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martedì 12 febbraio 2013

La rivoluzione - MONSIGNOR GAUME VOL. 6


La rivoluzione

ricerche storiche

sopra l'origine e la propagazione del male in Europa



di Monsignor Gaume



VOLUME SESTO



Traduzione italiana di Gaetano Buttafuoco



MILANO

Tipografia Pirotta e C.

1857



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INDICE DELLE MATERIE



PARTE SETTIMA



Cenni preliminari



CAPITOLO I.

Il Razionalismo in sé stesso



Il Razionalismo, gran pericolo del tempo nostro. - Al pari della Rivoluzione di cui è anima si risolve in distruzione e ricostruzione. - Quadro. - Tre gradi nell'errore. - Eresia, scetticismo, razionalismo. - Definizioni. - Il razionalismo in sé stesso. - Nell'ordine religioso. - Nel sociale. ­ Nel filosofico. - Due materiali manifestazioni del razionalismo: l'antichità pagana e la Rivoluzione francese.



CAPITOLO II.

Razionalismo e Rinascimento



Origine storica del Razionalismo. - Testimonianze dei protestanti e dei filosofi. - Tomasio. - Spizelio. - Bayle.- Voltaire. -Tutti i razionalisti.»



CAPITOLO III.

Il Razionalismo prima del Rinascimento



Vera origine del Razionalismo. - Suo regno nell'antichità. - Abolizione di questo regno operata dal Vangelo. - Tentativi di razionalismo nel medio evo. - Scot Erigene. - Abelardo. - Amauri de Bène. - Davide di Dinant. - Raimondo Lulli. - Nessuno di questi filosofi fu vero Razionalista. - Il medio evo. - L'antipode del Razionalismo. - Prima del Rinascimento non v'era razionalismo in Europa



CAPITOLO IV.

Cagione dei tentativi del Razionalismo prima del Rinascimento



Contatto dell'intelligenza cristiana con l'antichità pagana, - Donde tutti i tentativi del Razionalismo. - Contatto con la Grecia sofista e l'islamismo materialista. - Fisica e metafisica di Aristotele recate a Parigi. - Sua filosofia proscritta dai padri della Chiesa d'oriente e di occidente: Tertulliano, Sant'Ireneo, Origene, Lattanzio, Eusebio, Ermia, san Basilio di Cappadocia, san Gregorio Nazianzeno, sant'Epifanio, sant'Ambrogio, san Giovanni Crisostomo.



CAPITOLO V.

Cause dei tentativi del Razionalismo prima del Rinascimento



Nuove testimonianze dei Padri contro Aristotele. San Girolamo, sant'Agostino, san Cirillo d'Alessandria, Enea di Gaza, Enrico di Lione, san Bernardo, il concilio di Parigi nel 1209. - Opere d'Aristotele condannate al fuoco. - E però prima fase della fortuna d'Aristotele dal cominciar della Chiesa sino al tredicesimo secolo; proibizione assoluta delle sue opere. - Decreto del cardinale di Courçon. - Seconda fase della fortuna d'Aristotele. - Tolleranza della sua dialettica. - Bolla di Gregorio X - Terza fase della fortuna di Aristotele -Autorizzazione ad insegnare la fisica e la metafisica espurgate. – Riassunto.



CAPITOLO VI.

Cagione dei tentativi del Razionalismo prima del Rinascimento



Importanza delle nostre ricerche. - Quarta fase della fortuna di Aristotele: permesso, comandato anzi alla gioventù l'insegnamento di parecchie sue opere tra le altre della sua Metafisica. - Risultamento di questa concessione. - Testimonianza di Gerson e di Clemengis. - Quinta fase della fortuna d'Aristotele: ordine di insegnar la sua morale e la massima parte dei suoi trattati. - Nuovi risultamenti di questa concessione. - Testimonianze di Tritemo e dell'arcivescovo di Rouen. - Occasione del Protestantismo. - Riassunto. - Quattro fatti principali



CAPITOLO VII.

Il Razionalismo dopo il Rinascimento - Italia



Ricomparisce tale quale si mostrò nelle scuole della filosofia pagana di cui rinnova i principii e i più gravi errori. - Razionalismo politico. - Formulato da Machiavelli. - Dovunque diffuso. - Prove. - Razionalismo filosofico insegnato dal Rinascimento e dai Rinascenti. - Testimonianze: Spizelio, Pier Mathieu. - Principali Razionalisti italiani: Pomponaccio, Porzio, Cesalpino, Vernia, Cesare di Cremona, Simon Simonio, Pietro Aretino, Nanno, Orefo, Cosimo de' Medici, Machiavelli, Pomponio Leto, Calderino, Bruno.



CAPITOLO VIII.

Il Razionalismo dopo il Rinascimento - Italia



Razionalismo nei costumi o emancipazione della carne. - Danni da esso recati. - Il principe di Parma e la sua corte. Nifo, Poliziano, Alessandro Piccolomini, Bembo, Beroaldo, Gregorio Leti, Bolzanio, Poggi



CAPITOLO IX.

Il Razionalismo dopo il Rinascimento - Italia



Poggio tipo dei letterati del Rinascimento. - Suo libertinaggio conforme a quello dei modelli classici. - Sue Facezie. - Origine e natura di quest'opera. - Lungo tessuto d'empietà e di oscenità. - Successo scandaloso che ottiene. - Tradotto, imitato, arricchito, prima fonte del torrente d'immoralità che deturpa l'Europa. - Poggio nemico della Chiesa. ­ Sua lettera a Leonardo Aretino su l'eretico Girolamo di Praga. - Impugnatore d'ogni autorità. - Provocatore alla Rivoluzione - Lettera di Magliabecchi sui poeti italiani del Rinascimento.-Giudizio di Salvator Rosa.»


CAPITOLO X.

