certo vi trovate proposizioni che
suonano male ma non la formola del Razionalismo. Nel suo Mundus
subterraneus, il padre Kircher pretende a buon dritto che se
Lulli ha sostenuto degli errori, gli abbia anche espiati con la
penitente ed austera sua vita: che aveva risoluto bruciar i suoi
libri, ma che i discepoli lo distolsero da questo atto di saviezza e
di giustizia (23).
Tali
sono i precipui personaggi che si danno al medio evo per apostoli del
Razionalismo. Or non vi ha alcuno che abbia chiaramente,
sistematicamente, ostinatamente deificata la ragione, nessuno che
ahbia messo in problema l'infallibile autorità della chiesa o
sfidatene le condanne: nessuno che abbia negato l'ordine
soprannaturale, l'autorità di Gesù Cristo, la necessità della
grazia: nessuno che abbia ridotto il simbolo dell'umanità alle
dottrine della pura ragione, e il decalogo alla pratica delle virtù
puramente umane. Basta d'altra parte rammentarsi che cosa fosse il
medio evo sì rispetto all'ordine religioso e sì al sociale per
avere incontrastabile prova che la fede era principio vitale e come
anima di questa grand'epoca. Gli è dunque un fatto ch'entra nel
dominio della storia essere stato il Razionalismo tal quale da sé
stesso si definisce e tal qual lo vediamo regnare ai dì nostri,
interamente sconosciuto prima del Rinascimento all'Europa cristiana.
_____________________
CAPITOLO
IV.
Cagione
dei tentativi del Razionalismo prima del Rinascimento
Contatto
dell'intelligenza cristiana con l'antichità pagana, - Donde tutti i
tentativi del Razionalismo. - Contatto con la Grecia sofista e
l'islamismo materialista. - Fisica e metafisica di Aristotele recate
a Parigi. - Sua filosofia proscritta dai padri della Chiesa d'oriente
e di occidente: Tertulliano, Sant'Ireneo, Origene, Lattanzio,
Eusebio, Ermia, san Basilio di Cappadocia, san Gregorio Nazianzeno,
sant'Epifanio, sant'Ambrogio, san Giovanni Crisostomo.
***
Tomasio,
Spizelio, Bayle, Voltaire, tutti i liberi pensatori, protestanti e
cattolici, affermano essere stati i loro avi, razionalisti o ateisti,
come si piacciano chiamarli, sconosciuti al medio evo (24). La storia
invocata a conferma del loro asserto, rispose come in fatti prima del
Rinascimento, il Razionalismo fosse, per valermi di una frase di
sant'Agostino, tanto raro in Europa quanto in Africa le cornacchie.
Ad una voce le stesse testimonianze fan risalire l'origine del
Razionalismo alla giunta dei Greci in Occidente nel cuore del
quindicesimo secolo. Prima di provare storicamente questa seconda
parte della loro testimonianza, fermiamoci su un punto degno del più
serio esame e che non sarà sfuggito all'attenzione del lettore.
Abbiamo
veduto come i tentativi del Razionalismo che di quando in quando si
produssero nel corso del medio evo fossero determinati dal contatto
della intelligenza cristiana coll'antichità pagana. Ora non avrà
dimenticato il lettore come il Cesarismo, il quale si riduce al
Razionalismo applicato all'ordine sociale derivasse dalla fonte
medesima. Certo il germe della rivolta intellettuale, anzi d'ogni
rivolta, è indistruttibile pel cuore dell'uomo decaduto, ma gli è
ben da notarsi che fra i popoli cristiani, come un tempo fra il
popolo ebreo, la leva che le dà moto è sempre il paganesimo. Per
dirla di volo, é più che un fatto, è una legge: legge immutabile
di cui la formola popolare è l'adagio di tutti i tempi e di tutti i
luoghi: dimmi con chi vai e ti dirò chi sei.
A
far più manifesta l'esistenza di questa legge, aggiungiamo che
nell'evo medio i tentativi d'intellettuale rivolta si fanno più
numerosi e più gravi di mano in mano che il contatto pericoloso per
noi indicato si fa più consueto e più stretto. Nella storia
psicologica del male che rode l'Europa presente, e la minaccia d'un
cataclisma senza pari, questa osservazione è di tale momento che
torna necessario porla in tutta la sua luce, e studieremo di farlo.
Le
crociate avevano posto l'occidente cattolico e profondamente credente
in immediato e lungo contatto da una parte con la Grecia terra
classica dell’eresia, dello scisma e del sofisma, di cui i dotti si
ascrivono a gloria prender per oracoli gli antichi capi del Portico e
del Liceo; d'altra parte con l'islamismo panteista e fatalista.
Non
tarda l'Europa a provare una piaga insino allora a lei sconosciuta.
Numerose sette nate dalla Cabala, dal Manicheismo e dal Gnosticismo
orientale s'agitano nell'ombra. Vedonsi per lungo tempo comparire e
scomparire, poi comparire di nuovo sotto nomi diversi: Coterelli,
Albigesi, Spiritualisti, Fraticelli, Beggardi, Vodesi, Flagellanti.
Affrettiamoci ad aggiungere che tutti questi tentativi del vecchio
uomo non ottennero alcun trionfo sociale, voglio dire generale e
permanente.
Il
germe fatale però di cui erano manifestazione stava per svilupparsi
in seno alle generazioni letterate con lo studio troppo passionato
d'Aristotile. La fisica e la metafisica di questo autore vennero
recate da Costantinopoli a Parigi nel 1167. Furono quest'opere
voltate, pei dotti d'occidente, in latino coi commentari degli Arabi
(25).
Come
permettevasi di insegnare nelle scuole d'Italia i principii
dell'antico diritto cesareo, a Parigi si prese a giocare, dirò cosi,
col metodo razionalista del filosofo stagirita, giuoco perfido di cui
non si sarebbero mai prevedute le conseguenze. Perché la fede s'era
fortemente abbarbicata nelle anime e nelle sociali istituzioni, e
geni possenti della levatura di Alberto il Grande, san Bonaventura,
san Tomaso sapevano mozzar l'ugne al lione, disciplinarlo persino a
certi utili esercizi, alla confutazione dell'errore ed alla
dimostrazione della verità, si supponeva non aver nulla a temere:
troppo si mettevano in non cale i gravi avvertimenti dei Padri della
Chiesa. Questi grandi che con gli occhi loro avevano veduto i funesti
effetti della aristotelica filosofia, nulla avevano risparmiato a
sbandirla per sempre dalle scuole cattoliche. Il momento è venuto di
far conoscere i loro motivi, mostrare la fedeltà con la quale per
lungo ordine di secoli fu osservato il loro divieto: come si pensò
poterlo infrangere, e quali sino al rinascimento furono le
conseguenze del prevaler d'Aristotele. Indipendentemente dalla sua
capitale importanza nella questione che abbiamo fra mano, questo
punto di storia avrà per parecchi, il crediamo, un interesse di
novità.
Dopo
i dogmi di fede non so, se ci sia punto sul quale i padri della
Chiesa siano unanimi tanto quanto nella proscrizione della filosofia
pagana e segnatamente di quella d'Aristotele. Ne conosciamo VENTINOVE
fra i più celebri che non sembrano trovare frasi forti abbastanza ad
allontanare i cristiani da quella cattedra di pestilenza. Ecco sino a
che punto si consigliava nei primi secoli della Chiesa l'uso degli
autori profani per l'educazione della gioventù.
Accontentiamoci
di alcune testimonianze. «Dalla filosofia, dice Tertulliano, sono
nate le eresie. Gli Eoni di Valentino derivano da Platone: il Dio
tranquillo di Marcione dagli stoici .... Sciagurato Aristotele, che
per gli eretici e i filosofi, inventasti la dialettica, arte di
disputare, atta in pari modi ad edificare e distruggere; vero proteo
negli assiomi, angusto nei pensieri, tirannico negli argomenti,
fabbro di contese, insopportabile a sé stesso, che a tutto si
applica e nulla rischiara. Di là le favole, le interminabili
genealogie, le quistioni di lana caprina, e quei discorsi che ti
invadono la mente come gangrena il corpo, contro i quali
l'apostolo volendo metterci in guardia segnatamente accenna alla
filosofia e scrive ai Colossesi: Badate che nessuno di voi si
lasci ingannare dalla filosofia e dai vani ragionamenti giusta le
tradizioni degli uomini, e non l'ordine statuito dalla sapienza dello
Spirito Santo.
San
Paolo era stato ad Atene e aveva imparato dal dialogizzare che vi si
faceva quell'umana sapienza bugiarda promettitrice e corruttrice
della verità, in mille sette divisa, nemiche capitali l'una
dell'altra: Che mai v'ha di comune fra Atene e Gerusalemme? fra
l'Accademia e la Chiesa? tra gli eretici e i cristiani? La nostra
filosofia vien dal portico di Salomone, ed ecco la lezione del gran
maestro: Bisogna cercar il Signore con cuor semplice e retto. Di
questo si ricordino coloro che pretendono darci un cristianesimo
stoico, platonico e dialettico (26)».
Nel
suo libro contro le eresie, sant'Ireneo è più laconico ma non meno
forte di Tertulliano, allorché dice Aristotele «maestro di ciarle e
sottigliezze, invocato sempre dagli eretici in aiuto per corromper la
fede» (27).
«La
filosofia d'Aristotele, soggiunge Origene, pende più che tutt'altra
al sensualismo ed al materialismo» (28), «e verso il fatalismo e
l'assurdo sistema della eternità della materia» continua Lattanzio
(29).
«Aristotele,
scrive Eusebio, è in gran venerazione fra gli eretici. A lui ricorre
chi vuol con le proprie sottigliezze corrompere il senso delle
Scritture» (30).
Ermias
si ride nel modo più solenne d'Aristotele e di tutti i filosofi
tornati in idolatria all'Europa dopo il rinascimento (31), e san
Basilio di Cappadocia domanda con ironia: «Che bisogno abbiamo noi
dei sillogismi d'Aristotele o di Crisippo per conoscere il Verbo e la
sua eterna generazione? Che vuole l'eretico assumendoli a maestri, se
non mostrare il suo genio e la sua abilità a fabbricare e
discioglier sofismi per giungere a negare i dommi della fede? (32)»
San
Gregorio Nazianzeno, che alcuni si permettono considerare come
propugnatore degli autori profani, gli è ben altrimenti energico
quando ricorda i «filosofi gentili, e segnatamente Platone e
Aristotele, piaghe d'Egitto, che desolarono la Chiesa» (33).
«Son
pieni del nerbo d'Aristotele, sclama sant'Epifanio, gli eretici che
sprezzano la semplicità dello Spirito Santo ... Coi sillogismi di
costui combattono la divinità di Gesù Cristo. Ma avete un bel fare
il regno di Dio non consiste né nei sillogismi, né negli argomenti,
né nei discorsi arroganti e tronfi, ma nella virtù e nella verità»
(34).
Fabbro
d'eresia, dottor d'empietà, che prebende non debba la provvidenza di
Dio discendere che sino alla luna, tale è Aristotele agli occhi
dell'illustre arcivescovo di Milano, sant'Ambrogio (35).
Quel
che sant'Ambrogio dice in Occidente, un dottore non meno illustre,
san Giovanni Crisostomo, lo proclama in Oriente.
Per
lui i filosofi pagani e fra tutti Platone e Aristotele non furono se
non razionalisti che invece di accettare semplicemente le verità
tradizionali, le sottoposero allo scalpello della loro ragione, e
caddero nello scetticismo, passando per infinite variazioni:
pericolosi nemici della fede e poveri maestri dei cristiani (36).
___________________
CAPITOLO
V.
Cause
dei tentativi del Razionalismo prima del Rinascimento
Nuove
testimonianze dei Padri contro Aristotele. San Girolamo,
sant'Agostino, san Cirillo d'Alessandria, Enea di Gaza, Enrico di
Lione, san Bernardo, il concilio di Parigi nel 1209. - Opere
d'Aristotele condannate al fuoco. - E però prima fase della fortuna
d'Aristotele dal cominciar della Chiesa sino al tredicesimo secolo;
proibizione assoluta delle sue opere. - Decreto del cardinale di
Courçon. - Seconda fase della fortuna d'Aristotele. - Tolleranza
della sua dialettica. - Bolla di Gregorio X - Terza fase della
fortuna di Aristotele -Autorizzazione ad insegnare la fisica e la
metafisica espurgate. – Riassunto.
***
San
Gerolamo, che non esitò a chiamar la rettorica, la poesia e la
filosofia pagane cibo dei demonii, conserva tutta la sua
energia per imprecare al male operato alla Chiesa da Platone e da
Aristotele. «Dalla loro scuola, dice egli, son venuti i declamatori
avidi di gloria, i sofisti, gli sprezzatori della Scrittura e gli
eretici, che chiudono la semplicità del Vangelo negli spineti della
filosofia» (37).
Sant'Agostino
che sì altamente deplorò la consuetudine di porre gli autori pagani
fra mano della gioventù, proclama come tutti i padri, che gli
eretici andavano a cercar le loro armi in Aristotele (38).
«Gli
eretici, sclama san Cirillo Alessandrino, ne corrono sopra armati
della filosofia d'Aristotele, e tronfi dell'orgoglio loro ispirato
dalla mondana sapienza, fan risonare il mondo d'un vano fracasso di
parole» (39).
Parlando
dei filosofi del suo secolo Rousseau li paragona a ciarlatani sul
trespolo, che gridano a tutto fiato ognun dal canto suo: Avanti,
avanti signori: sono io il solo che non inganna; e che non
consentendo tra loro in nulla sembrano non aver altro scopo che
contraddire gli uni agli altri ed anche a sé stessi. Enea di Gaza,
uscito dalla scuola di Platone per divenir cristiano, avventa lo
stesso rimprovero ai filosofi pagani senza far grazia al proprio
maestro. Per lui Aristotele altro non è che un pericoloso sofista,
che alterando la natura dell'anima e negando la sua immortalità,
trascina il mondo nell'abisso d'un goffo materialismo (40).
«La
morte di Gesù Cristo, continua, Enrico di Lione, distrusse il regno
di Platone ed Aristotele, la sapienza dei quali fu contata per nulla
nella Chiesa» (41). Potevano dire più chiaramente che non alla loro
scuola debbono informarsi i cristiani, e a più forte ragione che non
alla loro scuola dev'essere indirizzata la gioventù?
E
però san Bernardo sclama in uno de' suoi sermoni: «Godo siate della
scuola dello Spirito Santo. Perché sono io più dotto dei maestri?
forse per avere studiato le arguzie di Platone, le sottigliezze
d’Aristotele? No certo. Gli è, mio Dio, perché ho meditata la
vostra legge. Forse che gli apostoli ne insegnano a legger Platone, o
a sbrogliare gli intralciati concetti d'Aristotele? (42)»
La
qual solenne riprovazione forma l'opinione pubblica d'Europa e sino
al dodicesimo secolo la norma immutabile di sua condotta. Meno poche
eccezioni, vedute sempre di malocchio, in nessuna scuola Aristotele
fu insegnato, meno poi Platone: gli è molto se alcuna delle loro
opere fu conosciuta dagli eruditi (43). Verso la fine dello stesso
secolo e al principiare del decimoterzo due o tre maestri in
filosofia si assunsero spiegare, in vece della filosofia di
sant'Agostino, in sino allora dominante in tutte le scuole,
certi tratti del filosofo stagirita. A questa fonte pericolosa
attinsero gli errori per noi indicati. Intervenne allora il concilio
di Sens, tenuto a Parigi nel 1209.
Il
celebre decreto di questa assemblea è autentica conferma del
giudizio dei Padri della Chiesa e luminosa prova della fedeltà con
la quale tenevasi in ossequio. A troncar fin dal principio il male, a
sbarbicarlo, il concilio fulmina a un tempo Aristotele e il suo
discepolo Amauri. Condanna al fuoco i libri d'Aristotele, la sua
metafisica e la sua filosofia: proibisce sotto pena della scomunica a
chicchessia di copiarli in avvenire, insegnarli, conservarli:
abbandona i discepoli d'Amauri al braccio della giustizia secolare,
che fa arderne dieci, dissotterrare il cadavere del loro maestro e
spargerne al vento le ceneri (44). E però prima fase della fortuna
d'Aristotele proibizione assoluta e condanna delle sue opere.
Il
decreto del concilio di Sens non fu a lungo osservato. I libri
d'Aristotele voltati in latino, continuavano ad esser letti da un
certo numero di persone. Arroge che i commentari su questi libri di
Alessandro, Algazel ed Alkinda, filosofi arabi, spingevano gli animi
ai più perniciosi errori che parevano favoreggiati da certi filosofi
reggenti, e da uditori od artisti (45). Per questo fatto allarmante
il cardinale di Courçon delegato della Santa Sede nel 1215 alla
riforma dell'Università di Parigi, avvisò poter fare una
concessione. Tenuto saldo il veto di leggere i libri di Aristotele
condannati al fuoco, autorizzò la spiegazione della sua Dialettica
(46). Sino allora la filosofia di Sant'Agostino, aveva, come dicemmo,
regnato nelle scuole. Ora sant'Agostino cede il campo ad Aristotele,
il dottor cristiano al filosofo pagano (47). E però seconda
fase della fortuna d'Aristotele: proibizione assoluta della sua
Fisica e Metafisica, ma tolleranza della sua Dialettica.
La
concessione fatta dal legato fruttò poco alla repubblica cristiana,
e l'esperienza non tardò a giustificare i Padri della Chiesa e il
concilio di Sens. Alla scuola di Aristotele, di questo gran maestro
di sottigliezze le università si convertirono troppo spesso in
un'arena di disputatori, che di tutto contendevano, ciaramellando
senza comprendersi: sbracciantisi a difendere per egual modo il pro e
il contro, e parati a recar nei campi della teologia quello spirito
che dicevano filosofico, osi interpretar colle norme della dialettica
aristotelica il libro divino, e trascorrenti sino a sostenere certe
cose vere a tenore della filosofia non della fede. Il male si fece
grave tanto da richiamar l'attenzione della Santa Sede e provocare la
famosa bolla di Gregorio IX nel 1231.
In
questa bolla diretta all'Università di Parigi biasima il pontefice i
maestri di quella scuola, fra tutti celeberrima, d'aver introdotto
nell'insegnamento della teologia quistioni puramente filosofiche:
sostituito al nativo linguaggio della teologia un barbaro gergo,
esoso misto di parole cristiane e di parole pagane: sciagurati
imitatori degli ebrei che reduci dalla schiavitù di Babilonia più
non parlavano il linguaggio dei loro maggiori, ma una lingua
deturpata da parole pagane, e li esorta a tornar quel che erano stati
teologi e non filosofi. Poi nella speranza senza dubbio di
ottenere più facilmente la sommissione ai suoi ordini, tempra il
rigore del canone emanato dal concilio di Sens, sanzionando della
propria sovrana autorità la saviezza del suo decreto. All'assoluta
proibizione della Fisica e della Metafisica d'Aristotele sostituisce
il veto di leggere quelle opere sino a che siano convenientemente
purgate (48) e però terza fase della fortuna d'Aristotele
proibizione temporaria della sua Fisica e della sua Metafisica.
Gli
è assai dubbio che la bolla papale abbia sortito l'esito che se ne
doveva sperare: da l'uno dei lati non v'ha prova che i libri
d'Aristotele siano stati espurgati, e dall'altro non tardarono a
comparir nuovi errori attinti a questa fonte funesta. Enrico di Gand
dice che si dava taccia al novatore Simone di Tournai d'aver attinte
alla scuola aristotelica le sue avvelenate dottrine (49). Un'accusa
simile è mossa ad altri professori da Odone cancelliere della
Università di Parigi, poi cardinale. Si lagna questi amaramente che
le sottigliezze filosofiche invadano il campo della teologia. Chiama
tale disordine una fornicazione che distrugge il legittimo vincolo
della ragione e della fede: un delitto somigliante a quello degli
Ebrei che la manna del deserto posponevano alle cipolle d'Egitto: una
follia somigliante a quella del villano che tanto si rimpinza di pan
nero da non poter dar luogo nel suo stomaco ad un pezzetto di pan
bianco (50).
Come
vedesi non si cominciò già ai dì nostri a deplorare il pericolo
degli autori pagani nella istruzione della cristiana gioventù! Se al
secolo tredicesimo il buon senso e lo spirito della Santa Sede
trovavano contradditori, incontravano pure come ai nostri tempi
uomini che ne formavano la regola di loro condotta e dei loro
scritti. All'illustre vescovo di cui riferimmo le parole uniamo il
beato Luigi contemporaneo d'Odone. «Tutta questa filosofia pagana,
dice l'autore della sua vita, spiacevagli; gloriavasi di prender
lezioni dagli autori cristiani, come sant'Ambrogio, sant'Agostino,
san Girolamo, san Gregorio. Di tal modo nel suo insegnamento opponeva
il cristianesimo al paganesimo (51).
Fra
i grandi uomini egualmente ligi all'antiche tradizioni ed ossequienti
delle decisioni di Roma e dei concilii, bisogna al certo annoverare
Alberto il Grande e san Tomaso suo discepolo. Tuttavia gli è
indubitato che l'uno e l'altro commentarono Aristotele; o almeno
frequentemente si valsero dei suoi scritti, e ciò poco dopo la
proibizione del concilio di Parigi e la bolla di Gregorio IX. Come
spiegar questo fatto singolare? Parecchi dotti, tra gli altri
Campanella, pensano che san Tomaso abbia ottenuto dal papa la
permissione di leggere Aristotele, per combattere coll'armi sue
stesse il male da lui operato (52).
A
detta d'alcuni, la proibizione del papa e del concilio non era che
locale, e suppongono che Alberto il Grande e san Tomaso non fossero a
Parigi quando leggevano le opere d'Aristotele, o che non si
valsero che degli scritti non condannati di questo autore. Checché
ne sia gli è cosa curiosa veder poco dopo la facoltà teologica di
Parigi dar nota al cospetto del papa a fra Tomaso d'essersi valso
troppo del Peripatetico e d'aver introdotto il suo linguaggio
filosofico nel dominio della teologia. Non diciamo meritato il
biasimo, lo diciamo solo inflitto (53).
Riassumiamo
in poche parole tutta la storia di questo fermento del Paganesimo con
le sue cause e i suoi effetti al principiare del tredicesimo secolo:
chi ha orecchie per udire oda. «Prima di quest'epoca, dice un autore
non sospetto, non si conoscevano che alcuni trattati d'Aristotele,
insegnati e commentati da pochi maestri; ma in generale non era in
gran fama, né luminoso era il suo nome; ma tradotti e penetrati in
Francia, per la via della Spagna, ove gli Arabi ne facevano un conto
singolare, furono studiati, e divennero pascolo di tutte le menti.
»Ben
tosto fu manifesto l'inconveniente della dottrina di un filosofo
pagano ammessa nelle scuole cristiane. Si concepivano cattivi
principi negli studi filosofici e si recavano poi nella teologia:
alcuni giunsero sino ad una notabile incredulità, prova ne sia
Simone de Tournay celebre maestro sullo scorcio del XII secolo e il
principio del XIII; ne siano prova gli errori d'Amauri di Bène nel
1204, proscritto dall'Università che ne ottenne da papa Clemente III
la condanna.
Si
risalì alla fonte del male, e si pensò che i libri
d'Aristotele risgnardanti la metafisica, avessero contribuito ad
inspirare lo sprezzo della cristiana religione, e potessero produrre
in seguito il medesimo effetto. L'universita vietò leggerli,
copiarli, e ne arse quanti esemplari poté rinvenire.
Conseguentemente a tale decreto Roberto di Courçon, legato di papa
Innocenzo III, nel 1215, proibì la lezione nelle scuole dei libri di
fisica e metafisica d'Aristotele. Nel 1201 papa Gregorio IX si
accontentò di sospenderne la lettura fino a che fossero corretti.
Notasi in queste condanne un'eccessiva diminuzione di severità. La
prima è la più rigorosa, le altre vanno temperandosi. Apparirà dai
fatti che la più severa era la più saggia» (54).
____________________
CAPITOLO
VI.
Cagione
dei tentativi del Razionalismo prima del Rinascimento
Importanza
delle nostre ricerche. - Quarta fase della fortuna di Aristotele:
permesso, comandato anzi alla gioventù l'insegnamento di parecchie
sue opere tra le altre della sua Metafisica. - Risultamento di questa
concessione. - Testimonianza di Gerson e di Clemengis. - Quinta fase
della fortuna d'Aristotele: ordine di insegnar la sua morale e la
massima parte dei suoi trattati. - Nuovi risultamenti di questa
concessione. - Testimonianze di Tritemo e dell'arcivescovo di Rouen.
- Occasione del Protestantismo. - Riassunto. - Quattro fatti
principali
***
Come
bene spesso accade, la condiscendenza della Chiesa servì di pretesto
a strappar nuove concessioni. E nondimeno sullo scorcio del secolo
tredicesimo era bisognato proscrivere un intero sistema d'errori
fondato su Aristotele ed insegnato da parecchi maestri. Il che
provocò la condanna emanata dal vescovo di Parigi, Stefano Tempier
nel 1277, non che la fulminante bolla di Giovanni XXI, dell'anno
stesso. In quella bolla il sovrano pontefice biasima altamente i
teologi di Parigi e vieta in virtù di sua suprema autorità, unire
le filosofiche opinioni alla dottrina celeste imparata dalla
Rivelazione (55).
Nel
1336, i cardinali di San Marco e san Martino, commissari di papa
Clemente V, per riformare l'università di Parigi, indicano per la
prima volta le opere di Aristotele, la spiegazione delle quali viene
espressamente ingiunta. Fra le ultime appaiono la Metafisica ed
alcuni trattati di filosofia naturale (56). E però quarta fase della
fortuna di Aristotele, autorizzazione, ingiunzione, anzi di insegnare
alla gioventù parecchie delle sue opere e tra le altre la
Metafisica.
La
qual nuova concessione estorta senza dubbio dalle circostanze fu ben
lontana dal tornare a vantaggio di coloro che la avevano sollecitata.
Incessanti discussioni, la triste mania di sottilizzare, puerilità e
sofismi, con tanta amarezza rimproverati poscia ai teologi
scolastici, guai tutti succeduti al sano metodo di esposizione, alla
gravità, alla maestosa semplicità del primitivo insegnamento,
furono per molti ingegni conseguenze del loro passionato commercio
con Aristotele. Donde il rimprovero troppo fondato che ai suoi
colleghi stessi dà il celebre cancelliere dell'Università di
Parigi, Gersone (57).
Altro
più grave inconveniente fu l'autorità magistrale a attribuita ad
Aristotele. Parecchi giuravano sulla sua parola, e parevano attribuir
valore alle sue massime quanto agli oracoli della Scrittura. La
ragione umana prendendo poco a poco il posto della divina, dava
visibilmente principio al regno fatale del Razionalismo. «Giusta
l'espressione dell'Apostolo, scriveva un discepolo di Gerson, i
nostri teologi languiscono intorno a questioni di parole e orpelli di
frasi, cosa da sofisti e non da teologi. Cercano i tesori della
scienza fra i rovi e gli sterpi dell'umana filosofia, fra i quali
languiscono e muoiono di fame .... perché non trovano frutti o se ne
trovano quei frutti pari a quei del Mar Morto son belli al di fuori
ma pieni al di dentro di una polvere infetta. Un gran numero di
scolastici giunsero a fare sì poco caso delle più inconcusse
testimonianze della Scrittura che un ragionamento fondato su una
simile autorità pare loro debole e volgare, l'accolgono a fischi ed
a scherni, come se le invenzioni e i sogni dell'umana sapienza
fossero di maggiore momento (58).
I
quali reclami non fermarono già la marcia trionfale d'Aristotele.
Nel 1452 il cardinale Totavillas, incaricato di riformare
l’Università Parigina, avvisò dover aggiungere una nuova
concessione a quelle già da noi riferite. Confermando i regolamenti
dei suoi immediati predecessori, prescrive inoltre di insegnar la
morale d'Aristotele (59). E però quinta fase della fortuna
d'Aristotele: comando assoluto d'insegnare alla gioventù la sua
morale, e la massima parte delle sue opere.
Abbiamo
seguito nel tortuoso suo progredire l'elemento razionalista dal
secolo XIII sino al Rinascimento. Prima di mostrar questo germe
fatale divenuto un grand'albero al soffio dei Greci di Costantinopoli
additiamo i danni da lui prodotti in Europa. Il celebre Gian Tritemo
proclama che da Abelardo in poi la filosofia cominciò a bruttare
la teologia (60). Senza dubbio un tale lamento non si volge a
tutti i teologi, ma a quelli che, non fatto il debito calcolo delle
sacre prescrizioni dei papi Gregorio IX e Giovanni XXI, introdussero
l'elemento sofistico e razionalista nello insegnamento della scienza
sacra.
Un
illustre arcivescovo di Rouen, contemporaneo quasi ai teologi di cui
parliamo, espone pure i frutti del loro metodo. «Si é creduto
assicurarsi, fortificarsi e fuggir gli errori abbandonando la
Scrittura ed i Padri per studiare quella teologia metodica o
piuttosto nominale che corre nel tempo nostro: E si è preso un
goffo sbaglio. Di tal modo cadono senza dubbio nella presunzione
che si accompagna sempre ad un eccessivo ardimento: infievoliscono la
religione facendo fondamento su deboli ragioni, e invece di errori
perdonabili all'ignoranza in cui cadono coloro che non pretendono
saper tutto, come se ne ebbero parecchi nell'antichità, senza che
perciò ne venisse danno alla Chiesa, vediamo un abisso di moderne
temerità e d'errori gnostici, più pericolosi degli ugonotici che
pullulano tra le bande scolastiche, sui quali metterò fuori il mio
avviso quando mi vedrò circondato d'un concilio» (61).
Lo
spirito ragionatore, la presunzione, la vanità, l'indebolimento
delle prove della religione, un abisso di temerità e di errori
sovranamente pericolosi tali erano a detta del savio vescovo i
risultamenti della filosofia pagana in un gran numero di scuole di
teologia, al momento del Rinascimento. Quando udremo Lutero declamare
contro la teologia e la filosofia scolastica, chiamar Aristotele un
maestro del diavolo, una peste, un agente dell'inferno, bisognerà
senza dubbio donare qualche cosa all'esagerazione; ma non si potrà a
meno di convenire che le sue accuse non erano già destituite di
fondamento.
Non
dimentichiamo che nei suoi primordi il Protestantismo si chiarì come
reazione legittima contro un metodo d'insegnamento disapprovato anche
dai più eminenti cattolici. Questo fu, siccome abbiamo dimostrato il
suo primo, il suo gran cavallo di battaglia. Da questo fatto troppo
manifesto deriva che la pagana filosofia severamente sbandita dai
Padri della Chiesa e richiamata poco a poco nelle scuole del XIII e
XIV secolo, può rivendicare gran parte nelle calamità che
desolarono l'Europa cristiana.
In
somma, la storia dello spirito umano in Occidente dallo stabilimento
del Vangelo sino al Rinascimento, indica quattro fatti principali. Il
primo che nel corso del medio evo vi furono parecchi tentativi di
Razionalismo. Vedonsi anche fervere nel fondo della società i
germi della maggior parte degli errori moderni cesariani, comunisti,
panteisti, rivoluzionari. Né poteva essere altrimenti perché la
radice del male vive sempre nel cuore dei figliuoli d'Adamo. Ma da
una parte gli uomini in cui questi errori si personificarono furono
pochi relativamente: d'altra parte l'opinion generale non li salutava
come mirabili geni, le cui, parole fossero oracoli e le azioni norme
di condotta. Non traducevansi le loro lezioni né in romanzi a
pervertire il focolare domestico, né in teatrali produzioni a
corrompere la moltitudine. La società nulla faceva per propagarle;
in quella vece prestava docile il suo braccio alla Chiesa per
estirpar la zizzania.
Il
secondo, che i tentativi del Razionalismo, più o meno locali e
più o meno effimeri, non mutarono lo spirito, profondamente
cristiano di quel tempo, né formarono mai del medio evo un libero
pensatore. La prova è palpabile; le tre grandi manifestazioni
del Razionalismo, la negazione del principio di autorità in
filosofia, il Naturalismo in religione, il Cesarismo in politica, mai
non pervennero a mettersi in luce, in modo completo, e molto meno in
modo permanente. Di tutte le quistioni che in allora agitarono le
menti, la più formidabile, è fuor di dubbio quella dei Nominali,
sollevata da Roscelin e combattuta dai Realisti. Poteva
condurre al Panteismo e al Materialismo. Nondimeno ad onta dei
trambusti cagionati nelle scuole, non produsse, gran mercé
all'azione sovrana del principio d'autorità, né un aperto
materialista, né un aperto panteista.
Il
terzo, di grandissima importanza, che i tentativi del
Razionalismo nel medio evo furono invariabilmente determinati dal
commercio dell'intelligenza cristiana coi filosofi pagani. Ma
come questo pericoloso commerciò non era che un fatto particolare ed
accidentale, la filosofia, di quest'epoca si mostra nel suo insieme
fedele al suo glorioso nome di ancella della fede, ancilla fidei.
Meno alcune eccezioni, tutti i suoi lavori tendono a provare, a
mettere in luce e non a combattere le verità che son principio e
sanzione dell'ordine religioso e del sociale. «Erede del fondo se
non della forma della filosofia dei Padri della Chiesa, la filosofia
del medio evo, dice il dotto Moeller, facendo fondamento su
incrollabili credenze, rimase sempre la stessa quanto ai principii.
Acquistò anzi con lavori secolari una grandezza ed una estensione
che non furono eguagliate giammai da nessun'altra filosofia (62)».
Il
quarto che i tentativi del Razionalismo al medio evo si fecero più
numerosi e più gravi di mano in mano che il contatto con la pagana
filosofia fu più consueto e più stretto. Nondimeno i
Razionalisti propriamente detti, quali li vediamo ai dì nostri e
quali essi stessi si definiscono, furono sconosciuti durante quel
lungo periodo e sino al Rinascimento.
Tale
è la prima parte della testimonianza di Tomasio, Spizelio, Bayle,
Voltaire e di tutti i liberi pensatori moderni; abbiamo veduto come
la storia dia loro compiutamente ragione, ma non basta. Non solo
affermano con verità che il Razionalismo fosse sconosciuto
all’Europa cristiana prima del Rinascimento, ma sostengono ancora
che al XV secolo apparisse in Italia coi Greci cacciati di
Costantinopoli, e che di là si spargesse in tutto il paese, ove si
fece comunissimo. Tale è la seconda parte delle testimonianze che
esaminiamo: per appurarle continuiamo a consultare la storia.
____________________
CAPITOLO
VII.
IL
RAZIONALISMO DOPO IL RINASCIMENTO - ITALIA
Ricomparisce
tale quale si mostrò nelle scuole della filosofia pagana di cui
rinnova i principii e i più gravi errori. - Razionalismo politico. -
Formulato da Machiavelli. - Dovunque diffuso. - Prove. - Razionalismo
filosofico insegnato dal Rinascimento e dai Rinascenti. -
Testimonianze: Spizelio, Pier Mathieu. - Principali Razionalisti
italiani: Pomponaccio, Porzio, Cesalpino, Vernia, Cesare di Cremona,
Simon Simonio, Pietro Aretino, Nanno, Orefo, Cosimo de' Medici,
Machiavelli, Pomponio Leto, Calderino, Bruno.
***
Sul
punto che ne occupa le dottrine dell'istoria di tal modo si
compendiano. «Sessant'anni appena sono scorsi dall'arrivo dei Greci
di Costantinopoli e il Razionalismo conta in Italia numerosi
settatori. Fa di più; sbalzando d’un sol tratto al più alto
sviluppo, riproduce nel centro stesso della cattolicità i più
mostruosi errori della pagana filosofia, la mortalità dell'anima, il
fatalismo, lo scetticismo e il panteismo. Da questi errori
fondamentali ne discende una folla d'altri che giusta la frase stessa
del concilio Lateranense, tende a niente meno che a far crollare il
Cristianesimo e la società da cima a fondo. Intanto il Razionalismo
diventa in politica il Cesarismo, in filosofia ed in religione il
libero pensare: nelle arti, nella poesia, nella letteratura, e ben
presto nei costumi, il Sensualismo, il cui tipo non si trova che
nella pagana antichità. Tanto accadeva, nol dimentichiamo, parecchi
anni prima di Lutero, che nei suoi più grandi eccessi, mai non
trascorse tant'oltre». Veniamo alle prove.
Quanto
al Razionalismo, o piuttosto all'ateismo politico che fa man bassa
sull'Europa, la storia determina con piena evidenza che esso risale
non a Lutero, ma a Machiavelli (63). Questi condensando nelle
sue opere i germi del Cesarismo diffusi in Europa, lo eresse in
sistema: egli ne redasse la formola, ne formò il catechismo, che lo
fece dapprima prevalente nelle corti di Francia ed Italia, poscia in
tutte le altre. Egli, postasi sotto i piedi la distinzion cristiana
dei due poteri, proclamò la dottrina pagana dell'assorbimento del
potere spirituale nel temporale, della Chiesa nello stato, della
religione semplice strumento di regno, con le sue conseguenze, per
egual modo fatali ai re ed ai popoli.
Nei
suoi scritti e in quelli dei suoi primi discepoli trovate le
definizioni atee della religione: «Sacro culto introdotto dai
magistrati per ottener la pace nello stato: - Opinione su Dio e il
culto che a lui è dovuto, pietosamente stabilita per conservare la
pubblica tranquillità; - Maniera d'onorar Dio, approvata dal
pubblico potere, principalmente allo scopo di mantenere i sudditi nel
dovere e la repubblica in quiete: - La religione politica è un culto
della divinità falso e simulato, eloquentemente propugnato dai
sacerdoti e fortemente dai re, per conservare ed accrescere la
pubblica e privata felicità» (64).
Dinanzi
a siffatte scandalose definizioni che avevano corso nella maggior
parte delle opere politiche, il dotto Stapleton, volgeva seriamente a
sé stesso tale domanda: «I politici dei nostri giorni vogliono
annoverarsi fra i cristiani»? E risponde: «I politici son quelli
che preferiscono alla religione gli interessi della cosa pubblica e
della privata, e che considerando come un nulla la religione,
nascondono la flagrante empietà sotto la bella larva della prudenza
civile e della politica; sicché i politici altro non sono che atei»
(65). «Gli atei che oggi governano i regni, continua il celebre
Contzen, si fan gloria del nome di politici» (66). «Di questi atei
son piene le corti d'Europa», soggiunge Guezarra (67). Non
insisteremo oltre su questa trista verità, provata ad esuberanza
nella nostra storia del cesarismo.
Trattasi
del Razionalismo filosofico, cioè dell'emancipazione della ragione
in materia di credenza divina ed umana? La storia le assegna
invariabilmente il Rinascimento per origine in tutta Europa. «I
professori, dice Spizelius, di belle lettere e di scienze
propinarono, all'epoca del Risorgimento, sotto pretesto dell’autorità
degli antichi il veleno dell'ateismo alla incauta gioventù» (68).