Il Razionalismo dopo il Rinascimento



In seguito alla politica, alla filosofia ed alla poesia, le belle arti si emancipano. - Che facciano pittori, incisori, statuarii diventati liberi pensatori. - Cantano la carne e i suoi allettamenti. - Critica rigorosa delle loro opere fulminata da Salvatore. - Da Erasmo. - Da Properzio. - Abbomini dell'arte divenuta, pagana. - Profanazione delle Chiese. - Continui insulti alla pietà e al pudore. - Critica del giudizio finale di Michelangelo. - La musica fatta pagana e sensualista. - Suoi funesti effetti. - Profanazione del culto cristiano. - Eguali effetti nel resto d’Europa.



CAPITOLO XI.

Il Razionalismo dopo il Rinascimento



Dall'Italia il Razionalismo passa in Germania - Danni che vi produce. - Testimonianze di Cornelio a Lapide, di Lobkowitz. - Hutten, testo dei razionalisti in Germania. - Importanza della sua biografia. - Suoi scritti. - Trionfo di Capnion. - Lettere degli uomini neri. - Suoi rapporti coi liberi pensatori di Francia. - Sua triade romana. -I Razionalisti moderni invocano la forza per estirpare il cristianesimo. Non sono che gli eco di Hutten e degli altri liberi pensatori del Rinascimento.


CAPITOLO XII.

Il Razionalismo dopo il Rinascimento - Inghilterra, Spagna, Belgio.



Dall'Italia il Razionalismo passa in Inghilterra. - Testimonianze. - Guasti che vi produce. - Prepara il protestantismo. - Dopo il Rinascimento continua a regnare in questo paese. – Il signor Alloury. - Razionalismo in Spagna. - Testimonianze. - Nel Belgio. - Testimonianze. – In Polonia e nel Settentrione. - Prove. - Erasmo, tipo ed apostolo del libero pensare. - Sue opere. - Sua influenza. - Scandalo delle sue lettere. -Singolare giustificazione dei Rinascenti. - Il Razionalismo nato dal Rinascimento, sempre vivo nel Belgio. - Che debba pensarsi della presente educazione.



CAPITOLO XII.

Il Razionalismo dopo il Rinascimento - Francia



Rabelais continuatore di Poggio.- Montaigne libero pensatore ed epicureo nei suoi scritti. - La Boetie. - Charron. - Budée. – Copp. – Rueil. ­ Lefebvre d'Étaples. - Lamothe-Levayer.- Bayle. - Bodin. - Cartesio.»



CAPITOLO XIV.

Il Razionalismo dopo il Rinascimento



Desportes - Regnier. - Amyot - Malherbe - Saint Evremond.- Motto di madama di Maintenon. - La pleiade poetica. - Sacrificio del capro. - Gli artisti insegnano il libero pensare. - Loro opere. - Effetto dell'insegnamento letterario ed artistico del libero pensare. - Ateismo dogmatico e pratico. - Gran numero d'atei in Francia. – Testimonianze.»



CAPITOLO XV.

Origine filosofica del Razionalismo moderno.



Il Rinascimento vero padre del Razionalismo. - l Razionalisti moderni educati tutti alla scuola dell'antichità pagana. – Tutti ardenti ammiratori della pagana antichità. - Tutti hanno attinto la loro filosofia alla scuola dell'antichità pagana. - Testimonianze non sospette. - La filosofia pagana sola ammirata, sola acclamata dai Rinascenti. - L'Europa divisa in due campi ostili: il campo d'Aristotele e il campo di Platone. - Entusiasmo incredibile per Aristotele. - Fatti curiosi.



CAPITOLO XVI.

Origine filosofica del Razionalismo moderno.



Entusiasmo per Platone. - Testimonianze. - Storia di Marsilio Ficino. ­ Prepara alla morte Cosimo de’ Medici leggendogli Platone. - Professa platonicismo a Firenze. - Suoi discepoli. - Ficino adora Platone. - Lo loda dovunque. - Sue iperboli. - Abuso della Santa Scrittura. - Istituisce la festa di Platone. - Fonda un'accademia di Platone. - Il platonicismo predicato in Germania, in Inghilterra, in Ungheria, a Roma. ­Fr. Patrizi scrive al papa perché sia ovunque imposto l'insegnamento della filosofia di Platone. - Pretende sia l'unico mezzo a convertire i peccatori e a ricondurre sulla retta via gli eretici.



CAPITOLO XVII.

Origine filosofica del Razionalismo moderno



I padri del Razionalismo moderno, discepoli tutti dei filosofi pagani. - La filosofia pagana altro non è che il Razionalismo in atto. - Prove. - Storia degli errori e delle sette della filosofia pagana. - Perfetta somiglianza della moderna filosofia con la pagana. - Prove.



CAPITOLO XVIII.

Origine filosofica del Razionalismo moderno



Stratagemma dei razionalisti, celano il loro principio e i loro errori sotto la maschera dell'antichità. - Testimonianza decisiva di Brucker e del signor Cousin. - Vanità delle loro proteste di reverenza verso l'autorità della Chiesa. - Rinnovano tutti gli errori e tutte le sette filosofiche dell'anlichità. - Arrivano all'ultimo termine. - Ultima prova della origine filosofica del Razionalismo moderno. - Il concilio di Laterano. - Analisi della Bolla Regiminis apostolici. - Che ne insegni essa dello stato degli animi e dell'entusiasmo per la pagana filosofia



CAPITOLO XIX.

Ultima parola del moderno Razionalismo



Nel passato, tre effetti del Razionalismo: il Protestantismo, il filosofismo del diciottesimo secolo, la Rivoluzione francese. - Minacce per l'avvenire. ­ Distruzione della religione. - Testimonianze. - Associazione formata a questo fine. - Distruzione della società. - Testimonianze. - Associazione formata a questo fine. – Conclusione.



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LA RIVOLUZIONE



PARTE SETTIMA

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Cenni preliminari



Il Cesarismo da una parte, il Protestantismo dall'altra, tali furono, lo abbiamo detto, i due elementi di che si compose il Volterianismo, lo spirito antisociale cioè, ed antireligioso del XVIII secolo. Abbiamo accettato e discusso un tale teorema nelle antecedenti pubblicazioni. Ora l'istoria colla scorta degli originali monumenti ne additò Cesarismo e Protestantismo sorti dal Rinascimento e dagli studi di collegio. Ne dimostrò inoltre che altro non sono e l'uno e l'altro se non che il libero pensare o il Razionalismo applicato alla società ed alla religione.

A compiere la genealogia del male nei moderni tempi resta a vedere donde sia venuto lo stesso Razionalismo. Tale è ora il nostro scopo. La dimostrazione del principio capitale che vogliamo porre sarà incontrovertibile, ove ne sia dato provare le tre seguenti proposizioni.

1° Prima del Rinascimento non v'erano Razionalisti in Europa. 2° Dopo il Rinascimento se ne trovano dovunque e in gran numero. 3° Il Rinascimento li ha prodotti e prodotti naturalmente come l'albero produce il suo frutto.

Più ci inoltriamo nel nostro lavoro d'investigazione, più cresce l'interesse, perché le questioni si fanno sempre più fondamentali, e ci accostiamo all'ultima soluzione. Di tal modo il viaggiatore intento alla ricerca della sconosciuta sorgente d'un fiume, sente, più s'avanza, farsi più viva la sua curiosità e più profonde le sue commozioni. Da tre secoli tutta la scena storica dell'Europa drammatica tanto e tanto svariata, è tutta piena della lotta della Chiesa, che è la ragion divina contro la ragion di stato e la individuale: e queste due forze, al paganesimo classico attinsero il linguaggio e l'ammanto di tutte le parti che sostennero. Spettacolo, pare a noi, di mirabile interesse; ma sotto la larva di queste due formidabili potenze nascondesi il principio più formidabile ancora che le anima e tende a ricostituire in seno all'Europa cristiana il culto della ragione e lo stato pontefice e re delle antiche città.

Questo principio noi procureremo svelare: vedranno allora i meno accorti donde esca il torrente che invade l'Europa. Avremo la sintesi dell'epoca moderna, una al certo delle più solenni della storia, e col secreto degli avvenimenti compiuti possederemo la chiave dei grandi problemi che s'agitano sotto gli occhi nostri. Tutto riferendo al Razionalismo ed al Risorgimento di cui è il primogenito, quindi al Paganesimo risorto trionfante in seno all'Europa, abbiamo la formola che spiega i quattro ultimi secoli. Un dato che basta e basta solo a spiegare tutt'una serie di fenomeni è a buon dritto considerato come un conveniente principio di soluzione. E però nell'ordine fisico la legge di attrazione che spiega in soddisfacente modo e spiega sola i fenomeni del sistema planetario è ammessa come vero principio di soluzione, e sino a che una nuova legge più chiara e più compiuta venga a supplantarla, la legge dell'attrazione sta come base e bussola della scienza.

Così nell'ordine morale. Se si presenta un principio, un fatto con la scorta del quale rendesi in soddisfacente modo conto di tutta la storia di un tempo e senza di cui non possiamo rendercene conto, è un buon mezzo di soluzione e che debba come tale esser tenuto, finché un principio più vero, una legge più compiuta venga a surrogarlo. Ora né la Rivoluzione francese, né il Volterrianismo, né il Cesarismo, né il Protestantismo bastano a spiegare il male presente. Al contrario il Razionalismo é il Rinascimento, cioè il Paganesimo nelle sue molteplici manifestazioni, basta a ciò, e basta solo (1).

Se, come osiamo sperarlo, la verità di questa formola emerge, da quanto abbiamo detto manifesta, le grandi quistioni religiose e sociali del nostro tempo saranno ben semplificate, il rimedio al male indicato, e, ciò che a nostro avviso è di capitale importanza, poste in piena luce le cagioni della lotta che ferve in tutta Europa: perché sarà dimostrato che ora v'ha duello tra il paganesimo e il cattolicismo.

Prima di terminare questi cenni, ricordiamo alcuni fatti compiuti da poco, i quali danno un nuovo appoggio alla grande e santa causa, che vinta o perduta deciderà infallibilmente dell’avvenire. «Badi l'Europa, dicevamo noi sin dal principio; la Rivoluzione non è né morta né convertita». Ed ella non solo rivelò, non ha guari, la propria esistenza a luminose prove, ma ancora continua le sue invasioni. Dappertutto ella mostrasi quale fu, quale sarà sempre, la negazione armata d'ogni ordine religioso e sociale non posto da lei.

In Spagna, mentre noi scriviamo, la sola proposta di restituire al clero, spogliato dei suoi beni e delle sue prerogative, il sacro diritto che gli appartiene sull'educazione fa sollevare la tempesta. Trionfa audace in Isvizzera col trattato di Neufchàtel; nel Belgio, con la sommossa, con l'indulgenza dei governi; in Francia moltiplica i tentativi di regicidio ed ordisce trame di cui i tribunali scoprono tre volte in due anni il sanguinoso carattere.

A Napoli colpisce il re la cui testa era stata messa a prezzo; a Torino, divenuta suo baluardo, glorifica i suoi Bruti sino a tanto che possa come nel 93, innalzar loro altari. Da per tutto fa recinte, disciplina i suoi soldati, scambia parole d'ordine. Vorrebbesi invano dissimularlo: un'orda di barbari ne circonda, il terreno è minato: sinistre nubi oscurano l'orizzonte: l'Europa ha paura di qualcuno e di qualche cosa. Il male sta nelle anime, ma un male profondo, endemico, universale. Chi si raccoglie innanzi a Dio per penetrarne la vera cagione? Chi ne applica il rimedio? I re usano la forza; la Borsa specula, la società danza, alloppiatore o alloppiato si direbbe che il mondo arriva ai giorni di Noè: Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e marito, fino a quando Noè entrò nell'arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e inghiottì tutti, così sarà anche alla venuta del Figlio dell'uomo. (Mt 24, 38).






IL RAZIONALISMO

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CAPITOLO I.