Accorsa da ogni parte alle scuole d'Italia, bevvero a lunghi sorsi al
nappo fatale: e tornati nel proprio paese, questi giovani vi sparsero
il contagio: l'Italia fu la prima infettata. «In questo paese, dice
un antico cronicista francese, non mancano spiriti libertini tanto da
non credere se non a quello che loro talenta, per onorar Dio a loro
modo, e non aver fede che nel proprio senno. La loro fede sull'anima
consiste nel convincimento che bisogna godere e darsi in braccio alle
voluttà. In conseguenza loro unica sollecitudine è vivere come
bestie. Cercano persuadersi l’anima non esistere e non esservi un
Dio testimonio e punitore del vizio» (69).
Un
altro contemporaneo scrive: «Se cercate atei in nessuna parte ne
troverete tanti quanti in Italia. Infatuati dagli autori pagani,
sarebbe più facile il provar loro con Omero e Virgilio l'esistenza
del Purgatorio che col Vangelo la risurrezione dei morti» (70).
Se
dalle generali passiamo ai nomi propri l'elenco è infinito. Citiamo
soltanto alcune di tali celebrità che dominarono di questo tempo e
diedero il colore allo spirito pubblico, come Voltaire e Rousseau lo
diedero essi stessi al loro secolo. Era altra cosa che un libero
pensatore qual Pomponaccio, «il più gran filosofo del suo tempo,
come dice Matter, che separa la religione dalle dottrine morali, il
cui insegnamento raccogliesi in due parole: emancipar la filosofia
dai dogmi della religione»; (71) e che con audacia sino allora
inaudita nell'Europa cristiana, combatte la immortalità dell'anima,
la Provvidenza e i miracoli?
E
il discepolo di Pomponaccio, Simon Porzio, che con grande scandalo
della Chiesa, insegna in un trattato ad hoc che l'anima muore col
corpo: «Opera, dice Gesner, più degna d'un porco che d'un uomo»?
(72)
E
il contemporaneo di Porzio, Andrea Cesalpino che osò sostenere il
fatalismo tanto in Dio che nell'uomo, e che facendo del libero
arbitrio una chimera converte l'uomo in una macchina e diventa
precursore di Spinosa? (73).
E
il famoso Vernia professore di filosofia a Venezia, che insegna alla
gioventù l’anima universale degli antichi? «E ciò, dice Bruker,
con tale successo, che giusta l'opinione d'un gran numero quasi
tutta Italia era imbevuta di tal mostruoso errore, alla quale
aggiunge la negazione d'esseri immateriali, tranne le intelligenze
motrici delle sfere. Non contento di professare a viva voce siffatte
empietà, le consegna nel suo libro dell’Intelligenza e dei
Demonii» (74):
E
l'emulo dei precedenti, Cesare di Cremona, l’oracolo filosofico
della università di Padova, al quale i suoi più intimi danno taccia
d'essere stato uomo senza religione, e che nel segreto dell'animo suo
se ne gloriava, negando la immortalità dell’anima, la Provvidenza
e insegnando al pari di Vernia la chimera dell'anima universale?
Giano dalla doppia faccia che diceva: Quando insegno queste
dottrine parlo da filosofo, ma mi sottopongo al giudizio della
Chiesa. «Nessuno, nota Bruker, si lasci allucinare da tali
proteste. La paura degli inquisitori gli suggeriva siffatta cautela;
a cui ricorsero tutti gli italiani di quel tempo che volevano
professar l'errore scansando le censure della Chiesa. Ma nel foro
interno conservavano tutta l’indipendenza del libero pensare. Al
filosofo di Cremona viene attribuito l'aver risuscitato il seguente
adagio, di Tullio: Nel mio segreto penso come voglio io, in
pubblico come vogliono gli altri» (75).
E
Simon Simonio di Lucca professore di filosofia a Ginevra, donde fu
costretto a fuggire in Germania, poi in Polonia ovunque spargendo
l'ateismo? Nel 1588 comparve uno scritto il cui titolo solo fa
conoscere la fama che quest'uomo lasciava dietro sé:
«Sunto
della religione di Simon Simonio, nativo di Lucca: prima cattolico,
poi calvinista, poi luterano: finalmente di nuovo cattolico e sempre
ateo» (76).
E
Pietro Aretino i cui scritti degni di Voltaire schiantano per egual
modo l'ordine religioso e il sociale; Aretino che nella sua troppo
famosa opera dei tre impostori, de Tribus impostoribus, porta
il cinismo dell'empietà a segno non più veduto e non mai
oltrepassato? È noto come per dipingere quell'audace razionalista,
gli fu fatto il seguente epitaffio:
Qui
giace l'Aretin poeta tosco,
Che
disse mal d'ognun fuorché di Dio,
Scusandosi
col dir: non lo conosco (77).
E
Cardano di Pavia, medico, astrologo, gran giocatore, filosofo di cui
uno storico ha detto: «Uomo senz'ombra di fede e di religione: nel
suo tempo, principe degli atei di second'ordine che si nascondevano
nell'ombra»? (78)
E
quei due fiorentini si conosciuti ai loro tempi Nanno Crosso, e Luca
Orefo? In tutta la loro vita fanno aperta professione d'ateismo: poi
al momento della morte, unendo lo scherno all'empietà, l'uno domanda
un crocifisso da baciare, ma a patto espresso che glielo recasse
Donatelli, e l'altro si raccomanda all'essere più potente, Dio o il
diavolo, proferendo quest'ultima bestemmia: «Chi più può, più
tiri» (79).
E
se vuolsi dar fede a parecchi storici, Cosimo de' Medici, il padre
del Rinascimento? Ammonito al momento della morte di temere il
giudizio, si mise a gridar sghignazzando: «Imbecilli, ritiratevi:
non vi sono altri diavoli che i nostri nemici ed altri dei che re e
principi. Dai primi viene il mal che soffriamo: i secondi soli
possono farci del bene» (80).
E
Machiavelli che, dato l'ateismo politico come base governamentale,
diceva morendo che amava meglio andarsene all'inferno coi filosofi,
gli oratori e i capitani dell'antichità che non in cielo coi santi
del cristianesimo, la maggior parte dei quali non ebbe né genio né
talento? (81)
E
Pomponio Leto che nella stessa Roma, ai piedi del Quirinale innalzava
un altare a Romolo, che celebrava con religiose cerimonie la festa
della fondazione di Roma pagana, come i cristiani celebrano quella di
Natale: che istituiva un'accademia dei Razionalisti, ove si mettevano
in discussione i più sacri dommi; che dichiarava non esser fatto il
cristianesimo che pei barbari (82): che piangeva di tenerezza ad ogni
scoperta di qualche vecchia statua di déi o di dee, e sclamava: O
monumento dei bei giorni dell'umanità? (83) «Insensato, empio!
sclama a sua volta un dottore cattolico. I bei giorni dell'umanità
son dunque per te quelli in cui regnarono gli imperatori pagani o
piuttosto le fiere chiamate Cesari! E tu le preferisci al regno di
Gesù Cristo, ai giorni di salute sì a lungo desiderati da
patriarchi e profeti!»
Per
finirla con questi italiani più o meno celebri che formarono, o
piuttosto che pervertirono lo spirito pubblico al secolo XV, e al
principiare del XVI, citiamo ancora Domizio Calderino. A quest'uomo
era venuto in tanta antipatia il cristianesimo, che non poteva più
nemmeno assistere alla Messa dicendo ai suoi amici, allorché ve li
accompagnava per compiacenza: «Andiamo all'errore comune»
(4).
Dopo
lui, tra molli altri, comparve Giordano Bruno, che altamente esprime
i segreti pensieri di tutta questa generazione di Razionalisti. La
sua opera Spaccio della Bestia trionfante, non fu vinta in
cinismo religioso né dai filosofi del secolo XVIII né dagli empi
moderni. Arrestato a Venezia nel 1598, il fanatico missionario del
Libero Pensare è spedito a Roma ove si rimane due anni prigioniero.
Invano furono tutti gli espedienti tentati a fargli ritrattare i
propri errori. Condannato alle fiamme voltò la testa dal crocifisso
che gli veniva presentato e morì impenitente.
La
qual nomenclatura, che potrebbesi molto più oltre produrre, prova
abbastanza che fossero il rapporto della fede la maggior parte delle
filosofiche sommità dell'Italia al quindicesimo ed al sedicesimo
secolo. Qual fosse l'influenza dei liberi pensatori, la maggior parte
fecondi scrittori e rinomati professori che vedevano accorsa intorno
alla loro cattedra una numerosa gioventù venuta da tutte le parti
d'Europa, ce lo additerà la storia.
_____________________
CAPITOLO
VIII.
IL
RAZIONALISMO DOPO IL RINASCIMENTO - ITALIA
Razionalismo
nei costumi o emancipazione della carne. - Danni da esso recati. - Il
principe di Parma e la sua corte. Nifo, Poliziano, Alessandro
Piccolomini, Bembo, Beroaldo, Gregorio Leti, Bolzanio, Poggi.
***
Il
Razionalismo è l'apoteosi dell'umana ragione: or l'uomo non deifica
la propria ragione che per deificare la sua volontà ed emancipar la
sua carne: è un fatto di generale esperienza. E però
nell'antichità, come nei moderni tempi, tre grandi manifestazioni
del Razionalismo: il Cesarismo in politica; l'incredulità
in religione; il Sensualismo in morale. Intorno ai liberi
pensatori italiani che insegnano più o meno apertamente
l'emancipazione della ragione in materia di dottrina, vediamo
aggrupparsi e i razionalisti che emancipano la volontà dell'uomo in
politica, e quelli che emancipano la propria carne con tutte le sue
concupiscenze. Pullulano questi ultimi nelle università e nelle
corti italiane del XV e XVI secolo, come le oscenità pagane nelle
gallerie e nelle ville. Tutti questi Razionalisti pratici traducono
senza arrossire la filosofia del Libero Pensare nel loro linguaggio e
nei loro costumi.
E
però il principe di Parma e i suoi tanti cortigiani altra fede non
conoscono che l'ateismo, altra norma di costumi che lo romane virtù
e una immoderata licenza (85).
Il
nemico officiale di Pomponaccio, Nifo, che tanto strepito solleva in
Italia, vantasi nei suoi scritti discepolo d’Aristotele, ma nella
sua condotta mostra esserlo segnatamente di Epicuro. Ad esempio di
molti altri mena vanto d'essere stato schiavo pubblicamente tutta la
vita delle più vergognose passioni (86).
Alla
corte stessa dei Medici Poliziano, l'oracolo dei letterati suoi
contemporanei, accusato d'aver detto ho letto una sola volta la
Bibbia e non ho mai perduto peggio il tempo, passa la vita a
risolvere il gran punto se debba scriversi Vergilio o Virgilio,
Carthaginensis o Carthaginiensis. l suoi ozi sono spesi a
comporre osceni madrigali in onor di Venere e di Cupido e versi
galanti in onore della sua bella, e il suo cuore arde sino alla morte
delle più sozze fiamme (87).
Se
il sensualismo pagano invadeva il santuario stesso, s'immagini il
lettore che guasto recasse fra i laici. Come raccontare la vita e
analizzar gli scritti della maggior parte dei letterati italiani di
quel tempo? Può chi volesse averne qualche idea consultare
Tiraboschi nella sua Storia della letteratura italiana. Non
contenti di abbandonarsi apertamente al libertinaggio spendevano
molti i loro ozi a celebrarlo in versi ed in prosa.
L'Ariosto
infarcì le sue poesie di tante oscenità, che il cardinal Ippolito
d'Este non può fare a meno di volgergli la domanda: Messer
Lodovico, dove diavolo avete pigliato tante corbellerie (88)?
Leonardo
Aretino compone un'infamissima scrittura, intitolata Arringa
d'Eliogabalo alle sue cortigiane.
Alessandro
Piccolomini, che gli Italiani d'accordo con Boccalini chiamano il
primo dei loro poeti comici, pubblica tali produzioni da teatro che
bisognerebbe arrossire analizzandole. Certo ne piace ammettere col P.
Niceron che abbiano veduta la luce durante la gioventù dell'autore.
Ma non so d'altra parte che nessuno dei suoi contemporanei gliene
abbia fatto colpa; rimangono intanto, e il loro merito letterario le
fa ancor più pericolose. Alle tragedie ed alle commedie Piccolomini
aggiunge sonetti e trattati pieni di massime lascive ed esecrande. Ne
basti citare la sua Orazione
in lode delle donne,
poi il suo Dialogo
dove si ragiona della bella creanza delle donne.
Bembo,
il ciceroniano per eccellenza, rimpinza i suoi carmina e le
sue Epistolae familiares di pensieri oltre ogni dire
licenziosi. Paolo III voleva nominarlo cardinale, dice il P. Niceron;
ma alcuni, gelosi dell'onore della Chiesa, addimostrarono al papa
come i costumi e gli scritti di Bembo fossero più degni d'un pagano
che d'un cristiano. Dai quali discorsi impressionato il pontefice,
lasciò Bembo in disparte. Non ponno scusarsi le sue poesie,
ingenuamente continua il buon padre Niceron, se non dicendo che Bembo
le componesse in sua gioventù ed ancor laico; il che sembra
probabilissimo (89). Gli è certo intanto che ei le ha compose e che
non ne prese né il gusto né il modello dagli autori cristiani, ma
sibbene dai pagani e massimamente da uno dei più licenziosi,
Terenzio, di cui formavasi un idolo. Gli Asolani sono con le Rime le
opere di Bembo più diffuse e più pericolose; son dialoghi
sull'amore. Al loro comparire, dice Imperiali, sortirono tanta voga
fra uomini e donne, che sarebbe stato tenuto in conto di mezzo
imbecille chi non le avesse lette (90)». Tal riflessione è un
tratto di luce che ne scopre lo stato dei costumi e degli spiriti in
Italia, meno d'tlfi mezzo secolo dopo il Rinascimento del paganesimo
e parecchi anni, prima di Lutero.
Intanto
che Bembo a Venezia ed a Padova propaga il culto della voluttà,
Beroald lo canta, lo pratica a Bologna, al cospetto della numerosa
gioventù di quella università. Aperto libertino, i giorni da lui
non consacrati al piacere spende, per trent'anni, ad illustrare i
più osceni autori pagani: Properzio, Plauto e l'Asino d'oro
d'Apuleio.
Quel
che Beroald a Bologna, Filelfo a sua volta fa a Firenze, a Siena, a
Milano, mentre Marini scandalizza l'Europa col famoso poema l'Adone.
Famoso, dico, non pel merito, ma per la licenza. Il canto intitolato
Trastulli è una descrizione in quattrocento versi dei baci di
Venere e di Adone.
Continuando
questa generazione di epicurei e di liberi pensatori, Gregorio Leti
esce dal collegio di Cosenza passionato per le idee e massimamente
pei costumi della bella antichità. Schiavo d'un doppio libertinaggio
d'animo e di cuore, il giovane Leti recasi a Ginevra, e non tarda a
far aperta professione di protestantismo. Gli scritti di Leti son
degni de' suoi costumi: può giudicarsene da quanto ne resta; le
diatribe contro Roma e le sue opere oscene.
Citiamo
ancora Bolzanio di Belluno che consacra le lunghe veglie a scifrar
geroglifici ed a comporre amorosi versi, e il Mantovano, la cui
inesauribile vena lancia contro il clero satire che mai non avrebbero
dovuto vedere la luce e dota la sua patria di più di
cinquantamila versi, dicesi, fra i quali Le Bucoliche sono tutt'altro
che caste.
Chi
non sa quali furono sotto il rispetto della licenza del linguaggio e
della corruzione dei costumi i liberi pensatori Castiglioni,
Asculano, Groto, Puccio, Cenzio, Codro, Septabina, Mazzucciolo
Franco, che, giusta la frase di Brucker tramandarono alla posterità
carri d'immondezze e d'empietà (91)?
A
tutti questi nomi tristamente celebri facile sarebbe aggiungerne
molti altri. Si possono vedere nella nostra storia del
Protestantismo. Ma il vero tipo delle lettere italiane di
questo tempo è il troppo famoso Poggio, il quale merita più diffusa
notizia.
__________________
CAPITOLO
IX.
IL
RAZIONALISMO DOPO IL RINASCIMENTO - ITALIA
Poggio
tipo dei letterati del Rinascimento. - Suo libertinaggio conforme a
quello dei modelli classici. - Sue Facezie. - Origine e natura
di quest'opera. - Lungo tessuto d'empietà e di oscenità. - Successo
scandaloso che ottiene. - Tradotto, imitato, arricchito, prima fonte
del torrente d'immoralità che deturpa l'Europa. - Poggio nemico
della Chiesa. Sua lettera a Leonardo Aretino su l'eretico
Girolamo di Praga. - Impugnatore d'ogni autorità. - Provocatore alla
Rivoluzione - Lettera di Magliabecchi sui poeti italiani del
Rinascimento.-Giudizio di Salvator Rosa.»
***
Educato
alla scuola degli autori pagani, Poggio visse in sua gioventù una
vita conforme alle dottrine ed agli esempi dei suoi maestri. Prima
che ammogliato era già padre di tre fanciulli. Rimproverato del suo
libertinaggio dal cardinal di Sant'Angelo, il giovine libertino gli
diede una risposta degna pel cinismo di Catullo o di Petronio. Lui
vediamo poscia più tardi menar rimprovero a Filelfo con inaudita
acrimonia, degli stessi disordini di cui è colpevole.
Ammogliato
di cinquantaquattro anni fu più ammisurato nei suoi costumi? Lo tace
la storia, e solo adduce le sue Facezie e le sue Lettere
in prova dolorosamente incontrastabile non essere stata la sua penna
più casta della sua vita da celibe. A malincuore facciamo conoscere
la prima di queste opere; ma non è più tempo di tacere. La
quistione vitale dell'origine del mal presente e soprattutto del
Razionalismo, che fa ora man bassa sulle credenze e i costumi di
tutta Europa, ne impone la verità.
È
noto di che i Propositi da tavola o facezie di Lutero fossero
cagione all'Occidente. Ma ignorasi forse che in questo genero Lutero
non ha il merito dell'invenzione. Rinascente egli stesso, e
null'altro che rinascente, Lutero trovò in fatto di libertina
condotta e di parole modelli tali nei suoi maestri, i Rinascenti
d'Italia, che non valse a superare. Col Decamerone e la
Cronologia degli Dei, le facezie di Poggio son la prima opera
crudamente oscena che abbia afflitto l'Europa dopo lo stabilimento
del Vangelo. È una memoria, una imitazione di Lucano e di alcuni dei
più sfrontati libertini della pagana antichità. Dandoci un giusto
concetto dei Rinascenti di quell'epoca, l'iniquità dell'autore è
accresciuta da parecchie circostanze; la posizione sua personale, il
tempo e il luogo in cui quell'opera immonda fu parlata, prima
d'essere scritta, e finalmente lo scandaloso successo sortito di cui
l'autore si vanta.
Poggio
era addetto alla Corte di Roma come scrivano delle lettere
apostoliche. Diventò poscia segretario pontificio, carica in che si
tenne per più di quarant'anni. Anzi che conciliar rispetto a sé
stesso e alla Chiesa di cui viveva, di tal posto d'onore e di fiducia
si fece velo a scrivere le oscenità che ne deturparono la vita e ne
infamarono la memoria. Lo stesso Poggio racconta l'origine delle sue
Facezie. «Al tempo di Martino V. io e parecchi segretari
pontifici, fra i quali Antonio Lusco, Cinzio di Roma e Razello di
Bologna, scegliemmo nel palazzo stesso un sito appartato che
chiamavano il Bugiale, cioè fabbrica delle bugie. Là
si raccontavano novelle, si spacciavano scherzi e storielle: si
batteva tutto quello che non si approvava, e si approvava pochissimo.
Il papa soprattutto non era risparmiato, ed egli pel primo veniva
posto in canzone (92)».
A
detta di Poggio, si crederebbe che le sue Facezie altro non
fossero che l'innocente scherzo di alcuni uomini di spirito, pieni
d'altra parte di reverenza per tutto ciò che n'è degno: ma ben
altrimenti va la bisogna. Lungo tessuto d'empiezza e nauseanti
oscenità, espresse in ischerzi, in epigrammi, in bisticci , in
storielle ore han parte i personaggi e le cose più venerabili, tali
sono le facezie. Non lorderemo la nostra penna trascrivendone un solo
saggio. S'immagini il lettore questa mano di letterati pagani
epicurei e liberi pensatori, raccolti per molti e molti anni in un
angolo del Vaticano, allorché la Chiesa, circuita da nemici, non
sapeva a chi volgersi a difendere la fede d'Europa, intenti coi loro
propositi beffardi, ingiuriosi, empi ed osceni alla ruina della
religione, dei costumi, della fama dei buoni, osi vantarsene, e
pubblicare i loro discorsi.
Ma
la mente si perde riflettendo all'accoglienza trovata presso tutti i
letterati d'Europa da un'opera tanto infame, dice Gesner, da
meritarsi l'acqua ed il fuoco (93). Si fecero innumerevoli edizioni
delle Facezie; furono tradotte in tutte le lingue ed
arricchite di qualche tratto di spirito d'altri Rinascenti. E tale
era allora il pervertimento delle idee e l'obliterazione del senso
cristiano fra i letterati, che un religioso, Giacomo di Bergamo, non
esitò a chiamare questa satanica produzione una bellissima opera,
pulcherrimus liber (94).
Egli
stesso Poggio osa vantarsi del suo esoso successo. Inveendo contro
Valla con la cortesia di Cicerone e di Demostene nelle loro
filippiche: «Che meraviglia, dice che le mie Facezie non
piacciano ad uno che non ha nulla d'umano, a uno stupido, a un
selvaggio, a un matto, a un barbaro, a un facchino? Ma chi ne sa un
po' più di te, le legge e le approva, le ha fra mano e sul labbro, e
sappi bene, dovessi tu crepa me, che sono diffuse in tutta Italia, in
Francia, in Spagna, in Inghilterra e dovunque si sa parlare latino
(95).
E
Poggio ha ragione; le sue Facezie non furono soltanto divorate
da tutti i Rinascenti d'Europa, ma altresì imitate. «Le Facezie
di Poggio, dice Niceron, han più di quant'altro avesse mai scritto
giovato a farlo conoscere. Fu il primo che pubblicò un
qualche cosa di quel genere. Fu seguito da altri infiniti che ne
saccheggiarono i racconti, senza nemmeno fargliene onore. E però
trovate in Rabelais, nelle Cento Novelle, nell'Ariosto, nelle
Duecento Novelle di Celio Malespini, in La Fontaine e in diversi
altri, il racconto dell'Anello di Hans Carvel, la cui
invenzione è dovuta a Poggio che la dà nella 133a delle sue facezie
sotto il nome di Filelfo (96)»
Abbiamo
mostrato nel Cesarismo che i rivoluzionari e i mazziniani non fanno
che ripetere parola per parola le dottrine di Machiavelli, e nel
Protestantismo, che Lutero altro non fu che l'eco dei liberi
pensatori d'Italia. Qui scopriamo la prima fonte di questo torrente
d'oscenità che da quattro secoli ingrossando sempre ediffondendosi
per mille diversi canali inonda l’Europa cristiana e sembra or
minacciare d'universale bruttura le più modeste capanne e i borghi e
le città ad un tempo. Cominciato da Poggio discende a Rabelais, da
Rabelais a Chorier, da Chorier a La Fontaine, da La Fontaine a
Voltaire, a Piron, a Parny, a Pigault-Lebrun, per varcare ogni limite
nei nostri drammaturghi, nei nostri romanzieri, nei nostri
appendicisti di giornale.
Padre
di osceni autori, Poggio è altresì il precursore degli increduli
scrittori. Nelle loro diatribe contro i frati Erasmo, Reuclin, Ulrico
di Hutten non ebbero che a copiare il suo scritto De humanae
conditionis miseria. Così per giustificare Girolamo di Praga, e
rendere odiosa la Chiesa, i protestanti non hanno che, mutate poche
parole, a riprodurre l'elogio funebre che Poggio osò fare
dell'eretico. Questo scritto assai poco conosciuto, merita
nell'interesse della nostra causa d'esserlo molto. Rendendo conto in
una lettera a Leonardo Aretino degli ultimi momenti di Girolamo di
Praga, Poggio comincia dal lasciar indecisa la colpabilità di
Girolamo. Ne loda la presenza di spirito, la fermezza, la forza degli
argomenti, la dignità del linguaggio. Se i sentimenti interni di
Girolamo corrispondevano alle sue parole gli è giocoforza dire
ch'era il più innocente, degli uomini. Or come la Chiesa non giudica
dall'interno ne deriva che facendo fondamento della sua condanna
sugli atti e le parole, ha, in sentenza di Poggio, ingiustamente
condannato quest'uomo da bene. La sua eloquenza tutta ciceroniana lo
rapisce; gli ricorda i grandi oratori dell'antichità ch'egli stesso
ammira. La sua morte degna di Catone è il più imponente spettacolo
che abbia contemplato. Il suo entusiasmo che va sempre crescendo fa
dell'eretico un eroe degno di vivere eternamente nella memoria degli
uomini. Muzio Scevola, Socrate stesso, i più grandi uomini che
Poggio conosca, sono dappoco in confronto, dell'incomparabile stoico
che la Chiesa fece perir su un rogo (97). A questo linguaggio più
che strano nella bocca d'un notaio apostolico succedono attacchi più
diretti e più pronunciati. È noto che il giogo dell'autorità
religiosa o politica non pesa meno, ai liberi pensatori dei precetti
della morale.
Nel
suo trattato De infelicitate principum, Poggio non risparmia,
né papa, né cardinali, né re. Ai suoi occhi son colpevoli di aver
messe in bando dalla terra quasi tutte le virtù. La diatriba non
sarebbe completa, se all'accusa dei grandi non si unisse come
contrasto l'elogio dei proletari. Modello le mille volte imitato da
tutti i democratici figli del Rinascimento, Poggio eccita le passioni
del popolo mostrandogli le sue virtù, e commiserandone la miseria,
cagionata naturalmente dall'autorità (98).
Ma
basti su Poggio di cui avremo opportunità di parlar altre volte.
Basti pel momento aver provato da una parte che le opere di questo
rinascente epicureo e libero pensatore potentemente contribuirono a
corrompere i cuori ed a pervertire gli animi, più di cinquant’anni
prima di Lutero: d'altra parte che da lui e dai suoi emuli comincia
in Italia la sinistra generazione d'epicurei, d'increduli e d'atei,
in una parola di Razionalisti, dai quali questo paese, più del resto
dell'Europa non fu da quattro secoli preservato: e che ora, ad onta
della presenza del papato, continuano ad agitarsi nella Penisola
egualmente numerosi e non meno audaci che altrove.
Se
il campo della nostra opera lo consentisse, quanti, famosi nomi
verrebbero a dirci che cosa fossero sotto il rispetto dei costumi,
tutti questi sciami di retori, poeti ed umanisti, o come allora
dicevasi di Bilingui e Trilingui che il Rinascimento
fece pullulare in Italia! Potremmo citare i Bibiena, i Casti, i
Russoli, i Mauro e mille altri la cui penna stillò la corruzione
sotto tutte le forme (99). Dopo aver, come meritavano, battute le
poetiche insanie del Della Casa, il dotto bibliotecario di Firenze
Magliabecchi, accenna una folla di poeti italiani dello stesso tempo,
le cui opere sono non meno esecrabili (100).
Finalmente
Salvator Rosa, recando alla nostra causa l'autorità del suo gran
nome di poeta ed artista, stimmatizza con l'energia di un'indignata
coscienza tutte queste corruttrici poesie che disonorano e deturpano
l'Italia.
Da
qual donnella non son oggi intese
Le
Priape?
…
E
quando cesserete di cantare
Le
donne, i cavalier, l'armi, gli amori,
pungolo
d'impudicizia ai lettori? Non è già figura rettorica: I tempi
moderni sono infetti da tre cose: da malizia, ignoranza e poesia.
Uditemi o voi che coi vostri canti fate sì che la pietà vacilli e
il timor di Dio sia sbandito dal mondo. Voi distillate nell'anime il
veleno di mille immoralità. Voi gettate la scintilla sulla materia
infiammabile: voi date alimento all'incendio. E venite poi a dirci:
Giusta la loro natura dallo stesso fiore cavano l'ape benefica il
mele e la vipera crudele il veleno. Oh empii! o quattro volte e sei
scellerati!
Pormi
il tosco alla bocca, e poi s'io pero
Dir,
che maligni fur gli affetti miei!
Dannata
poesia che assunse a modelli i Machiavelli e gli Erasmi, padri degli
empii moderni. Più pagani e più colpevoli di Lutero che separò il
Cristo dalla Chiesa, vi fate gloria di quanto si risolve in una
vergogna. Buffoni insolenti ed atei, credete non poter scriver con
grazia, se non entrate per profanarle nelle chiese e nei santuari.
Anticristi del Parnaso, per l'opere vostre l'insaziabile inferno fa
più ricca la sue messe di dannati.
L'orecchio,
ha il mondo sol per Lesbia.
Per
lui parlar di virtù non è più di moda; ingozzato di oscene poesie
non sogna che Laide e Batillo. Tempi da far fuggire nella Tebaide; da
seppellir nel silenzio anziché da paragonare ad altri secoli (101)».
Niente
di più meritato dei rimproveri di Salvatore. Corrotti e corruttori,
la più parte dei poeti, indegni di tal nome, accoppiano al
libertinaggio dello spirito il libertinaggio del core, sicché la
loro condotta apertamente scandalosa giustifica il proverbio dello
stesso Rinascimento: di rado chi si mostra Catullo nei versi,
mostrasi nei costumi Catone.
Raro
moribus, exprimit Catonem
Quisquis
versibus exprimit Catullum.»
___________________
CAPITOLO
X.
IL
RAZIONALISMO DOPO IL RINASCIMENTO - ITALIA
In
seguito alla politica, alla filosofia ed alla poesia, le belle arti
si emancipano. - Che facciano pittori, incisori, statuarii diventati
liberi pensatori. - Cantano la carne e i suoi allettamenti. - Critica
rigorosa delle loro opere fulminata da Salvatore. - Da Erasmo. - Da
Properzio. - Abbomini dell'arte divenuta, pagana. - Profanazione
delle Chiese. - Continui insulti alla pietà e al pudore. - Critica
del giudizio finale di Michelangelo. - La musica fatta pagana e
sensualista. - Suoi funesti effetti. - Profanazione del culto
cristiano. - Eguali effetti nel resto d’Europa.
***
Mentre
col disprezzo delle dottrine della fede e delle leggi del pudore,
umanisti, poeti, prosatori e filosofi emancipano la loro ragione e la
loro penna, artisti, pittori, incisori, scultori, nuova classe di
razionalisti emancipano il loro pennello ed il loro bulino.
Tutt'insieme inondano l'Italia d'un diluvio d'oscenità in versi, in
prosa, in tela, in marmo, in bronzo, in legno, in gesso, che
glorificando la carne in tutti i suoi alletta menti, ricordano i più
cattivi giorni di Roma e di Pompei. Quel che l'occhio cristiano non
aveva mai contemplato, il nudo per il nudo, mostrasi da tutte
le parti. I Giovi incestuosi ed adulteri, le Lede, le Pasifae, le
Veneri, i Cupidi, tutte le oscenità mitologiche spiegansi alla luce
del giorno, nelle ville, nei giardini, sulle pubbliche piazze, nelle
strade, nelle gallerie. Alle produzioni dell'antico l'arte
materialista aggiunge i trovati della più sfrenata immaginazione.
Non una delle cose che l'Apostolo non vuol nemmeno che si nominino,
che riprodotta non sia da migliaia di pennelli e di bulini.
Non
contenti di parlar nelle reggie, nelle case e nei luoghi profani,
questi predicatori invadono il santuario. Le porte della Chiesa
spiegano sui loro arazzi di decorazione le favole più immonde
dell'antichità. I santi e i martiri diventano atleti o filosofi, gli
angeli geni, e quando non riproducono i lineamenti delle cortigiane,
le nostre sante trasformansi or in naiadi, or in ninfe, dive,
baiadere, le cui gambe nude, il petto scoperto, le voluttuose pose
fanno arrossire il pudore, rincacciano la preghiera al fondo
dell'anima ed anziché innalzare il pensiero sino ai cieli lo
concentrano nell'Olimpo. Quali sentimenti di adorazione, di umiltà,
di compunzione, ditemi, di grazia, valgono ad eccitare nel cuore una
posa accademica, un braccio tornito, una gamba nuda e tutta una
raccolta di petti e di femori potentemente pronunciati, che sembrano
l'indispensabile condizione del bello nella maggior parte delle
pitture, delle sculture e delle incisioni così dette cristiane degli
operai del Rinascimento? Dov'è la reverenza alle dottrine del
cristianesimo, alle regole della morale, alle tradizioni dell'arte
cristiana? Qual sacerdozio esercitano qui gli artisti? E lo spirito o
la carne che respira nelle loro produzioni? Tali non pertanto sono le
opere d'arte dalle quali la moderna Europa è inondata.
Fra
mille voci più autorevoli delle nostre che da quattro secoli non si
ristanno dal protestare contro questo scandalo immensa, udiamo quella
d'un uomo che ha un diritto particolare ad essere ascoltato, «Come
contenersi, sclama Salvator Rosa, vedendo che più il pennello è
osceno e più viene blandito e più nuoce?»
Di
lascive pitture il mondo è pieno,
E
per le vie degli occhi il cor tradito
Dal
nefando color beve il veleno
(102).
Non
si accenna nei quadri che alle infamie dei falsi Dei, perché l'uomo
si faccia oso ad imitarli. La libidinosa voluttà alza dovunque i
suoi trofei e più d'un nuovo Tiberio empie la sua dimora di
sfrontate pitture degne dei ginecei.
«Giulio
Romano scolpì mille volte oscene posture. Gli impudici Caraccio e
Tiziano profanarono con figure da bordello i palazzi dei principi
cristiani. Donne nude sono la sola decorazione dei quartierini dei
grandi, e però essi stessi si cangiano in Sibariti. Da qualunque
lato si volga il guardo delle fanciulle cade fra le Veneri e le
Bersabee. Qual meraviglia poi se diventano cortigiane?
Fuor
che Giacinto, Satiri e Napee
Per
i musei moderni altro non vedi,
E
Psichi, e Lede, e Danai, e Galatee.
Mirre,
Europe, Diane, e Ganimedi:
E
le Pasife adulteri e bestiali
Son
delle gallerie pregiati arredi, etc.
E
una tale indignazione trova eco dovunque: tutta Europa manda lo
stesso grido di riprovazione, e mirabile cosa, sfugge bene spesso dai
cuori adoratori del Rinascimento, ma che talvolta trovano tutta
l'energia del sentimento cristiano, del pudore e dell'onestà.
Parlando di queste innumerevoli collezioni d'opere scandalose
raccolte nelle gallerie e nei musei moderni, Erasmo di tal modo si
esprime: «Se mai visitaste a Roma i musei dei Ciceroniani,
ditemi se avete veduta una statua di Gesù Cristo o degli apostoli.
Tutti son pieni dei monumenti del Paganesimo. E nei quadri, Giove
trasformato in pioggia d'oro per sedur Danae, attrae ben più i
nostri sguardi che l'angelo Gabriele annunciante alla santa Vergine
il mistero dell'Incarnazione: Ganimede rapito nell'Olimpo dall'aquila
di Giove ne alletta assai più che Gesù Cristo ascendente al cielo;
i nostri sguardi si fermano con assai più piacere sui baccanali e
sulle feste del dio Termine, tutte piene di turpitudini e di
oscenità, che su Lazzaro richiamato dal sepolcro, o sul figlio di
Dio battezzato da san Giovanni. Ecco i misteri che si nascondono
sotto il velo dell'amore, dell'ammirazione per la bella antichità.
Non siamo più cristiani che di nome, confessiamo colla bocca Gesù
Cristo, ma portiamo nel cuore Giove e Romolo (103)».
Parecchi
cercano giustificar questo scandalo, dicendo che l'abitudine di veder
le statue e le pitture indecenti scema il danno dei costumi. «O
padri, o madri; colpevoli e ciechi che fate della vostra vigilanza,
se ad addobbar le camere, comperate sempre di questi quadri? Voi
siete la provvidenza delle vostre famiglie, ma che giova custodire il
limitare, se entro le mura corrompono le tele i vostri figli?
Queste
pitture ignude, senza spoglia,
Son
libri di lascivia; hanno i pennelli
Sensi,
da cui disonestà germoglia
(104).
Salvator
Rosa non è qui che l'interprete di San Paolo e dei Padri.
Il
grande Apostolo dice che i cattivi discorsi corrompono i buoni
costumi, corrumpunt mores, bonos colloquia prava. Ora una
cattiva pittura, una cattiva scultura, non sono cattive parole,
cattivi libri, ove il più operoso dei nostri sensi attinge il male
che comunica all'anima, con maggior fedeltà ed energia che non
l'orecchio medesimo? Ben a ragione Gregorio Nisseno chiama le
sculture e le pitture oscene infami spettacoli, infamia
spectacula, e Tassiano provocatrici di delitti, vitiorum
monimenta. Soppressi che siano il peccato originale e la
concupiscenza, si potrà allora presentare agli occhi quel che Dio
stesso volle che fosse nascosto; ma, sino a che ciò non sia, l'arte
pagana con le sue nudità, sarà fra le più larghe fonti di
corruzione.
Gli
è strano in vero che gli artisti del Rinascimento si siano fatti, ed
anche ai dì nostri, che dei cristiani si facciano illusione su un
punto per sé medesimo evidentissimo. Pagani non sospetti danno loro
lezione su ciò. Platone aveva preteso che la consuetudine di veder
fanciulle nude nel ginnasio spunterebbe ogni pungolo alla
concupiscenza, e Plutarco ne dice che i costumi degli Ateniesi e
degli Spartani, diventarono per quest'uso i più corrotti della
Grecia (105). Erodoto soggiunge a buon diritto che una donna
spogliandosi delle sue vesti si spoglia altresì del suo pudore, e
impara ben presto a non più arrossire di nulla.
Si
dirà che qui si tratta di persone vive; or bene, non parliamo che di
quadri e di statue. Aristotele proibisce ogni statua, ogni quadro
impudico (106). Un gentile, ancor meno sospetto, dichiara che la
consuetudine di esporne agli sguardi fu prima fonte della
spaventevole corruzione dei Romani.
Ah
quella man che colorì primiera
Impure
tele e fra penati onesti
Di
quadri appese invereconda schiera,
Quella
i casti occhi di malizia ha tinto
A
le fanciulle e sprigionar si piacque
Anzi
stagion lor nequitoso istinto.
Pera
colui che con quest'arte rea
Sotto
i sembianti del piacer celata
Eride
(107) sulla terra
dischiuclea!
Non
di queste s'ornaro i tetti antichi
Sozze
figure, né su alcun parete
Pinse
pennel sfacciato atti impudichi (108).
Ricollocata
sotto l'influenza del Paganesimo, l'arte doveva trascorrere a tanto.