Il Razionalismo in sé stesso



Il Razionalismo, gran pericolo del tempo nostro. - Al pari della Rivoluzione di cui è anima si risolve in distruzione e ricostruzione. - Quadro. - Tre gradi nell'errore. - Eresia, scetticismo, razionalismo. - Definizioni. - Il razionalismo in sé stesso. - Nell'ordine religioso. - Nel sociale. ­ Nel filosofico. - Due materiali manifestazioni del razionalismo: l'antichità pagana e la Rivoluzione francese.



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Se gli è vero che non vi è società senza credenze, domandiamo che s'abbia a pensare dell'attuale società, che avvenire e che felicità abbia diritto ad aspettarsi. Chi dice credenze, dice un qualche cosa di certo, di immutabile al disopra d'ogni discussione, e che come legge santa e sacra s'impone a tutte le intelligenze per dirigerle, a tutte le volontà per reggerle in modo uniforme. Chi dice credenze, dice un'autorità superiore all'uomo, che parla all'uomo, e la cui parola, legge e verità tutt'insieme, è tenuta per tale e come tale obbedita.

Ora dove sono ai dì nostri le generali credenze dell'Europa, in fatto di religione, di politica, di filosofia? Qual è il numero dei loro discepoli? quale a un bisogno quello sarebbe dei loro, martiri? Conoscete voi la fede delle nazioni come nazioni? A che si riduce il simbolo della maggior parte degli uomini nelle classi colte in Francia, in Inghilterra, in Germania, in Spagna, in Italia, dovunque: qual è il loro decalogo? Contate se siete da tanto le sette filosofiche in che si fraziona il culto mondo: meno numerose e meno pronte a succedersi sono le frasche degli alberi, meno opposte tra loro la luce e le tenebre. Dov'è la fede politica? Quanto v'ha di comune fra i partiti non potrebbe scriversi sull'unghia del pollice?

Vuol compiangersi questa generazione assai più che accusarla. Come vivere in un'atmosfera corrotta e conservare una robusta sanità? Qual è l'atmosfera d'Europa? Il dubbio sotto tutte lo forme; il dubbio che a tutto s'attacca, tutto corrode, che in mezzo alle stesse cattoliche nazioni si manifesta con bestemmie che il Protestantismo come Protestantismo non ha mai proferite. Dopo diciotto secoli di Cristianesimo, ode l'Europa, ed ode senza impallidire, senza correre né alle armi, né agli altari, frasi di questo genere: Dio non è altro che una parola, la società è anarchia; l'autorità, tirannia; l'Evangelo, un mito; il Cristianesimo un'opera umana, un sistema ornai decrepito; Gesù Cristo, un uomo; l'anima, una chimera; il cielo, un sogno; l'inferno, una favola: la verità e l'errore variabili a seconda de' secoli e de' climi; il bene e il male esseri di convenzione; il pudore, la buona fede, l'amicizia, la fedeltà pregiudizi dei sciocchi a vantaggio degli accorti; la pubblica coscienza, una commedia; i più neri delitti, il suicidio, il regicidio, eroici fatti.

Per mezzo dei libri, dell'educazione, dei teatri, dei giornali, dei canti popolari, delle sociali consuetudini questo dubbio come terribile ariete batte a raddoppiati colpi i fondamenti della religione, della società, della famiglia, della proprietà stessa. Siffatto è il male che punge d'inquietudine il cuore di chiunque si dia la pena di riflettervi; male mai sempre lamentato dalla voce dei Sovrani Pontefici (2), e i cui progressi continui minacciano il mondo di qualche cataclisma sconosciuto nel passato, se pur non annunciano i tempi divinamente profetati nei quali appena rimarrà qualche scintilla di fede sulla terra.

Sulle ruine che ammucchia, il dubbio pretende ricostruire una religione, una società a sua immagine, di cui la ragione sarà dea e regina. Ascoltiamo i suoi sacerdoti: «Le dottrine che debbono presiedere alla nostra vita morale, spetta a noi il farle; ché i nostri vecchi altre non ce ne tramandarono che di sterili, decrepite. Bisogna dunque fabbricarne di nuove. Tal necessità del tempo nostro è compresa o piuttosto sentita. da tutti (3)». E dove prenderanno essi i materiali del loro lavoro questi nuovi architetti di Babele? Eccone la risposta, degna per l'essenza, come per la forma, di loro. «Vi son quattro cose, dice un di loro ch'io detesto egualmente: il tabacco e le campane, i cimici e il Cristianesimo» (4). Un altro: «Proverò che il Cattolicismo imbestialisce l'infanzia; proverò poscia che la corrompe (5)». Questi: tutte le idee false che son nel mondo in fatto di morale e di estetica son venute dal Cristianesimo» (6).

Rimosso il Cristianesimo a che fonte attingeranno essi? Nella ragione. «Bisogna, dicono, che la ragione stabiliscasi finalmente sovrana nel suo dominio. La sua volta è venuta di ordinare la società e governare lo Stato. La ragione e la libertà fan vece degli dèi decaduti del cristianesimo. Non v'ha più altro culto, altra religione che la religione della ragione e il culto della libertà» (7). Quanto alla morale è bella e preparata, la morale di Socrate. «La morale di Socrate, aggiungono, è la morale umana per eccellenza, la morale di questo mondo e di questa vita: la morale del Vangelo è morale sovrumana, morale dell'altro mondo e dell'altra Vita. L'una ha per fine la virtù laica, l'altra la mistica perfezione. L'una fa degli uomini, l'altra dei santi: Ora è mo' scritto che tutti gli uomini siano vasi d'elezione? Bisogna avere il necessario prima di cercar il superfluo (8). Questo è parola per parola il linguaggio dei loro avoli del 93.

Ecco, nella doppia sua missione di distruggere e ricostruire, il male che avviluppa e che invade il mondo attuale. Chiamasi Razionalismo. Qual è la sua natura, la sua origine, quale l'epoca della sua comparsa fra le cristiane nazioni? Ci studieremo rispondere.