Il bello é lo scopo dell'arte. Or il bello non si trova che nel
mondo soprannaturale o nel sensibile. Il primo è chiuso agli artisti
liberi pensatori. Nel mondo sensibile il bello per eccellenza è il
corpo umano. Il riprodurlo in tutte le sue parti o per mettere in
luce l'ingegno dell'artista, o piuttosto per blandire la
concupiscenza degli occhi, tale è, a farcene ragione delle loro
opere, lo scopo supremo dei pittori e degli scultori di cui parliamo.
Dal che una nuova abominazione ch'essi osano chiamare esigenza
dell'arte, e di cui Salvatore parla in questi termini:
Peggiorar
sempre, quanto più s'invetera,
Far
di ragazzi e femine un serraglio
Per
farlo stare al naturale e cetera.
(109)
E
dopo il Rinascimento queste infamie continuano a praticarsi in tutte
le grandi città dell’Europa cristiana! E poi ci lagniamo della
corruzione dei costumi! (110)
Ma
una cosa eccita soprattutto l'indignazione del grande artista ed è
la profanazione delle chiese operata dall'arte pagana. Il viaggiatore
che visitò l'Europa meridionale, e studiò con qualche accuratezza
le pitture, le sculture, i funebri monumenti, i bassorilievi, i
medaglioni d'un gran numero di Chiese, non può a meno di trovare
nelle seguenti parole la traduzione fedele dei sentimenti ispirati da
un tale spettacolo. «Ma non basta, continua il gran pittore che ne
piace citare, questi artisti fanno un abuso ancor più empio della
loro sacrilega industria. Nei templi ove si adora e si prega, fanno
ritratti di donne, e la casa di Dio diventa un fondaco. Ad onta
d'ogni santo timore e d'ogni fede, i colori fomentano l'empietà,
l'adulterio e l'incesto.
Deh,
torna in terra col flagello usato!
Che
per man de' pittori entro le chiese
Delle
vacche ogni dì fassi il mercato.
E
tu non sol dissimuli l'offese,
Ma
comporti che sian di questi porci
Sull'are
tue le frenesie sospese!
Per
vantarsi più d'un, che ben conosce
Di
tutto il corpo le minuzie e i bruscoli,
Fa
mostrar alle sante e poppe e cosce,
E
per farsi tener fra i più maiuscoli,
Spogliando
i santi, vuol mostrar che intende
I
propi siti e rigirar de i muscoli …
Più
tavola non v'è che almen sia casta,
Che
per i tempi la pittura insana
La
religion col puttanesmo impasta.
Di
numi in cambio nelle sacre tele …
Onde
tradito poi lo stuol fedele, Con scelerata e folle idolatria,
Porge
i voti all'inferno e le querele.
Ché
di un angelo in vece, e di Maria,
D'Ati
il volto s'adora e di Medusa,
L'effigie
d'un Batillo o d'un'Arpia.
A
onor de' lupanari arde l'incenso
Ne'
turriboli e nelle lampe,
ecc. (111).
Per
abbreviare porremo qui un brano della robusta critica del finale
giudizio di Michelangelo (112).
Terminando
il suo lavoro, Salvator Rosa flagella di santa ragione l'innumerevole
generazione dei pretesi artisti sbucciati al sole del Rinascimento e
che infetta l'Europa cristiana delle sue opere empie ed oscene.
Tutto
il mondo è pittore
…
Più
tele ha il Tebro, che non ha lombrichi,
E
fan più quadri certi capi insani
Che
non fece Agatarco ai tempi antichi.
Onde
dissero alcuni oltramontani
Che
di tre cose è l'abbondanza in Roma:
Di
quadri, di speranze e baciamani.
Escon
dal Lazio le pitture a soma,
E
tanta de' pittori è la semenza
Che
infettato ne resta ogn'idioma
(113).
«Ho
scritto i sentimenti d'un cor sincero e amico del bene. Se il mio
stile difetta di grazia, non difetto io almeno né di zelo, né
d'amore della verità. Ma sia pur il mio stile sublime o volgare so
che non andrà a grado di coloro che ho flagellato: la bile fu sempre
amara al palato».
La
profanazione della musica non eccita meno della profanazione della
pittura la vena del grande artista. Al cospetto di tutto un mondo,
preso ad un tratto d'insensato amore per le arti pagane, la sua anima
si sdegna e lascia sfuggirsi questi energici accenti: «Non v'ha un
angolo nel nostro emisfero, in cui non s'oda solfeggiare e in cui non
trovansi musicanti. Gli insensati principi vanno in cerca di questa
canaglia, scandalo delle corti e dei palazzi. Chi può mostrarmi un
musicante i cui canti richiamino la gioventù alla castità?
Sol
di Sempronie le città son piene ...
Che
con maniere infami e vergognose
Danno
il tracollo agli uomini dabbene ...
Arrossite
al mio dir, donne romane,
Le
di cui profanissime ariette
Han
fatto al disonor le strade piane ...
Io
sgrido, io sgrido voi, maestri indegni, …
Tutti
i canti oggi mai sono immodesti,
etc.
Che
scandalo non è udire ai sacri leggii gorgheggiar i Vespri, cantar la
Messa, urlar il Credo, il Gloria, il Pater noster, e su l'aria del
Tralalà cantar il miserere! (114) Chi vuol cantare non
ha che a far una cosa; seguire il sacro salmista, imitar Cecilia e
non Talia, correre sull'orme di Giobbe e non d'Orfeo. Sola armonia
che penetra nei cieli è quella la quale, anziché far udire
colpevoli accenti piange i peccati come Geremia. Ormai non è canto
che sia casto, nelle corti la musica è bestiale. Se vivesse ai
nostri giorni che direbbe il grande artista della musica dei teatri e
degli eletti convegni?
Si
conosce adesso l'epoca nefasta in cui le belle arti, un tempo tanto
cristiane divennero libere pensatrici (115). Si sa di più di che
innumerevoli oscenità. deturparono l'Italia. E come la loro storia e
quella delle loro produzioni è con poche varianti la stessa pel
resto della moderna Europa, sfioreremo ormai appena un tale
argomento.
________________
CAPITOLO
XI.
IL
RAZIONALISMO DOPO IL RINASCIMENTO
Dall'Italia
il Razionalismo passa in Germania - Danni che vi produce. -
Testimonianze di Cornelio a Lapide, di Lobkowitz. - Hutten, testo dei
razionalisti in Germania. - Importanza della sua biografia. - Suoi
scritti. - Trionfo di Capnion. - Lettere degli uomini neri. - Suoi
rapporti coi liberi pensatori di Francia. - Sua triade romana. - I
Razionalisti moderni invocano la forza per estirpare il
cristianesimo. Non sono che gli eco di Hutten e degli altri liberi
pensatori del Rinascimento.
***
Il
Razionalismo politico, filosofico, artistico e letterario schiuso in
Italia al sole del Rinascimento, non tardò a superare le Alpi. Alla
vista dei danni operati in Francia nelle credenze e nei costumi, un
celebre dottor di Sorbona, a cui il suo secolo decreta il soprannome
di flagello degli eretici, Gabriele di Puyberbaut, sclamava: «Dio
volesse che l'Italia avesse tenuto per sé le sue merci, i suoi
profumi, i suoi unguenti e i suoi libri (116)». Tutte le altre
nazioni d'Europa avrebbero diritto di fare lo stesso voto.
Già
abbiamo veduto (117) i liberi pensatori di Germania, formati alle
scuole italiane, diffondere il Razionalismo nelle università e nei
ginnasi della loro cattolica patria. Or dovunque sia seminata la
zizzania produce sempre. Zizzania. Non tardò la Germania a vedersi
popolata di liberi pensatori e di epicurei. Al pari dei lordo
maestri, costoro, calpestate l'autorità della fede e le norme dei
costumi, sparsero dottrine morali e filosofiche che ben presto si
conversero in ateismo, in empietà e sensualismo: fu come una
efflorescenza generale dell’antico paganesimo. Alla luminosa
autorità del celebre principe di Carpi, da noi citato nella nostra
Storia del Protestantismo, ne basterà aggiungerne alcune altre
scelte fra mille. «Quasi sola l'Europa, sclama Cornelio a Lapide,
professa il Cristianesimo; ed ecco che quasi la metà dell'Europa si
compone di eretici, di scismatici, di politici pagani, e di atei; fra
i cattolici, quanti concubinari, vendicativi, ingiusti possessori
dell'altrui e beoni (118)!
Un
tale stato di cose sconosciuto prima del Rinascimento viene pure
lamentato dal filosofo alemanno Lobkoswitz. «Vuolsi notare, dice
egli, come la presente Europa, non eccettuata la Germania, sia
infettata delle due pesti dell'ateismo: la peste fisica e la morale.
L'ateismo fisico nega la causa delle cause, l'ateismo morale il fine
dei fini. Fra questi atei gli ultimi non sono coloro che abusando dei
loro viaggi e dei loro studi in Italia, sembrano essersi collegati
per giungere alla perfezione della setta. Da queste scuole
uscirono a distruggere la pietà, il candore e la buona fede dei loro
avoli. Che se cercate atei pratici corruttori della vita e dei
costumi, la Germania ne è coperta. Chi vi toglie dal dire con
s. Girolamo: «Nella nostra patria Dio è il ventre, ed il più santo
è il più ricco? (119)
Come
Poggio è il tipo dei letterati italiani figli del Rinascimento, così
in Germania Ulrico di Hutten personifica i liberi pensatori e gli
epicurei venuti dalla medesima madre. Agli occhi dei moderni
Razionalisti egli è capo del movimento che trascina il settentrione
d'Europa fuor delle vie del cattolicismo, tanto rispetta alla
letteratura, quanto alla fede. Anteriore a Lutero di cui preparò i
miserabili trionfi, è tenuta a buon dritto in conto d'una dei
principali autori delle sanguinose rivoluzioni che desolarono la sua
patria, ed anche pel più ardente promotore della Rivoluzione che
oggidì minaccia l'Europa intera. La sua biografia quindi deve
occupare un gran posto nella storia del male moderno.
«In
questa lunga educazione dal genere umano procacciata a sé stesso,
dice Chauffour, meglio si può scoprire il principio delle cose che
non negli uomini stessi che vi hanno data l'impulso. Quanto la
società operò di riforme religiose o politiche, di leggi,
istituzioni, costumi, tutte le lotte che dovette sostenere, tutte le
azioni e tutte le reazioni si sono attuate nel loro animo prima di
mostrarsi all'aperto. E da questo appunto la biografia assume un
immensa virtù d'insegnamento (120)»
Ad
esempio della giovane generazione letterata alla quale apparteneva,
Hutten nutrito del latte pagano, non tardò ad insorgere contro le
istituzioni religiose e politiche del suo paese, contro l'autorità
della Chiesa, contro le dottrine della fede e le norme dei costumi.
Sfrontato libertino e libero pensatore, dichiara guerra a morte a
quanto si oppone all'orgoglio della sua ragione ed all'emancipazione
dei suoi appetiti. Il suo canto trionfale in onore del giovine
Capnion ne segna la discesa in arringa. Capnion o Reuchlin, a buon
dritto combattuto dai teologi di Colonia e dagli ordini religiosi
(121) diventa col fatto l'eroe dei Razionalisti, e i suoi avversari
si fanno ignoranti, mascalzoni, barbari da cui bisogna sbarazzare la
terra che disonorano di loro presenza.
«Cingetevi
i fianchi, teologastri, loro grida Hutten, e affrettatevi a fuggire.
Siam più di venti congiurati alla vostra infamia e ruina. Lo
dobbiamo alla innocenza di Capnion, alla vostra scelleratezza, alla
repubblica delle lettere ... La sorte è gittata, impossibile
l'indietreggiare. No, i Turchi non son più esosi di costoro!... Qual
pontefice si iniquo ha osato imporne il loro giogo? E qual imperatore
sì vile l'ha tollerato»? (122)
Il
trionfo di Capnion non è che uno sperimento ed è tosto seguito
dalla famosa satira dal titolo Epistolae obscurorum virorum,
Lettere degli uomini neri. Mentre Poggio nascosto coi suoi degni
amici riversa l'odio e il ridicolo su gli uomini religiosi e sulle
istituzioni dell'evo medio, Hutten, riparato nel suo castello di
Steckelberg, compone insieme con Croto Rubiana, Reuchlin ed alcuni
altri, la diatriba in cinque cento pagine che «fu tanto fatale ai
frati ed al papato» (123). Gli scherzi di buono e di cattivo gusto,
le calunnie, le empietà, le grossolane ingiurie, le oscenità, vi
sono sparse a larga mano. Precursore di Voltaire, Hutten combatte
tutto con l'arme del ridicolo e la storia dei santi e le reliquie e i
pellegrinaggi. Come Voltaire, cerca, con odiosa profanazione, i suoi
più acuti sarcasmi nella Santa Scrittura, i cui fatti e le cui
massime indegnamente travisati si trasformano sotto la sua penna in
sacrileghe facezie.
Per
un nuovo tratto di conformità che prova come lo spirito figlio del
Rinascimento sia lo stesso in tutti i paesi, la Satira di Hutten
ottenne lo stesso successo delle Facezie di Poggio .. Le
edizioni si moltiplicano in latino ed in italiano. Tutti i letterati
d'Italia, di Francia, di Germania, del Brabante e d'Inghilterra ne
fanno loro delizia (124). Narrasi che Erasmo guarì d'un accesso,
tanto aveva riso alla lettura di questo odioso libello.
Fatto
animoso dal successo, Hutten continua la sua guerra insensata. Dopo
gli avamposti attacca il cuore stesso della piazza. In questi nuovi
combattimenti, altro non fa che seguir l'esempio dei Rinascenti
d'Italia. Vide Roma e ne recò la stessa impressione che, Boccaccio,
Poggio, Bembo, e più tardi Lutero, Montaigno, Rabelais. Di là venne
a Parigi. «Vi si incontrò, dice il suo panegirista, nei liberi
pensatori Lefebvre d'Etaples, Budée, Copp e Rueil e se ne
cattivò l'amicizia. Gli indusse a prender parte alla guerra da lui
intrapresa contro la barbarie scolastica, o piuttosto ne li confermò,
perché da lungo tempo quei nobili; ingegni avevano abbracciato
questa causa (125).
La
costante preoccupazione di Hutten di questo tempo è formare una
santa lega dei liberi pensatori contro gli oppressori dello
spirito umano. «Piacque a Dio, scrive egli al conte di Nuenar
(1517), che tutti rimanessero confusi gli avversatori del
Rinascimento delle lettere ... Se la Germania volesse credermi si
libererebbe dalla cancrenosa piaga (i frati) prima di pensare a
combattere i Turchi, cosa per altro al pari necessaria; perché ai
Turchi in fin dei conti non disputiamo che l'impero, mentre soffriamo
fra noi i distruttori delle scienze, dei costumi, della religione»
(126).
Non
basta ad Hutten sollevar la Germania contro la Chiesa. Al pari di
tutti i liberi pensatori del Rinascimento, vuole una una rivolta
generale dell'Europa contro il cristianesimo. «E però continua
incessante la sua vasta cospirazione anticristiana di quanto in
Francia, in Germania, in Italia, emergeva per scienza, genio,
nobiltà, o merito; a collegare più strettamente i suoi proseliti sì
da condurli a un assalto generale e decisivo (127).
«Ulrico
di Hutten e i suoi amici, precursori della riforma rappresentano la
reazione dell'antica incredulità contro le idee fondamentali della
religione e della rivelazione. Hutten e i suoi partivano dal punto
di vista d'un grossolano paganesimo ... Ulrico di Hutten fu il
Catilina alemanno del XVI secolo ... Fu un ultrarazionalista che in
cuor suo onorava Cicerone come un santo apostolo. La sua brutale e
grossolana incredulità pagana ridesi del cielo e dell'inferno come
d'un assurda fiaba di preti» (128).
Il
trionfo del libero pensare eccita la sua gioia. Scrive all'amico
Pirckeimer: «Il nostro partito ogni giorno più guadagna terreno. I
consiglieri dell'imperatore, quelli dei principi si fanno con noi; e
per ciò chiamiamo i principi Mecenate ed Augusto, non perché
meritino questi bei nomi, ma per far nascere in essi una generosa
emulazione. Sinora non siamo male riesciti. Erasmo continua a
produrre. Guglielmo Budée, il più dotto dei nobili francesi e il
più nobile dei dotti, sta compiendo le sue annotazioni sulle
Pandette. Ecco dunque pel momento due Ercoli, sterminatori dei
mostri: Erasmo e Budée ... Arroge Lefebvre che lavora sì bene in
filosofia ... O secolo, o lettere, come è dolce ora la vita
quantunque non sia ancor tempo di riposare! La tua ora è sonata o
barbarie; cingiti i fianchi e parti per un eterno esilio» (129).
Il
miglior modo d'affrettar la partenza della barbarie e liberar
l'Europa dalla cancrenosa piaga del monachismo è attaccar la Chiesa
che propugna gli ordini religiosi, e dovunque li invia a diffondere
la barbarie. Hutten lo comprende. Nel 1519 il fedele rinascente mette
in luce Tito Livio e avventa contro la corte di Roma e i suoi legali
tre dialoghi zeppi di fiele e d'ironia. In pari tempo si fa a
combattere lo stessa papato, pubblicando contro S. Gregorio VII una
diatriba che sfrontatamente dedica a Leon X. Questi colpi che fan
gran rumore nell'esercito dei liberi pensatori, non sono che il
preludio d'un più violento assalto. Ben tosto comparisce la Triade
romana. Ne pesa il far conoscere altrimenti che accennandola col
titolo una produzione che il medio evo non avrebbe creduta possibile,
e che il solo paganesimo coll'insaziabile suo odio del cristianesimo
poteva ispirare. Ma gli è necessario snebbiare, se pur ne è tempo
ancora, gli occhi degli onesti; i quali si ostinano a negar l'origine
del libero pensare, e le sue tendenze dopo l'apparizione in Europa al
tempo del Rinascimento.
La
Triade romana è un dialogo i cui interlocutori sono Hutten,
ed un suo amico Ehrenhold. Hutten racconta a questi ciò che della
corte di Roma gli disse un viaggiatore per nome Vadisco. «Tre cose,
dice Vadisco, mantengono in fama la corte di Roma: la potenza del
papa, le reliquie e le indulgenze. Tre cose portano seco reduci da
Roma i viaggiatori: una mala coscienza, uno stomaco guasto, una borsa
vuota. Tre cose non trovate a Roma: la coscienza, la buona religione,
la fede del giuramento. I Romani ridono di tre cose: delle avite
virtù, del papato di san Pietro e del giudizio finale. Tre cose
siete sicuri di trovare in Roma: veleno, antichità, e piazze vuote.
I Romani vendono pubblicamente tre cose: Cristo, le dignità
ecclesiastiche e le donne. A Roma i poveri mangiano tre cose: cavoli,
cipolle ed agli, e i ricchi: il sudor dei poveri, i beni scroccati e
le spoglie della Cristianità. Roma ha tre sorta di cittadini: Simon
Mago, Giuda Iscariota e il popolo di Gomorra. Roma è la fonte impura
da cui derivano a tutte le nazioni la furfanteria, la corruzione, la
miseria e i popoli non si adopereranno ad inaridirla»? (130)
L'opera
tutta procede nello stesso stile. Tale fu la impressione prodotta da
questo libello, massimamente in Germania, che ormai niun nome più
odioso in questo paese della corte Romana (131).
E
nondimeno, notevole cosa! nei suoi più grandi trasmodamenti, il
semi-protestante Hutten non fa che ripetere a modo suo le diatribe
avventate contro Roma dai suoi predecessori, i Razionalisti cattolici
d'Italia, Lorenzo Valla, Machiavelli, Poggio, lo stesso Bembo. Ecco a
che era giunto lo spirito cristiano fra i Rinascenti di questo tempo.
Né
basta: odonsi ora da un capo all’altro di Europa i logici del
libero pensiero appellarsi alla forza per estirpare il cristianesimo
ed a buon dritto tutti gridano allo scandalo. «Il dispotismo
religioso, dicono, non può essere estirpato senza uscire della
legalità: cieco chiama contro sé la cieca forza» (132). Or
è bene il far sapere a chi mai l'ignorasse, come i Razionalisti
feroci da noi citati, e quei che citeremo ancora, altro non siano che
i continuatori di Hutten e dei loro antenati del secolo XV.
Questo
uomo che scriveva col pugno in su la spada, volge a sé stesso
una tale domanda: «Ma se potessimo emanciparci senza versar sangue?»
E risponde: «Il sangue cada sul capo di coloro che rinunciar non
vogliono alla loro ingiusta tirannia. Feriamo, se gli è d’uopo,
di spada chi della spada si è valso ....
Purgheremo
la città di Roma e il suo senato: restituiremo all'imperatore la
capitale dell'impero: riporremo il papa a livello degli altri
vescovi: diminuiremo la rendita dei preti e il loro numero: ne
conserveremo appena uno su cento. Quanto a coloro che si chiamano
FRATI ... li sbandiremo interamente. E distruggendo i
conventi... avremo molte risorse su cui far capitale ... daremo una
mano ai Boemi che prima di noi si sottrassero a questa marmaglia
rapace, e l'altra ai Greci che si separarono soltanto dalla
tirannia romana: Non indietreggerò mai d'una linea di quanto ho
detto: rimarrò libero perché non pavento la morte. Hutten
non si farà mai schiavo d'un sovrano straniero, per grande che sia,
e meno poi del papa: perché crederei disonorarmi e chiamar su me la
collera divina, se adorassi la bestia dalle cento teste» (133).
Tali
sono parola per parola i voti ed i progetti del principe dei liberi
pensatori del Rinascimento. E perché non manchi alcun tratto della
somiglianza fra Hutten e gli altri Razionalisti dei tempi suoi,
all'emancipazione della ragione il fiero apostolo unisce
l'emancipazione della carne. l vergognosi trasordini ai quali Hutten
si abbandona, e di cui non arrossisce, gli procacciarono un turpe
morbo, che dopo averlo tormentato tutta la vita, lo trascinò alla
tomba di trentasei anni (1524): orgoglio e vanità: ecco tutto il
Razionalismo antico e moderno. Gli scritti di Hutten, assecondati dal
pennello di Holbein e di Cranach, sortirono in Germania una voga
senza pari e la popolarono di liberi pensatori. Tutti diventarono
proseliti di Lutero e ferventi apostoli del Protestantismo. I loro
nomi e i loro scritti sono conosciuti; e faremo senza di citarli,
avendolo già fatto nella nostra storia del Protestantismo.
Aggiungiamo
soltanto che in Germania; come in Italia, la generazione dei liberi
pensatori figli del Rinascimento e padri del Protestantismo si è
senza interruzione continuata sino ai dì nostri. Reuchlin ed Ulrico
di Hutten dan mano a Buschio, Barzio, Camerario, Cornelio Agrippa, il
ristoratore del Mercurio Trismegisto, che meritò
coll'impudente suo razionalismo le censure della chiesa e con la sua
vena satirica l'odio di tutti i colleghi (134); a Giacomo Acconcio
che nel suo libro de Stratagematibus Satanae, predica il
disprezzo del clero e l'apatia in materia di religione: a Kant, ad
Hegel e ad altri infiniti. Di mano in mano che questa generazione
ingrandisce formula più nettamente le proprie idee. Dagli attuali
razionalisti della Germania, come Heine, Feuerbach e moltissimi
altri, l'Europa udì bestemmie e gridi di rivolta contro l'ordine
religioso e l'ordine sociale, tali che lo stesso inferno pareva non
ne potesse profferire di somiglianti.
____________________
CAPITOLO
XII.
IL
RAZIONALISMO DOPO IL RINASCIMENTO.
INGHILTERRA,
SPAGNA, BELGIO.
Dall'Italia
il Razionalismo passa in Inghilterra. - Testimonianze. - Guasti che
vi produce. - Prepara il protestantismo. - Dopo il Rinascimento
continua a regnare in questo paese. – Il signor Alloury. -
Razionalismo in Spagna. - Testimonianze. - Nel Belgio. -
Testimonianze. – In Polonia e nel Settentrione. - Prove. - Erasmo,
tipo ed apostolo del libero pensare. - Sue opere. - Sua influenza. -
Scandalo delle sue lettere. -Singolare giustificazione dei
Rinascenti. - Il Razionalismo nato dal Rinascimento, sempre vivo nel
Belgio. - Che debba pensarsi della presente educazione.
***
Cisner,
Caye, Linacer, di cui abbiamo dato un'idea della vita nel
Protestantesimo e molti altri giovani inglesi del secolo XV,
diffusero nel loro paese il libero pensare ch'erano venuti ad
attingere in Italia alla scuola dei Greci di Costantinopoli e dei
primi rinascenti. La semente non tardò a fruttificare. Ben tosto
l'Inghilterra, al pari dell'Italia e della Germania, si coprì di
Razionalisti e si trovò preparata al Protestantesimo. Udiamo un
autore inglese di quel tempo: «Che dirò dell'Inghilterra divenuta
la sentina di tutte le dottrine velenose? Grande è, fra noi il
numero degli atei. Il nostro popolo ora, somigliante alla tribù di
Gad, corre ad occhi chiusi in braccio ai seduttori. Più non si
battezzano fanciulli, più non si fa comunione; la stessa orazione
dominicale è venuta in uggia» (135).
Un
altro soggiunge: «Non v'ha eresia, non bestemmia, non enormità in
fatto di dottrina che non si trovi o che non nasca in Inghilterra.
Dal principio del mondo in poi mai non si videro tante mostruose
opinioni quante fra noi» (136).
Fra
i Razionalisti, o, come allora si chiamavano, ateisti, senza pudore e
senza ritegno discernevasi il troppo famoso Briand che Enrico VIII
chiamava suo vicario generale nell'inferno (137). Intorno a
quel libero pensatore d'alta levatura si raccoglieva una moltitudine
di Razionalisti di secondo ordine che infettarono l'Inghilterra di
loro perniciose dottrine. Cosa che non s'era mai veduta nell'Europa
cristiana, prima del Rinascimento, l'ateismo vi fu pubblicamente
insegnato e come i filosofi pagani loro maestri e loro modelli, i
professori di questa mostruosa dottrina ne trassero arditamente
l'ultima, l'inevitabile conseguenza, il materialismo più grossolano.
«Abbiamo qui, scrivevano due autori inglesi, professori che
pubblicamente insegnano l'ateismo. Precipuo articolo di loro fede è
che il cristiano per nulla differisce dalla bestia, che non renderà
conto dell'operar suo, ma che morra come gli animali e non
risusciterà mai» (138).
Il
gesuita Durée, nella sua risposta a Witaker, stabilisce, sulla
testimonianza degli stessi Inglesi che l'Inghilterra contava un
infinito numero di Razionalisti empi tanto da non trovare altro nome
per indicarli fuor quello di atei (139). Ecco una testimonianza più
grave ancora. Il celebre Cass, professore di filosofia ad Oxford,
premunendo la gioventù contro l'ateismo che invadeva l'Inghilterra,
così si esprime: «Cosa orribile a dirsi, eppur non vuolsi tacerla:
v'ha gran numero ai dì nostri di audaci tanto da sostenere che Dio
non esiste. Di che tempi viviamo! Se non avessi veduto, se non avessi
udito questi mostri, certo non avrei sì a lungo né con tanto calore
trattato un simile argomento» (140).
A
voler citare tutti gli atei famosi, tutti gli empi, tutti gli
increduli, tutti gli epicurei, tutti i settari impuri, ridicoli o
fanatici, in una parola tutti i liberi pensatori che comparvero in
Inghilterra dal Risorgimento sino ai nostri giorni, basterebbe appena
un volume. Si conoscono i Cranmer, i Buchanan, gli Hobbes, gli Hume,
i Bolingbroke, i Collins, i Milton, l'apostolo del divorzio, e del
regicidio, or cattolico, or protestante, ariano, puritano,
indipendente, sprezzatore e discepolo di tutte le religioni, che finì
col non conservare che quella del Rinascimento, la religione del
libero pensare. Vengono poi i Toland, i Tindal e quel Beverland ateo,
epicureo, le cui opere furono condannate alle fiamme dagli stessi
protestanti: generazione innumerevole che vive ancora e che manifesta
la propria esistenza con un odio satanico contro la verità, col
materialismo più completo e finalmente con oscenità che la polizia
inglese è costretta a condannare arrossendo. Or se domandate a
questa generazione quale sia la sua origine vi additerà in
Inghilterra, come in Germania e in Italia, non il Protestantismo, ma
il Rinascimento. Coi volterriani francesi, vi risponde, colla storia
alla mano: «Siamo figli del Rinascimento prima di essere figli
della Rivoluzione: dire che la Riforma è uscita dal Rinascimento,
non è calunniare il Rinascimento, è solo raccontare quali diversi
effetti produsse a seconda dei luoghi e delle circostanze»
(143).
Ad
onta dell'Inquisizione, la cattolica Spagna non sfuggì al contagio
del libero pensare. Partendo dal Rinascimento, gli atei pratici vi si
fecero numerosissimi, massimamente fra i grandi e letterati. Si
possono per tal riguardo consultare gli autori francesi del
sedicesimo secolo: prima di difendere il proprio paese dalla taccia
d'ateismo mossa loro dagli Spagnoli provano con numerosi documenti
che la stessa zizzania pullulava nell'antica Iberia. La necessità
d'essere brevi ne costringe a rimandare il lettore ai loro scritti, e
fra tutti all'opera di Perrier intitolata Il cattolico di Stato
(144).
Citiamo
solo Sepulveda accalorato rinascente, grande amico di Aldo Manuzio,
di Pomponaccio, di Musurus, che nel commercio dei pagani e dei loro
ammiratori pone tanto in non cale gli elementari principi del diritto
cristiano, da osar sostenere contro Las Casas aver gli Spagnuoli il
diritto di uccidere gli Indiani come bestie. Fra molti altri il
Portogallo vide uscir dalla scuola del Rinascimento Emanuele de Faria
tre volte apostolo del libero pensare, e nella sua filosofia
indipendente, e nelle sue poesie oscene, e nei suoi costumi
licenziosi (143).
Che
dire del Belgio e dei Paesi Bassi? In queste contrade Erasmo spera
aver pel primo covato l'uovo del libero pensiero, dal quale Lutero
fece sbucciare il Protestantismo. Ego peperi ovum Lutherus exclusit.
Tale il padre, tale il. figlio; tale il principio, tale la
conseguenza: e però il' celebre Voigt non esita a chiamare il Belgio
del Rinascimento l'Africa di tutti i mostri del libertinaggio e
del fanatismo (144).
L'olandese
Francesco Junius scrive del suo paese e segnatamente d'Amsterdam,
esser l'asilo degli atei, e rinvenirvisi un considerevole sciame di
persone che a gara si precipitano nell'ateismo. Tale è l'audacia di
questi liberi pensatori che negano l'esistenza di Dio, gli angeli, i
demoni e l'immortalità dell'anima (145).
Lo
stesso flagello interamente sconosciuto nel Rinascimento desola la
Polonia, la Danimarca, la Svezia e la Livonia (146). Avremmo qui una
folla di nomi a far conoscere, accontentiamoci di citarne un solo che
riassume pel settentrione d'Europa lo spirito del Rinascimento in
fatto di costumi e dI credenze. Erasmo era il tipo e l'apostolo del
Razionalismo quale poteva mostrarsi di quel tempo in un paese
socialmente cattolico. Fanatico dell'antichità pagana nulla nel
medio evo e quasi nulla nel cristianesimo trova grazia dinanzi a lui.
Vent'anni prima di Lutero la sua vena satirica, diffuse contro le
istituzioni religiose e sociali della vecchia Europa, contro i frati,
contro i teologi, contro i prelati stessi collocati al sommo della
gerarchia, epigrammi, invettive e calunnie ripetuto da tutte le
bocche.
Grazie
lo spirito volterriano desto dal Rinascimento le opere di Erasmo
ebbero un pazzo successo. Simone di Colines che ristampò i colloqui
nel 1527, ne tirò ventiquattromila esemplari che tutti in pochi
mesi, furono smaltiti. Erano il vademecum d'ogni letterato,
uomo o donna. Si leggevano pubblicamente nei collegi, sino a che i
cardinali, incaricati da Paolo III della riforma degli abusi ne
proibirono la lettura (147). L'Elogio della pazzia (148) che
per la prima volta vide la luce nel 1505 con caricature d'Holbein,
ebbe quasi cento edizioni. È una diatriba in 528 pagine contro papi,
cardinali, teologi, predicatori e massimamente contro gli ordini
religiosi. I grandi e i principi batterono le mani, vedendo posta in
deriso la spirituale potenza che pazzamente consideravano siccome
rivale della propria: non sapevano che loro volta verrebbe (149).
Quanto abbiamo detto dei Colloqui e dell'Elogio della
pazzia, possiamo ripeterlo degli Adagi.
In
Erasmo come nella massima parte dei letterati del Rinascimento,
l'emancipazione della carne si accoppia all'emancipazione della
ragione. Non parliamo né del quadro che Scaligero ne lasciò della
condotta d'Erasmo (150), né delle oscenità di cui Erasmo bruttò le
sue opere; stiamoci paghi a citare alcuni passi delle sue lettere.
Vedete quanto costui, prete e religioso, scrive ad un suo amico per
indurlo a portarsi in Inghilterra, ove il Rinascimento trionfa e
dà i naturali suoi frutti. «Se tu conoscessi bene i pregi
dell'Inghilterra, voleresti in questo paese e se la gotta ti privasse
del ministero dei piedi, vorresti essere Dedalo. Per non accennare
che a pochi fra i tanti piaceri che si gustano in questo paese, vi si
trovano ninfe di sovrumana beltà, carezzevoli e compiacenti, e che
senza dubbio preferiresti alle tue muse. V'ha di più un uso che non
può essere abbastanza encomiato. Se tu arrivi, tutti ti accolgono
coprendoti di baci: se parti, non ti lasciano andare che dopo averti
baciato; se torni, ti rinnovano i baci: da qualunque parte tu torni
riceverai baci. Se avessi provato come son dolci e soavi, daresti le
spalle al tuo paese non per dieci anni soltanto come fece Solone, ma
vorresti morire in Inghilterra (151)» Qui forse non vuolsi sclamare:
«che! un sacerdote tiene siffatto linguaggio? Non un sacerdote del
medioevo in cui non trionfavano le belle lettere, ma un sacerdote al
pari di Erasmo nutrito d’autori pagani in onta della Chiesa e quale
il Rinascimento ne formò in tanta copia. Notiamo come tutte queste
empiezze siano sparse di rimembranze pagane. Era il genere di moda in
allora: per noi è il certificato d'origine.
Gli
è curioso assai il vedere come i rinascenti sacerdoti e religiosi si
provino giustificare la gelosa cura adoperata ad abbellir le loro
opere di pagane rimembranze, e il loro infaticabile zelo a
raccogliere gli avanzi artistici o letterari dell'antichità. Gli uni
spendevano la loro vita di cristiani, preti e religiosi, a restituire
un testo alla vera lezione, a rettificar l'ortografia d'un nome, a
raccoglier varianti, frammenti sparsi di qualche autore; altri a far
tesoro di tronchi di colonne, di busti, di piedi, di braccia, di nasi
di alcune statue pagane, sprezzanti com'erano dei più bei monumenti
della letteratura e dell'arte cristiana. Chi lo crederebbe? A
giustificare i suoi fratelli e sé stesso da somigliante fanatismo;
che dico? a mostrar che forma parte dei doveri del clero, il celebre
Stefano Ricci, traduttore, annotatore, commentatore tedesco delle
Georgiche di Virgilio, non esita a invocare l'autorità di
Gesù Cristo, che avrebbe comandato questo genere di lavoro, e
l'interesse della Religione alla quale sarebbe indispensabile.
«Il
Figlio di Dio Nostro Signor Gesù Cristo, dice egli comanda a suoi
apostoli di raccogliere i rilievi dei miracolosi pasti, perché non
vadano perduti. Tal precetto non deve solamente riferirsi alla
trasmissione della dottrina evangelica alla posterità, ma altresì
alla conservazione dei frammenti dei buoni autori e dei buoni
artisti in qualunque parte si trovino. In fatti le lettere e le
arti sono doni di Dio, i soccorsi necessari della vita umana e gli
ornamenti indispensabili della Chiesa. Non arrossisco del lavoro al
quale mi sono consacrato, poiché tende a raccoglier le briciole
degli autori classici, a farne vantaggiare la gioventù, e ad
impedire che una colpevole negligenza non le faccia perire (153)».
Gli
è facile rispondere a Ricci che v'è arte ed arte, letteratura e
letteratura, filosofia e filosofia; che se gli è utile conservare
quanto v'ha di veramente buono nell'antichità, gli è cosa poco
degna d'un prete e d'un cristiano consacrar la vita a tal genere di
occupazione, massimamente quando, per un'odiosa preferenza, nulla si
trascura per salvar dall'oblio i resti del Paganesimo, mentre si
sprezzano, o si lasciano nell'ombra i più begli e i più utili
monumenti dell'arte, della letteratura o della filosofia cristiana:
Haec oportuit facere, et illa non omittere.
Checché
ne sia, la generazione dei liberi pensatori, tedeschi, belgi e
bavari, alla quale, anteriormente a Lutero, diedero origine Erasmo,
Reuchlin, Hutten, si perpetuò fino ai nostri giorni. La vediamo al
sesto secolo popolar l'Aia, Amsterdam, Rotterdam e inondar l'Europa
delle sue dottrine; al secolo XVII si personifica in Olanda nello
scettico Spinosa, come al XVI s'era personificato nel Belgio in
Marnix del Monte Sant'Aldegonda. Ad esempio di Erasmo questo nuovo
libero pensatore pubblicò (1571) il suo Alveare romano.
Questo libro rimpinzito di burlevoli racconti, fu da tutti i
letterati accolto con incredibili applausi, cagionò moltissime
defezioni al Protestantismo, e fece più danno alla religione che non
avrebbe fatto un libro pensato e dotto. «I Colloqui d'Erasmo, dice
un autor protestante, avevano prodotto il medesimo effetto (154)».
Più
audace, più che cresce, questa generazione per cui nulla è sacro,
proclama ora in mezzo a un concerto di lodi, le dottrine crudamente
prudoniane di Marnix. Stendendo la biografia del suo avolo
illustre «Marnix dice il sig. Quinet, non ha voluto soltanto ad
esempio d'altri scrittori, discutere la Chiesa di Roma contro un
punto letterario. La lotta é seria e a ultimo sangue. Non si
tratta soltanto di rifiutare il papismo ma di estirparlo: non
solo di estirparlo: ma di disonorarlo, non solo di
disonorarlo; ma come voleva l'antica legge germanica contro
l’adulterio, di soffocarlo nel fango. Tale é lo scopo di
Marnix. Ecco il perché dopo la dialettica la più forte, la più
dotta, la più luminosa stende l'obbrobrio sul cadavere che trascina
nella grande cloaca di Rabelais. Non cercate più dunque la
capitolazione del nostro tempo. È un libro non di furberia, ma di
verità, senza mercede e senza misericordia. Se volete essere
illusi nol leggete. Quanto ci promette, ci dà. Per chiunque l'avrà
letto fino al fine il domma cattolico sarà interamente sparito
(155).