La soggezione della ragione dell'uomo alla ragione di Dio per mezzo della fede è lo stato normale dell'umanità. Sia osservata una tal legge fondamentale e l'ordine regna nel mondo perché regna nell'individuo. A quello stato di intellettuale salute si oppongono tre precipue malattie: l'Eresia, lo Scetticismo e il Razionalismo: le quali tre malattie segnano i diversi gradi per cui l'uomo, allontanato da Dio, giunge al suicidio della propria ragione ad annullar il pensiero ed al rovesciar l'ordine universale, (9). Tra essi corrono segnalate differenze.

L'eretico è una ragione umana in ostinata rivolta contro la ragione divina su uno o parecchi punti chiaramente definiti dalla Chiesa. Ricusando soggettarsi ad alcune verità l'eretico china la fronte dinanzi a moltissime altre. Inconseguente con se stesso or ammette or rifiuta l'autorità di Dio; quell'autorità che per non contraddire a sé stesso dovrebbe od ammettere del tutto, o del tutto negare, stantechè parla la stessa autorità. L'eretico è sulla via dello Scetticismo e del Razionalismo, ma si arresta sul limitare.

Lo scettico è una ragione umana in rivolta su tutti punti contro la ragione divina, per un giusto castigo, caduta nel dubbio universale: specie di marasma intellettuale in cui l'uomo ha occhio e non vede, orecchie e non ode. E l'estremo limite che separa l'uomo ragionevole dal bruto.

Il razionalista è una ragione in rivolta piena, universale contro la ragione divina ed anche contro ogni ragione, e di più in adorazione davanti a sé stessa. L'eretico ha ancor fede in qualche cosa, lo scettico non ha fede in nulla, nemmeno in sé, ma la fede a Dio negata il razionalista la colloca in se medesimo. Se scetticismo è debolezza, Razionalismo è orgoglio. Lo scettico sprezza la ragione, il razionalista l'adora.

E però Razionalismo non è soltanto una mancanza di fede in Dio ma una fede opposta nell'Uomo. In forza del Razionalismo l'uomo balza Dio dal trono della sua intelligenza(, per collocarvisi egli stesso: in una parola il Razionalismo è la deificazione della ragione, la quale prendendo il posto del vero Dio, se ne arroga le prerogative, e pretende esercitarne i diritti:

Nell'ordine religioso il razionalista sostiene non aver bisogno della rivelazione sendo che basta la sua ragione; non aver bisogno della grazia di Dio, stante che abbastanza forte è la sua volontà; in fine, non aver bisogno d'espiazione per mezzo del sangue di Gesù Cristo, perocchè la sua virtù è abbastanza pura per non ricevere da Dio quanto possiede da sé stessa; e il razionalista fa capo al Naturalismo pagano.

Nell'ordine sociale il razionalista non riconosce altra autorità che la sua; pretende che l'uomo basti a fondare le società per conservarle e reggerle; che a lui spetti segnarne lo scopo e dar modi a raggiungerlo, che nessuno ha il diritto di opporsi alla sua sovrana volontà, e che questa volontà, fonte del vero e norma del diritto, è infallibile e come tale debba esser tenuta: e il razionalista fa capo al Cesarismo pagano.

Nell'ordine filosofico il razionalista non ammette alcuna verità che non si affaccia alla sua ragione, al tribunal della quale ogni insegnamento, ogni dottrina debba comparire per essere giudicata, accolta definitivamente o rigettata; sicché la sua ragione forma la verità e pretende rinvenir in sé stesso l'ultima ragion delle cose: per la via dell'eclettismo, il razionalista fa capo all'apoteosi pagana della ragione.

Come vedesi il Razionalismo è l'ultimo termine cui la rivolta dell'uomo contro Dio possa pervenire. Se passa ai fatti, la rivolta diventa la Rivoluzione propriamente detta; sublima quanto debba essere atterrato e quanto debba essere sublimato atterra. Sua manifestazione suprema è l'abolizione del culto di Dio e lo stabilimento del culto dell'uomo nella sua ragione e nella sua carne. Il Razionalismo è dunque l'uomo decaduto, l'uomo del peccato che sollevandosi contro ogni autorità, contro ogni tradizione religiosa e sociale, fa adorarsi ed adora sé stesso. Dall'origine del mondo un tal fenomeno mostruoso non si vide che due volte nella sua plastica manifestazione, la prima nell'antichità pagana, la seconda nella rivoluzione francese. Arroge che l'anticbità pagana s'è perpetuata fino ai nostri giorni in tutti i popoli fra i quali il Cristianesimo non ripristinò il culto di Dio, e che questa antichità dopo il Risorgimento fa continui sforzi a postarsi di nuovo fra le cristiane nazioni col doppio culto della ragione e della carne. Ed ecco luminosissima prova del risorgere dello stesso principio e della identica sua prevalenza in epoche tanto l'una all'altra lontane.

Or come mai dopo diciotto secoli di fede questo principio è risorto in Europa? Come l'uomo del peccato, l'uomo che s'innalza al di sopra di tutto ciò che è Dio per non riconoscere altro Dio che sé medesimo: come mai quest'uomo greco-romano colpito a morte e sepolto dal Cristianesimo, sbucò tutt'ad un tratto pieno d'astio e sitibondo di vendetta dal suo sepolcro? Chi riscaldò le sue ceneri? chi lo ha restituito alla vita? chi lo ha fatto crescere gigante che minaccia il Cristianesimo, lo balestra, lo combatte incessante, lo tiene dovunque in lotta e si lusinga d'un luminoso trionfo? Tali sono le gravi quistioni che imprendiamo a disaminare.




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CAPITOLO II.

RAZIONALISMO E RINASCIMENTO



Origine storica del Razionalismo. - Testimonianze dei protestanti e dei filosofi. - Tomasio. - Spizelio. - Bayle.- Voltaire. -Tutti i razionalisti.