___________________
CAPITOLO
XIII.
IL
RAZIONALISMO DOPO IL RINASCIMENTO - FRANCIA
Rabelais
continuatore di Poggio. - Montaigne libero pensatore ed epicureo nei
suoi scritti. - La Boetie. - Charron. - Budée. – Copp. – Rueil.
Lefebvre d'Étaples. - Lamothe-Levayer.- Bayle. - Bodin. -
Cartesio.»
***
«Non
si trovano atei o Razionalisti in Francia prima del regno di
Francesco I, né in Italia, se non dopo la presa di Costantinopoli».
Ecco quanto ne scrive Spizelio, Tomasio, Bayle ed una folla d'altri
autori. «Di quello stesso tempo, aggiunge Voltaire, un ateismo
funesto, che é il contrario del teismo nacque in pressoché tutta
Europa (156)». Con l'istoria alla mano demmo prova di ciò rispetto
alle altre nazioni, ne resta ora a dimostrarlo per la Francia.
Di
tutti i corpi dotti la Sorbona fu con l'università di Colonia,
quella che con maggior energia si oppose al Rinascimento del
Paganesimo. In questa lotta decisiva che cambiar doveva la faccia
dell'Europa si distinsero fra tutti i due celebri dottori Beda e
Gabriele di Puyherbaut. Per lungo ordine d'anni lamentarono con
scritture assennate non meno che eloquenti, la disastrosa influenza
del moto insensato che trascinava il loro secolo verso la pagana
antichità. Sventuratamente la voce profetica non fu udita. Corte e
città, re e parlamento, università e poeti intendevano a gara a far
fiorire in Francia la bella letteratura, la bella poesia, la bella
filosofia che Germania, Inghilterra ed Italia massimamente vantavansi
aver trovate alla scuola dei Greci venuti da Costantinopoli. Ben
tosto gli ordini furono rotti e il libero pensiero si riversò sulla
Francia, che, fino a quel punto cattolica, vide sorgere nel suo seno,
come nel resto d'Europa, tutta una generazione di Razionalisti. Gli
uni coi loro ragionamenti, gli altri coi loro canti, questi con le
oscenità del loro pennello e del loro bulino, quelli coi lavori
filologici, pressoché tutti collo scandalo flagrante di loro vita,
riscossero le credenze e i costumi corruppero. Contentiamoci di
citare alcuni nomi.
Epicureo
e libero pensatore, Poggio è il tipo, come il primo in data, dei
Rinascenti italiani. Rabelais fu il Poggio della Francia. «Per
essere uno sciagurato in tutte le regole non gli mancava alcun vizio,
scrive il suo contemporaneo Gabriele de Puyherbaut; non cercate in
lui né timor di Dio, né rispetto per gli uomini. Si pone per egual
modo sotto i piedi le cose sante e le umane, e si ride di tutto. Qual
Diagora ha mai parlato peggio di Dio? Qual Timone ha mai più
insultato l'umanità? (157)
Prima
macchia di Rabelais è il gettare a piene mani il ridicolo su
l'ordine religioso e sociale del medio evo, su la Chiesa che l'aveva
ispirato e sugli ordini monastici coi quali la Chiesa la difendeva.
In tutta Europa fu questa la macchia dei Rinascenti, sacerdoti e
laici: Poggio, Machiavelli, il Mantovano, Erasmo e una moltitudine
d'altri. Nel suo Pantagruel, Rabelais vince tutti i suoi
predecessori. Empietà e oscenità senza nome, insieme con calunnie
odiose e di grossolana gaiezza, trovate nella satira atroce contro i
frati. Per lo spirito libertino, la licenza, l'incredulità che
respirano le altre opere di Rabelais,come le lettere, il suo
Gargantua, i suoi sogni (Songes drolatiques), formano
uno scandalo immenso e continuano, ingrossandolo, il torrente
d'oscenità, aperto dalle Facezie di Poggio. Arroge che gli
scritti di Rabelais, al pari di quelli di Poggio, furono accolti con
plauso ed ebbero molte e molle edizioni. Ad accrescere il trionfo
dell'ateismo e della corruzione, di cui furono fra noi i primi
propagatori, il bulino ti apre dinanzi agli occhi le nefande scene
che Rabelais presenta all'immaginazione.
Rabelais
non era ancor disceso nella tomba (1553) che un altro libero
pensatore, figlio pure del Rinascimento, ne continuò l'opera. Meno
scapestrato, più cortese, più moderato del curato di Meudon,
Michele Montaigne, nato nel 1533, combatte con deplorabile successo
quanto v'ha di più sacro fra gli uomini, le credenze e i costumi. Né
alcuno si meravigli se poniamo Montaigne fra i Razionalisti e gli
epicurei. La vera fede è sempre affermativa ed il libero pensare ora
affermativo, or negativo, a tenore del capriccio della ragione. Se si
poté immaginare il Cristianesimo di Montaigne, si può assai
più agevolmente immaginarne lo Scetticismo. In lui trovi due
uomini: il pagano, figlio dell'educazione letteraria, e il cristiano,
figlio dell'educazione materna. Chi lesse i suoi Saggi non può
menomamente revocare in dubbio quanto asseriamo.
Dio
tolga sospettiamo della sincerità di Montaigne, quand'egli scrive
che sottomette l'opera sua «alla Chiesa cattolica apostolica e
romana nella quale muoio e nella quale son nato (158). Diremo
solamente che i più famosi liberi pensatori d'Italia, come
Pomponaccio, Nifo, Cardano, fecero la stessa professione di fede.
Aggiungeremo solo con Tiraboschi che a norma dell'adagio legale:
contro il fatto non vale protesta. Protestatio facto
contraria non valet. Or contro Michele Montaigne sta il fatto. È
un cristiano o un libero pensatore che di quel modo ragiona del
suicidio? «La più volontaria morte è la più bella: la vita
dipende dall'altrui volere, la morte dal nostro. In nessuna cosa
dobbiamo tanto assecondare il nostro talento, quanto in ciò; l'onore
è salvo, è follia temere infamia» (159)
Con
tutta la sua fede alla cattolica Chiesa, depositaria esclusiva della
verità, Montaigne cade frequente in eccessi di scetticismo. A
proposito dei cannibali trova che abbiamo torto di chiamarli
selvaggi, perché più di noi s'avvicinano alla nostra grande e
possente madre natura. Giunge sino a negare alla verità il suo
assoluto carattere, sino a non far più dell'umana intelligenza che
un zimbello dei pregiudizi. «Altro modulo non abbiamo noi, dice
egli, della verità e della ragione che l'esempio e l'idea delle
opinioni e delle consuetudini del paese in cui siamo. La è sempre la
religione perfetta, la perfetta polizia, il perfetto e compito uso
d'ogni cosa (160)».
Altrove,
immemore di tutte le regole cristiane del pudore, confessa aver la
bocca sfrontata (161), e scrive racconti che per la loro
brutalità non hanno nulla ad invidiare ai più o meno famosi coi
quali il sedicesimo secolo allettava la sua immaginazione libertina.
Non accenneremo nemmeno alla lontana certi capitoli che, sotto titoli
innocenti, racchiudono inqualificabili oscenità.
Più
oltre all'umiltà cristiana, al distacco evangelico dal mondo e dalla
vita sostituisce la fredda e orgogliosa filosofia degli stoici, che
pretende bastare a sé medesima (162); poi discute sulla morte alla
maniera di Cicerone o di Seneca, accende un'ultima
volta la cinica lanterna di Diogene per visitare tutte le tenebre
della sua anima; anatomizza la malattia e il dolore, e finisce
invocando, come supremo bene, la mediocrità, la sanità di anima e
di corpo, una onorata vecchiezza, sonnecchiando al soave canto delle
Muse con una strofa d'Orazio.
Tuttavia
all'accostarsi della morte, l'umanista sparisce per dar luogo al
cristiano. Montaigne fece celebrare la messa nella sua camera e morì
con sentimenti che ne giova sperare gli avranno fatto trovar grazia
presso Dio. Checché ne sia Montaigne è a detta sua propria, un tal
meticcio quale il medio evo non ne conobbe, uno di quei liberi
pensatori che sono la larva della bonomia e della reverenza per la
religione più che mai contribuirono a rendere fra noi popolare il
doppio libertinaggio del pensiero e della parola. E però la Chiesa
giustamente lo condannò e per lo scetticismo di cui fa pompa e per
la immondezza dei suoi scritti. Il mirabile si è che ad esempio
d'Erasmo e di Voltaire si ride anche degli autori pagani che adora e
che lo han pervertito. Tutti questi savi, questi capiscuola, questi
maestri del pensiero, questi famosi precettori dello spirito umano,
da Pitagora che adombrò dappresso la verità, ma non la
raggiunse, sino a Socrate che va sempre domandando ed
eccitando la disputa, sino a Platone che altro non è che uno
sbrigliato poeta, vede tutti questi maestri della naturale
sapienza, dubitare, negare, contraddirsi, cercare la verità,
com'essi dicono, e al menomo raggio di quella fuggirne abbacinati e
sprofondarsi nelle tenebre del loro orgoglio e nella belletta delle
loro passioni. E conchiude: or fidatevi alla vostra filosofia:
vantatevi d'aver trovato il pel nell'uovo: al veder quei filosofoni
menar tanto fracasso per un mucchio di sapienti asinerie gli è roba
da far le meraviglie! (163)»
Alla
scuola di Montaigne appartengono molti discepoli, tra gli altri il
democratico la Boetie e Charron razionalista più pagano del suo
maestro: deista, sociniano che combatte l'immortalità dell'anima e
predica l'immoralità (164). Vengono ancora Budée, Renil, Copp,
Lefebvre d'Etaples; poi la Mothe-Levayer, una folla d'altri e Bayle
che tutto in sé li riassume. Degno figlio del Rinascimento, apostolo
del libero pensare, scrittore d'oscenità nauseanti, Bayle si
definisce da sé stesso. Sono Giove aduna-nubi, tutto il mio
ingegno sta nel formare dubbi. E altrove: non sono né
luterano, né calvinista, né anglicano, né cattolico: son
protestante, perché protesto contro tutto ciò che si dice e tutto
ciò che si fa.
Su
una linea parallela procedono Bodin e i liberi pensatori politici
usciti dalla scuola di Machiavelli, e la cui dottrina tutta pagana
s'è riassunta ai nostri giorni nel celebre motto: la legge è
atea e debbe esserlo.
Più
non finiremmo se citar volessimo tutti i razionalisti che pullulano
in Francia dal Rinascimento sino al secolo di Luigi XIV. Veniamo al
francese che primo formulò nettamente la filosofia del dubbio,
ed eresse il libero pensare in sistema: abbiamo nominato Cartesio.
Senza scrutarne le intenzioni, senza ricominciar l'esposizione tante
volte data dal suo metodo filosofico, basti a farsi giusto concetto
di lui il ricordare che il suo sistema fu censurato dalla Sorbona,
proscritto dagli stessi protestanti e condannato dalla Santa Sede;
che diè origine a Spinosa, il geometra dello scetticismo e
dell'ateismo, giusta il pensiero di Bayle (165); e fu accusato dalla
censura della sua filosofia d'avere attinto la maggior parte
dei suoi principi nell'opera di Giordano Bruno (166) magnificato da
tutti i liberi pensatori come padre del Razionalismo di cui ha dato
la formola.
«Al
cancelliere Bacone, sclama d'Alembert, succedette l'illustre
Cartesio. Quest'uomo tutto possedeva per cambiar la faccia della
filosofia. Cartesio osò insegnare alle buone menti a scuotere il
giogo della scolastica, dell'opinione, dell'autorità: in una parola
dei pregiudizi e della barbarie, e con questa rivolta di cui oggi
noi raccogliamo i frutti rese alla filosofia un servigio forse
più essenziale di quanti essa deve agli illustri suoi predecessori.
Si può considerarlo come un capo di congiurati, che osò sorgere
il primo contro un potere dispotico ed arbitrario e che
preparando una luminosa rivoluzione, gettò le fondamenta d'un
governo più giusto e più felice che non poté vedere statuito»
(167).
Né
meno esplicito è Condorcet. «L'antico sapere, dice egli, conservato
nei libri greci, che i letterati espulsi da Costantinopoli faceva
conoscere all'Italia, rianimò il gusto delle scienze. Cartesio con
un genio più vasto e più ardito venne a porre l'ultima mano alla
Rivoluzione. Ruppe le catene di cui l'opinione aveva gravato lo
spirito umano, e portando ad un tempo su tutti gli oggetti dati
alla nostra intelligenza la sua audace ed ardita filosofia, assicurò
per sempre alla ragione i suoi diritti e la sua indipendenza»
(168).
«A
Cartesio, spirito indipendente, continuano i Razionalisti dei nostri
giorni, ardito innovatore, genio di singolare potenza, piaceva troppo
comporsi egli stesso le proprie idee, affidarsi al suo intimo
sentimento, per non riconoscere l'autorità della ragione,
individuale, e il diritto che possiede di esaminare e giudicare ogni
maniera di dottrine. È gloria di Cartesio l'aver proclamato e
praticato questi principi e d'esser l'autore di quella intellettuale
riforma che recò suoi frutti al XVII e XVIII secolo, e che ora
più che mai esercita la sua influenza sul mondo filosofico. Ora in
fatti grazie a Cartesio siamo tutti protestanti in filosofia come lo
siamo tutti, grazie a Lutero, in religione» (169).
A
tali testimonianze che facile sarebbe moltiplicare contentiamoci
d'aggiungere quella della rivoluzione francese. Quando facendo
conoscere al mondo la sua genealogia, cercò i propri avi per
vantarsene, da figlia riconoscente si guardò bene dal tacer di
Cartesio. Alcuni giorni prima di collocar la Ragione su gli altari
della Francia rigenerata, decreta l'apoteosi del moderno filosofo che
ella tiene in conto del maggior apostolo della Dea. Il documento
seguente assai poco conosciuto gioverà ad edificare i filosofi
cattolici, che si ostinano a difendere il Razionalismo o il
semirazionalismo cartesiano.
Il
mercoledì 2 ottobre 1793 Chenier, in nome del Comitato di pubblica
istruzione, sale alla tribuna e propone di collocare Cartesio nel
Panteon accosto a Voltaire ed a Rousseau. Ad ottener questo onore si
fa forte: 1° della necessità di manifestare agli occhi d'Europa il
rispetto della Rivoluzione per la filosofia sua madre: 2° della
piena giustizia che una nazione fatta libera diventando filosofa
debba rendere all'uomo prodigioso che insegnò all'umanità ad
esaminare e non a credere. «Quindi è che il vostro Comitato
domanda per Renato Cartesio gli onori del Panteon francese; e però
la nazione francese e la Convenzione nazionale saranno associate alla
gloria di questo profondo pensatore, che piantò per così dire la
fiaccola sulla via dei secoli e la cui esistenza segna un'epoca
notevole nella storia del genio umano».
Lo
stesso giorno la Convenzione decreta quanto segue:
«Art.
1. Renato Cartesio meritò gli onori dovuti agli uomini grandi.
«
Art. 2. Il corpo di questo filosofo sarà trasferito al Panteon
francese.
«Art.
3. Sulla tomba di Cartesio saranno scritte queste parole: In nome
del popolo francese la convenzione nazionale a Renato Cartesio. 1793.
Anno II della repubblica.
«Art.
4. Il comitato di pubblica istruzione fisserà col ministero
dell'interno il giorno del trasporto.
«Art.
5. La convenzione nazionale assisterà in corpo a questa solennità.
Il Consiglio esecutivo provvisorio e le diverse autorità costituite,
stanti nel recinto di Parigi, vi assisteranno egualmente. - A Parigi
il sedicesimo giorno del primo mese dell'anno II della Repubblica
francese una ed indivisibile. - L. G. Charlier presidente. Pons (de
Verdun) e Louis (del Basso Reno) segretari (170)».
La
nomenclatura di tutti i liberi pensatori francesi sorti da Cartesio
ne condurrebbe troppo oltre. Basti pel momento ricordare che anziché
spegnersi, questa generazione di Razionalisti sviluppasi al secolo
diciottesimo in Voltaire, Rousseau, d'Alembert, d'Holbach, Elvezio,
Lamettrie, negli enciclopedisti, nei parlamentari e nella nobiltà di
corte. Trionfante nel ‘93, ridotta al silenzio sotto l'impero,
ricomparisce sotto la Ristorazione. Sotto Luigi Filippo ripiglia
l'antico stile, s'impianta dovunque, insegna nei giornali, nelle
rassegne e nelle pubbliche cattedre. Ora continuando l'opera sua
attacca con più circospezione forse, ma non con minore ostinatezza e
perfidia, il Cattolicismo su tutti i punti, proclama altamente il
naturalismo pagano invece del soprannaturalismo cristiano, la
religione di Socrate invece di quella di Gesù Cristo, e minaccia la
Chiesa e la società delle più formidabili prove che mai abbiano
subite.
___________________
CAPITOLO
XIV.
IL
RAZIONALISMO DOPO IL RINASCIMENTO. FRANCIA
Desportes
- Regnier. - Amyot - Malherbe - Saint Evremond.- Motto
di madama di Maintenon. - La pleiade poetica. - Sacrificio del capro.
- Gli artisti insegnano il libero pensare. - Loro opere. - Effetto
dell'insegnamento letterario ed artistico del libero pensare. -
Ateismo dogmatico e pratico. - Gran numero d'atei in Francia. –
Testimonianze.»
***
Al
Razionalismo filosofico vedemmo accoppiarsi in Italia il
Razionalismo morale, cioè l'emancipazione della ragione
cagionò l'emancipazione della carne. Gli epicurei o come si
chiamavano all'epoca del Rinascimento, gli ateisti pratici,
non si annoverano in minor numero degli atei speculativi. Così fu in
tutto il resto d'Europa e soprattutto in Francia. Gli apostoli
dell'ateismo pratico furono in Francia come in Italia gli umanisti
d'ogni genere, d'ogni colore, i poeti e gli artisti.
Qui
ancora appaghiamoci di citare alcuni nomi fra le centinaia che ne si
presenteranno. Uno dei primi traduttori francesi dell'epicureismo
pagano fu Desportes. Imitatore di Bombo, e come lui passionato
ammiratore del Rinascimento, del quale aveva veduto le opere in
Italia, il degno abate passa una parte di sua vita a comporre
erotiche poesie. Tale era allora l'entusiasmo per quanto ricordava il
genere antico, che alcuni re francesi, Enrico III e Carlo IX,
pagarono a prezzo d'oro le opere di Desportes. Un sonetto gli fruttò
un abbazia e le sue poesie parecchi benefici che gli producevano più
di 10.000 scudi di rendita. La maggior parte dei suoi componimenti
son versioni dei più licenziosi poeti dell'antichità. Tibullo,
Ovidio, Properzio, imitazioni del libidinoso Ariosto, o elegie,
st-atlZ8 edancbe canzoni alle quali si vogliono aggiungere due libri
degli amori di Diana ed uno degli amori di Ippolito.
Desportes era abate di Bon-Port e canonico della santa cappella di
Parigi! Essere ecclesiastico e profanar così il proprio ingegno, il
proprio carattere, la propria vita! è certo uno scandalo; con tutto
ciò, ed anzi a cagione di tutto ciò, godere del favore del
pubblico, non è uno scandalo mille volte più grande e che mostra a
quel punto recato fosse il fanatismo del Rinascimento?
D'allora
in poi se si arrossisce, non si meraviglia di vedere di quel tempo un
gran numero di sacerdoti, religiosi ed anche prelati,camminar sulle
tracce di Desportes, popolarizzare nel regno cristianissimo l'opere
più immorali della Grecia e di Roma, aggiungervi le proprie
elucubrazioni, ed averne in compenso gli applausi di tutta la classe
atea, i favori dei re ed anche le ecclesiastiche dignità (171). Fra
tutti coloro che l'interesse solo della grande e santa causa ne
costringe a nominare, si segnalò il nipote stesso di Desportes,
Regnier, canonico di Chartres. Sacro alla satira sua musa, per
parlare il linguaggio del Rinascimento, non rispettò né le
opinioni, né i costumi. Regnier, pervertito dal suo commercio coi
pagani è un'anima nella quale non v'ha più una parola di Evangelo.
Ebbro di fiele lo riversa alla cieca su quanti gli spiacciono, e bene
spesso con una brutale licenza. Tutta voluttà, spaventa il meno
timido pudore ed a ragione Boileau, dice di lui:
I
suoi sermoni offesa a casto orecchio
Fean
prova dei bordelli in cui soleva
Il
poeta inspirarsi, e i suoi sarcasmi
D'ogni
pudico eran spavento.
Il
prete che si permettesse adesso di scrivere la menoma parte delle
oscenità cadute dalla penna del canonico di Chartres sarebbe
giustamente e infallibilmente interdetto. Invece d'un castigo troppo
meritato, Regnier fu premiato dei suoi versi, blandito dai grandi,
applaudito dagli umanisti, provveduto di parecchi benefici, e dotato
su una badia, d'una pensione di due mila scudi. Epicureo nei versi,
Regnier non l'era meno nei costumi. I beni sacri di cui godeva non
servivano che a soddisfare la sua immoderata propensione ai piaceri.
«Vecchio a trent'anni, dice il suo biografo, morì a quaranta,
interamente consunto dagli stravizzi».
Mentre
Desportes e Regnier corrompevano coi versi i costumi del loro secolo,
altri ecclesiastici intendevano in prosa a quest'opera di
distruzione, con un non meno scandaloso successo. Costretti alla
brevità non citeremo in questa nuova categoria che il famoso Amyot.
Esordì nel mondo letterario con la versione degli amori di Teagene e
di Caricle, osceno romanzo di Eliodoro d'Emesi. Questa sciocca e
nauseante lubricità gli valse la badia di Bellozane. Incoraggiato
dal successo, tradusse gli amori di Dafni e Cloe, altro
romanzo greco più osceno ancora, che, gran mercé alle incisioni di
Audran, non contribuì meno alla corruzione dei costumi della famosa
Coppa dell'Aretino o delle Facezie di Poggio. Amyot era
in voce di saper il greco e il latino classici; faceva professione
d'adorare il Rinascimento, e non ostante le infamie della sua penna,
fu eletto precettore dei figli di Francia, ch'egli educò alla scuola
di Plutarco; cavaliere dello Spirito Santo, gran cappellano di Carlo
IX, abate di San Cornelio di Compiegne e vescovo di Auxerre!
I
quali incoraggiamenti solenni, e che non possono trovar spiegazione,
se non nel fanatismo dell'antichità, attrassero sull'orme di questi
fortunati ecclesiastici una folla di letterati d'ogni classe e
d'ogni colore avidi di denaro e di onori. I limiti dell'opera nostra
ne astringono a non far motto di Maret e Marot, e di quello sciame di
Catulli, romanzieri, umanisti osceni che disonorarono la letteratura
del sedicesimo e diciassettesimo secolo. Ricorderemo soltanto alcuni
nomi fra i più conosciuti nella genealogia dei Razionalisti
epicurei. Accanto a Regnier, troviamo Malherbe. Questo poeta dei
principi e principe dei preti, come chiamavasi, disonora il suo
ingegno con l'estrema licenza del linguaggio, col suo amor sfrenato
delle donne, con la sua avarizia, la sua collera, le sue
impertinenze, le violenze del suo carattere, e le asprezze del suo
umore. Degno rampollo del Rinascimento la sua influenza fu grande
sulla classe letterata, di cui esprimeva in eleganti versi i sensi e
i pensieri. Fu dei primi a dar l'esempio di quella volterriana
apatia per la religione sconosciuta in Europa prima del
Rinascimento, e fattasi poi comune tanto, che sembra ormai passata
nei costumi di tre parti degli uomini e della metà delle donne. Più
non rispettando la religione che le donne, gli sfuggiva detto
sovente: non aver i galantuomini altra religione fuor quella del
loro principe.
La
qual professione d'ateismo aveagli inspirata la seguente risposta. Se
i poveri gli domandavano la limosina dicendo: pregheremo Dio per
voi, loro rispondeva sghignazzando: «Non credo abbiate gran
credito presso lui, se vi lascia sì male in arnese. Vorrei piuttosto
raccomandazioni presso il signor de Luynes per Luigi XIII di cui è
favorito». Tali i discorsi quale la condotta.
Ma
tanta era ancora di quel tempo l'influenza del cristianesimo sulle
consuetudini esterne, che Malbherbe non osava, più di Voltaire,
dispensarsi dal debito quella confessione e della comunione annuale:
lo spirito però di quest'atto ad un tempo si eminentemente religioso
e sì eminentemente sociale, Malherbe nol comprendeva più della
maggior parte dei liberi pensatori del Rinascimento. In articolo di
morte, ricusava confessarsi sotto pretesto che non aveva preso la
consuetudine di farlo che a Pasqua. Un giovane gentiluomo suo amico
trovò il segreto di vincerne la ripugnanza. «Avete, gli disse,
fatto professione di vivere come gli altri, e bisogna morire
com'essi. - Che volete voi significare? domandò Malherbe - Quando
gli altri muoiono ripigliò il gentiluomo, si confessano, si
comunicano e ricevono l'estrema unzione. - Avete ragione», soggiunse
Malherbe, e per conformarsi al costume mandò a cercare il vicario di
San Germano. Ora l'istoria soggiunge che il confessore parlandogli
della felicità dell'altra vita in istile poco accademico, e
domandandogli se non provasse desiderio di goder quanto prima di
quella felicità, il moribondo gli rispondesse: «Non me ne parlate
più; il vostro cattivo stile me ne ha nauseato» (172).
Alla
scuola di Malherbe, erasi formato Saint- Evremond, le cui poesie
sortirono un sì meraviglioso successo che il libraio Barbin pagava
autori perché ne scimmiottassero lo stile. Allievo dei gesuiti di
Parigi e vero Rinascente per la forma e per la sostanza,
Saint-Evremond è un nuovo specimen dello spirito delle classi
letterate del secolo di Luigi XIV. La licenza del linguaggio insieme
col libertinaggio dello spirito e del cuore, il naturalismo in fatto
di virtù, il sensualismo in fatto di consuetudini, con un certo
esteriore di religione, ecco Saint-Evremond come uomo e come poeta.
A
tutti è noto, scrive Bayle, che Saint-Evremond non fu preparato alla
morte né da alcun ministro, né da alcun sacerdote. Ho udito
assicurare che l'inviato di Firenze gli spedisse un sacerdote, e che
avendogli questo ecclesiastico domandato se non voleva riconciliarsi:
Ben volentieri, rispondesse il malato, vorrei riconciliarmi con
l’appetito perché il mio stomaco non fa più le solite funzioni.
Ho veduto versi da lui composti quindici giorni prima di morire, e
non rimpiange che l'esser ridotto ai brodi lunghi e il non aver più
forza di digerir pernici e fagiani (173). Per fama, per nascita, per
lunga carriera, Saint-Evremond è uno dei poeti liberi pensatori che
maggior influenza esercitasse sui letterati e sulla gioventù del suo
tempo. La loro pratica filosofia è la sua. Gli è anche certo che la
maggior parte trascorresse più in là di Saint-Evremond, e che al
pari di lui non si astenesse dal far la religione argomento di
buffonerie. Fra molte prove, ecco una linea di madama di Maintenon
che vale essa sola a mostrare a che punto era disceso, sotto Luigi
XIV, lo spirito cristiano nelle classi alte: «I progressi del duca
di Borgogna nella virtù erano manifesti da un anno all'altro.
Dapprima beffato da tutta la corte, era diventato l’ammirazione di
tutti i libertini» (174). Al nipote di Luigi XIV, sotto gli occhi
dell'avolo volgeansi siffatti scherni. Tant'è vero che di questo
tempo lo spirito pagano era gentiluomo: che più tardi s'è fatto
borghese, e che perciò adesso è divenuto popolare.
Terminiamo
la lista dei Razionalisti epicurei, figli del Rinascimento con alcune
parole sulla pleiade poetica del secolo XVI. Componeasi d'Antonio
Baif, Stefand Jodelle, Gioachimo di Bellay, Enrico Bellau, Pier
Ronsard, Pontus di Tyard e Gian Dorat. Eran tutti liberi pensatori, e
amanti dell'allegra vita, cioè Rinascenti di costumi e di credenze
(175); Questa pleiade fu immaginata da Ronsard, ad imitazione di
quella dei Greci. Dapprima vi fu ammesso Jodelle. Se la lubricità la
più nauseante merita un siffatto onore, nessuno n'era più degno.
Non diremo né dei versi suoi, né di quelli degli altri membri della
pleiade. Un solo tratto della loro vita farà conoscere questi nuovi
pagani e i loro troppo numerosi compagni.
Nel
1522, si raccolsero in numero di cinquanta e andarono ad Arcueil a
far carnevale. «Il caso, dice Binet nella vita di Ronsarcl,
fece loro incontrare un capro, che diede occasione ad alcuni di essi,
dopo averlo ornato d'una corona di fiori, di condurlo nella sala del
banchetto, tanto per far mostra di sacrificarlo a Bacco, quanto per
presentarlo a Jodelle: il capro era fra gli antichi il premio del
poeta tragico:
Carmine
qui tragico vilem certavit oh hircum,
dice
Orazio. Infatti il capro così ornato, e con la barba dipinta fu
spinto vicino alla tavola, e dopo aver fatto ridere la brigata fu
cacciato e non sacrificato a Bacco.
Tale
è la versione di Binet. Ma un contemporaneo, Chandieu, assicura che
il capro fu realmente sacrificato, e rimprovera Ronsard di avere con
questo sacrificio commesso un atto d'idolatria. La qual cosa non deve
far meraviglia. In Roma stessa Pomponio Leto offrì molti sacrifici a
Romolo. Checché ne sia, Binet soggiunge: «Non vi fu alcuno dei
convitati che non facesse versi in onore del capro ad imitazione
degli antichi baccanali. Ronsard fra gli altri ne compose sotto
il titolo Ditirambi in onore del capro di Stefano Jodelle poeta
tragico (1).
Se
niente manifestava la crapula più dei loro simposi rinnovati dei
Greci, niente era più osceno dei loro discorsi. Naudé volendo
giustificare un Rinascente delle innumerevoli lubricità di cui lordò
le sue opere, ne getta la colpa sul costume generale dei letterati
di quei tempi. «I costumi più osceni, dice egli, erano sì
famigliari agli umanisti d'allora che quando si legge il Boccaccio,
Poggio, Aretino Casa, Castiglione, Pacifico Asulano, Giulio Grotto,
Puccio, Luigi Cenzio, Filelfio, Codro, Suptabina, Mazzuccio Franco e
i loro pari, gli è forza convenire, che l'impudenza, la perversità,
l'oscenità, l'empietà hanno vomitato tutto il veleno contro Dio,
contro i suoi ministri, contro le persone pubbliche e private e
contro ogni onestà ed ogni pudore» (177).
Quanto
i poeti e i prosatori del Rinascimento facevano per la mente,
facevano gli artisti per gli occhi: dappertutto, in Francia, come in
Italia, le arti subirono l'impulso della letteratura; il fatto è
tanto conosciuto che non abbisogna di prove. Non un'infamia
dell'antichità pagana, storica o mitologica, greca o romana,
studiata in collegio, tradotta dagli umanisti, cantata dai poeti, che
trasformala in pittura, in scultura, in incisione, non venisse a far
mostra di sé, nelle nostre città, nelle nostre gallerie, nei nostri
palazzi, e che non bandisse con deplorabile successo il sensualismo e
la immoralità. E però al pari dei loro maestri e confratelli
d'Italia, la maggior parte degli artisti francesi figli del
Rinascimento, meritano a tutta ragione gli anatemi di Salvator Rosa.
Chi volesse darci nota di rigorismo, visiti il Louvre, Versailles,
Anet, Compiegne, Fontainebleau, il museo di Cuny , le residenze
reali, principesche o borghesi, decorate al Rinascimento, e da
quell'epoca sino ai giorni nostri.
Or
questo insegnamento del libero pensare e del sensualismo, questo
insegnamento venuto dall'alto, sempre applaudito, sempre presentato
all'immaginazione, agli occhi, a tutte le facoltà ed a tutti i
sensi, non poteva fare a meno di produrre i suoi frutti (178).
Negli
animi la impazienza del giogo della fede, il Razionalismo; nei cuori
la leggerezza dei costumi, la corruzione, l'epicureismo, in due
parole l'ateismo dogmatico e pratico. Alle particolari prove che
abbiamo fornite di questo deplorabile risultamento, aggiungiamo prove
generali. Non essendo in certo modo che individuali mal potrebbero le
prime legittimare una assoluta conclusione: le seconde invece
derivando dall'insieme dei fatti bastano a meraviglia a
caratterizzare un'epoca.
Prova
che i liberi pensatori fossero numerosissimi in Francia dopo il
Rinascimento del Paganesimo, si è dapprima quella moltitudine
infinita di difese, apologie, trattati, dissertazioni, di continuo
pubblicate a propugnar l'esistenza a Dio, la divinità di Gesù
Cristo, i miracoli, l'immortalità dell'anima, tutti gli articoli del
simbolo cattolico. La difesa suppone l'attacco; una difesa generale,
incessante, continuata in tutta Europa, e segnatamente in Francia, da
quattro secoli, fa supporre un attacco generale, incessante,
continuato in tutta Europa e segnatamente in Francia da quattro
secoli. Né lo scisma, né l'eresia attaccano il Cristianesimo da
tutte le bande. Di quella guerra generale quale è dunque il
principio se non il libero pensare o il Razionalismo, che deificando
la ragione, la costituisce giudice supremo d'ogni divino
insegnamento? Tale è il fenomeno di cui il mondo è testimonio dopo
il Rinascimento, ed unicamente dopo il Rinascimento.
Passiamo
alle testimonianze della storia. Sul principiare del secolo XVII, un
autore celebre, Gregorio di Tolosa, scriveva: «Si contano in Francia
più di sessantamila atei (179)». Giuseppe Scaligero, nato ed
educato in Francia, afferma la stessa cosa (180). Nel suo trattato
contro gli atei, Alessandro Capelle non esita a dire: In
Francia vi è adesso un maggior numero di uomini senza religione ed
atei che non ve ne fosse ai tempi del Paganesimo (181)».
Il
dotto P. Mersenne che si trovò a lungo in correlazione con le alte
classi sociali, ne dà pure spaventevoli cifre. «Nel 1623, dice
egli, la sola città di Parigi contava più di cinquanta mila atei:
in una sola casa trovate talora sin a dodici che professano questa
mostruosa dottrina. Chi s'avvisasse sospettarmi d'esagerazione sappia
che in Francia e negli altri regni la moltitudine degli atei è tale
da far meraviglia come Dio li lasci vivere (182). Narrato il
supplizio di Vanini (183), l'autore soggiunge: «Ma come la superbia
non ha limiti e va sempre crescendo, ha fatto nascere ai giorni
nostri e nel cuore della nostra Francia dalle ceneri di questi
sciagurati un'altra setta che sotto l'attrattiva d'un nome più
specioso, propina un veleno assai più fatale del primo. I complici
di questa fazione assumono il nome e il titolo di deisti (184). E
altrove volgendosi al cardinale Richelieu, dice, tanti sono gli atei
in Francia che gli è a temere l'ateismo non succeda all'eresia
(185)».
Un
uomo di alta levatura della corte di Luigi XIII esprime lo stesso
pensiero del P. Mersenne: «Il numero degli atei dice egli, è enorme
(186)». Lo stesso ripete un altro scrittore del medesimo tempo: -
«Quantunque nessuno fra noi faccia pubblica professione di negar la
immortalità dell'anima e la risurrezione dei morti, nondimeno la
vita all'intutto epicurea della maggior parte degli uomini è indizio
manifestissimo che non credono all'altra vita. Se nol dicono in
pubblico, il dicono nelle loro cene (187).
Definendo
i letterati di Francia come quelli del resto d'Europa, Lutero ch'era
del numero dice: «Credono come porci, vivono come porci, muoiono
come porci (188)». E Calvino, quell'altro missionario del libero
pensiero: «Il loro principio, dice egli, è il fatalismo, in virtù
del quale tutto venendo da Dio, tutto è buono, anche la fornicazione
e l'adulterio (189)».
Abbiamo
veduto testimoni non sospetti, eccone altri che non son meno
incensurabili. Il gesuita Cornelio a Lapide giudica il suo tempo e la
Francia in particolare, come il P. Mersenne: «Dal Razionalismo, dice
egli, è venuto l'epicureismo. Si è sviluppato tanto e fa ogni
giorno tali progressi che Calvino stesso si meraviglia esservi nel
solo regno di Francia, sciami di dotti che lo predicano, e una
infinita moltitudine di discepoli che lo praticano (190)».
Un
altro gesuita, il P. Antonio Sirmond, parla come il suo confratello,
e dice che in Francia gli epicurei che negano la immortalità
dell'anima sono tutt'altro che pochi (191).
Abbandonati
senza ritegno ai loro appetiti il decalogo di questi pratici
razionalisti si riassumeva nel motto supremo d'uno di essi: «Perduto
è tutto il tempo che in amor non si spende» Un terzo gesuita,
il padre Garasse, contemporaneo dei precedenti, riporta un fatto che
conferma tutte le testimonianze citate. Nel 1608, il celebre Nicola
Rapin cadde malato a Poitiers. La sua vita trascorsa
nell'indifferenza religiosa fece temere non rifiutasse gli ultimi
sacramenti. Dopo molte difficoltà, finì con l'acconsentire a
ricevere il P. Giacomo di Moucy gesuita. Tocco dalla grazia si
confessò; dopo la confessione, sentendosi presso a morte disse:
«Sono felice; ma non so ciò che abbia potuto meritarmi la grazia
ricevuta. Tutto il bene che mi ricordo aver fatto dopo la mia
gioventù, fu d'aver impedito che l'ateismo non si insegnasse
pubblicamente in Parigi (192)». A tale erano giunti in Parigi
sotto il rispetto della fede i letterati classici cento anni prima
del Rinascimento.
E
non credasi già che questo ateismo si riducesse ad una vana parola,
una specie di titolo di gloria; come più tardi quello di grue
e spiriti forti, compatibile, nel gran numero colla fede. Il
contrario emerge dagli scritti del tempo (193), e in particolare dal
simbolo di quegli ateisti, che pullulavano non solo in Francia, ma
nel resto d'Europa; i quali piaceansi ripetere l'adagio: «Muore la
mente col corpo: mens perit et corpus».
Ecco
questo simbolo fedelmente estratto dalle loro opere da un antico
autore:
Articoli
negativi: «Nego le sostanze incorporee; nego una intelligenza eterna
sovranamente perfetta: nego la provvidenza di Dio: nego la
immortalità dell'anima umana: nego le pene dell'altra vita: nego la
divinità e l'autenticità della Scrittura: nego i miracoli di Mosè
e di Gesù Cristo».