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Un antico protestante, Tomasio, facendo la genealogia dei Razionalisti, che chiama atei o ateisti, scrive queste notevoli parole: «La storia, dice egli, presenta un fatto bene straordinario. Dal dì che il Vangelo aveva fugato il Paganesimo più non s'erano veduti atei in Europa. Era serbato al quindicesimo secolo il mostrarne di nuovo. Tornato nel mondo l'antico Paganesimo mise i suoi frutti, e furono visti a comparire non solo atei ma una scuola d'ateismo; e questa scuola sorse nel centro stesso della cattolicità in Italia; ebbe a fondatori e discepoli uomini innamorati della bella antichità, che risuscitarono errori da più secoli sbanditi dal mondo cristiano ...» (10).

Spizelio, altro protestante anteriore a Tomasio, accenna allo stesso fatto. «Chi oserebbe negare, dice egli, che il Rinascimento delle lettere in Italia al quindicesimo secolo, abbia riscaldato, coltivato, commentato gli antichi sistemi di Lucrezio, di Epicuro, di Orazio ed altri, come risuscitò la greca filosofia, la medicina e le matematiche? che dopo questo Rinascimento un gran numero di professori insegnando le alte scienze abbiano propinato, alla gioventù il veleno dell'ateismo, sotto pretesto dell'autorità degli antichi?» (11). E però tanti trattati in favore della immortalità dell'anima pubblicati allora in Italia, e il decreto del concilio Lateranense presieduto da Leon X e di cui faremo più tardi parola.

Bayle non meno chiaramente si spiega. «Lamentiamo, dice egli, il gran numero d'ateisti o di genti che non hanno alcuna religione. Un tal lamento cominciò soprattutto dacché le belle lettere ripigliarono stanza nell'occidente dopo la presa di Costantinopoli. Surse nelle molte opere pubblicate a provare o la verità della religione cristiana o l'esistenza di Dio. Il mondo, la corte e gli eserciti, fu scritto in un dialogo stampato nel 1681 (12) son pieni di deisti, di gente che tengono tutte le religioni in conto di umani trovati. Queste menti temerarie dubitano di tutto. Hanno in pronto obbiezioni contro i libri del vecchio e del nuovo Testamento che danno loro facoltà di non crederli opera degli autori di cui portano il nome. Perciò quanti ai nostri giorni san mettere in carta i propri pensieri si propongono difendere la religione contro tutti gli increduli: a ciò mirano tutti gli sforzi» (13).

E la stessa mira continua da Bayle sino a noi. Questa direzione delle forze cattoliche cominciò col Rinascimento: da questo punto vedesi l'Europa inondata d'apologie della Religione. Che significa tal nuova tattica se non che il Cristianesimo, il quale sino al rinascimento teneva l'offensiva, fu costretto a prendere la difensiva? - Che significa la difesa su ogni punto se non che l'attacco su ogni punto? E che cos'è che combatte su ogni punto il cristianesimo? Non lo scisma, non l'eresia, ma il Razionalismo soltanto, cioè la ragione deificata di nuovo come nell'antichità pagana. E Bayle ben a ragione pone sott’occhio un tal fatto decisivo troppo per bene dirigersi nell'attuale conflitto.

«Numerosissimi, soggiunge egli, sono gli increduli. I viaggiatori ne scoprono quasi dovunque, segnatamente nei paesi di libertà ed ove poi sono in fiore le lettere. Che se, per non ripetere gli esempi già riferiti, vi nominassi alcuni dei moderni notati d'ateismo, un Averroe, un Calderino, un Poliziano, un Pomponaccio, un Paolo Bembo, un Cardano, un Cesalpino, un Torello, un Cremonio, un Berizard, un Viviani, potreste voi col P. Rapin credere che solo qualche autoruccio di madrigalo, qualche scapato, qualche cortigiano, qualche donna galante siano capaci di irreligione? Tal taccia non può darsi forse a filosofi, medici, umanisti fra i più vantati (14)?

In un'altra opera Bayle insiste su questo fatto caratteristico dei tempi moderni e parla a così dire ancor più manifesto. Questo uomo al quale non può negarsi d'aver ben conosciuto lo spirito e le tendenze d'Europa contemporanea, di tal modo si esprime: «Non sapreste sbandir dalla mente di certuni ... che quegli stessi che dissiparono le tenebre diffuse dai scolastici per tutta Europa non abbiano moltiplicato gli spiriti forti e schiuso l'adito all'ateismo ed al pirronismo o al dubbio sui più grandi misteri del cristianesimo. Ma non solo vuol della irreligione accagionarsi lo studio della filosofia, ma altresì quello delle belle lettere, perché pretendesi che l'ateismo non abbia cominciato a mostrarsi in Francia, se non sotto al regno di Francesco I, e cominciasse a ricomparire in Italia quando gli umanisti vi rifiorirono. Non trovo atei fra noi prima del regno di Francesco I, né in Italia se non dopo l'ultima presa di Costantinopoli, quando Argiropulo,Teodoro di Gaza, Giorgio di Trebisonda, coi più celebrati uomini della Grecia, ripararono alla corte del duca di Firenze. Quanto vi ha di certo si è che la massima parte dei begli ingegni e degli uomini colti che fiorirono in Italia allorché le belle lettere cominciarono a rinascere dopo la presa di Costantinopoli non avevano religione (15)».

A tali non sospette testimonianze, aggiungiamo quella di Voltaire, ricordando che nessuno meglio dei filosofi, dei protestanti, dei razionalisti, conosce la genealogia del libero pensare. «Al quindicesimo secolo, dice egli, i teisti o i deicoli più devoti a Platone che a Gesù Cristo, più filosofi che cristiani temerariamente respinsero la Rivelazione ... Eransi sparsi in tutta Europa e si moltiplicarono dappoi con prodigioso eccesso. È la sola religione su la terra che sia stata la più plausibile. Originariamente composta di filosofi, tutti fuorviati in un modo uniforme, passata poscia nell'ordine medio di coloro che vivono negli ozi compatibili con limitate fortune, salì fra i grandi di tutti i paesi e di rado discese nel popolo» (16).