Articoli
affermativi: Affermo essere il mondo o la natura la sola divinità:
che non fu creato e non finirà mai: affermo che la religione non è
che un puro trovato della politica: affermo che l'ateismo è la
religione naturale e dei più grandi uomini: affermo che gli
istitutori delle religioni positive sono impostori: affermo che i
sacerdoti di tutte le religioni sono tanti ipocriti che altro non
cercano che di insaccar denaro: affermo che gli adoratori della
divinità sono una mandria di imbecilli: affermo che quanto si dà
come soprannaturale e viene attribuito a Dio è puramente naturale:
affermo che i miracoli altro non sono che panzane o effetto
dell'immaginazione di coloro che dicono averli veduti: affermo che
l'ateo è miglior cittadino del teista: affermo, che la religione è
dannosa agli Stati (194).
Gli
atei, pratici od epicurei erano ancora in maggior dato degli atei
speculativi. A torme a torme gli annoverano gli storici dei tempi
nelle corti e nelle classi superiori della società. «Allora, dice
Delaplanche, ingegni curiosi maligni, dati ad ogni maniera di
perversità sorsero a torme, gli scritti dei quali turpi e
nefandi, e pieni di bestemmie sono tanto più detestabili che
abbarbagliano con orpelli che possono far cadere non solo in ogni
brutta ed esosa lubricità, ma altresì in qualunque empietà coloro
che li tengono fra mano». (195)
Un
altro storico che per la sua posizione fu a lungo in correlazione
continua coi grandi e letterati del suo tempo, il presidente de Thou,
di tal modo si esprime: «Coloro che passavano in rassegna i
disordini del regno di Enrico II non contarono per meno funesta degli
altri la miriade di Catulli, Anacreonti, Tibulli e Properzi, ciò è
di poeti di cui riboccava la sua corte, e che corruppero la gioventù,
resone schifa l'infanzia degli studi seri, e finalmente strapparono
colle loro lascive poesie il pudore dal cuore delle fanciulle»
(196).
L'
epicureismo aveva numerosi discepoli i cui esempi più corruttori
ancora degli scritti dei poeti recarono l'immoralità in tutte le
vene della società, superba d'essere in ogni cosa figlia del
Rinascimento. «Sotto Enrico III, dice Mezerai, la più sfrenata
licenza regnò nelle feste di corte. Il re correva il ballo in abiti
da fanciulla ... Diè un banchetto tra gli altri a sua madre in cui
le donne servivano vestite da uomini. La regina gli rese il
contraccambio con un altro in cui le più belle dame fecero lo stesso
ufficio, snudate il petto e sparsi i capegli (197)». La sfrontatezza
non finì col sedicesimo secolo. «L'inverno del 1608, dice Sully, si
spese tutto in divertimenti ancora più grandi, e nelle feste con
molta magnificenza preparate: alcune costarono sino ad un milione e
dugento mila scudi» (198).
Già
si intende che la maggior parte degli umanisti, traduttori,
imitatori, artisti e poeti che risuscitando l'antichità pagana
avevano posto su questo piede l'Europa e la Francia, mettevano senza
freno in pratica le ricevute lezioni d'empiezza e di lubricità
(199).
__________________
CAPITOLO
XV.
ORIGINE
FILOSOFICA DEL RAZIONALISMO MODERNO.
Il
Rinascimento vero padre del Razionalismo. - I Razionalisti moderni
educati tutti alla scuola dell'antichità pagana. – Tutti ardenti
ammiratori della pagana antichità. - Tutti hanno attinto la loro
filosofia alla scuola dell'antichità pagana. - Testimonianze non
sospette. - La filosofia pagana sola ammirata, sola acclamata dai
Rinascenti. - L'Europa divisa in due campi ostili: il campo
d'Aristotele e il campo di Platone. - Entusiasmo incredibile per
Aristotele. - Fatti curiosi.
***
A
meno di non dar fede alla storia non può revocarsi in dubbio che
l'apparizione del Razionalismo e della filosofia pagana in Europa
coincida col Rinascimento del secolo XV e la giunta dei greci di
Costantinopoli. Fra mille ripetiamo la sola testimonianza di
Spizélius. «Chi oserebbe negare, dice questo autor non sospetto,
che il Rinascimento delle lettere in Italia al quindicesimo secolo
abbia riscaldato, coltivato, commentato gli antichi sistemi di
Lucrezio, d'Epicuro, d'Orazio e d’altri, come risuscitò la
filosofia greca, la medicina e la matematica; che in allora un gran
numero di professori, insegnando queste alte scienze, abbiano
propinato alla gioventù il veleno dell'ateismo sotto pretesto
dell'autorità degli antichi?» (200).
L'origine
storica del Razionalismo è dunque certa. Rimane adesso a mostrare la
sua origine filosofica. Con ciò si spiega la causa suprema che
sviluppò ad un tratto con un vigore sino allora sconosciuto il
principio di intellettuale rivolta indistruttibile nel cuore
dell'uomo decaduto; che diè sistema a questo principio e finì col
renderlo dominante. Or noi diciamo che questa causa è il
Rinascimento, cioè l'antichità pagana e soprattutto la pagana
filosofia restituita in onore e insegnata con entusiasmo alla
gioventù dapprima in Italia poscia in tutta Europa, dai Greci
espulsi da Costantinopoli e dai loro discepoli. L'origine filosofica
del Razionalismo sarà dimostrata con la stessa credenza dell'origine
storica, se stabiliamo:
Che
tutti i padri del moderno Razionalismo furono educati alla scuola
della pagana antichità, per la quale professarono una entusiastica
ammirazione.
Che
attinsero a questa scuola la loro filosofia.
Che
la loro filosofia non è che la filosofia pagana, riprodotta da essa
parola per parola in tutti i suoi errori, in tutte le sue
applicazioni ed anche in tutte le sette.
Che
la filosofia pagana altro non è nel suo principio che il
Razionalismo.
Finalmente
che le autorità più gravi pronunciano essere la pagana filosofia, e
non il protestantismo l'origine del moderno Razionalismo.
Cominciamo
dall'abbozzare l'istoria pedagogica dei principali liberi pensatori,
ateisti ed epicurei del XV e XVI secolo (201). A conoscerli basta
nominarli. Il capo dei razionalisti, italiani, Pomponaccio, la cui
filosofia tende, dice Matter, ad emancipare la filosofia dai dogmi
della religione, fu educato a Padova dal Rinascente Pietro
Trapolini, discepolo dei Greci. La passione dell'antichità invade la
sua giovane anima e l'attacca con indissolubili nodi alla cattedra
d'Aristotele. Se diventa professore a Padova, a Bologna, a Venezia,
gli è per insegnar Aristotele; se scrive, gli è per esporre i veri
sensi d'Aristotele, studiati in extenso nel testo originale;
se combatte è per difendere Aristotele come difeso avrebbe il
Vangelo.
Pomponaccio
forma Simon Porta e Nifo. Dalla stessa scuola escono, Cesalpino,
Cesare di Cremona, Simon Simonio, Pier Aretino, Cardano, Achillini,
Beroald, e molti e molti altri pedagogici più o meno in fama che
dall'alto delle cattedre di Firenze, Bologna, Venezia e Padova, si
cattivano l’opinione pubblica appassionano per l’antichità
letteraria e filosofica l'eletta gioventù accorsa alle loro lezioni
da tutte parti d'Europa.
Nutriti
dalla infanzia, di autori pagani procedono per la stessa via
Poliziano adoratore di Virgilio: Focino adoratore di Platone:
Pomponio Leto adoratore di Romolo: Lazaro Buonamico adorator di
Pindaro: Machiavelli adoratore di Tito Livio e dei Romani: Filelfo
adoratore di Demostene e dei Greci: Cosimo de’ Medici adoratore dei
Greci e dei Romani: Bembo, Guarini, Piccolomini, Poggio, Lorenzo
Valla, adoratori di Cicerone: Calderino che spende la vita a
commentar le Priapee di Virgilio, ed Ermolao Barboro, che s'intitola
pagano e libero pensatore paganus sum et spontis meae.
Giordano Bruno che ad esempio dei filosofi pagani non adora che la
sua ragione; Campanella adorator di Licurgo e Vanini che si chiama
Giulio Cesare.
Quanto
accade in Italia, accade in tutta Europa. In Germania Erasmo,
Reuchlin, Hutten, Camerario, Buschio, Barzio, Melantone, Lutero altro
non sono che giovani formati alla scuola della pagana antichità,
compresi d'ammirazione per l'antichità letteraria e filosofica: come
tutti i demagoghi della rivoluzione francese lo erano, gran mercé
agli stessi studi di collegio, per le istituzioni della pagana
antichità. In Isvizzera, Swinglio, Judd, Farel, Miconio, non erano,
come già provammo nel Protestantismo, che Rinascenti fanatizzati
dalla loro educazione.
Inghilterra,
Spagna, Francia, ne presentano lo stesso fatto, provato da tutti i
nomi conosciuti nella storia delle lettere e della filosofia di
questo tempo. Linacer, Caye, Cisner, Sepulveda, Emanuele de Faria,
Beza, Calvino, Lefebvre d'Etaples, Lefebvre di Caen, Budée, Lambin,
Murel, Bodin, Montaigne, Rabelais, Charron, la pleiade filosofica,
Francesco I, Amyot, Desportes, Regnier, Ronsard, sono allievi dei
Greci e dei Romani, appassionati pei loro maestri, imitatori,
magnificatori, entusiasti dell'ingegno, del genio, del linguaggio,
delle virtù dei loro maestri. Così dicasi degli artisti, pittori,
architetti, scultori, incisori del tempo medesimo, in tutta Europa.
Nel diciassettesimo o diciottesimo secolo l'educazione in Italia, in
Francia, in Germania, continua ad esser la stessa. Lo ripetiamo: sono
fatti questi tanto conosciuti, che sarebbe un sciupar inchiostro e
carta scrivere una linea a provarlo (202).
Ne
resta ora ad esaminare se dalla scuola del Paganesimo sia uscita la
filosofia razionalistica ed epicurea che da quattro secoli invase
l'Europa. Facciamo qui tre supposti soltanto. La filosofia
razionalistica ed epicurea che scorre a larga vena dai loro scritti
in prosa ed in verso, che manifestasi impudente nelle loro opere
d'arte, i filosofi, i poeti, gli artisti del Rinascimento e dei
secoli successivi l'hanno inventata da sé stessi; o imitata nel
medio evo, o attinta nell'antichità pagana.
Di
questi tre supposti il primo è evidentemente inammissibile.
La
storia stabilisce che i Rinascenti nulla inventarono: essi stessi si
vantano non solo di non dir nulla di loro capo, ma altresì di
parlare in versi o in prosa, di filosofare; disegnare, dipingere e
scolpire sui tipi e i modelli dell'antichità che rispettano come
perfetti regolatori del loro pensiero, della loro penna, del loro
bulino. Sicché il Rinascimento, come indica il suo nome, fu a
così dire una ricalcatura, non una scoperta, una imitazione, non un
trovato.
Il
secondo non è più ammissibile del primo. Tutti i Rinascenti,
filosofi, letterati artisti, non fanno forse professione di un
sovrano disprezzo per la filosofia, per la letteratura, per l'arte
del medio evo? Ad una voce non han chiamata quell'epoca l'epoca della
barbarie in ogni cosa? È il primo articolo del loro credo. E
si pretenderebbe che domandato avessero le loro ispirazioni alla
filosofia, alla letteratura, all’arte di quest'epoca? Ma fra tutte
queste cose quali erano al medio evo e quali il Rinascimento le ha
fatte, corre la differenza stessa che fra il giorno e la notte.
Principio della filosofia del medio evo è la soggezione della
ragione alla fede: principio della filosofia dei Rinascenti è
l'emancipazione della ragione dalla tutela della fede. Il medio evo
l'arte è un sacerdozio cristiano che cerca le sue ispirazioni e i
suoi tipi nel mondo soprannaturale: l'arte del Rinascimento è un
sacerdozio naturalista e pagano che assume ispirazioni e modelli
nella semplice natura. Ideale l'uno, l'altro plastico; l’uno
inventa, l'altra copia.
Resta
il terzo supposto cioè che il Razionalismo moderno sia figlio del
Razionalismo pagano, o piuttosto non sia che lo stesso Razionalismo
restituito in onore dal Rinascimento. Or questo, supposto è una
verità matematica, e tre prove lo dimostrano:
Prima
prova: l'insegnamento filosofico di quell'epoca. Fu quello
della filosofia pagana dato e ricevuto con tale entusiasmo che
diventò norma agli ingegni. «Quando i Greci cacciati da Bisanzio
afferrarono il suolo d'Italia, l'Europa, dice Matter, aveva una
rettorica, una logica, una filosofia, una teologia, in una parola la
scienza del mondo … L’Europa offriva un sistema quale più non
presenta ai dì nostri: dovunque la stessa fede; dovunque lo stesso
pontefice; e questo pontefice padre di tutti i fedeli... Eguale era
la situazione morale e politica di tutti, regnavano in tutti i cuori
i voti medesimi. La religione era norma alla morale ed alla politica:
il clero aveva creato o data regola a tutti gli studi, tutte le
dottrine e quasi tutte le istituzioni erano opera sua, e quell’opera
ne formava ad un tempo il regno e la gloria. L'Europa era sì ben
governata dalla religione, che a tutti i codici sovrastavano i
decreti del diritto canonico, che regolavano ad un tempo lo Stato e
la famiglia ... Quest'ordine di cose offriva non solo un carattere
altamente religioso e morale, ma presentava ancora ben determinati
rapporti, e posava su un sacro fondamento, su leggi divine, e quindi
su leggi eterne ... Tale era l'Europa, tali erano le sue istituzioni
e le sue generali dottrine prima del 1453.
Or
tutto quest'ordine, tutte queste dottrine, e queste istituzioni
gli esuli di Bisanzio vennero a scrollare dai fondamenti, a
lacerare il patto della religione e della filosofia; a separar la
politica dalla morale, ad operare una doppia emancipazione,
sostituendo all'autorità la discussione, il progresso all'immobilità
(203)».
Il
deplorabile trionfo da loro ottenuto era stato preparato. Il
Rinascimento non era sorto come un fungo sotto una quercia; aveva le
radici nell'indistruttibile concupiscenza del cuore umano e della
società! Il libero pensare segnatamente trova nel secolo XV un
ausiliario nello spirito di rivolta manifestato sia dal gran scisma
d'Occidente, sia dagli errori di Wicleffo e di Giovanni Hus, sia
dagli scritti di Dante, di Boccaccio e del Petrarca: non ci
stanchiamo di ripeterlo. Dopo averlo detto al pari di noi Matter
soggiunge: «È meraviglia che la folgore caduta, ad un tratto fra
questi elementi abbia accese sì subite fiamme e sì vivaci? Lo
scontrarsi del genio della Grecia antica col genio del tempo era lo
scontrarsi del lampo col lampo» (204). Se come siamo d'avviso
quest'ultime parole son troppo assolute, provano almeno che al
giudizio non sospetto di Matter, il genio dell'antica Grecia, recato
in Italia dagli esuli di Bisanzio, era ben il genio del libero
pensare, dell'emancipazione della ragione, in una parola del
Razionalismo.
«L'apparizione
dei greci, con tutto ciò che vi si unisce, continua il nostro
prezioso storico, diventa una specie di risurrezione della Grecia
antica, della vecchia Atene e delle sue illustri scuole ... Il
loro entusiasmo molto lungi trascorse. Pletone risuscitò tutta una
filosofia, tutta una politica sconosciuta (205) esponendo le
credenze dell’Ellade, le istituzioni di Sparta, la morale del
Portico. E tutto ciò Pletone fece conoscere con un zelo, una
sollecitudine che fece a lui stesso dimenticare d'essere cristiano
(206)».
L'opera
di Pletone di cui parla il signor Matter è intitolata De legibus.
L'empietà e la stravaganza del nuovo legislatore greco sopratutto si
dimostrano negli articoli che riguardano la religione. Riconosce
parecchi dei: gli uni di primo, gli altri di secondo ordine. Dà a
tutti questi dèi un re che chiama Zeus o Giove come appunto i
pagani. A detta sua i demoni non sono spiriti maligni: il mondo è
eterno. Al par di Platone, stabilisce la poligamia: vuol che vi siano
donne in comune. Tutto il suo libro formicola di siffatte dottrine
(207).
«Gli
è certo scrive l'autore dell'opera intitolata Comparatia Platonis
et Aristotilis, che Pletone era sì zelante platonico, da non
nutrire altri sentimenti fuor quelli del suo maestro sulla natura
degli dei, dell'anima, sui sacrifici ecc., ed ho udito io stesso
dalle sue labbra, quando, eravamo in Firenze che fra pochi anni
tutti gli uomini dovunque disseminati abbraccerebbero di comune
consenso e con uno stesso spirito, una sola e medesima religione, su
una sola predicazione che verrebbe loro fatta. E perché io gli
domandava se questa religione sarebbe quella di Gesù Cristo o di
Maometto: Né l'una né l’altra mi rispondeva, ma una terza che non
sarà diversa dal Paganesimo. Parole, le quali m'indignarono per modo
che da quel punto l'ho sempre sfuggito come una vipera velenosa
(208).»
In
quell'opera di pagana ristorazione, Pletone, era in diversi gradi
caldamente assecondato dai suoi compatrioti. «I libri pubblicati dai
Greci, aggiunge Matter, per quanto di poca levatura, commossero gli
animi più delle loro dottrine. Quei libri non erano più lezioni di
greco; formavano la più bella letteratura e la più bella
filosofia che mai fosse. Inspiravano insieme il buon gusto della
critica, l'amore della libertà, l'odio del despotismo, lo sprezzo
della barbarie. Non era un attaccarsi a quanto esisteva?
Quello a cui non riuscirono i letterati e le loro opere lo poterono i
discepoli: ed erano molti questi discepoli: tutti italiani di buon
gusto: presso che tutti principi e prelati di quel paese, e tutta la
gioventù che dagli altri emergeva: gli uni continuano a
sommettere la loro ragione alle dottrine della Chiesa; ma attingono
altri negli studi e nel linguaggio dei loro maestri più ardite
ispirazioni, una specie di rivolta contro i costumi, le dottrine,
gli usi dell'occidente (209)».
Il
Rinascimento fu una lotta generale contro quanto esisteva, e quanto
esisteva era l'Europa cristiana con la sua fede, il suo linguaggio,
la sua poesia, la sua filosofia, la sua politica, le sue tradizioni
nazionali e cristiane. E penne cristiane osano scrivere adesso che il
Rinascimento fu un magnifico moto!
A
propagarlo, la lotta cresceva nerbo alle lezioni ed ai libri. I
rifugiati di Bisanzio andavano tra loro divisi da uno scisma
filosofico; gli uni giuravano per Aristotele, gli altri adoravano
Platone. Alla loro giunta in Italia lo scisma irrompe con scandalose
discussioni che ricordano quelle dei filosofi dell'antica Grecia, e
con esagerazioni di linguaggio, di cui immediato effetto fu
l'intellettuale fermento dell'Occidente.
Al
cospetto della dotta Europa e della studiosa gioventù, Pletone e
Giorgio di Trebisonda combattono disperatamente fra loro, l'uno per
sostener Platone, l'altro Aristotele. La quistione di preminenza fra
questi due patriarchi della filosofia indipendente forma il grande
avvenimento e la passione dominante del tempo. Gli spettatori
s'infervorano e l'Europa si divide in due eserciti ostili conosciuti
sotto il nome di neoperipatetici e di neoplatonici. A
difendere la supremazia del proprio eroe ogni campo con febbrile
ardore sottopone a scrutinio le dottrine del Liceo e dell'Accademia.
Aristotele e Platone diventano pei rispettivi loro partigiani i
sublimi fra gli uomini anzi più che uomini: specie di semidei,
argomento di lodi, di amore, di sollecitudine, spinte sino alla
idolatria. Giustifichiamo le nostre parole cominciando da Aristotele.
Un
giovine membro della greca emigrazione Michele Apostolio, osò
avversare Aristotele, ed ecco tosto Bessarione così lo apostrofa:
«Mal sopportai che tacciaste di ignoranza un uomo saputo al pari di
Teodoro Gaza (210), ma che abbiate trattato si indegnamente
Aristotele stesso, Aristotele nostro maestro e guida nostra in ogni
maniera di erudizione, giusto cielo! può mai esser possibile! Per
me non credo possa trovarsi esempio di somigliante audacia …
«Posso
io compatir Pletone? O piuttosto compatirlo non posso per quanta
stima debba professarsi a un uomo della sua sorte, quando gli
sfuggono somiglianti frasi contro Aristotele. Or come potrei io
compatir voi, che non studiaste ancora a fondo nessuna di queste
materie? Credete a me, abbiate per l'avvenire in conto di altissimi
savi Aristotele e Platone. Seguiteli passo a passo, prendeteli a
guida, meditateli. Se qualche volta differiscono d'avviso, non
sospettateli d'ignoranza, non osate formar simile pensiero. Ammirate
il profondo loro sapere, e, con tutti i sensi di un'umile gratitudine
fate senno dei tesori che ne hanno procacciati. Ora massimamente che
la loro autorità, puntellata per lungo ordine d'anni su l'universale
approvazione; e, sul comune suffragio di tutti gli uomini, è
salita a tanto da non poter sperar grazia alcuna chi
s'attentasse erigersene in censore (211)».
Così
un principe della Chiesa parla d'Aristotele, padre del materialismo e
del machiavellismo, di Platone apostolo del comunismo e della
promiscuità: Se avesse avuto a difendere gli apostoli e gli
evangelisti di che frasi il grave cardinale si sarebbe valuto?
Alla
voce di Bessarione l'esercito peripatetico unisce la propria, e fa
risonare tutti gli echi dell'Europa d'un costante grido in favore
d'Aristotele. In Francia Giuseppe Scaligero fa di lui la più alta
personalità del genere umano; poi inchinandosi gli indirizza questo
omaggio. «Essere in tutto sublime, apostolo della verità, in ogni
scienza incomparabile, genio immortale, genio divino, vo' piuttosto
ingannarmi con te che aver ragione con gli altri. Chi ama te da prova
di diventar filosofo. Non la Grecia soltanto, ma l'universo intero
addottrini: di quanto è nel mondo sublunare, nulla quasi ti si può
dir sconosciuto (212)».
Le
lettere d'Olanda lo venerano a dir poco al pari dei profeti e degli
apostoli. «E tanto culto professavano, dice Brucker, i Batavi per
Aristotele che i filosofi di quel paese erano meno sdegnati a udir
parlar male di lui che ad udir mormorare della santa Scrittura»
(213).
Volumi
interi basterebbero appena a registrar tutti gli elogi compartiti
dall'Italia al filosofo di Stagira, e questi elogi si sono per
parecchi secoli ripetuti. Appaghiamoci di riferirne un solo. Nella
sua prefazione al libro dell'Ecclesiastico, il gesuita
Cornelio a Lapide di tal modo si esprime. Aristotele, capo dei
peripatetici, ridusse la morale a scienza metodica ... Nei libri di
morale spiega si perfettamente la ragion delle cose che attenendosi
soltanto all'ordine puramente naturale voi non abbisognate per nulla
dei Clementi e degli Arnobii; e per dir tutto in una parola se in
fisica Aristotele è un uomo, pei suoi discepoli, in morale, è un
Dio. E però un Italiano di raro genio, rapito di ammirazione al
veder che nei suoi libri di morale, di politica e di legislazione,
non v'era la più piccola macchia d'errore, non esitò a dire:
«Non si saprebbe se Aristotele sia più giureconsulto o
sacerdote, sacerdote o profeta, profeta o Dio: anziché
combattere, siccome meritavano, siffatte adulazioni empie e ridicole,
il buon Cornelio si contenta di soggiungere: «è troppo bello»
(214).
In
Francia, un confratello di Cornelio, il Padre Rapin, ne dà le opere
d'Aristotele come il non plus ultra della umana intelligenza.
«Aristotele, dice egli, quel genio sì pieno di intelligenza e di
ragione, scruta per modo l'abisso dello spirito umano che tutte ne
scopre le più riposte latebre ... Aristotele fu il primo, che
scoprisse la via di giungere alla scienza con l'evidenza della
dimostrazione, e di giungere geometricamente alla dimostrazione con
la infallibilità del sillogismo; l'opera la più compiuta e
lo sforzo più grande della mente umana» (215).
Agli
occhi di Casaubono i filosofi più eminenti dell'antichità, gli
stoici, non son che fanciulli a petto del divino Aristotele collocato
da un solo dei suoi libri, più di qualunque altro mortale, in seggio
sublime (216).
Averroè
soggiunge: «Prima della nascita d'Aristotele la natura non era
perfetta. In lui ricevette il suo compimento, la perfezione del
suo essere: non saprebbe andare più oltre. È l'estremo limite delle
sue forze, l'estremo limite dell'umana intelligenza».
Né
di ciò pago un altro dice: «Aristotele è una seconda natura»
(217).
Lo
Spagnuolo Medina afferma che umanamente mai non potrà spingersi a
tanto da comprendere, senza l'aiuto d'un genio, i segreti della
natura come Aristotele li ha penetrati. Credeva quindi avesse
Aristotele un angelo che lo istruisse visibilmente di mille, cose
alle quali l'umana intelligenza non potrebbe da sé stessa, pervenire
(218).
L'adulazione
non è ancor giunta al suo estremo. Abbiamo, udito neoperipatetici
far d'Aristotele il maggiore dei mortali, un sacerdote, un profeta:
eccone altri che ne fanno un nuovo Battista precursore del Messia, un
evangelista, un santo. A Tubinga un religioso spiega in cattedra la
morale d'Aristotele e dice al popolo: «Come Giovanni Battista fu il
precursore di Cristo nei misteri della grazia, Aristotele fu il
precursore di Cristo nei misteri della natura» (219).
Spanheim,
Fabricio, Agrippa, Magirio, Bayle, Burigny riferiscono che in altre
chiese di Germania erasi giunto a tanto da leggere Aristotele invece
del Vangelo (220). Che rimaneva più altro se non che canonizzarlo ed
anche divinizzarlo? Il fanatismo non si spaventa di quest'atto
d'idolatria. Dapprima comparisce un libro sulla salute d'Aristotele e
l'autore conclude come il predicatore di Tubinga che Aristotele è un
novello Giovanni Battista (221). Celio Rodiginio soggiunge con piena
logica che Aristotele fece una bella morte ed ebbe presentimenti
dell'incarnazione del Figlio di Dio (222).
Il
celebre Sepulveda, uno dei più zelanti Rinascenti del secolo XVI,
non esita ad annoverarlo fra i beati, e scrive un libro in sostegno
della propria opinione. «Io pure, aggiunge il gesuita Grester,
propendo in favor d'Aristotele come Sepulveda, del quale disapprovo
soltanto il modo di esprimersi» (223). A detta d'un testimonio
oculare parecchi neoperipatetici tenevano Aristotele come un dio, e
credevano che il contraddirgli fosse presso a poco lo stesso come con
tradire alla verità, a Dio medesimo (224).
Messi
in voga dai Greci, ogni dì ripetuti, sotto una forma o sotto
un'altra dai libri, dall'alto delle cattedre, da tutta Europa, queste
iperboli appena ora credibili si cambiano in assiomi nell'esercito
numerosissimo dei neoperipatetici. Come la gioventù avvezza a
giudicar sulla parole dei suoi maestri, sfuggir poteva alla
seduzione? Come all'uscir dai ginnasi e dalle università, la maggior
parte non avrebbe giurato essere Aristotele il maggior dei filosofi
come altri giuravano essere Cicerone il più grande degli oratori
passati, presenti e futuri, com'altri ancora che l'antica Roma e
l'antica Grecia erano le più belle cose che il mondo si avesse mai
veduto?
Conseguenza
tanto più inevitabile che queste lodi esagerate d'Aristotele
servivano di base all'insegnamento e formavano norma alla condotta
della gioventù.
Poco
infatti dopo il Rinascimento, l’autorità d'Aristotele diventò
sacra per modo nelle scuole, che quando un disputante citava
una massima di questo filosofo, l'allievo che sosteneva la tesi, più
non osava, dir transeat, ma bisognava negasse l'esattezza
della citazione o la spiegasse a suo modo, per darle un senso che si
accomodasse col punto in quistione. Di tal modo nelle nostre scuole
di teologia ci comportiamo adesso coi più illustri dottori della
Chiesa San Tomaso, Sant'Agostino e con la Santa Scrittura (225).
Non
basta: il braccio secolare elle abbandonava il Vangelo ai colpi del
Razionalismo, prende Aristotele sotto la sua protezione. Il potere si
fa scudo ai peripatetici. A Ginevra scostarsi d'una linea dalla
dottrina del maestro porta con sé la pena del bando. Ramo, condotto
al protestantismo dal suo amore per l'antichità, riparasi nella
città di Calvino sperando platonizzare o socratizzare a sua posta, e
ne è distolto dalla ricisa ammonizione che riceve da Teodoro di
Beza. «V'ha una legge fondamentale a Ginevra che i professori di
logica o d'altra scienza non si dipartano una linea dalla dottrina
d'Aristotele» (226).
In
Inghilterra chiunque si permette, anche nelle particolari
discussioni, opporre una obbiezione all'autorità d'Aristotele è
punito di forte ammenda senza remissione (227).
La
Francia va più oltre, nei due scritti (228) che eccitarono la stessa
tempesta sollevata ai nostri giorni da un'opera che a noi non
spetta il citare, Ramo osa attaccar Aristotele. Tutti i
peripatetici levansi in armi: gridasi da ogni parte all'empietà,
alla bestemmia: dicesi ch'è finita per la scienza, pel regno, per la
religione: si domanda il supplizio del fuoco pel sacrilego: la
Sorbona si raccoglie, il consiglio del re è convocato: la Francia
intera è commossa, quasi dicendo male d'Aristotele Ramo avesse
spenta nel cielo la lampada del sole (229).
Finalmente
il 10 maggio 1543 il Padre delle lettere Francesco I, che
incoraggiava la traduzione e la propagazione delle opere più
immorali dell'antichità, emanò il seguente decreto: «A richiesta
di parecchie dotte e notabili persone, abbiamo soppresso, condannato
e abolito, condanniamo, sopprimiamo e aboliamo i detti due libri:
abbiamo fatto e facciamo proibizione a tutti stampatori e librai del
nostro regno, e a tutti gli altri sudditi di qualunque stato e
condizione, di stampare o far stampare, vendere e spacciare i detti
libri sotto pena di confisca dei libri stessi e di punizione
corporale, o siano stampati nel nostro regno o in altri luoghi in
onta alla dovutaci obbedienza. E al detto Ramo di non più
permettersi tali maldicenze contro Aristotele, sotto le pene più
sopra indicate» (230).
Il
fatto seguente è più che una conferma del primo. Nel 1624 tre
filosofi antiperipatetici, Gian Bitault, Antonio Villon e Stefano di
Claves, pubblicano in Parigi tesi contrarie alla dottrina
d'Aristotele, o piuttosto tesi nelle quali dimostrano i grossolani e
pericolosi errori di questi filosofi. La Sorbona censura le tesi e ne
abbandona gli autori al Parlamento. «Il quattro settembre sulle
conclusioni del procuratore generale del re e tutto considerato, la
corte comanda che le tesi siano lacerate alla presenza degli autori:
che de Claves, Villon e Bitault sgombrino da Parigi entro
ventiquattro ore con la proibizione di riparare in nessuna città
soggetta a questa corte e d'insegnar filosofia in alcune delle
università del regno. Vietato a chiunque sotto pena della vita
fomentare o insegnar massime contro gli antichi autori» (231).
Esiliare
non è rispondere; ma il fanatismo non consentiva di credere che
Aristotele avesse potuto ingannarsi. E però il Mercurio di Francia
soggiunge: «Villon, Bilault e de Claves erano ingegni volatili più
difficili ancora a fissarsi dell'arsenico e del mercurio; oppure
erano misti incorporei che non difettavano di solfo o mercurio, ma di
sale» (232).
Nel
1629 intervenne un altro decreto del Parlamento di Parigi emanato
sulle rimostranze della Sorbona. Il qual decreto dichiara che non si
può far guerra ai principi di Aristotele senza urtar quelli della
teologia scolastica ricevuti dalla Chiesa (233). Trattati dalle leggi
come nemici della Chiesa e dello Stato i contraddittori d'Aristotele
passano per miscredenti coi quali non bisogna aver correlazione
alcuna. Epperò il celebre Paolo di Foix, sì conosciuto per le sue
ambasciate e per la sua erudizione, non volle vedere a Ferrara
Francesco Patrizio, perché sapeva che l'illustre dotto insegnava
altra filosofia fuor quella d'Aristotele. Non è forse la stessa
condotta prescritta da San Giovanni ai fedeli riguardo agli eretici?
Nec ave ei dixeritis? Riepilogando tutta la storia precedente
questo fatto dimostra la differenza che passa tra i secoli cristiani
e le età moderne. Ad una voce i padri della Chiesa condannano
Aristotele e lo bandiscono dalle scuole cristiane: al tredicesimo
secolo, si danno alle fiamme pubblicamente in Parigi le sue opere
principali: e gran mercé al Rinascimento, due secoli dopo Aristotele
è dappertutto insegnato, ascoltato come un oracolo, rispettato come
un santo e quasi adorato come un Dio.
___________________
CAPITOLO
XVI.
ORIGINE
FILOSOFICA DEL RAZIONALISMO MODERNO.
Entusiasmo
per Platone. - Testimonianze. - Storia di Marsilio Ficino.
Prepara alla morte Cosimo de’ Medici leggendogli Platone. -
Professa platonicismo a Firenze. - Suoi discepoli. - Ficino adora
Platone. - Lo loda dovunque. - Sue iperboli. - Abuso della Santa
Scrittura. - Istituisce la festa di Platone. - Fonda un'accademia di
Platone. - Il platonicismo predicato in Germania, in Inghilterra, in
Ungheria, a Roma. Fr. Patrizi scrive al papa perché sia ovunque
imposto l'insegnamento della filosofia di Platone. - Pretende sia
l'unico mezzo a convertire i peccatori e a ricondurre sulla retta via
gli eretici.
***
Intanto
che sotto gli auspici dei Greci, l'esercito d'Aristotele esaurisce in
favor del suo capo le formole dell'entusiasmo e si sbraccia a
creargli partigiani, l'esercito di Platone condotto pure dai Greci
rivaleggia in elogi pel suo generale e nulla trascura a chiamare la
gioventù sotto la sua bandiera. Avreste detto la salute di Europa
dipendere dal trionfo del filosofo stagirita o del filosofo ateniese.
Ecco un saggio dei titoli largiti a Platone dai suoi settatori: Fiume
inessiccabile; solo atleta nelle lotte filosofiche, gran sacerdote di
sapienza; Omero dei filosofi, il più eloquente degli oratori; il più
sottile dei dialettici, il più prudente dei giureconsulti, il più
savio dei legislatori; l'ottimo, massimo, il padre della filosofia,
di cui tutte le parole sono oracoli (234). Mancando ad essi le
frasi a tradurre i loro sentimenti fan capo a Cicerone e dicono con
lui: «Platone è il re dell'intelligenza e dell'eloquenza,
padrone della parola: parlò come Giove se Giove parlava, il Dio dei
filosofi, il principe del genio, l'amabile, l'ammirabile, il
pontefice della dottrina e della virtù, con cui val meglio
ingannarsi che aver ragione cogli altri» (235).
Udimmo
Gemisto Pletone, Pontano, Galea, Scaligero , Bessarione, Cardano e
molti altri dei quali sarebbe una noia il ripeter le iperboli.
Marsilio Ficino canonico di Firenze non si tiene pago di semplici
elogi. D'accordo con Cosimo e Lorenzo de' Medici fonda un'accademia,
destinata a propagare la filosofia ed il culto di Platone, salito
al cielo con Gesù Cristo. Più d'ogni ragionamento alcuni
particolari sulla vita e su gli scritti di Ficino gioveranno a far
conoscere l'entusiasmo dei neoplatonici.
«Il
gran Cosimo de' Medici, dice Ficino, padre della patria, udito avendo
un filosofo greco di nome Pletone, meravigliò tanto della filosofia
di Platone che fermò il divisamento d'un'accademia destinata a
insegnarlo. Fui scelto dall'infanzia per esserne il fondatore: mi
dedicò allo studio del greco e mi procurò tutti gli autori di cui
avevo bisogno. Mi terrò beato per tutta la vita d'esser nato nel
secolo d'oro in cui la bella antichità tratta dalla tomba splende
come sole sul mondo caduto nelle tenebre della barbarie» (236). Il
giovane Ficino si dà con tutto l'ardore allo studio di Platone che
diventa suo oracolo, suo evangelo, quasi suo Dio: «Umile sacerdote,
dice egli, ho avuto due padri, Ficino medico, e Cosimo Mediceo. Dal
primo nacqui, dal secondo rinacqui. L'uno mi confidò a Galieno
medico insieme e platonico: l'altro mi consacrò al divino Platone,
medico dell'anima» (237).
Adorator
di Platone, Ficino lo porta dovunque con sé: pensa con Platone, con
Platone parla. Per dodici anni Platone è continuo argomento ai suoi
colloqui con Cosimo de' Medici. «Debbo molto a Platone, dice egli,
ma non debbo meno a Cosimo. Le virtù che il primo insegna le ho
vedute praticate dal secondo, di cui era unica sollecitudine farsi
somigliante al tipo proposto da Platone. Ad esempio di Solone volle
sino alla fine esser discepolo di questo divino maestro. Mai non
filosofò tanto con lui quanto al momento della morte. Voi lo
sapete che eravate presenti; dopo che leggemmo il libro dell'Unico
principio e del sovrano bene, morì quasi per anelar a fruire di
quel sovrano bene col quale s'era tanto di buon grado intrattenuto»
(238).
Al
medio evo, in quei secoli di barbarie, il cristiano si studiava di
conformare la propria vita a quella di Gesù Cristo: malato gettava
gli occhi su lui, ne meditava la passione, pregava e faceva pregare
per ottenere una buona morte. Gran mercé ai lumi della bella
antichità ecco un principe moribondo, assistito da un canonico, che
invece di fargli ministrare i sacramenti, lo prepara a comparir
dinanzi a Dio leggendo Platone, e il principe muore da filosofo. E
tutto ciò nella bocca di Ficino prete cattolico è un argomento di
elogi.
Ficino
intanto era diventato professore di filosofia a Firenze: e s'intende
già che Platone insegnò per bocca del suo discepolo.
La
moltitudine accorre in sterminata folla alle sue lezioni. Firenze
diventa una nuova Accademia. I discepoli condividono l'entusiasmo del
maestro. Poliziano scrive che Ficino opera un miracolo assai maggiore
di quello d'Orfeo. Orfeo ricondusse Euridice dall'inferno, Ficino
richiamò sulla terra la sapienza del divino Platone (239).
La
maggior parte dei celebri Rinascenti assiste alle lezioni di Ficino:
e professori a loro volta propagano con ardore il platonicismo in
Italia e nel resto d'Europa. Si contano fra loro Cristoforo Landini,
Benedetto Accolta, Bartolomeo e Filippo Valori, Antonio Calderino,
Michele Mercati, Comandone, Allio, Platina, Vespucci, Demetrio di
Bisanzio, Guicciardini, Alessandro Albizi, Bibiena (240). Lo studio
appassionato di Platone produce in Ficino lo stesso effetto che lo
studio di Virgilio produsse in sant'Agostino, di Cicerone in san
Girolamo, degli autori gentili in tanti cristiani, anche religiosi e
sacerdoti: nausea della pietà, allontanamento dai libri cristiani ed
entusiasmo della classica antichità, Ficino non tiene in camera né
crocifisso, né statua della Madonna, né immagine di Santo, ma
sibbene un busto di Platone dinanzi a cui arde notte e giorno una
lampada (241). Platone è, a suo avviso, un profeta che
predisse la felicità del mondo, quando gli uomini ne abbracciarono
la filosofia; un santo di cui venera la vita, di cui ammira la
santità e la castità, soggiungendo però a voce sommessa ch'egli
era come Socrate dato a sozzi amori (242).
Tiene
per suprema felicità l'aver tradotte le sue opere. Ne parla di
continuo sul tuono del ditirambo: non trova una parola, una sola da
avventare contro le mostruose infamie di Platone nel suo libro della
Repubblica. Anzi, la promiscuità, il comunismo,
l'infanticidio, dal suo filosofo comandati, sembragli ottime cose e
basi d'uno Stato ben ordinato (243).
In
tutto quest'ordine di cose degno dei maiali vede, come i maltusiani
ed i comunisti più sperticati dei nostri giorni, il regno perfetto
della carità di cui gli uomini presenti non sono capaci; l'età
d'oro, ma che spunterà allorché la filosofia abbia preso il governo
dell'uman genere (244). Dopo questa solida apologia sfida gli
avversari di Platone a rispondere un sol motto: gli esorta piuttosto
a convertirsi al platonicismo e ad unire la loro voce alla sua per
esaltare il divino Platone». Ammirate, dice egli, la profonda
sapienza del discepolo di Socrate. Esculapio - Apollo del genere
umano, Platone aveva veduto che le leggi sulla proprietà dei beni e
delle donne, anziché la felicità degli stati ne formavano la
sventura, e volle a buon diritto sostituirvi le leggi della amicizia,
comandando che tutto fosse comune tra amici, e, togliendo così ogni
causa di scissura e di guai, procacciarne pace e felicità» (245).
Se
in queste lezioni Ficino si volge ai suoi uditori, non li chiama già
fratelli in Gesù Cristo, ma fratelli in Platone (246). Con un
convincimento che può sembrar sincero insegna loro il più audace
razionalismo. «La filosofia, loro dice, è un dono di Dio; chi la
possiede sulla terra è quel che Dio è in cielo. Il filosofo è
il mediatore fra Dio e l'uomo: uomo per Dio e Dio per gli uomini»
(247). In conseguenza Ficino seriamente domanda s'insegni la
filosofia di Platone nelle chiese come la Santa Scrittura. Volgendosi
al numeroso uditorio così comincia una sua lezione: «La filosofia
platonica essendo cosa santa debba esser letta nelle sacre funzioni.
Inspiratemi gran Dio; insegnerò il vostro nome ai miei fratelli, vi
loderò nella chiesa, canterò la vostra gloria al cospetto degli
angeli. I nostri avoli, i platonici, solevano, dilettissimi fratelli,
insegnar nei templi la sapienza venuta dal cielo, vo' dire i santi
misteri della filosofia: Li imiteremo» (248).
Quanti
studiano Platone, quanti favoriscono i discepoli di Platone diventano
per lui esseri sacri, ai quali Ficino per sacrilego abuso non esita
ad applicar le più auguste parole dei libri santi. In una lettera
volta al sovrano pontefice, parlando del platonico Gian Nicolini si
esprime in questi termini: «Abbiamo non ha molto posseduto un
pontefice pieno di grazia e di verità. Un uomo inviato da Dio che
si chiama Giovanni. E venuto in testimonio per rendere testimonianza
della divinità di Sisto» (249). Altrove si fa a ripetere le
stesse frasi in favore di Giovanni de' Medici, poi soggiunge: «La
tua prole, o Giovanni, rifulgerà nei secoli come stella del
cielo: alla tua posterità benediranno i popoli: nel tuo seme saranno
in fine benedette tutte le genti» (250).
Nella
prefazione su Plotino, si volge in questi termini ai suoi uditori:
«Credete udir Platone stesso dirvi di Plotino: questi è il
figliuolo mio diletto in cui collocai tutta la mia compiacenza:
ascoltatelo» (251).
Se
Ficino così parla dei discepoli di Platone che dirà mai del
maestro? Agli occhi del canonico paganizzato Socrate è un santo, che
al par di Platone è salito al cielo con Gesù Cristo, di cui fu la
figura, e stabilisce quindi fra nostro Signore e Socrate quel
sacrilego e lungo parallelo che tutti sanno (252).
Non
resta più a Ficino che perpetuare a Firenze il suo entusiasmo per
Platone, propagarlo dovunque e rendergli culto siccome a un Dio. A
tale scopo instituisce insieme con Cosimo de' Medici la festa di
Platone celebrata con tutti i platonici in una villa del gran duca
con un banchetto che ricordava il simposium dei Greci, e con
discorsi in onore di Platone e di Socrate e dell'amor platonico, il
tutto ad imitazione dei platonici della antichità (253). E, prova
del fanatismo dei tempi, il primo dei convitati era un vescovo (254).
Ficino stabilisce ancora in Firenze un'accademia platonica composta
dei suoi migliori discepoli. Ma ben tosto le dottrine comunistiche di
Platone si traducono dai nuovi accademici in cospirazioni e congiure
contro la repubblica. Giacopo da Diacetto loro capo è ucciso: gli
altri si sbandano e l'accademia svanisce (255). Così accadde e per
consimili cause dell'accademia platonica fondata in Roma da Callimaco
a mo' di quella di Firenze.
E
non solo in Italia diffondesi il platonicismo e con esso l'entusiasmo
di Ficino e per giunta tutto lo spirito di indipendenza. Prima del
1490 la Germania s'empì di ammiratori di Ficino e di adoratori di
Platone. Martino Uranio di Costanza celebra ogni anno fra un numeroso
concorso di neoplatonici e con grande magnificenza la nascita di
Ficino (256). Per comando di parecchi principi di Germania, Uranio
insieme con Luigi Naukler e Gian Reuchlin invia, a Ficino l'elella
dei giovani tedeschi per farne la speranza della patria, che a
detta loro non poteva essere rigenerata se non dalla platonica
filosofia. (257). Intanto che la Germania corre al platonicismo come
ad un nuovo evangelo, Erasmo lo propaga in Inghilterra. Suo più
illustre allievo fu il cancellier Moro. Il grand'uomo non tardò a
mostrare il profitto tratto dalle nuove dottrine. La sua bella mente
subì un eclisse e pubblicò la sua Utopia, cioè i sogni
socialistici di Platone applicati alla società. All'altra estremità
d'Europa Mattia re d'Ungheria, trascinato dal movimento che spinge il
mondo verso la pagana filosofia scrive a Ficino pregandolo venisse ad
insegnare Platone. Ficino risponde al re che non potendo abbandonar
Firenze gli spedirà qualcuno dei suoi discepoli. Una lettera di
Ficino in data del 1489 ne insegna che l'onore di sostituire il suo
maestro e insegnar platonicismo agli Ungaresi fu serbato a Filippo
Valori (258).
In
mezzo ai suoi trionfi il platonicismo aveva subito un doppio smacco:
la dispersione dell'accademia platonica di Firenze e la soppressione
di quella di Roma. A riparare al primo Ficino continua ad insegnare e
tradurre con zelo gli antichi discepoli di Platone, quale Plotino,
Giamblico. Francesco Patrizi si assume di ristabilire in Roma il
regno del Platonicismo. Dopo aver per quattordici anni invocato
l'entusiasmo per Platone della gioventù dell'università di Ferrara,
viene a Roma, professa platonicismo, compone un corso di filosofia
universale sulle tracce di Platone e lo dedica al sovrano pontefice.
Le lodi che canta tutti i giorni al filosofo ateniese al cospetto dei
suoi numerosi uditori sono altrettante diatribe contro Aristotele.
Esaltare l'uno, invilire l'altro: tale è il suo scopo e
nettamente lo esprime nel suo libro.
Volgendosi
a papa Gregorio XIV così gli parla: «Come accade che non si
insegnino nelle scuole fuorché i trattati d'Aristotele i più ostili
a Dio ed alla Chiesa? Ai dialoghi di Platone i frati, o delitto!
preferiscono l'impudente empietà d'Aristotele. Certo per ignoranza:
ché non sanno qual veleno beva la gioventù a quella malefica fonte,
Quanto ai più mirabili di tutti i libri, a quei libri divini,
o vergogna! non ne conoscono neanche il nome. I Padri dicono che gli
è facile render cristiani i discepoli di Platone (259); ed ecco che
da circa quattro secoli i teologi scolastici operano in un senso
diametralmente opposto, ponendo a base della fede le empietà di
Aristotele. Li scusiamo ché, non sapendo il greco, sono loro
sconosciute. Ma non è assurdo forse volere stabilire la verità con
la menzogna?» (260) Segue una lunga enumerazione d'errori e
d'empietà del filosofo stagirita.
Non
contento di indurre alla diffalta i soldati d'Aristotele denigrando
il loro generale, si sovviene Patrizi dei re e dei parlamenti che gli
hanno accordato patrocinio. A render equa la lance fa capo al
pontefice supplicando assuma la causa di Platone. «Comandate, gli
dice, pel primo e tutti i pontefici comandino, e i vostri ordini
confortate coll'attrattiva degli onori e dei premi, che in tutti i
collegi dei vostri stati, in tutti i monisteri si spieghi un qualche
libro di Platone siccome io stesso feci a Ferrara per quattordici
anni. Curate che tutti i re del mondo cristiano facciano lo stesso
nei loro ginnasi» (261). A dare il decisivo colpo volgesi alla
coscienza del papa e gli persuade unico mezzo a destar la pietà
nella gioventù e convertir gli eretici, essere l'insegnar Platone.
«Proponetevi per tanto, beato padre, di istituire un insegnamento sì
pio, sì utile, sì necessario» (262).
Povere
genti e poveri tempi! Far d'Aristotele un santo, un Giovanni
Battista, e di Platone un evangelista, un Dio: eccitar nella gioventù
di tutt'Europa l'entusiasmo per questi due grandi pagani brutti di
tutti i vizi e padri di tutte le eresie (263): volerli far tenere in
conto di rigeneratori delle cristiane nazioni, tale era la somma
delle cose pei filosofi del Rinascimento!
_____________________
CAPITOLO
XVII.
ORIGINE
FILOSOFICA DEL RAZIONALISMO MODERNO
I
padri del Razionalismo moderno, discepoli tutti dei filosofi pagani.
- La filosofia pagana altro non è che il Razionalismo in atto. -
Prove. - Storia degli errori e delle sette della filosofia pagana. -
Perfetta somiglianza della moderna filosofia con la pagana. - Prove.
***
Dimostrando
con la storia alla mano che l'insegnamento filosofico del
Rinascimento fu l'insegnamento della filosofia pagana dato e ricevuto
con entusiasmo, abbiamo fornita la prima prova che il Razionalismo
moderno uscì, dal Rinascimento. Rimane a confermarla sviluppando la
seconda.
Seconda
prova: I padri del moderno Razionalismo hanno attinto la loro
filosofia nella filosofia pagana, che altra cosa non è che il
razionalismo in atto: ne hanno adottato il principio, riprodotti
tutti gli errori e per quanto si può rinnovate tutte le sette. -
Una sola osservazione basterebbe a statuire questa verità.
L'uomo
non trasmette che quanto ha ricevuto: uomini e popoli sono figli
della loro educazione: dimmi con chi vai e ti dirò chi sei.
Or quale filosofia trasmisero i filosofi del Rinascimento, i Greci di
Costantinopoli e i loro discepoli? Di chi sono immagine? Per chi sono
le loro simpatie e la loro ammirazione? Assomigliano forse ai
filosofi cattolici del medio evo ed ai Padri della Chiesa, o non
piuttosto ai filosofi pagani di Roma e di Grecia? Qual è il
principio rigeneratore delle loro investigazioni, il loro appoggio,
la loro bussola? È la fede o la ragione emancipata dalla tutela
della fede? Ma non insistiamo di più e veniamo ai fatti.
«Il
vero filosofo, dice Epicuro, non poteva nascere che fra i
greci, perché dappertutto altrove regnava la tradizione».
Questa frase è un tesoro. Significa nell'antichità pagana essere
stato un corpo di verità, venute dalle primitive rivelazioni; che
sino alla nascita della filosofia greca queste verità facevano
generalmente autorità fra le nazioni di cui componevano il
patrimonio religioso e sociale; che i Greci invece di rispettar quel
sacro deposito che chiamar si potrebbe la Bibbia dei gentili,
lo sottoposero allo scalpello della loro ragione come i Protestanti
usarono con la Bibbia dei cristiani: che invece di prendere la
tradizione a norma delle loro indagini e a pietra di paragone di loro
scoperte, i filosofi greci si diedero a discuterle, a spiegarle,
ammettendole o rigettandole, senza altra regola che la indipendente
loro ragione.
Rovesciata
questa barriera, i sistemi, le contraddizioni, le setta filosofiche e
con esse, i più mostruosi errori si moltiplicano all'infinito. Tanto
nota il signor Lamennais: «I grandi errori della mente, dice egli,
erano pressappoco sconosciuti nel mondo prima della filosofia pagana:
Essa li fece nascere, o almeno li sviluppò, infiacchendo la
reverenza, per le tradizioni e sostituendo il principio dell'esame
particolare al principio di fede» (264).
Di
queste, sette filosofiche onorate del nome di scuola, la prima in
data è la ionica, Il suo fondatore Talete di Mileto, cercando
alla luce della sua ragione l'origine del mondo, insegna come acqua
ed umido, siano i principi rigeneratori di tutte cose: il
materialismo diventa il punto di partenza dell'incredula filosofia.
Dopo Tante comparisce Pitagora che fonda la scuola italica e
pone a basi della filosofia di metempsicosi e il panteismo. Vien poi
Platone, Capo della scuola accademica. Questo filosofo che i suoi
ammiratori dicono divino professa gli errori più grossolani, il
panteismo e la metempsicosi; l'anima unica ed universale tante volte
cantata da Virgilio, l'indipendenza in materia di religione, la
schiavitù, il dispotismo, il comunismo, la promiscuità delle donne,
l'infanticidio e tante altre infamie che fanno arrossire (265).
Discepolo
di Platone e fondatore della scuola peripatetica, Aristotele,
accusato d'ateismo, di cui fa un essere non curante delle azioni
umane e soggetto al destino (266), nega la creazione del mondo, la
Provvidenza, l'immortalità dell'anima: insegna il panteismo,
sanziona la schiavitù, fa della religione un semplice strumento di
regno, prescrive l'infanticidio e l'aborto (267).
Della
famiglia d'Aristotele, Epicuro fonda la scuola sensualistica. Negando
la creazione del mondo, spiega la formazione degli esseri col sistema
degli atomi, nega l'immortalità dell'anima, ed insegna
consistere nella voluttà la felicità dell'uomo. A sua volta Zenone
istitutore della scuola stoica, volendo reagire contro
Epicuro, cade nell'estremo opposto. Il piacere è l'unico bene, dice
Epicuro; il dolore stesso il più vivo non è un male, replica
Zenone. Il che non toglie che Zenone insegni il panteismo, il
fatalismo, il suicidio per sfuggir al dolore, e si abbandoni,
discepolo d'Epicuro nella condotta, ai più laidi piaceri.
A
metter d'accordo tutte queste pretese scuole filosofiche Arcesilao
Pitaniese stabilisce la nuova accademia. Col suo discepolo
raccomanda la conciliazione che studiasi ottenere modificando tutti i
sistemi in quanto gli sembrano troppo assoluti. Sm filosofia fu
l'eclettismo. Dopo altre fluttuazioni nelle quali la filosofia cade
d'errore in errore, arriva Sesto Empirico. Censore inesorabile di
tutte le querele, di tutte le assurdità filosofiche, trae la
conclusione da questi dibattimenti di ottocento anni. La prima parola
che cade dalla sua penna è contraddizioni, l'ultima
scetticismo (268).
Fu
allora che un gran numero di platonici e di altri filosofi quali
Plotino, Giamblico, Porfirio, Apollonio di Tiane, disperando trovar
la verità col ragionamento, la cercano nella teurgia, cioè
nella pratica delle scienze occulte (269). Arrroge che per un giusto
castigo dell'ostinata loro rivolta contro la verità, tutti i
filosofi pagani, nessuno eccettuato, abbandonaronsi ad ignominiose
passioni. Socrate, Platone; Aristotile, Pitagora, Aristippo, Zeno né
Bione, Crisippo, Epicuro, Periandro , Cicerone e gli altri omnes
Epicuri de grege porci si danno pubblicamente alle abominazioni
di Sodoma e se ne gloriano (270). In questa infetta cloaca trovò
l'Evangelo quei sì vantati savi di Roma e di Grecia.
Tale
è il rapido quadro della pagana filosofia. Ora a che si riduce una
somigliante filosofia, se non alla filosofia del libero pensare, o
meglio al libero pensare in azione? Qual é l'autorità comune cui si
sommette? Quale la fiaccola che la rischiara? Non forse la sola
ragione dichiarata in ogni filosofo indipendente e infallibile? «Mio
sistema, dice Platone, è di non credere ad alcuna autorità e non
cedere se non alle ragioni, che dopo aver riflettuto, mi sembrano le
migliori» (271). A detta di Cicerone, Protagora proclamava ancora
più nettamente questo principio razionalistico: «Protagora, dice
egli, crede non debba tenersi per vero se non quanto a tutti par
vero» (272). Lo stesso Cicerone, rappresentante della filosofia fra
i Romani, professa la egual dottrina: «Ognuno, dice egli, dovendo
riferirsi alla propria ragione in fatto di verità, è difficilissimo
si arrenda alla ragione degli altri» (273). Tutti adottano la stessa
regola, e nelle loro investigazioni non ne seguono altra.
In
conclusione, al suo nascere, la pagana filosofia trova un corpo di
verità tradizionali: anziché rispettarle ed intendere a sceverarne
la lega dall'errore, arrogasi il dritto di discuterle, mutilarle,
negarle, gettarle al disprezzo. Dopo aver distrutto vuol edificare.
Nuova opera di Babele, ammassa sistemi con sistemi, cade in infinite
contraddizioni, crea le tenebre e non discopre una sola verità.
Respinto dal mondo superiore, di cui l'orgoglio e il dubbio figlio
dell'orgoglio, mai non apriranno la porta, proclama lo scetticismo
universale come suprema sapienza. In quel nulla del pensiero, anziché
alzar gli occhi al cielo e domandare la verità all' autorità della
generai tradizione, la filosofia si piace cercarla nell'immediata
comunicazione coll'angelo delle tenebre: finalmente stanca dal
combattere, s'addorme nella voluttà insino a che l'ordine religioso
e sociale da lei profondamente riscosso la schiaccia sotto le sue
rovine. Cominciata dall'adorazione dell'orgoglio, la pagana filosofia
finisce con l'adorazione della carne. Tale è e tale sempre sarà il
termine fatale d'ogni audace rivolta contro la verità.
___________________
CAPITOLO
XVIII.
ORIGINE
FILOSOFICA DEL RAZIONALISMO MODERNO
Stratagemma
dei razionalisti, celano il loro principio e i loro errori sotto la
maschera dell'antichità. - Testimonianza decisiva di Brucker e del
signor Cousin. - Vanità delle loro proteste di reverenza verso
l'autorità della Chiesa. - Rinnovano tutti gli errori e tutte le
sette filosofiche dell'antichità. - Arrivano all'ultimo termine. -
Ultima prova della origine filosofica del Razionalismo moderno. - Il
concilio di Laterano. - Analisi della Bolla Regiminis apostolici.
- Che ne insegni essa dello stato degli animi e dell'entusiasmo per
la pagana filosofia.
***
Lo
spirito di Dio, disceso per rinnovar la faccia della terra spazzò
prontamente gli avanzi di tutte le scuole così dette filosofiche
della pagana antichità. Al quarto secolo erano cadute in tale oblio,
che sant'Agostino scrivendo a Dioscoro, bramoso di conoscere la
soluzione di certi problemi dell' antica filosofia: «Oggi, gli dice,
s'ode tanto parlare in Africa di queste puerilità quanto a cantar le
cornacchie» (274). Per tutto l'evo medio rimasero sepolte col
Razionalismo loro padre nella tomba, in cui il Razionalismo le aveva
racchiuse. Col rinascimento tutte risorgono: gli stessi nomi, gli
stessi principi, le stesse pretese; le stesse fasi, lo stesso
risultamento.
Appena
i rifugiati di Bisanzio annunciarono d'aver seco recato il testo
compiuto ed originale degli antichi filosofi che tutta la generazione
letterata accorse alle loro lezioni e si diè a studiare il greco,
per meglio, diceva essa, comprendere gli insegnamenti sublimi della
pagana sapienza. E pure l'Europa cristiana possedeva la verità,
tutta la verità teologica, filosofica, sociale: un'autorità
infallibile la conservava e la dava pure d'ogni miscela alla menti
avide di nutrirsene. Anziché raccoglierla a piene mani nelle
inesauribili miniere del cristianesimo, innumerevoli cercatori,
sprofondansi, per trovarne alcune briciole impure, nei tenebrosi
labirinti del paganesimo.
Che
strano mistero è questo? Lo stesso che diè origine alla pagana
filosofia. Vuolsi pur dirlo: non si cercava già la verità che, si
aveva sotto mano, ma solo, e ad ogni costo, un modo di sottrarsi al
giogo della verità e di emancipar la ragione dalla tutela della
fede. Or questo modo si offriva da sé stesso e consisteva nel metter
la ragione coi suoi traviamenti e i suoi errori sotto l'egida dei
nomi acclamati d'Aristotele e Platone e della splendida antica
filosofia. E ne sia prova che i filosofi del Rinascimento ben si
guardarono nelle loro investigazioni dal prender per bussola e pietra
di paragone le dottrine dell'Evangelo.
Però,
come sul principio si suole, non osavano urtarle di fronte, e
traevansi d'imbarazzo asserendo che una proposizione vera secondo
Aristotele o Platone, poteva non esserlo secondo la fede: ma che
avevano parlato come filosofi, non come teologi. Per morir tranquilli
nel loro letto, finivano anche, massimamente in Italia, col dichiarar
di sottomettere le loro opere al giudizio della Chiesa. Ammettevano
di tal modo come possibili due contraddittorie verità, ponevano la
ragione a livello della rivelazione, e facendole trattar potenza a
potenza, avvezzavano il mondo a considerarle come da due immortali
sorelle egualmente degne di rispetto.
La
qual tattica del moderno razionalismo ne fu svelata da un uomo che
ben lo conosceva. «I primi, dice Brucker, che al tempo del
rinascimento entrarono nella via del libero pensare, si posero
sotto l'ombra d'Aristotele, di Platone, di Pitagora, di Zenone
insino a che con l'aiuto di Dio, lo spirito umano
poté liberarsi da tutte le sue pastoie. Fu allora che
rigettando ogni particolare filosofia si diè a crearne una propria
scegliendo da tutte quel che più gli conveniva. Allora la
dignità umana sì a lungo tenuta nei ceppi della superstizione,
ricomparve in tutto il suo splendore» (275).
Su
questo punto capitale abbiamo un'autorità anche maggiore, quella del
signor Cousin. «Di qualunque modo si voglia giudicare il memorabile
incidente che tanto modificò al quindicesimo secolo la forma
(276) dell'arte e della letteratura in Europa, non può revocarsi in
dubbio che lo stesso incidente non abbia avuto anche una immensa
influenza sui destini della filosofia, e qui a mio avviso fu
d'una incontrastabile utilità (277). Quando la Grecia
filosofica comparve all'Europa (278) nel quindicesimo secolo,
pensate quale impressione dovettero produrre i suoi tanti sistemi,
animati da sì assoluta indipendenza, su quei filosofi del medio evo,
chiusi ancora nei chiostri e nei conventi, ma che già aspiravano
alla libertà. Il risultamento di questa impressione doveva essere
una specie d'incanto e di fascinazione momentanei. la Grecia non
solo ispirò l'Europa, l'inebriò; carattere, della filosofia di
quest'epoca è l'imitazione dell'antica filosofia senza alcuna
critica.
«Cominciava
a formarsi allora in Europa un certo spirito filosofico,
incomparabilmente al disotto però dei sistemi che si presentavano a
lui: era dunque inevitabile che questi sistemi il trascinassero e il
soggiogassero. E però dopo aver servita la Chiesa al medio evo,
la filosofia al decimoquinto ed al decimosesto secolo scambiò questa
dominazione con l'altra dell'antica filosofia. Era, ammettiamolo,
autorità anche quella! ma che differenza di grazia! Non poteva si
correre immediatamente dalla scolastica alla filosofia moderna e
farla finita di botto con ogni specie di autorità. Era dunque un
vantaggio il cadere sotto una nuova autorità, tutta umana,
senza radice nei costumi, senza potenza esterna e divisa in sé
stessa, quindi flessibilissima e pochissimo durevole, e a
senso mio nell'economia della storia generale dello spirito umano, la
filosofia del decimoquinto e sedicesimo secolo fu una transizione
necessaria ed utile dall'assoluta schiavitù del medio evo
all'assoluta indipendenza della moderna filosofia» (279).
Habemus confitentem.
Meditate
il passo che abbiamo trascritto: fermatevi alla conclusione il
rinascimento fu una transizione necessaria ed utile dall'assoluta
schiavitù del medio evo (philosophia teologiae ancilla)
all'assoluta indipendenza della moderna filosofia e domandate
a voi stessi per quale aberrazione dei cattolici, anche sacerdoti e
religiosi, trovano ottimo per principio d'autorità un moto che il
servo dei servi del Razionalismo stima non solo utile ma ancor
necessario al suo trionfo!
Quanto
alle loro proteste di rispetto alla Chiesa e di sommissione ai suoi
dommi, nulla di più illusorio. Nella sua Storia della letteratura
italiana Tiraboschi le riduce al giusto valore. Le sue parole
volgonsi non solo a Pomponaccio, capo dei liberi pensatori del
Rinascimento, ma a tutti i suoi ammiratori. Si contenta, per vero, di
sostener che Aristotele non ammette l’immortalità dell'anima, e
che la ragione è impossente a provare questa verità. Nondimeno,
soggiunge, bisogna crederla fermamente, perché tale è
l'insegnamento della Chiesa di cui mi dichiaro figlio rispettoso e
sommesso. Ma quando Aristotele era tenuto in conto d'un oracolo
tanto infallibile, che allontanarsi dal suo avviso era un cader
nell'errore, provar che Aristotele aveva sostenuta la mortalità
dell'anima era un affermar l'assoluta certezza di questa opinione.
Non vuolsi dunque far le meraviglie se Pomponaccio fu a buon dritto
tenuto per propugnatore della rea dottrina. Protesta, lo so, di
sommettersi alla Chiesa; ma prima di tutto si potrebbe opporgli
l'assioma legame: Contro il fatto non val protesta: protestatio
facto contraria non valet. Di più la distinzione tra il filosofo
e il teologo è una ridicola sottigliezza di cui Buffalini ha fatto
giustizia con questo motto: «Apollo, dice egli, avendo udito la
difesa di Pomponaccio, e trovatolo innocente come teologo e colpevole
come filosofo, lo condannò alle fiamme solamente come filosofo»
(280).
La
tattica dei padri del Razionalismo non cessò d'essere quella dei
loro figli. Fu quella dei liberi pensatori cattolici in
Italia, in Spagna negli ultimi secoli: nessuno ne fece maggior uso di
Voltaire: essa è ancora il ritornello favorito degli eclettici e dei
Razionalisti più destri dei nostri giorni. Sostengono gli errori più
pericolosi, posano i principi più sovversivi d'ogni credenza, e
protestano rispetto per la religione.
Non
meno adesso che altre volte queste proteste debbono trasformare i
cattolici in apologisti, e meno ancora in apostoli di quanto chiamasi
sistema di conciliazione, e lo scorso secolo chiamava
tolleranza! Quale conciliazione è mai possibile tra la fede e
il Razionalismo? Comecchè, sotto la pelle di agnello, i lupi saranno
sempre lupi, e con tutte le loro proteste i liberi pensatori saranno
sempre pericolosi nemici della Rivelazione. «Abbiate, dicono,
riguardo alla nostra ignoranza, alla nostra educazione. Siamo
filosofi non teologi: stabiliamo, insegniamo quanto la ragione ne
dimostra: se le nostre conclusioni sono contrarie agli insegnamenti
della teologia, ne duole, ma non possiamo fare che la verità non sia
verità».
Con
questo bill d'indennità s'arrogano il diritto di scalzare
tutte le credenze: così facevano i loro avoli del secolo XV:
adoratori segreti del libero pensare, furono visti attaccarsi
appassionatamente chi ad un filosofo, chi ad un altro, esaltare sino
alle stelle il maestro di loro scelta, rinnovare, almeno come
passaporto, tutte le scuole filosofiche della Grecia e diffondere
sull'Europa moderna il diluvio d'errori di cui avevano inondato il
mondo antico. Pomponaccio mette in voga la filosofia di
Aristotele. Per esso e pei suoi numerosi discepoli, questa
filosofia ben intesa consiste, fra le altre cose, nel negare
l'immortalità dell'anima, i miracoli e la provvidenza. Nelle sue
opere dell'immortalità dell'anima, del Destino e dei sortilegi
(281) insegna questi tre errori, i più mostruosi della pagana
filosofia. Fa anche di peggio, inaugura il principio di tutti gli
errori, il Razionalismo. «Nell'ultima sua opera, dice Matter,
Pomponaccio va più in là della sua tesi; mostra alla religione
intera che avrebbe torto di voler ancora lanciare le folgori
dell'anatema, mentre essa potrebbe aver bisogno un giorno di
tolleranza da parte dei filosofi, e che per indubbi segni il suo
regno stava per finire» (282).
Ecco
a qual eccesso di empietà, soggiunge un antico autore, arrivò un
gran numero di filosofi: quanto le leggi vieta loro di
pubblicamente insegnare, lo presentano sotto il manto di Aristotele.
Il che fece a vergogna di tutta Italia l'audace campione dell'errore
Pier Pomponaccio, in iscritti che non si perita porre dinanzi agli
stessi sovrani pontefici. Tali sono i guasti della fiera di cui a
Parigi stessa trovate chi si gloria d'essere discepolo (283).
Ficino,
secondato da Callimaco, Pico della Mirandola, Erasmo, Tomaso Moro,
Patrizi, Campanella ed altri molti, rinnova la filosofia di Platone.
Tutti i deliri religiosi e politici del discepolo di Socrate, anche i
più osceni, sono magnificati come dommi benefici e luminosi. Ficino
tanto se ne mostrava convinto che ai suoi occhi la restaurazione del
platonicismo è una nuova rivelazione preparata dalla Provvidenza, e
ai persecutori del Vangelo paragona i persecutori di Platone, su cui
non tarderanno a cadere i fulmini dell'ira celeste (284).
Questi
dommi professati da Ficino sono tra gli altri il panteismo e il
fatalismo, cioè la grossolana empietà dell'anima unica ed
universale del mondo, divisa in particelle in tutti gli esseri
animati, e la fantastica credenza all'influenza degli astri: Moro
rinnova i principi socialistici di Platone, discutendo a mo' degli
antichi le fondamentali verità del cristianesimo: Callimaco e la sua
accademia praticano apertamente nel seno stesso di Roma il principio
platonico del libero pensare: e Pico della Mirandola propone al papa
di farne una solenne applicazione a tutte le basi dell'ordine
religioso e sociale (285).
Colle
migliori intenzioni del mondo, dice il signor Matter, Pico della
Mirandola, lo zio, niente meno proponevasi che il pubblico esame di
novecento quistioni di religione, di morale e di politica. Per un
istante il papa autorizza la disputa, ma presto s'avvede del pericolo
che emergeva dal porre in quistione tutte le basi dell'ordine
stabilito. Si notarono d'altra parte eresie nelle tesi di Pico,
pubblicate nel 1483, l'anno stesso in cui nacque Lutera (286).
Discepoli
dei Greci e di Ficino, Reuchlin, Cornelio Agrippa e la numerosa loro
famiglia d'Italia, di Francia, d'Inghilterra e di Germania rinnovano
la filosofia di Pitagora (287). Reuchlin se n'era vantato con Leon X
a cui non temé dedicar la sua opera, dicendo essersi addentra lo in
tutti i labirinti della cabala per far brillare nel pieno loro
splendore i dommi di Pitagora (288). Al pari di quelli d'Aristotele e
di Platone i discepoli di Pitagora insegnarono in un enigmatico
linguaggio i più gravi errori su la creazione del mondo, su la
natura di Dio e dell'uomo: professarono il panteismo ed altre
enormità di cui faremo altrove parola (289).
Appassionato
per Talete, Berigard ripone in onore la scuola ionica e, nel suo
dialogo di Cariclea e di Aristea, sostiene, al pari del suo
maestro, il materialismo e il fatalismo (290). Giusto Lipsio,
Scioppio ed alcuni altri rinnovano la scuola stoica coi suoi
abominevoli errori (291). Crisostomo Magnen e Gassendi ristaurano su
l'origine del mondo la filosofia epicurea. Nella sua parte morale non
ne aveva più bisogno: dal Rinascimento in poi nessuna scuola
filosofica aveva maggior seguito. Dopo di loro si presentano
Francesco Sanchez, Bayle, Spinosa, seguiti da un immenso corteggio
che la filosofia rinnovano del scetticismo. Finalmente sì
dopo il Rinascimento, come nell'antichità, la teurgia conta numerosi
apostoli. Coi loro scritti e coi loro esempi Ficino, Cornelio
Agrippa, Bodin, Bingelberg e moltissimi altri fan popolari fra gli
umanisti i segreti delle scienze occulte, trovati negli antichi
filosofi, e la generazione dei moderni teurgisti fu dopo il ritorno
del paganesimo, ed è ancora tuttodì in Europa, infinitamente più
numerosa che non si creda (292).
Tale
è la moderna filosofia vista nelle diverse sue fasi e nei suoi
generali caratteri. Sicché non v'ha cosa più giusta di questa
definizione dell'autore dell’Helviennes. «La pretesa
moderna filosofia, dice egli, altro non è che una matta squarquoia
di più di mille anni, che si impiastra di rossetto per ringiovanire
la faccia fatta gialla dai secoli. I suoi apostoli altro non sono che
pagani risuscitati» (293).
Or
che cos'è in sua natura, se non il Razionalismo in azione, il libero
penare ridotto in sistema? Donde è venuta questa filosofia, in tutto
sconosciuta nel medio evo? Di chi è figlia? L'albero si riconosce
ai suoi frutti: i simili danno simili. Fra la pagana e la moderna
filosofia v'ha somiglianza, per non dire identità. Come la prima, la
seconda trova, nascendo, un corpo di verità, alimento delle anime e
patrimonio delle nazioni: anziché rispettarle le discute e le
scrolla: Rompendo il giogo salutare dell'autorità, deifica la
ragione e la piglia a guida dei suoi lavori. Come la calamita attrae
il ferro un irrefrenabile istinto la trascina verso i Razionalisti
dell'antichità: li esalta, li ammira e li adora, li assume ad
oracoli, rinnova tutti gli errori, tutte le scuole precipita,
com'essi, d'abisso in abisso, non scopre alcuna verità, cade
nell'universale scetticismo, s'addormenta nell'epicureismo, e
piuttosto che domandar la verità al cristianesimo, vergognosamente
la cerca nelle tenebrose pratiche della superstizione e della
teurgia.
Come
i loro avoli di Grecia e di Roma che furono i patriarchi di tutte le
eresie, i liberi pensatori del rinascimento creano il protestantismo,
il socinianesimo, tutte le moderne eresie. Perché nulla manchi alla
similitudine la maggior parte dei Razionalisti cristiani sono, in
castigo della loro rivolta contro la verità, abbandonati come i
pagani razionalisti ad ignominiose passioni e ne menano vanto!
Citatemi un vizio infame che non abbia trovato o nella loro condotta
o nei loro scritti, in verso o in prosa, la propria apologia.
Cominciato dall'adorazione dell'orgoglio il moderno Razionalismo, al
par dell'antico, finisce coll'adorazione della carne. Eppure questi
filosofi hanno scrollato il mondo sin dalle fondamenta: religione,
società, proprietà, famiglia, tutto è minacciato d'un cataclisma
quale i secoli non videro mai, d'uno stato somigliante a quello cui i
loro avoli avevano ridotto il vecchio mondo, alcuni giorni prima dei
Barbari.
Se
pur la storia può stabilire un fatto, chiaro dunque riesce come la
luce del giorno essere il moderno Razionalismo figlio del
Razionalismo pagano, o piuttosto essere il Razionalismo medesimo
tornato in voga dal Rinascimento. E però come mai uomini gravi
possono ora asserire: «La risurrezione della filosofia pagana nello
scorso secolo è il fatto culminante del tempo nostro? Si citi
una parte pur minima della pagana filosofia che il secolo decimottavo
abbia risuscitato. Il fatto è che la filosofia pagana da quattro
secoli esiste in Europa. L'ultimo secolo non l'ha fatta rinascere:
Voltaire, Rousseau, Bayle ne furono i continuatori e non i
ristoratori. Una terza prova darà maggior forza alla nostra
dimostrazione.
Terza
prova: La Chiesa afferma che il Razionalismo moderno è nato dalla
filosofia pagana ristaurata dal Rinascimento. Sessant'anni appena
erano scorsi dalla giunta dei Greci in Italia, e i più gravi errori
della filosofia pagana, la mortalità dell'anima, l'eternità del
mondo, il panteismo, il fatalismo e lo scetticismo si riprodussero
pubblicamente nel centro stesso del cattolicismo. Da questi errori
fondamentali ne uscirono mille altri, a nulla meno tendenti che a
distruggere il cristianesimo da cima a fondo.
Alla
vista di questa subita e minacciosa invasione del male, fino a quel
punto sconosciuto ai popoli cristiani, papa Giulio II convocò il
quinto concilio generale di Laterano. Raccolto nel 1512, continua nel
1513 sotto Leone X, e dal seno della augusta assemblea emana la
famosa costituzione Regiminis apostolici. Nel nostro studio
genealogico del libero pensare, non v'ha più importante documento:
Il
concilio comincia dichiarando che gli errori che sta per condannare
non sono antichi errori, ma errori attualmente insegnati; che
questi errori sono più gravi di quelli d'un tempo e consistono nel
sostenere che l'anima non è immortale, esservi un'anima
unica ed universale per tutti gli uomini; esservi due verità,
la filosofica e la teologica, sicché la stessa cosa può esser vera
in filosofia e falsa in teologia» (294). Questo ultimo errore non
essere altra cosa che il Razionalismo, il quale mettendo la ragione a
livello della fede consacra la incredulità e conduce al pirronismo.
Quali
sono le fonti di questi abominevoli e pestilenziali errori?