«Di quel tempo, continua lo storiografo del razionalismo, un ateismo funesto, che è l'opposto del teismo, surse in presso che tutt'Europa … credesi che allora vi fossero più atei in Italia che altrove. Questa specie d'ateismo osò manifestarsi apertamente in Italia sullo scorcio del sedicesimo secolo. Quanto ai filosofi che negano l'esistenza d'un Essere supremo, o non ammettono che un Dio indifferente alle azioni degli uomini, e che punisce il delitto con le sole sue naturali conseguenze, la paura e i rimorsi; quanto agli scettici che lasciate dall'uno dei lati le insolubili quistioni, si sono ridotti ad insegnare una morale naturale, furono comunissimi in Grecia, in Roma e cominciano a divenirlo fra noi (17).»

Ne sembra impossibile scrivere con maggior aggiustatezza la genealogia del Razionalismo, o, come lo definisce Voltaire, della religione plausibile. Sconosciuto in Europa prima della giunta dei Greci di Costantinopoli, nasce dallo studio dei filosofi pagani, riposti in onore dal Rinascimento. Dai dotti, che primamente invade, si estende come macchia d'olio ai letterati comunali; da, questi ai nobili ed ai grandi, smaniosi d'esser tenuti in conto di spiriti forti, e finisce col diventar la religione delle generazioni di collegio. Una sola classe sfugge al contagio, il popolo non messo dall'educazione a contatto col vecchio paganesimo. In seno alle moderne nazioni il Razionalismo produce gli stessi frutti dati nell'antichità greca e romana: l'ateismo, il deismo, il naturalismo, il sensualismo, e il caos quindi intellettuale, il crollo generale dell'ordine religioso e sociale con le rivoluzioni, i delitti e le calamità che ne sono inevitabile conseguenza.

Alle testimonianze citate facilissimo sarebbe aggiungerne altro moltissime non meno esplicite ed attinte alla medesima fonte. Rousseau, Condorcet, d'Alembert, Elvezio, Mably, Lutero, Gentillet, Saint-Just, Camillo Desmoulins e quanti abbiamo già citati, parlano lo stesso linguaggio di Bayle, di Voltaire e di Tomasio. Gli è dunque un fatto attestato dalla storia che filosofi, protestanti, danno d'unanime accordo merito al Rinascimento di quanto si piacciono chiamare emancipazion del pensiero; che tutti proclamano non il sedicesimo secolo, secolo del Protestantesimo teologico, ma il quindicesimo, secolo del Protestantesimo filosofico e letterario, come l'epoca immortale in cui, giusta la frase di Brucker, fu rotta la cavezza che attaccava la ragione alla fede, la filosofia all'autorità, e che non v'ha alcuno che non saluti Firenze e Italia come culla di questa gloriosa rivoluzione. Ecco quanto il Razionalismo stesso ne dice della sua origine. E come nessuno meglio di lui conosce la sua discendenza, teniamo la sua testimonianza per vera, sino a tanto che i contraddittori ne abbiano dimostrata la falsità, e da essa moviamo. Ora questa testimonianza afferma tre cose: 1° che il Razionalismo era sconosciuto in Europa prima del Rinascimento; 2° che comparve al quindicesimo secolo; 3° che fu portato in Italia dai Greci cacciati da Costantinopoli. Ciò basterebbe; pure se la testimonianza del Razionalismo sembrar potesse insufficiente o sospetta, la commenteremo con la storia; in una quistione di tanta importanza nulla che giovi ad ottenere certezza vuol essere trascurato.

Epperò gli è vero storicamente e indipendentemente dalle addotte autorità che i Razionalisti erano sconosciuti in Europa, prima del Rinascimento?

Gli è vero che da quel tempo in poi crebbero a dismisura nei paesi di Occidente?

Gli è vero che nacquero dal commercio dei popoli cristiani con l'antichità pagana, riposta in onore dai Greci venuti da Costantinopoli?

I capitoli seguenti risponderanno alla triplice domanda.



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CAPITOLO III.



IL RAZIONALISMO PRIMA DEL RINASCIMENTO



Vera origine del Razionalismo. - Suo regno nell'antichità. - Abolizione di questo regno operata dal Vangelo. - Tentativi di razionalismo nel medio evo. - Scot Erigene. - Abelardo. - Amauri de Bène. - Davide di Dinant. - Raimondo Lulli. - Nessuno di questi filosofi fu vero Razionalista. - Il medio evo. - L'antipode del Razionalismo. - Prima del Rinascimento non v'era razionalismo in Europa



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Sendo il Razionalismo l'adorazione che l'intelligenza creata, tributa a sé stessa, primo razionalista fu quello che, sin nei cieli, osò dire: «Mi innalzerò, collocherò il mio trono sulle alture, sarò somigliante a Dio», e che sulla terra disse ai padri del genere umano: «Disobbedite e sarete come Dei». Da una parte l'azione incessante dell'angelo ribelle sull'uomo divenuto suo schiavo; dall'altra, la trasmissione per via di generazione del virus satanico deposto nei capi della razza umana, mantennero di secolo in secolo, in seno all'umanità, il fatal germe del Razionalismo. Dopo un lungo e lamentevole trionfo nell'antichità pagana, lo vediamo atterrato dal Cristianesimo, e sino al tempo del Rinascimento, incatenato in tutt'Europa battezzata.

Vogliamo dire con ciò che nel corso del medio-evo nessun tentativo si vedesse di rivolta, nessuna velleità di Razionalismo? No certo. La storia ne accenna anzi un gran numero. Ma il Razionalismo di quel tempo, e il Razionalismo dopo il Rinascimento, differiscono tra loro come la ghianda dalla quercia, il ruscello dal fiume, un fatto particolare e passeggero da un fatto generale e permanente, un errore maledetto da un sistema applaudito.