Abominabiles et perniciosissimos. Il concilio due ne accenna:
«La filosofia e la poesia, le cui radici sono avvelenate. Infectas
philosophiae et poesis radices». Di che filosofia e di che
poesia la Chiesa ha voluto parlare? V'ha due sorta di filosofia e di
poesia: la filosofia e la poesia cristiana, la filosofia e la poesia
pagana: sicché v'han due letterature, due arti, due politiche, due
uomini nell'uomo e due città nel mondo. La filosofia cristiana è
Quella
che ha suoi principi, sue fonti, sue radici negli insegnamenti
divini. Anziché cercar la verità alla luce della sola ragione,
questa filosofia si fa gloria d'esser la serva della teologia. Suo
scopo è dilucidare le divine verità, che mai non pone in problema.
In vece ripudia come falsa una conclusione qualunque che non
s'accordi con le dottrine della Chiesa; È la filosofia dei Padri, la
filosofia dell'evo medio, di Sant'Anselmo, di San, Tomaso, come di S.
Giustino e di Sant'Agostino. E questa la filosofia indicata dal
concilio come uno dei mostruosi, errori, di cui geme, e infetta
nelle sue radici?
V'ha
pure una poesia cristiana. E la poesia che prende le sue ispirazioni,
le sue fonti, le sue radici, nel vero, nel bello, nel veramente
buono. Questa poesia, figlia della fede, si fa gloria di essere l'eco
armonioso del mondo soprannaturale. Tende a sollevar l'uomo al
disopra della triplice concupiscenza e nei suoi canti religiosamente
rispetta le leggi della verità e quelle del pudore. È la poesia dei
profeti , la poesia di Prudenzio, di Sedulio, di San Tomaso, di
Sant'Avito, d'Adamo di San Vittore e degli illustri loro successori.
E’ la poesia che il concilio indica come una delle cause dei
mostruosi errori, di cui geme, e infetta nelle sue radici?
Se
non alla filosofia cristiana né alla cristiana poesia impreca il
concilio imprecherà dunque ad una filosofia e ad una poesia ben
diverse e che allora si coltivavano con esagerato ardore. Quali sono?
Una filosofia, dice il concilio stesso, di cui Dio ha
dimostro la follia, una filosofia che non progredendo al lume della
rivelazione è una fonte d'errori assai più che di verità, una
filosofia e una poesia avvelenate nelle loro radici.
Qualificazioni che a meraviglia si addicono; ed esclusivamente, alla
filosofia ed alla poesia pagane riposte in onore dal Rinascimento:
filosofia e poesia fattesi radici e modelli della filosofia e della
poesia di quest'epoca: filosofia e poesia insegnate e studiate
dappertutto con un entusiasmo per egual modo pericoloso e ridicolo
(295).
La
storia ecclesiastica non consente dubbio alcuno su questo punto. «La
condanna del concilio, essa dice, colpisce quei filosofi infetti
della dottrina degli antichi pagani, che cominciavano allora a
diffondere le vergognose e desolanti dottrine della mortalità
dell'anima, del panteismo ed altre infinite che tendono alla rovina
del cristianesimo» (296). Ma quand'anco la storia tacesse, quale
uomo è sì poco addentro in filosofia da ignorare come siffatti
errori, pullulassero dall'antichità e si trovassero chiaramente
insegnati in verso ed in prosa dai più ammirati autori pagani, e tra
gli altri: Aristotele, Platone, Zenone, Plinio, Seneca, Catone,
Orazio, Virgilio, Lucano, siccome nel volterianismo abbiamo
dimostrato? Ricordiamo qui soltanto le parole di Seneca e di Lucano:
«Se, dice il primo, vuoi chiamar Dio il mondo, mal non ti apponi.
Dio infatti è tutto quello che vedi: diffuso in tutte le sue parti e
per propria forza reggentesi. Perché ricuserai d'ammettere esservi
nel tutto un qualche cosa di divino, se sei tu stesso una porzione di
Dio? Tutto che ne circonda è uno e Dio, e noi siamo suoi soci e suoi
membri» (297).
Il
secondo, facendo parlare Catone: «Dio ha forse egli altro soggiorno
che la terra e il mare, il cielo e la virtù? A che pro cercar
altrove gli Dei? Giove, trovi in quanto vedi e dovunque ti porti»
(298).
Ognuno
sa che il dogma dell'anima del mondo formava precipua parte del
sistema degli stoici.
Il
Concilio dichiara pertanto e a buon dritto questa filosofia e questa
poesia avvelenate nelle loro radici. E le radici infatti della
filosofia e della poesia pagane, le loro tendenze, la loro divisa,
sono lo sprezzo dell'autorità, l'emancipazione della ragione, la
glorificazione della triplice concupiscenza: in altri termini quanto
v'ha di più attossicato e di più attossicante, il Razionalismo e il
Sensualismo. Gli è ben a notarsi come la Bolla ravvolga nella stessa
riprovazione la filosofia e la poesia pagane, infectas
philosophiae et poesis radices. Non si può qui che ammirare la
profonda sapienza della Chiesa. La filosofia pagana, come dicemmo,
emancipa la ragione; la poesia pagana emancipa la carne. La riunione
di questi due elementi forma la compiuta apoteosi dell'uomo e la
negazione assoluta del cristianesimo.
La
costituzione che ne occupa non è soltanto decisiva a stabilire
l'origine del moderno Razionalismo, ma conferma ancora con sovrana
autorità quanto abbiamo dello dell'incredibile fanatismo dal quale
fu presa l'Europa per la pagana antichità. Tale era al principiar
del secolo XVI il delirio del clero stesso per gli studi profani, che
il concilio è obbligato dall'un dei lati a proibire agli
ecclesiastici secolari o regolari, insigniti degli ordini sacri, di
dedicarsi pubblicamente per più di cinque anni, dopo aver imparato
grammatica e dialettica (299), allo studio esclusivo della filosofia
e della poesia pagane; dall'altro a comandare a questi stessi
ecclesiastici, i quali scorsi cinque anni, volessero passar la vita
nel commercio dei filosofi e dei poeti pagani, ad intendere pure alla
teologia ed al diritto canonico per rinvenir in quegli studi salutari
di che purgare e disinfettare le avvelenate radici della filosofia e
della poesia (300).
Sessant'anni
dopo il Rinascimento v'erano dunque in tutta Europa diaconi, preti e
religiosi in gran numero che invece di intendere con qualche studio
aliquo studio alla Santa Scrittura, ai Padri della Chiesa,
alle sacre scienze si pascevano esclusivamente in tutta la loro vita
del cibo dei demoni: secularis sapientia, rhetoricorum pompa
verborum, carmina poetarum, cibus demoniorum, giusta
l'espressione di San Girolamo. Se tale era l'ebbrezza del clero per
questi studi avvelenati, qual doveva essere quella dei laici? Si può
formarsene un concetto, prima dal silenzio medesimo del concilio, che
non osa estendere la proibizione sino a loro, poi dalla norma di
condotta ch'esso prescrive. Non sembra dovesse essere la proibizione
d'insegnare ormai alla gioventù nelle pubbliche scuole una filosofia
ed una poesia fonti degli abominevoli errori che desolavano la
Chiesa? Ma, elice il padre Possevin, il mondo allora era ebbro
d'Aristotele e di Platone, ebbro d’Orazio, e di Virgilio, e la
proibizione della Chiesa ad altre non sarebbe riuscita che a
moltiplicare i prevaricatori» (301).
La
Bolla si contenta di comandare ai professori confutino, allorché se
ne presenti opportunità, tutte le dottrine degli antichi filosofi
favorevoli agli errori condannati dal concilio; di più limita, come
vedemmo, agli ecclesiastici soltanto lo studio della filosofia e
della poesia profane. Finalmente il concilio comanda che le sue
prescrizioni siano ogni anno pubblicate, al loro principiare, in
tutte le scuole (302).
Come
tristi, ma come istruttive sono le rivelazioni contenute in questa
costituzione firmata da Leone X. Ne insegnano qual fosse agli occhi
del concilio l'origine del male, la cui inaudita violenza scalzava la
religione fin dalle fondamenta; manifestano il profondo sentimento
che aveva la Chiesa del pericolo che la minacciava: mostrano la
gigantesca potenza del Rinascimento a quel tempo, potenza tale che la
Chiesa non osa incerto modo combatterla di fronte nelle sue
principali manifestazioni.
Almeno
nel poco che comanda ne sarà udita la voce? Risponde a ciò la
storia dei tre ultimi secoli. La sua risposta conosciuta è che, non
scemata, ma più energica si fece la febbre della pagana antichità,
che la poesia pagana continua ad aver migliaia di adoratori e di
imitatori, che la filosofia pagana risuscitò con tutti i suoi errori
e tutte le sue sette: che il Razionalismo e il sensualismo usciti da
queste avvelenate fonti hanno invasa l'Europa: che la Chiesa non ebbe
mai a gemere su un eguale libertinaggio di idee e di costumi. «La
Chiesa ben innalzò la sua voce, dice Brucker, ma tanta era già
l'estensione e la profondità del male, che non fu rallentato in suo
cammino, né a maggior ragione. toccato nelle sue radici» (303).
Corsi
trionfalmente tutti i gradi dell'errore, il Razionalismo, figlio del
Rinascimento giunge ora al suo apogeo.
___________________
CAPITOLO
XIX.
Ultima
parola del moderno Razionalismo
Nel
passato, tre effetti del Razionalismo: il Protestantismo, il
filosofismo del diciottesimo secolo, la Rivoluzione francese. -
Minacce per l'avvenire. Distruzione della religione. -
Testimonianze. - Associazione formata a questo fine. - Distruzione
della società. - Testimonianze. - Associazione formata a questo
fine. – Conclusione.
***
Non
fu mai, come al tempo del Rinascimento, tanto necessario ascoltar con
reverenza la voce della Chiesa. Riavutasi appena l'Europa dalle
violenti scosse prodotte dal gran scisma d'Occidente, il rogo di
Girolamo di Praga non aveva già consumato tutti i germi di rivolta
che fermentavano, nelle anime; i costumi pubblici molto avevano
deteriorato: La società non poteva rinnovarli che ritemprandosi nel
cristianesimo, cioè alle fonti stesse della sua vita religiosa,
politica, scientifica, artistica e letteraria, e sventuratamente si
domandò al paganesimo classico di Grecia e di Roma una tale
rinnovazione. Divenuto l’oracolo universale insegnò quel che sa,
comunicò quel che è: Lusso e miseria, orgoglio e voluttà. Lusso di
forme, parole e sistemi, difetto di verità e di virtù, orgoglio
della ragione e voluttà dei sensi. Alla sua scuola i filosofi
emancipano la ragione, i politici emancipano lo stato, i letterati ed
artisti emancipano la carne.
La
triplice emancipazione apre la via al protestantismo, di cui spiega
gli strani successi. «Le dottrine della riforma, dice il signor
Matter, uscirono dalle scuole del Rinascimento» (304). Quando Lutero
comparve già il libero pensiero era cresciuto: lo fermò al limitare
delle Scritture, e tenne il libro per divino, il che non fecero i
liberi pensatori che il precedettero e lo seguirono. Checché se ne
dica, il cattivo genio che si libra sui tempi moderni non è lo
spirito di Lutero, ma lo spirito indipendente della greca filosofia,
sotto l'inspirazione del quale i Rinascenti, anteriori a Lutero,
inaugurarono la libertà del pensiero e la libertà dell'azione.
E
però al principiare del secolo XVI il paganesimo manda a vuoto la
l'innovazione cristiana dell'Europa, e prepara l'immensa Rivoluzione
che chiamasi protestantismo, con tutte le sue disastrose conseguenze
sì nell'ordine sociale, come nel religioso.
Più
tardi, ad onta della generale riforma prescritta, dal concilio di
Trento, ad onta delle religiose tendenze d'una parte della società
al secolo XVII conduce il mondo morale alla più grande
catastrofe conosciuta nella storia, il filosofismo del secolo XVIII.
«Ah! sclama uno scrittore non sospetto, se la letteratura del secolo
di Luigi XIV avesse invocato il cristianesimo invece di adorare gli
dei pagani; se i suoi poeti fossero stati quel che erano nei tempi
primitivi, sacerdoti che cantavano i fasti della loro religione e
della loro patria, il trionfo delle dottrine sofistiche dell'ultimo
secolo sarebbe stato assai più malagevole, e forse anche
impossibile. La Francia non ebbe tale fortuna: i suoi poeti nazionali
erano pressoché tutti poeti, pagani, e la francese letteratura era
più l’espressione d'una società idolatra e democratica che d'una
società monarchica o cristiana. E però i filosofi giunsero in meno
d'un secolo a cacciar dai cuori una religione che più non dominava
nelle menti» (305).
Alla
fine del secolo XVIII, quando il despotismo di Luigi XIV e le orge
della reggenza, rendevano necessaria una sociale rivoluzione, il
paganesimo precipita l'Europa nel cataclisma che chiamasi Rivoluzione
francese. «Se abbiamo, diceva il regicida Chazéll, sollevate le
fronti prone sotto il giogo della monarchia, gli è perché la
fortunata incuria dei nostri re, ne consentì educarci alle scuole di
Sparta, d'Atene e di Roma. Fanciulli frequentammo Licurgo, Solone, i
due Bruti, e li ammirammo; uomini non potevamo che imitarli» (306).
Tant'è
vero che in ragione delle secrete propensioni dell'uomo decaduto, la
filosofia, la letteratura, l'incivilimento, la politica pagana, in
una parola l'elemento pagano sotto una o sotto altra forma, proposto
allo studio ed all'ammirazione della gioventù, sarà mai sempre un
immenso pericolo pei popoli cristiani. È la favilla accosto alla
paglia, il frutto proibito sotto gli occhi d'Eva, l'idolo in mezzo ad
Israele: il lampo che si scontra col lampo.
Ora
l'Europa, la quale sembra aver occhi per non vedere ed orecchi per
non udire, insensibile si rimane a sì terribili lezioni. Se non
nella forma, nello spirito almeno, il paganesimo classico continua ad
essere l'ospite prediletto del focolare. Col suo lusso babilonico,
colle ree sue usanze, e coi suoi balli ancora più rei della sue
usanze, è in tutte le pubbliche feste, recita la tragedia nei
piccoli seminari e la commedia nei conventi, è redattore in capo dei
grandi giornali, predica il naturalismo in religione e l'odio della
Chiesa; altrove, appendicista o romanziera, eccita tutti gli appetiti
del sensualismo; nei collegi insegna il greco e il latino,
l'eloquenza e la poesia: negli studi forma il pittore e lo scultore:
sotto il nome di semirazionalismo, stilla troppo spesso il suo veleno
nelle più ortodosse scuole di filosofia (307) e sotto nome di
Razionalismo domina sovrano l'insegnamento della storia, della
geologia, dell'astronomia, dell'economia sociale e della filosofia.
Gran mercé a questa fortunata incuria, prende ogni giorno
nuove forze, aumenta le sue reclute, disciplina i suoi soldati,
concerta i suoi piani, prepara le sue armi, scava le sue mine, sino
al giorno, meno lontano forse di quanto parrebbe credersi, in cui
sulle rovine dell'Europa, scriverà a lettere di sangue la sua ultima
parola.
Qual
è l'ultima parola del Paganesimo e del Razionalismo suo primogenito?
A conoscerlo si vogliono interrogare non già i suoi volgari adepti,
ma i suoi capi più accreditati e più logici. Tavola rasa di
quanto esiste, distruzione completa della religione e della società,
tale è a detta dei suoi pontefici l'ultima parola del moderno
Razionalismo.
Razionalismo
e socialismo sono fratelli. Il primo proclama l'assoluta indipendenza
della ragione nell'ordine delle idee; il secondo, l'indipendenza
assoluta della volontà nell'ordine dei fatti: il primo, dice: Non
Dio, non leggi religiose: il secondo, non re, non leggi sociali:
l'uno e l'altro libertà assoluta, eguaglianza assoluta: odio a tutte
le supremazie d'ingegno, di nascita e di fortuna, morte a tutte le
tirannidi divine ed umane. L'esecuzione del doppio piano è il
fatto supremo, al quale in loro sentenza va unita la rigenerazione
del mondo, e ad incarnarlo eccitano il mondo intero.
Alle
classi letterate i Razionalisti filosofi vanno ogni giorno sclamando
su tutti i tuoni. Non più Cristianesimo. «Invano, dicono essi, col
diciottesimo secolo, ci lusinghiamo avere schiacciato l'infame,
l'infame rinasce più vigoroso, più intollerante, più rapace e più
affamato che mai. La religione cattolica è un'avida teocrazia senza
spirito di famiglia e senza focolare, ligia a un capo straniero e che
fa curvar sotto il giogo popoli e governo ... Contro un tale dominio
vuolsi combattere ... A toccar questo scopo, vuolsi innalzare altare
contro altare ... La massoneria combatte il Cristianesimo ad
ultimo sangue ... bisognerà bene che il paese finisca col farne
giustizia, dovesse adoperar la forza per guarire da questa
lebbra (308)».
Ad
arruolar tutte la passioni sotto la loro bandiera, rappresentano il
Cristianesimo come nemico del progresso, della libertà, dei piaceri.
«Sì, il Cattolicismo è il partito del passato: sì il cattolicismo
si oppone allo sviluppo d'ogni idea, d'ogni dottrina, d'ogni
istituzione, contrassegnata col marchio del progresso: tutti i
liberali lo sanno. V'ha per gli uomini del progresso, per quanto
dissenzienti fra loro, un comune nemico, il cattolicismo.
Bisogna vincerlo questo nemico, bisogna congiurare ad annientarlo.
Uomini del progresso, comprendetelo bene: sulle rovine del
cattolicismo innalzar dovete l'avvenire dell'umanità.
Dall'unione l'unione! Combinate i vostri sforzi per schiacciare
l'eterno nemico d'ogni lume: il cattolicismo (309)».
Altrove:
«finché non avrete estirpata l'intima servitù, quella che
il cattolicismo ha radicato in più di mille anni nelle moderne
nazioni, la servitù morale: finché lo spirito non avrà cantato
la sua marsigliese, a nulla gioverà emancipare gli uomini ...
Una Chiesa che altro titolo non ha all'universalità che l'universale
invilimento dei popoli da lei insegnato, continua la lotta della
fede contro la ragione, della tirannia morale contro il libero
esame (310)».
E'
più oltre: Sì, quanto v'ha di più spaventevole al mondo è il
veder popoli e Stati tranquillamente sedersi all'ombra d'una
religione morta. Che silenzio! Gran Dio! Che tenebre! ... La
discussione è chiusa col Cattolicismo, perché meno l'ingiuria, non
sa opporre contraddizione. I suoi dommi invecchiati altro più non
sono che il cadavere d'una religione, e se la società con uno
sforzo qualunque non sì scioglie, diventa cadavere anch'essa»
(311).
«E
però noi gridiamo ai Cristiani
imbrutiti
che erigono chiese alla Dea immacolata: Dio, quale i nostri tempi
possono comprenderlo, non è il vostro Dio: alla vostra mistica
filosofia, che non vede nell'uomo se non un'anima da salvare e che
soggioga
il corpo come uno schiavo,
opponiamo la filosofia della ragione, che riconosce
tutti i diritti della natura e le sublimi intuizioni del cuore
... Vuolsi dirlo? non
una sola idea del cristianesimo ci stiamo dal combattere da veri
negatori, da negatori ostinati, e ce ne vantiamo
»
(312)
«Bisogna
che il cristianesimo cada.
Vogliamo noi da ciechi permettere che le cose vadano per la loro
china? Il diciannovesimo secolo sarà il solo che trarre non voglia
alcun frutto dalle proteste che partono da tutti i punti della terra
contro la stessa tirannia? il
dispotismo religioso non può essere estirpato senza uscire dalla
legalità.
Cieco invoca contro di sé la cieca
forza;
nessuna tregua coll'ingiusto, non ne accetto alcuna (313)».
È
bene il notarlo: siffatte infernali vociferazioni il mondo non le ha
udite che due volte: la prima sotto i Cesari allorché il Paganesimo,
pavido di perder l'impero, armava i suoi carnefici, accendeva i suoi
roghi, e gridava da ogni parte: i cristiani al leone! Christianos
ad leonem! La seconda volta nel secolo del Rinascimento, quando
il Paganesimo richiamato dalla tomba, riprendeva il suo scettro
infranto dal cattolicismo.
Più
destro della francese rivoluzione alla quale rimprovera di aver
combattuti tutti i culti, anziché concentrare le sue forze contro il
cattolicismo, il che gli avrebbe permesso di farla finita, il
Razionalismo attuale esclama: Non torniamo allo stesso fallo!
e fatto richiamo a tutto l'esercito del male, vuole riunisca le sue
colonne e si metta in moto contro il comune nemico. «Ecco il perché,
dice egli, mi volgo a tutte le credenze, a tutte le religioni che
hanno combattuto Roma. Son tutte nelle nostre file. Trattasi
qui della causa del secolo XVI, come del XIX e della riforma come
della Rivoluzione. Non solo Rousseau, Voltaire, Kant, stanno con noi
contro l'eterna oppressione; ma Lutero altresì, Zwinglio, Calvino, e
tutta la legione degl'intelletti che combattono col loro tempo, coi
loro popoli contro lo stesso nemico che in questo istante ne chiude
la via» (314)
Quali
espedienti per estirpare il cattolicismo e svincolare l'umanità da
una religione cadavere, il cui contatto minaccia di renderlo
cadavere? Ve n'ha due, la forza e la diffalta. «Colui, aggiunge, che
si propone sradicare una superstizione caduca, se gode autorità
debba prima di tutto render l'esercizio di questa superstizione
assolutamente e materialmente impossibile» (315). Ma finché
la forza sia in mano del Razionalismo, che fare? Abbandonar in massa
il cattolicismo. Uscite dalla vecchia Chiesa, voi, le vostre
donne, i vostri figli; uscite da ogni porta schiusa, uscite (316)».
Come
i popoli usciranno dal Cattolicismo? Coll'abbandono di tutti i doveri
ch'esso impone «Vuolsi per ben cominciare che uomini illuminati,
fermamente convinti dei mali spaventevoli cagionati dalla cattolica
religione e dei continui pericoli di cui minaccia l'umanità,
prendano l'impegno di limitarsi essi e la loro famiglia
all'osservanza della legge civile, in ciò che riguarda la nascita,
il matrimonio, il decesso, conseguentemente a respingere tutti i
sacramenti religiosi» (317).
Usciti
dal Cattolicismo quale religione darete ai popoli, perché l'uomo
come di pane così non può far senza di religione? Gli daremo la
religione del Razionalismo. L'ideale debba essere il razionalismo
puro» (318).
Ed
è chiaro. Ma tra il cattolicismo e il Razionalismo puro, la distanza
è lunga: i popoli possono superarla in un batter d'occhio. «Questo,
dicono, sarebbe in tutta logica, sarebbe oltre ogni dire
desiderabile; ma sventuratamente la cosa non è possibile.
Intanto bisogna dar loro una religione transitoria. Ora fra le
più moderne forme del cristianesimo, una ve n'ha che sembra a bella
posta preparata per fare il pemte su cui gli uomini passar possono
senza patir vertigine e provar desiderio di voltarsi indietro:
l'Unitarismo. L'Unitarismo altra cosa non è che la
professione di fede del Vicario Savoiardo, che fu si a lungo l'anima
della Francese Rivoluzione. Quella setta tocca quasi al Razionalismo,
stantechè, rifiuta il papato, la confessione, il celibato dei preti,
i sacramenti religiosi alla nascita al matrimonio, al decesso, gli
ordini monastici: può dunque servire di religione transitoria senza
nulla presentare che ripugni alla ragione. Di fatti che rimane? La
Bibbia opera umana, l'Evangelo opera umana, Gesù di Nazareth, un
savio, un filosofo, come Socrate, Marco Aurelio, Platone (319)».
Tali
predicazioni degne dello stesso Satana trovarono un eco, e fanno capo
ad una associazione di cui ecco il programma. «Un certo numero di
cittadini volendo mettere in pratica i principi i professati dalla
maggior parte dei liberi pensatori, ma lasciati finora allo stato di
teoria, fermarono l'ordinamento d'un'associazione che comincia dalla
sepoltura eseguita senza alcuna cattolica cerimonia. Dopo
parecchie tornate in cui le basi dell'associazione furono discusse e
fermate, venne composto un comitato provvisorio. e l'associazione
definitivamente costituita la sera del 20 luglio (320).
»L'associazione
prende la sepoltura civile come punto di partenza per giungere alla
successiva soppressione di tutte le pratiche cattoliche. Come
mezzo stabilisce la fondazione d'una cassa per quote e soscrizioni
volontarie e si volge a tutti i liberi pensatori.
»La
quota mensile è fissata ad un franco.
»Il
comitato centrale siede a Brusselles. Si porrà immediatamente in
correlazione coi comitati delle provincie, in modo da imprimere alla
associazione il carattere di unità e di solidarietà che debba
assicurarne l'andamento e il buon successo (321).
In
seno all'Europa cristiana, dopo diciotto secoli di Cristianesimo, una
associazione pubblicamente sistemata, non di Tartari o Chinesi, ma di
cristiani per la distruzione del cristianesimo; e ciò con non
maggiore riguardo che se si trattasse d'aprire una miniera o una
strada ferrata: tale è dunque l'ultima parola degli attuali
Razionalisti, di quei filosofi che menano vanto d'essere figli del
Rinascimento prima d'essere figli della Rivoluzione.
Che
questa associazione satanica si risolva nella ridicola manifestazione
d'un odio impossente vogliamo di buon grado ammetterlo, ma il fatto
sta che esiste e rivela le supreme tendenze del Razionalismo: il
fatto sta che l'idea di siffatta associazione non nacque nel medio
evo: il fatto sta che se un qualche cosa di simile fosse venuto a
spaventare i nostri maggiori sarebbero corsi agli altari, per ottener
misericordia dal cielo all'armi per esterminare gli autori di cotanta
enormità; il fatto sta che ora quest'associazione si manifesta alla
libera luce del sole, che l'Europa ne è informata dalle cento voci
della stampa; che apertamente o di soppiatto parecchi vi
applaudiscono, molti ridono ed i più se ne stanno indifferenti; che
nessun governo s'inalbera, e nessuna porta si chiude in faccia a
questi apostati letterati che giurarono di ricondurre la società
alla pagana barbarie.
Altro
fatto non meno istruttivo si è che il Belgio popolato di
Razionalisti di questa tempra e dominato da franchi muratori non meno
impudenti, gode da quarant'anni e più della libertà d'insegnamento
e fu per la maggior parte educato da ordini religiosi. A vista d'un
cotal fatto desolante che si rinnova in Svizzera ed in Italia, come
si produsse in Francia sullo scorcio del secolo passato, come
sottrarsi a questo importuno dilemma? O l'educazione secondaria data
anche dal clero è incensurabile o non lo è. Se è incensurabile a
che serve, se non lo è, perché ostinarsi a dispetto dell'esperienza
a mantener un sistema di insegnamento che se direttamente non
favorisce la Rivoluzione, non ha potuto in alcun paese, ad onta delle
più favorevoli condizioni, impedirle di spingersi all'ultima formola
e di crescere al punto da tenere ora in tutta Europa, in assai arduo
frangente l'ordine religioso e il sociale?
Diciamo
l'ordine sociale. In fatti, mentre i loro fratelli primogeniti, i
Razionalisti filosofi minacciano il cristianesimo d'una completa
distruzione, i Razionalisti socialisti dicono apertamente che cosa
contano di fare dell'ordine sociale il giorno in cui il potere cadrà
fra le loro mani.
Non
più re, non più possidenti.
Tale è la parola d'ordine delle loro segrete società; la solita
canzone dei loro giornali, lo scopo manifesto di tutto quell'esercito
di barbari che chiamasi LA SOCIALE (322). Per essa il regicidio è il
primo, il più santo dei doveri, non solo assolve gli assassini, ma
li eccita e li glorifica. «È ormai tempo, diceva essa non ha molto,
che uomini come Bruto, in nome dello stesso principio compiano la
stessa missione inesorabile, fatale. Già Pianori e Agesilao Milano.
han cominciato la catena di quegli eroi che sviluppando la
Rivoluzione dalle pastoie del dottrinismo, la spingono sull'unica via
che sia logica e che possa condurla a salute. Son caduti, ma la loro
gloriosa impresa verrà annoverata tra le più belle azioni della
storia contemporanea» (323).
Di
fatto, giusta le tradizioni del rinascimento e dell'antichità
pagana, i poeti cantarono l'assassinio del re di Napoli e la
giustizia del paese nulla trovò a ridire nei loro versi. Né là si
ridusse la glorificazione del regicidio. Una medaglia fu coniata in
onor di Milano e di Bentivegna vittime della borbonica tirannia. Da
un canto della medaglia raffigurasi Milano morto; da lontano scorgesi
il Vesuvio che minaccia dei suoi fuochi il tiranno. Intorno leggesi:
«A. MILANO, solo di pieno giorno, a volto scoperto, si levò
contro il nemico circondato e possente. REDENTOR CIVILE.
Sull'altra
faccia è Bentivegna sul punto d'essere archibugiato, col ginocchio
destro in terra, con la mano dritta impugna la fascia che deve
cingergli gli occhi, con la sinistra scopre il petto. Al disotto
leggesi: FR. BENTIVEGNA, impaziente, con pochi uomini, dichiara
guerra al perverso potere, preludendo, a costo del proprio sangue,
alla italiana libertà (324)».
I
dibattimenti delle nostre corti d'assise manifestarono che i nomi dei
due regicidi Milano e Pianori sono le parole d'ordinamento delle due
segrete società la Militante e i Franchi Giudici
(325).
In
tutto quell'esercito tenebroso le cui colonne si estendono per
l'Europa come una rete, il regicidio è primo dover del soldato,
primo patto della sua milizia. I franchi muratori non son tenuti in
concetto dei più immoderati fra i liberi pensatori socialisti, e
nondimeno ecco il giuramento del cavalier d'Asia. Bendatigli
gli occhi, legatogli le mani, postagli la corda al collo, coperto
solo d'una reste tinta di sangue, con la destra su un cadavere e la
sinistra sugli statuti dell'ordine, pronuncia il seguente giuramento:
«Giuro per quanto v'ha di più sacro di adoperarmi alla distruzione
dei traditori e dei persecutori della franco massoneria, di
schiacciarli con tutti i modi che mi saranno possibili: giuro
riconoscere come flagelli dei miseri e del mondo i re e i fanatici
religiosi, e di averli sempre in aborrimento: giuro di bandir ovunque
io mi trovi i diritti dell'uomo, e di non seguir mai altra religione
fuor quella che la natura ha scolpita nei nostri cuori. Giuro
illimitata obbedienza al capo di questo consiglio o a chi lo
rappresenterà. Che tutte le spade volte contro di me si
piantino nel mio cuore se avrò mai la sventura di allontanarmi da
questi obblighi miei assunti di piena e libera volontà. E così sia.
«Pronunciatosi
dal nuovo cavaliere un tal giuramento, lo scrive col sangue tratto
dalle proprie vene sul gran libro dell'architettura e del
carteggio segreto: poi gli vien domandato: A che tempi siamo?
- alla rigenerazione del mondo. Allora il gran mastro dice:
fratelli miei, ritiriamoci: andiamo ad illuminare gli uomini e a
schiacciare i serpenti che propugnano l'umana ignoranza. Poi
sclamano: salviamo il genere umano» (326).
All'odio
dei re e della società accoppiasi nei razionalisti l'odio mortale
della religione e dei preti. Ecco ciò che uno di loro osava scrivere
quest'anno stesso: «La Francia, come Danton, s'è un giorno venduta
cedendo ai sordidi allettamenti dei materiali appetiti: come donna a
lungo tenutasi onesta, s'è un giorno indegnamente prostituita. Ma la
Francia saprà gloriosamente redimere il suo passato. E quale
un'ammalata che ha finalmente la coscienza del proprio male,
domanderà ai topici più violenti l'estirpazione radicale del
virus cattolico, morbo cronico che ne mina, no rode, ne snerva,
ne imbestialisce, ne instupidisce, che valendosi della consuetudine
nei nostri primi anni acquistata di credere e ciecamente
sottometterci, senza esame, all'autorità dei più stupidi o dei
più atroci dommi, ne predispone a sottoporci ad ogni politica
autorità, per infame che sia, per quanto nella propria origine
mostruosa (327).
Ne
manca ancora un piacere, dice un altro, ed è quello di appiccare
di nostra mano l'ultimo prete al collo dell'ultimo ricco.
Talvolta faccio beati sogni. Parmi veder Roma inabissarsi all'ultimo
bagliore dei troni che crollano. Roma è la Babilonia dei tempi
moderni: contro essa la sanguinosa Gerusalemme del proletariato
s'avanza come angelo riparatore. Possa ella, me vivo, schiacciare
quanti s'avvisano poter dominare l'umanità per genio, per nascita,
per fortuna, per autorità. Livelliamo, livelliamo, e un
giorno la società vecchia, bastarda, decrepita vergognerà di esser
dannata a morire da coloro i nomi dei quali dispregiò. Che bel
giorno!» (328)
Per
imporre ai semplici non temono fare un sacrilego abuso dell'adorabile
nome del Figlio di Dio. «Contiamo fra i nostri fratelli, scrive
Medeff ai suoi adepti, cuori che non veggono dove moviamo. Son
religiosi per un sentimento attinto sulle ginocchia dell'avola. Non
dobbiamo batter di fronte un sentimento che si riduce ad un fanatismo
d'infanzia. Vuolsi assorbirlo in un altro: possiamo fare del Cristo
una divinità. Ma egli fu proletario, si dirà, facciamone il
paziente dei farisei, gli aristocratici del suo tempo. Parliamo di
Cristo con un certo rispetto. Così guadagneremo a poco a poco i
nostri fratelli indurati nella divozione».
Altrove,
tornando all'odio infernale che gli inspira, dicono: «Il sommo
d'ogni umana degradazione, la degradazione dell'uomo stesso, è la
sedicente religione chiamata fra noi cristianesimo» (329).
Né
già solo il Razionalismo socialista minaccia re, sacerdoti e ricchi,
ma a nullo e a nulla cosa perdona.
Ad
aggiungere lo scopo chiama in aiuto due potenti ausiliari, l'orgoglio
e la voluttà, or dell'una facendo suo pro, ora dell'altra. «Sapete,
scrive, Magari, i nostri sforzi per guadagnar gli operai. I mezzi più
semplici riescono meglio. Bisogna eccitar la loro sete di
godimenti e dipinger ad essi con colori più adatti alla loro
ignoranza, la miseria che li rode. I nostri primi istitutori riescono
d'altissimo giovamento per questa propaganda; ma il clero li combatte
e li smaschera. Dunque guerra a morte al clero, che vuol uccidere la
nostra chioccia dalle uova d'oro» (330).
A
compir la teoria Peters soggiunge che il socialista in abito di panno
non dee esitare a portarsi nelle taverne, a blandir il popolo, «cui
l'esser blandito va al cuore come alla testa d'una civettuola. Quando
si hanno venti o trenta proletari sotto mano, vuolsi adottare il
principio di Schuller, dir loro cose che non comprendono e che
si possono loro spiegare ad libitum ... Tenetevi sicuri che
allora li condurrete pel naso come fanciulli» (331).
«Non
dire già, scrive Stepp a Weitling. che il furto e la comunanza delle
donne siano cose lecite. Lederesti un sentimento che i ricchi e gli
sciocchi chiamano pudore. Noi lo sappiamo: È inutile
proclamarlo. Ma fa d’uopo predicare il bisogno della vendetta
contro l'ordine sociale che ha tenuto sì a lungo le nostre teste
schiacciate fra le sue spire di vipera. A montar la lira al
conveniente tuono, si vorrebbero flutti di sangue. Un giorno ne
faremo scorrere più che non vi siano gocce d'acqua in questo lago,
(il lago di Ginevra). Perché farsi del furto una risorsa legale
quando annunciamo che non vi sarà più né tuo né mio?
Perché parlare della comunanza delle donne quando la promiscuità
è un dovere? Lascia dunque ai poveri di spirito questi comunali
spedienti. I nostri affari progrediscono orribilmente qui ed altrove.
Te lo dico con gioia: il vecchio mondo è quanto mai caduto in basso,
screpola e siamo noi che nasciamo alla nuova vita di Gerusalemme»
(332).
Infine
come i Razionalisti filosofi hanno formato una associazione per
l'estirpazione del cristianesimo, i Razionalisti socialistici ne
hanno formato una per l'estirpazione della società, della proprietà,
della famiglia. Eccone alcuni statuti con l'esposizione dei motivi
redatti da Struve. capo della rivoluzione badese: sono a livello
delle sanguinose stravaganze di Heinzen.
«Vi
sono, disse Struve, sei flagelli dell'umanità: i re, i
nobili, gli impiegati, gli aristocratici di danaro, i sacerdoti, gli
eserciti permanenti. Questi flagelli costano quattordici
miliardi. Sbarazzandosi da questi sei flagelli, i popoli
conserveranno in saccoccia quattordici miliardi. Vuolsi per ciò che
l'esterminio si estenda dal Tago all'oceano, dall'oceano al mar
Nero, e un’esterminio compiuto tanto da distruggere non solo
questi sei flagelli, ma ben anco gli elementi di cui si compongono ».
Seguono gli statuti dell'associazione democratica; eccone i due primi
articoli:
«ARTICOLO
I. Tutti i membri delle famiglie dei principi sovrani sono in
perpetuo sbanditi dall'Europa. Qualora vi rientrino gli adulti del
sesso mascolino saranno messi a morte, le donne e i minorenni chiusi
in perpetuo carcere.
«ARTICOLO
II. Il terreno dell'Europa è perfettamente libero e sarà soggetto a
un nuovo scompartimento per modo che i beni dello Stato, dei comuni,
della Chiesa e delle corporazioni religiose, non che tutti i beni
appartenenti ai principi, e tutto quanto un cittadino possedesse al
di là dei due cento acri di terra saranno distribuiti ai cittadini
che nulla possiedono (333).
Distruzione
completa dell'ordine religioso e del sociale, tale nella bocca dei
suoi capi e dei suoi organi più immoderati è l'ultima parola del
Razionalismo filosofico e del socialistico. Se non è sul libro di
tutti gli adepti, chi può farsi garante che non covi in fondo al
loro cuore? Per mostruose che siano queste conseguenze del
Razionalismo, sono logiche. Perciò appunto che si risolve
nell'apoteosi dell'uomo in pari tempo il Razionalismo risolvesi
nell'odio mortale di ogni ordine religioso e di ogni ordine sociale,
che l'uomo non ha fatto e di cui è malcontento.
Ma
questi anticristiani ed antisociali ragionamenti sono sogni di
cervelli infermi. Gli è pericoloso addormentarsi su un siffatto
ragionamento e l'esperienza lo prova. Bisogna temere dei sogni che si
indirizzano a tutti i corrotti istinti dell'umanità, ed hanno per
indefettibili ausiliari tutte le avide e brutali passioni che
fermentano in cuore alle masse popolari. Checché ne sia, ammettendo
pure che l'uomo è meno cattivo dei suoi principi, che trovasi salute
laddove meno s'aspetta, che la Provvidenza, per quanto spingasi agli
estremi l'umana perversità, non scatenerà giammai la Gerusalemme
del proletariato contro la Babilonia della borghesia, gli è
sempre vero che l'Europa é ora minacciata da un esercito di barbari
divisi in due grandi corpi, uno che attacca la religione, l'altro la
società, che questi due corpi partono dallo stesso punto;
obbediscono alla stessa parola d'ordine, procedono sotto la stessa
bandiera, e che questo punto di partenza, quest'ordine, questa
bandiera è il Razionalismo; che il Razionalismo nato dal
Rinascimento e da esso acclamato, da esso sistemato, fatto per esso
il re delle intelligenze, altra cosa non è che il filosofismo
dell’antichità pagana, sostituito alla filosofia cristiana in
religione, in politica, in letteratura, in tutto ciò che costituisce
la fede, il diritto, il dovere.
CONCLUSIONE
Tuoneremo
invano dall'alto dei pergami, invano gemeremo fra le domestiche mura,
invano contenderemo nei giornali, invano protesteremo con eloquenti
scritti contro il Razionalismo che tutto invade, e il Naturalismo e i
socialismo che ne derivano; anziché rallentare il suo corso, il
torrente di giorno in giorno stenderà le sue rovine, e a meno di un
miracolo sul quale non abbiamo ragione alcuna per fare assegnamento,
precipitiamo nell'abisso: se continuiamo, come sogliamo da più
secoli a nutrire la gioventù cogli scritti dei razionalisti
dell'antichità, Platone, Seneca, Plinio, Plutarco, Cesare, Cicerone,
Orazio, e d'altri che erano certo bei dicitori, ma in pari tempo
liberi pensatori, e che per confessione stessa di Bayle, di Rousseau,
di Voltaire, d'Elvezio, di Mably, di Cousin, di tutta la famiglia dei
Razionalisti in Italia, in Germania, in Inghilterra, in Spagna, in
Francia dal Rinascimento sino ai giorni nostri, sono i padri del
moderno Razionalismo.
FINE
___________
Note
1
Troveremo altrove la spiegazione e il vero senso di tale
proposizione.
2
V. tra le altre l'Enciclica del 1846.
3
Globe, n. 56.
4
Goethe.
5
Jacques, Libertà di pensare.
6
Feuerbach, id., n. del 20 novembre 1850.
7
Jacques, op. cit., n. del 20 novembre 1850.
8
Alloury, Debats, 25 aprile 1852.
9
Nel mirabile capitolo dei Monologhi intitolato: Che cos'è
diventar niente, quid si nihil fieri: Sant'Agostino con la sua
consueta lucidezza d'idee spiega quest'opera funesta
dell'annichilamento dell'uomo operato da sé medesimo.
10
Jac. Tomasii. Hist.
atheism. brevit. delineata.
In-12,
ediz. 1723, p. 144.
11
Spizel. Scrutinium atheismi. In-12. August. Vindelicor. 1663,
p. 22.
12
Jurieun, Politica del clero, p. 85.
13
Pensieri vari sulle comete, in-fol., p. 210.
14
Pensieri vari, ec. l. c.
15
Diz., art. Takkiddin.
16
Saggio sui costumi, t. II, p. 301-2, Ediz. Beuchot.
17
Saggio sui costumi, l. c.
18
Vita, ecc., nelle opere di Scot, p. 15.
19
Vedi Annali della filosof. crist., agosto 1855, p. 120 e ss.
20
Petr., Clun., lib. IV, epist. 21.
21
Caramuel, Phil. real., lib. III, § 5, p. 175.
22
Puteolus, in Elencho
hoereseon:
voce Amalricus,
p. 25 ; Gerson, Tract.
de concord. metaph,
cum.
Log.,
part. IV.
23
Non parliamo né di Vicleffo, né di Giovanni Hus, né di Girolamo da
Praga, né d'Arnaldo da Brescia, né di Valdo, innovatori tutti, i
quali furono eretici, non razionalisti.
24
Ed è in altri termini quanto diceva Erasmo, il grande apostolo del
Rinascimento: Ego peperi ovum, Lutherus exclusit.
25
Elogio storico dell'università di Parigi, p. 32. - È una prova fra
cento che allora non si studiava greco.
26
De praescript., c. VII. - Nella sua enciclica del 1846, Pio IX
non dice forse a chiare note che il Cristianesimo corre adesso gli
stessi pericoli che nei primi secoli correva, e che non mancano in
Europa filosofi razionalisti che insegnano un cristianesimo stoico,
platonico, dialettico? Si tratta sempre di sapere quando e come
questi filosofi pagani siano tornati in seno alle nazioni cristiane.
27
Haeres, lib. II. c. XIX.
28
Lib. I, Contr. Cels.
29
Contr. Gentil., lib. II, c. II.
30
Hist. eccl., lib. V, c. XXVII.
31
Irrisio philosoph.
32
Contr. Eunom.
33
Orat. XXVI.
34
Contr. haraes., lib. II Haraes. 69; lib. III, Haeres.
76.
35
Offic., lib. I, c. XIII.
36
Homil. III, in c. I Epist. ad Rom.: in Psal. CXV; Homil
XXIV, in Joan.
37
Dialog.
contr. Lucifer.;
contr. Pelag.,
lib. I
et III.
38
Contr. Julian., lib. I.
39
Contr. Eunom. assert. II.
40
In Theophrast.
41
In cap. II Epist. I ad Corinth.
42
Serm.
II, in die Pentecost.;
id., Serm.
I,
in fest. Apost. Petri et Pauli.
43
Così Beda che formalmente esclude Aristotele dalle scuole, e, come
dice un autore: A
christianae fidei vicinitatibus et confiniis prohibuit,
conosceva alcuna di queste opere da cui estrasse parecchie sentenze.
Così Lanfranco, in I ad Cor. di Pier abate di Celles, lib. X, epist.
12, di Ricardo di Costanza a cui Giovanni di Salisbury vescovo di
Chartres, scrive d'inviargli alcuni trattati d'Aristotele epist. 202.
Quanto a Platone nessuno quasi lo conosceva, e molto meno lo leggeva.
- Melech. Canus.
Disputat.
de Aristotel.,
lib X, De
locis theolog.,
c. v.
44
Rigordus, in Vit. Philipp. Aug. - Hugo, Cronol. Roberti continuat.
An.
1240; Joan. Victorin. in Memorial. histor.
45
Collecto judicior. de novis errorib. qui ab init. XII secul. usque ad
an. 1632, in Eccles. proscripti sunt. 3 vol. in-fol. Lutetiae 1328,
t. I, p. 203.
46
Cod.
Mess. Academ. Parisiens.
47
Che sino a questo tempo la dialettica di Sant'Agostino abbia regnato
nelle scuole ne abbiamo un'illustre conferma nella vita di sant'Odone
di Cluny.
Vid.
Odon.
Clun., lib. I.
48
Mss. Acad. Paris.
49
Lib. De script. eccles., c. XXIV.
50
Serm. domin. II post festum Trinit.
51
Gaufrid. Bellilocus c. XXIII de vit. illius. - Launoi, p. 52.
52
Prolog. Istaura. scient. art. 11.
53
Tract
.. adv. Joan.
Montesonem ad calcem magistri sentent.
54
Elogio storico dello Università, p. 52.
55
Elogio storico, ecc. l. c.
56
Mss. Acad. Paris.
57
Lect. in Marc.
58
Nicol. Clemeng. In op. Ms. De instituendo theologiae studio.
59
Mss. Acad. Paris.
60
Lib. De script. eccles.
61
Fr.
Archiep. Rotomag.,
t. II De
myster. Eucharist.
62
Stato della filosofia moderna in Germania, p. 4.
63
Il Fiorentino Machiavelli, dice Gentillet, gli ha dato il suo nome.
64
Daniel Classen, Relig.
Polit.
65
In orat. acad.
66
Ad Contz., lib. II, Politic., 4, c. XIV.
67
Tract.
Contempl.
aulae.,
id.
Contz. Trattato
del cortigiano.
68
Scrutin. atheis., p. 22, ediz. in-12, 1663.
69
Pietro Mathieu, Storia
di Enrico II, lib.
VII,
§ 8.
70
Apud Spiz., t. 1, p. 22.
71
Storia
di scienze morali e politiche
ecc., tom. I.
72
Thom., Hist. phil. atheis., p. 158; de Thou, lib. XIII, p. 276,
Brucker, lib. II, p. 134.
73
Si può convincersene leggendo le sue Quaestiones peripateticae,
oppure l'opera di Samuel Parker, Disputatio de Deo et Providentia.
74
Brucker, lib. II, c. III, p.186.
75
Id., p. 228.
76
Simonis Simonii Lucencis, primum romani tunc calviniani, deinde
lutherani, denuo romani, semper autem athei summa religio.
77
Giuseppe Pazzi. Cont. della mostr. far.
78
Theoph. Reginald. Erotem, VI De bonis ac malis libris, n. 44.
79
Gian. Ball. Gello, dial. II, Chimer. del. Bottajo.
80
Jo. Leti, Istor. universal., p. 716; id., Thuan. supplem.
81
Thomas, Hist. atheism. p. 171.
82
Vedi Rivoluzione.
83
Gabr. Putherb.
in Theotim. lib. p. 78.
84
Id., id.
85
Apol. Wilhelm., princip. arausic., p. 66.
86
Naud. In judicio de Aug. Nipho ejus operib. moral. praefixo,
p. 31; et Tiraboschi, t. VII, p. 432.
87
Spiz., p. 65; Gabr. Putherb., In Theotim., lib. I,
p. 81; Vives, De verit. fidei, II; Paul. Jov., Elog. p. 83; ediz.
in-12.
88
Nandee, Apol. degli uomini grandi, c. VII.
89
Mem., art. Bembo.
90
Vedi altresì P. Gio., Elog., e Bayle, art. Bembo.
91
Lib. II, c. III. - Vedi pure Bayle, art. Vayer.
92
Facetiarum conclus. p. 275.
93
Opus turpissimum et aquis incendioque dignissimum.
94
Mem. di Nicer., t. IX, p. 154.
95
In Laurent. Vallam.
96
Mem., art. Poggio.
97
Ad Leonard. Aret., Ep.
inter opera.
98
Virtutes ferme omnes tanquam prosciiptae, regnum ac dominantium
animos reliquerunt, seseque ad humiliores homines contulerunt, etc.
etc., p. 394.
99
Vedi tra gli altri Bayle, art. Vayer e Virg.
Tiraboschi, St. della lett. ital., -Ginguené, id.
100
Io non intendo qui far l'apologista del Casa: troppo chiare sono
l'infamità che si leggono in quel suo sporco capitolo, ecc.; con
tutto ciò come ho detto, fu sua gran disgrazia l'aver per nemico il
Vergerio. Ognuno vede le orribili infamità nei medesimo genere che
si trovano nel Berni; nel capitolo a Marco Antonio da Bibiena,
e nell'altro capitolo sopra un garzone, ed in mille altri luoghi; in
Curzio di Marignolle; nel Russoli; in Marco
Lamberti; nel Persiani; ed in cento e mille altri
nostri poeti fiorentini, per tralasciare altri quasi infiniti
di altre patrie. - Letter. al. sig. Bigot.
101
Salvator Rosa! La
Poesia.
V. pure Possevino, Bibl.
Univers.
102
La Pittura, in-18, 1719.
103
Titulo duntaxat sumus christiani ... Christum ore
confitemur, sed Jovem optimum maximum et Romulum lgestamus in
pectore. - Ciceron., p. 106, etc. V. la nostra prefaz. alle
lettere di San Bernardo.
104
La Pittura, in-18, 1719.
105
Quaest. Rom., 40, T. III, p. 399; ediz. in-12.
106
Polit. lib. VIII.
107
La discordia.
108
Prop. Op. lib. III. eleg. VI.
trad. Vismara.
109
La Pittura.
110
Lo scandalo è ormai giunto a tal punto che la polizia francese, che
nessuno accuserà certo di giansenismo, denuncia e fa condannare i
fotografi che hanno anch'essi il loro serraglio, e ne espongono i
prodotti agli sguardi dei passanti!
111
La Pittura.
112
Un nobile viaggiatore si volgeva Michelangelo, e gli dice:
Sapevi
pur che il figlio di Noè,
Perché
scoperse le vergogne al padre,
Tirò
l'ira di Dio sovra di sé:
E
voi senza temer Cristo e la madre,
Fate
che mostrin le vergogne aperte
In
fin de' santi quì l'intere squadre,
Dunque
là, dove al ciel porgendo offerte
Il
sovrano pastore i voti scioglie,
S'hanno
a veder l'oscenità scoperte
In
udire il pittor queste proposte,
Divenuto
di rabbia rosso e nero,
Non
poté proferir le sue risposte;
Né
potendo di lui l'orgoglio altero
Sfogare
il suo rancor per altre bande
Dipinse
nell'inferno il cavaliere.
113
La Pittura.
114
Alcuni erano andati tant'oltre da cantar il Kyrie sull'aria dell'Ami
Baudichon o della Bella Venere.
115
Certo i romanzi di cavalleria, le fiabe, e i canti dai trovatori del
tredicesimo, quattordicesimo e quindicesimo secolo non vanno esenti
da taccia. Ma fra queste opere ispirate, almanco in parte dallo
spirito pagano, e quelle degli scrittori e dei poeti del
rinascimento, qual differenza per lo spirito
generale!
116
Theotim., lib. 1, p. 79.
117
Vedi la nostra Storia del Protestantismo.
118
Comm. in Zach., c. XIII, v. 8.
119
Pholosofh. Real. Praef.
120
I Riformatori, t. J. Zwingli, p. 225.
121
Pervertito dal suo commercio coi pagani questo libero pensatore
comincia come tutti gli altri dal declamar contro i frati, continua
facendosi discepolo di Pitagora, e finisce col darsi alla cabala.
122
Triomph. Capnion.
123
I Riformatori, t. 1, p. 51.
124
Epist.
Th. Mori inter. epist.,
Er. Rotterd.
125
I Riformatori, cc., Hutten.
126
Id., t. I, p. 82.
127
Idem.
128
Schizzi storici sulla Riforma, del dott. Jarcke, p. 15. 17,
29, 34, e 50.
129
Jarcke, op. cit., p. 89.
130
Analisi della Triade di Meniers. Biografia degli uomini
illustri del Risorgimento, 3 vol. in-8.
131
Cochloeus act., etc.
132
Quinet, Pref. alle opere di Marnix.
133
Lettere a Federico di Sassonia, 1720. V. gli stessi voti nel Nuovo
Karsthans, altro libello di Hutten.
134
A caratterizzarlo, uno fra di loro, stese a norma del gusto del tempo
il seguente epitaffio.
Inter
divos, nullos non carpit Momus
Inter
heroas, monstra quaeque insectatur Hercules.
Inter
demones, rex Erebi Plutus irascitur omnibus umbris ..
Inter
philosophos, ridet omnia Democritus,
Contra
deflet cuncta Heraclitus
Nescit
qua eque, Pyrrhus,
Et
scire se putat cuncta Aristoteles.
Contemnit
cuncta Diogenes,
Nullis,
his parcit Agrippa: contemnit,
Scit,
nescit, deflet, ridet, irascitur, insectatur,
Carpit
omnia.
Ipse
philosophus demon, heros et omnia.
135
O'Connor, Comment. de statu Eccl. Britan., p. 50.
136
A condito orbe non fuerunt tot monstrosae opiniones quot nunc in
Anglia. Thom. Eduard.,
In
gangrena;
id. Giuseppe Alles, vescovo di Norwich; Storia della chiesa
anglicana, sezione 25; idem, J. B. François note su la Storia di de
Thou. c. II.
137
Kiug, In Lect. sup. Jonam., sect. 32, p. 442.
138
Andreas Philopater, In
respons. ad edict. Elizab.;
item, Parker Barlow, idem, Guill. Bos., lib. De
inst. rep. christ.
139
Respons. Witakerii, p. 432. Id., in-12.
140
Prolegom. ad phys. p. 14, 15 et 16.
141
Debats, 30 aprile 1852.
142
Hispania quam plurimos atheos in primis praeticos magno numero
hactenus aluit, etc. - Spiz., p. 32: id., Vindictae Gallicae
contr. Martem gallicum, c. XXIX.
143
Niceron, Mem., t. XXXVI.
144
Libertinorum fanaticorum monstrorum Africam. - Disp. select., I. I,
p. 223.
145
Hinc plurimi certatim ruunt in atheismum, lib. VI, Theolog. -
Translationem hanc elaboravi ut convincerem homines illos in Belgio
qui negare audeant angelos, diabolos, animos immortales , imo ipsum
Deum. – Interpres Belg. Mercurii Trismeg. Praef.
146
Wigand, lib. De Deo contr. Arian; Hermenz, Tract. de lege naturae;
id., Birkerod, etc.
147
Eccone il titolo di alcune: Procaci et Puellae - Pamphilus, Maria,
Virgo Misogamos, - Virgo Poenitens, - Conjugium, - Diversoria -
Conjugium impar, - Adolescens et Scortus. - l Colloqui furono ben a
ragione condannati dall'Università di Parigi nel 1528.
148
Morioe elogium, Dedic. a Tomaso Moro.
149
-Vix aliud (opus) majore plausu exceptum est, praesertim apud
magnates. Paucos tantum monachos eosque deterrimos, ac theologos
nunnullos morosiores offendit libertas - Erasmo, Ep. ad Bolzhemum.
150
Orat., II.
151
Apud Anglos triumphant bonae litterae, recta studia. - Ep., lib. XVI
ep. 19 et 27
152
Ep., lib. V. ep. 10.
153
Vid Thom. Crenium, Exercitatiolnes philologico-historic. Lugd.
Batav. In-18, 1697.
154
Melch. Adam., Vit. jurisconsult., p. 316.
155
Pref. all'opera di Marnix.
156
Saggio sui costumi, t. II, p. 301.
157
Theotim., lib. II, p. 180.
158
Lib. I,
c. LVI.
159
Lib. II, c. III.
160
Lib. I, c. XXX.
161
Lib. III, c. V.
162
Lib. I, c. XXXVIII.
163
Lib. I, c. XXXVIII.
164
Vedi la sua Saviezza e Apolog. del P. Garasse.
165
Il dogma dell'anima del mondo, comune tanto fra gli antichi, come
Virgilio, Platone, Zenone, Catone, Lucano ed altri celebri classici,
è nel fondo quello di Spinosa. Il che più chiaramente apparirebbe
se altri geometri l'avessero spiegato: ma siccome gli scritti ov'egli
ne fa menzione, hanno più del metodo rettorico che del dogmatico, e
invece Spinosa pretende alla precisione, ne deriva che troviamo
parecchie capitali differenze fra il suo sistema e quello dell'anima
del mondo. Diz. art. Spinosa. Grande amatore dei classici
pagani Spinosa volse la mente alla filosofia, prese Cartesio per
guida, e le conseguenze geometriche dedotte dai principi del suo
maestro lo condussero all'ateismo. - Praef., Oper. post hum.
Il
titolo della principale opera di Spinosa prova la filiazione
cartesiana:
Benedict
de Spinosa Renati Descartes principiorum philosophiae part prima et
secunda, more geometrico demonstrata.
166
Censur. phil. cartes. c. VIII, p. 215. Ediz. Parigi 1680. -
Vedi pure Thomasius, Hist. atheism., p. 35.
167
Disc. prelim. dell'Enciclop., t. 1, p. 268-271.
168
Disc. sulle scienze mat. 1786.
169
Globe, n. 147.
170
Monit., id., e Collezione dei decreti, ecc.
171
Audin, Vita di Calvino, t. 1, p. 83-85, edizione in-8.
172
Vedi Memor.
di Niceron, art. Malherbe.
cc.
173
Dizionario,
art. Saint-Evremond.
174
Vita del duca di Borg, del barone Trouvé, pag. 23. - Vedi
anche la nostra Storia del Protestantismo.
175
Niceron, Mem., tom. XXVI, pag. 112.
176
Vedi de Beauchamps, Storia del Teatro, e fra tutti i poeti e
prosatori francesi del Rinascimento, vedi Viollet, le Duc, Naudé,
Pasquier, Ricerche sulla Francia, pag. 857; Bayle, Baillet,
Teissier, ecc.
177
Naudé, Su Nifo.
178
La vista d'una cattiva immagine potentissima ad eccitare le passioni
negli adulti, urta anche nei più teneri fanciulli il senso del
pudore. Conosciamo personalmente il fatto seguente. Una figlioletta
di tre o quattro anni guardava un giorno un'immagine del Bambino
Gesù. Per la smania del nudo, o piuttosto per un abuso sacrilego
egualmente contrario alla decenza ed alla storica verità, l'artista
aveva rappresentato il bambino Gesù senza alcuna veste, in piedi nel
grembo della madre. Mamma, domandò la fanciullina portando
l'immagine a sua madre, perché mo’ il bambino Gesù è fatto così?
La Santa Vergine non aveva camicia da mettergli? - La madre
imbarazzatissima rispose: è vero, figliuola, la Madonna era assai
povera. - Non fa nulla, avrebbe potuto nasconderlo col suo grembiale.
- La madre sorrise arrossendo. - Mamma, mi par ben brutto questo modo
di farsi vedere e se io facessi altrettanto son sicura che mi
batteresti.
179
Societas atheorum in Gallia ad 60.000 excrevit. - T. III, Syntax.,
art. Mirab., c. I.
180
... Atheos quorum illud seculum feracissimum erat. - Epist. ad.
Donzan.
181
In Gallia plures nunc profanos et atheos essa, quam olim tempore
Gentilismi. - Praef.
182
Commentari sulla Genesi, p. 671 e 1830.
183
V. il Mercurio di Francia, t. V, p. 46, ed anni 1608, 1611,
ecc.
184
L'empietà dei deisti ed atei combattuta. - In-12, Parigi 1624, p.
11.
185
Domande vere e curiose al cardinale Richelieu. Prefazione.
186
Alheismus est illa impurissima secta cui nimio plures nomen dant.
Carol. Paschalius, regis in sacro consistorio consiliarius, Virtut.
et vitia. In-12 Parigi 1616, c. IX, p. 115.
187
In Luc c. XX.
188
Credunt ut sues, vivunt ut sues, moriuntur ut sues.
189
Instr. contra Libertin., c. XIII.
190
II Petr, II, v. 18.
191
Non paucos hodie in Gallia esse qui eam negent. - De immortal.
Anim. Praef.
192
Dottrina curiosa, del P. Garasse, lib. II, p. 124.
193
Tali sono in particolare quelli di Gafarelle, Taurelle, Perez,
Vallée, Viaud, Vanini, Godefroy de la Vallée, l'uno dei quali
s'intitola: L'arte
di non creder nulla.
194
Vedi questo simbolo in Jacob Fayum, Contra Tolland; Spizelius,
Scrutin. atheism.; e Thomas, Hist. atheism., p. 259.
195
Storia dello Stato di Francia sotto il regno di Francesco II,
p. 7.
196
Storia, lib. XXII, anno 1559.
197
Storia di Francia, anno 1577.
198
Sully, Memorie, lib. XXV; Giornale della Stella, - Chi
vuole altre prove le rinverrà nella nostra Storia del
Protestantismo, p. 245-270.
199
Naudé, In Nifo.
200
Scrutin. atheism., p. 22.
201
I nomi che qui omettiamo, e ne ometteremo molti, si trovano nella
nostra Storia del Protestantismo e del Cesarismo.
202
D'altra parte già l'abbiamo l'allo nella Storia del
Protestantismo e della Rivoluzione.
203
Storia delle dottrine morali e politiche dei tre ultimi secoli, di M.
Matter, ispettore generale degli studi, corrispondente dell'istituto.
- Parigi, 1836, 3 vol. in-8; t. 1, p. 34-41 e seg.
204
Idem., pag. 45.
205
Dunque al medio evo non si studiava nulla di tutto ciò: dunque le
scuole non si facevano come ora si fanno.
206
Storia delle dottrine, ec.,. p. 47.
207
Memorie dell'Accad. delle iscriz., tom. III, p. 531; ediz.
in-12.
208
Storia delle dottrine, ec., l. c.
209
Storia delle dottrine, ec., p. 47-49.
210
Uno dei Greci partigiani d'Aristotele.
211
Dai Bagni di Viterbo, 19 maggio 1462.
212
Quidquid est capax humanus genus, virum in omni re summum.:. Non modo
Graeciam, sed universum terrarum orbem instruxit., etc. - Balthas.
Bonif., Hist. ludicra, etc.
213
Lib. II, c. III, p.227.
214
Cornelius a Lapide, e J. J., Comment. in Ecclesiasticum. Encom.
sap. Antuerpiae, 1674, in fol.; et Lugduni, 1841, In-4, p. 4 e 5.
215
Parallelo tra Platone e Aristotele, p. 405.
216
Ego pueros puto fuisse (stoicos) prae divino Aristotele; et eorum io
hoc genere scripta vana prae Aristotelis organo: quo opere omnia
mortalium ingenia longe superavit. - In Persium, Satyr. V, v.
86, p. 415.
217
Vedi Balzac, Socrate
cristiano.
218
In Thom. Aquin. 1-2,
q. 109: art. 1 et apud Naudé, Apol.
pour les grands hommes.
etc.
219
Michael In Notis ad. Jac. Gaffarell. curiosit. inaudit., p.
109
220
Cornelius Agrippa, De vanit. scient., c. LIV; Burigny, t. II,
p. 234.
221
Burigny, op. cit.
222
Lib. XVII, c. XXIV.
223
Lamothe-Levayer; Virtù dei pagani, l. V, pag. 114, edizione
in-folio. È giusto soggiungere che sulla fine del secolo XIII
cominciamo, a trovare in qualche autore esagerati elogi d'Aristotele:
nuova prova che il Rinascimento ebbe radici nel passato. Ma altro è
la radice, altro l'albero, altro il germe del male; soffocato,
compresso, altro il male stesso che dovunque si diffonde libero e
compiuto.
224
Audomar. Talaeus, Ep.
ad Carol. Lotharing.
cardin.
225
Vedi il P. Rapin, ubi supra, p. 413.
226
Epist. 34, p. 153; epist. 36, p. 156.
227
Christoph. Arnold. Epist. 1, p. 487. Vid Hist. ludicr.
228
lnstutiones dialecticae et Aristolelicae animadversiones.
229
Talaeus, ubi supra.
230
Decreti della Corte e del parlamento. Ib.
231
Mercurio di Francia, anno 1624.
232
Id., t. X, p. 504.
233
Rapin, Paral. Di Platone e Aristotele, p. 413.
234
Fluvium perennem, etc. - Balthas. Bonifac. Hist. Ludicr.,
lib. XV, c. XI, p. 452.
235
Cum quo errandum potius quam cum aliis recte sentiendum. Id., id.
236
Praef., In
Plotin.,
t. II, p. 491; ediz. in folio. _
237
In praef., libr. De vita.
238
Epist.
lib., c. XXIII, ad. Laurent.
Mediceum.
239
In Miscellalleis, p. 123; ediz. in-18. Basilea, 1522.
240
Ficin. Epist., lib. IX, p. 199.
241
Bzovii, Annal., Ve Biblioth., lib. IX, p. 177.
242
Ep. ad Fr. Gazotti, t. I; Epist., lib. IV, p. 738, 741, 746.
243
Argum. de Repubblica.
244
Id. id.
245
Arg. V , Dialog.
246
.... Fratribus in Platone nostris. - Epist. , lib. IX, p. 922.
- Queste espressioni vengono sovente ripetute.
247
T. I, Epist., lib. IV, p.738. - Questo è Cousin ripetuto
parola per parola.
248
Lib. VIII, p. 913.
249
Epist., lib. VI.
250
Praef., In Jamblic.
251
Praef., In Plotin.
252
Epist., lib. VIII, p. 896. Oper. t. I, ad Paulum Ferobantium.
253
In proem. Conviv. Platonis.
254
Antonium Allium.
255
Tirab. t. VII, p. 155.
256
Ficin. Epist.,
lib. IX, p. 177.
257
Ficin. Epist., lib. IX, p. 176-177.
258
Vedi Schollern, Amoenit. litter., tomo I, pag. 58.
259
Ciò esige una spiegazione; in ogni caso, qual era dopo quindici
secoli di cristianesimo, la necessità di ricondurre il mondo alla
scuola di Platone?
260
Nova de universis philosophia, auct. Fr. Patritio, phil.
eminentis. Venetiis, 1593, in-fol. Praef.
261
Id. id.
262
Nova de universis philosophia, p. 4.
263
Haereticorum patriarchae philosophi. Doleo
Platonem omnium haereseon condimentarium. – Tertulliano e
sant’Ireneo.
264
Saggio, tomo III, p. 58.
265
Vedi fra gli altri Diogene Laerzio, Ateneo, Burigny, Storia della
filosofia, Bergier, articolo Platone, e segnatamente le opere di
Platone, De convivio, De republica, De legibus, etc.
266
V. Valerian. Magn. de
atheismo aristotelico.
Aristoteles
Deum nec coluit nec curavit. Lact.,
De
ira Dei,
c. XIX, Diogene Laerzio, p. 309 ; Burigny, Melch. Canus,
De
locis theologicis;
Brucker; Hist. phil. lib. II, c. III., p. 345, fr. Patritius,
Phil.
univ.,Praef.,
etc.
267
Essendo Platone e Aristotele quale li abbiamo detti, gli è d’uopo
spiegar gli elogi compartiti al primo da alcuni Padri della Chiesa e
l'uso che l'evo medio, fece del secondo. Misto bizzarro di verità e
d'errori, di fede e di libero pensare, son due uomini in Platone:
l’uomo della tradizione e l'uomo della ragione. Così della maggior
parte dei filosofi, dello stesso Voltaire, di Roasseau. Uomo della
tradizione Platone, riassume meglio che la maggior parte dei suoi
confratelli le verità primitive conservate in Oriente e nella
Grecia; uomo della ragione, nessuno è caduto in più grossolani
errori. Dal che gli elogi e le censure per egual modo fondate di cui
fu oggetto per parte degli antichi Padri della chiesa. Che parecchi
tra loro l'abbiano studiato, che l'abbiano opposto ai pagani, per
mostrare ad essi che certe verità cristiane erano conosciute dal più
illustre dei loro filosofi, si comprende di leggieri, massimamente
per parte dei Padri che prima di esser platonici erano stati
cristiani.
Quanto
ad Aristotele vedemmo qual giudizio ne recassero i Padri della
Chiesa. La sua autorità nelle scuole comincia solo al secolo XIII, e
il medio evo ebbe il segreto di non lasciar straripar le acque
dell'avvelenata sorgente. Lo spirito cristiano e positivo del medio
evo piegava Aristotele al giogo della verità e non si valeva del suo
metodo che come mezzo di dimostrazione. Nondimeno vedemmo, come anche
in queste condizioni, lo studio d'Aristotele desse campo a gravi
errori che la Chiesa fu a parecchie riprese costretta a condannare.
«Sino al Rinascimento, dice Brucker, la scuola peripatetica non fu
pericolosissima alla fede. Gli scolastici, razza quanto mai
suscettiva, conoscevano a meraviglia le false massime d'Aristotele,
ma le piegavano e le modificavano in modo da metterle quanto più
fosse possibile in armonia coi dogmi del cristianesimo di cui si
facevano anche ausiliari. Lo stratagemma fu scoperto dagli italiani
ristoratori dell'antica filosofia, che ben risoluti a seguire
apertamente Aristotele, professarono per conseguenza gli errori
pestilenziali che si trovano nelle sue opere. - Hist.
phil.,
lib. III,
c. III, p. 345.
268
Sexti Empirici, Oper. graec. et latin. - Leipzig, in fol.,
1718.
269
Baron, Ann., 234, n. 14.
270
Epist ad Rom., Com. Corn. a Lapide, c. I, v. 26.
271
Ap. Cl. Alex. Strom.
272
Protagoras putat id verum esse quod cuique videatur. – Academ.,
I.
273
De natura deor., lib. III.
274
Epist. ad Diosc., t. II, p. 496, n. 9, edit. noviss.
275
Brucker, Hist. phil., lib. II, c. III, p. 115 et 260; id.,
Thomasius Hist. atheism, p. 144.
276
Ed anche lo spirito.
277
Così deve parlare Cousin, ma certi preti!!
278
Sino al Rinascimento non era dunque comparsa.
279
Corso dell'Istoria della filosofia t. I, p. 358-60: I
discepoli del maestro: Sigg. Mullet: Manuale di teologia ad uso
degli allievi dell'Università, Charma Quistioni filosofiche p.
178 Giacomo, Simon, Saisset, nel Manuale di filosofia ad uso dei
collegi, p. 607; ne ripetono religiosamente le parole.
280
… Il che diede occasione al lepido giudizio di Apollo, che presso
il Boccalini comanda che il Pomponaccio (o Pomponazzi) sia arso solo
come filosofo. - Storia, etc., p. 249; id., in-4, 1791.
281
De immortalitate animae, De fato e De incantiationibus.
282
Storia delle scienze morali, ecc., t. I, p. 61.
283
Guill. Postel. ap. Brucker, lib. II,
c. III, p. 164.
284
Dedicat. version. dial., Platon.
285
Ficin. Praef. in Plotin. e De vita coelitus conservanda;
mundum esse animatum, ec.
286
Storia, ecc., t. I, p. 94.
287
Petr. Mosell. Epist., Reuchlin.
288
Praef., In Verb. mirific.
289
Brucker, t. IV, lib. II, p. 376 e 410.
290
Id., p. 479.
291
Id., In Sciopp., p. 501.
292
Il tempo non ne consente di recarne la prova: la si troverà nelle
opere di demonologia, comunissime e in tutte le lingue.
293
Tom. IV, lettera 76.
294
Coll. Concil., ann. 1513.
295
Coll. Concil., ann. 1513.
296
Reginald, ann. 1513, p. 41.
297
Quaest. natur., lib. II,
c. 45.
298
Phars, etc.
299
Notate bene che il concilio non autorizza a studiare queste scienze
negli autori pagani. - S'impose a chierici nei sacri ordini
d'applicare agli studi ecclesiastici della teologia, dei sacri
canoni, senza profanare o scialacquare il tempo assegnato loro,
nell'apprendere la poesia, la quale nella vanità dei suoi metri non
è nulla confacente alla gravità della loro professione; bastando
all'acquisto d'una dicevole facondia lo studio di qualche anno dei
più teneri nella rettorica o nella dialettica; senza più avvilire
il tempo in tali deviamenti, quando fatti già uomini, abbisognano di
frutti di dottrina, non di frondi di eleganza. - Battaglini, Ist.
Univ. di tutti i concilii. Venezia, 1686. in-fol. p. 769.
300
Idem
301
Raggion.
302
Bullar., t. V, p. 393.
303
Hist. phil., t. IV, p. 348.
304
Storia, ecc., t. I, p. 229. – Lo dice dopo cento altri.
305
V. Hugo in Nettement, Storia della lett., cc. t. I, p. 347.
306
Vedi la nostra Storia della Rivoluzione, t. 1.
307
Trovate spesso, dice un illustre scrittore, imprudenti professori di
semirazionalismo che non rinvengono più dal loro stupore al vedere
giovani a cui fecero le loro belle dimostrazioni dell’esistenza di
Dio, della provvidenza, dell'immortalità dell'anima, professar
altamente all'uscir delle loro scuole, materialismo, ateismo e
deismo. Mentre dovrebbero i ciechi maestri ricordarsi avere essi
medesimi preparata la via agli errori ed ai traviamenti dei loro
scolari. Il P. Ventura, De Method. phil. LXX.
308
Seduta massonica belgica, 2 luglio 1846 e 24 giugno 1854, Giornale
d'Anversa, agosto 1857.
309
Congresso liberale, luglio 1857.
310
Meline e Cans, Questione religiosa, p. 1.
311
Quinet, Lettera ad Eugenio Sue, 5 dicembre 1856.
312
Nazionale belgico, 21 novembre 1856.
313
Quinel, prefazione alle Opere di Marnix.
314
Id. id.
315
Id. id.
316
Id., e Questioni religiose, p. 29.
317
Quinet, prefazione alle Opere di Marnix. p. '97.
318
Id. p. 70.
319
Questioni religiose, p. 18 e 75.
320
1857.
321
Giornale belgico, agosto 1857.
322
Già registrammo una parte della loro confessione, parlando della
Rivoluzione.
323
Italia del Popolo,
324
L'Espero, marzo 1857.
325
Udienza del 17 settembre 1857.
326
Annali massonici, t. V, p. 219 e 226.
327
Eugenio Sue, Lettere al Nazional di Bruxelles, 1 marzo 1857.
328
Kohlmeyer a Justus di Losanna.
329
Guglielmo Marr.
330
Lettere al Comitato
centrale.
331
Lettera a Kanschenplatt.
332
Evangelio del povero pescatore.
333
Alleanza dei popoli, 1850.
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Mons. gaume: la Rivoluzione
Descrizione:
La rivoluzione: ricerche storiche sopra l'origine e la propagazione del male in Europa
L'opera, tradotta per la prima volta in italiano nel 1856, non è soltanto una storia della Rivoluzione, e tantomeno una storia della sola Rivoluzione Francese, ma piuttosto una storia della genesi della plurisecolare secolarizzazione d'Europa.
L'autore infatti, osservando gli accadimenti dei suoi giorni, dedicò anni a studiarne le cause e, camminando per una via nuova e diversa da quella di quanti si occuparono del processo di scristianizzazione, giunse a proporre una radice primaria e unica del male che ancora oggi ci colpisce.
Recuperata e offerta grazie alla collaborazione del Dott. MdG e alla disponibilità dell'Università di Pavia, vengono qui proposti i primi 3 volumi in formato PDF fotografico, mentre gli ultimi tre sono frutto della consueta laboriosità dei cooperatori di totustuus.it
attenzione: il file .zip occupa 74 megabytes
Versione: 1.0 Dimensione File: 70.54 MB
Aggiunto il: 26-dic-2011 Downloads: 1287 Giudizio: 10.0 (5 Voti)
Home | Vota Risorsa | Dettagli
Categoria: Libri da scaricare/Teologia della storia
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Descrizione:

L'opera, tradotta per la prima volta in italiano nel 1856, non è soltanto una storia della Rivoluzione, e tantomeno una storia della sola Rivoluzione Francese, ma piuttosto una storia della genesi della plurisecolare secolarizzazione d'Europa.
L'autore infatti, osservando gli accadimenti dei suoi giorni, dedicò anni a studiarne le cause e, camminando per una via nuova e diversa da quella di quanti si occuparono del processo di scristianizzazione, giunse a proporre una radice primaria e unica del male che ancora oggi ci colpisce.
Recuperata e offerta grazie alla collaborazione del Dott. MdG e alla disponibilità dell'Università di Pavia, vengono qui proposti i primi 3 volumi in formato PDF fotografico, mentre gli ultimi tre sono frutto della consueta laboriosità dei cooperatori di totustuus.it
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