Sin dal nono secolo, Gian Scot, addetto alla Corte di Carlo il Calvo, tenta risuscitare alcuni principii di Razionalismo pagano, da gran tempo deposto nella obliata tomba dei filosofi di Roma e della Grecia. Nel suo libro De divisione naturae, attribuendo alla ragione forza e diritti che non ha, l'autorizza a scandagliare ed anche a spiegare a modo suo i più profondi misteri. Ma a differenza dei pari Razionalisti, dei Razionalisti dei nostri giorni, Scot curva ancora la testa sotto i principali dommi cattolici. Di tal modo ammette il mistero della santa Trinità e la divinità della Bibbia, professando sempre una specie di panteismo indiano. In mezzo a questo misto di verità e d'errori gli è assai mal arduo discernere qual fosse il principio fondamentale della sua filosofia e in che limiti ne facesse l'applicazione. Si ha argomento a considerare Scot assai più come un eretico precursore di Lutero, che come un vero Razionalista , legittimo avo dei moderni Razionalisti.

Checché ne sia, è notevolissima cosa come alla scuola dei pagani autori abbia attinto Scot e il suo principio filosofico e i suoi errori. Prima di arrivare alla corte di Francia aveva molto viaggiato, sapeva di greco, e s'era appassionato per Aristotele di cui applicò il metodo sillogistico allo studio della Religione. «Non bisogna meravigliarsi, dice l'autore della sua vita, di quanto parecchi dotti notarono, che la filosofia di Scot fosse somigliantissima a quella degli Indiani. Perché non sarebbe cosa né nuova né sorprendente che Scot e gli autori di queste filosofie avessero da sé stessi prodotto, e ciascuno del canto suo, uova e pulcini. Sappiamo d'altra parte come i filosofi Aristotele e Platone, presi da Scot a guide e maestri, saccheggiassero bene spesso i tesori dei filosofi indiani» (18).

Gli è evidente che il libro di Scot sollevar dovesse la indignazione, e fosse dalla scienza dell'epoca colpito d'un solenne anatema: differenza caratteristica tra il medio-evo e i tempi attuali (19).

Al dodicesimo secolo troviamo Abelardo, lo spirito forse più indipendente delle età di fede. Inebriato delle lodi, da tutte parti compartite all'acutezza del suo ingegno, il giovine e brillante professore credesi da tanto di spiegare e far comprendere agli altri i più sublimi misteri. Ma non asserisce mai come i moderni Razionalisti che osano rivendicarlo in loro antecessore: «In fatto di filosofiche credenze e religiose, la ragione d'ogni uomo è suprema autorità». Tuttavia, gravi errori cadono dalla bocca e dalla penna d'Abelardo, san Bernardo li confuta, due concilii li condannano. Il dolore d'Abelardo, la sua vergogna, la sua disperazione, provano meglio che tutti i discorsi la sua fede nel principio d'autorità; in modo più certo ancora e più consolante, la sua conversione la rende autentica. Abelardo ritratta tutti gli errori, fa la pace con san Bernardo, si ritira dal mondo e domanda al sovrano pontefice la permissione di passare il resto dei suoi giorni nell'abbazia di Cluni. Il papa vi consente e Abelardo, tutto dato alla preghiera ed alla penitenza, forma, sino alla morte, l'edificazione della sua devota comunità.

Ed ecco come Pietro il venerabile superiore di Cluni ne ragiona. Quale dei nostri Razionalisti potrebbe meritarsi eguale elogio? «Non mi ricorda, dice egli, d'aver veduto un suo pari in umiltà. Leggeva di continuo, pregava spesso, osservava un perpetuo silenzio, che non rompeva se non costretto a parlare o nelle conferenze tenute alla comunità. Interamente dato alle sue letture ed ai suoi esercizi di pietà, fu attaccato da una malattia che ben presto lo ridusse agli estremi. Tutti i religiosi son testimonio della devozione con cui fece allora prima la sua confessione di fede poi quella dei suoi peccati, e della santa avidità con cui ricevette il viatico del Signore (20)»

Tra il figlio che nel trasmodamento della passione disobbedisce al padre senza cessar perciò dal riconoscere i diritti della paterna autorità; poi, rientrato in sé stesso, espia il suo fallo con le lacrime di un manifesto pentimento, e il figlio che disobbedisce negando questa stessa autorità, e sino all’estremo si fa gloria di questa sacrilega negazione, tutti san discernere l'enorme differenza. Per testimonianza della storia la differenza tra Abelardo e un Razionalista è la stessa. Aggiungiamo che nella lettura degli autori pagani Abelardo aveva attinto il principio dei suoi errori (21). Sicché, raffrontandolo al suo predecessore Eugenio Scot e al suo successore Amauri, troviamo che i tre campioni principali della rivolta intellettuale del medio-evo s'erano pervertita la mente al contatto del paganesimo.

Nel secolo XIII, Amauri o Amalrico di Bène mette fuori in un corso di filosofia alcune panteistiche proposizioni. Il suo oracolo è un filosofo greco di nome Alessandro contemporaneo a Plutarco. Felice d'aver trovato un maestro la cui oscurità può lasciare al discepolo la gloria dell'invenzione, Amauri si permette insegnare: «che Creatore e Creatura sono una medesima cosa; che le idee creano e sono create (22)». Conosciute appena queste bestemmie l'Università di Parigi levasi ad un corpo e le condanna. Amauri se ne appella alla Santa Sede, e con ciò prova di riconoscere il principio d'autorità. Amauri può essere un eretico, non un Razionalista. Arroge che lo spirito generale di quel tempo era contrario per modo ad ogni rivolta intellettuale che, per rappresaglia contro il novatore, morto in questo lasso di tempo, ne fu tratto il corpo dal cimitero e risepolto in luogo profano.

Discepolo d'Amauri, Davide di Dinant non trovò miglior accoglienza del suo maestro. Quantunque al medio-evo le grandi quistioni dei realisti e dei nominali procedessero di conserva continuamente col materialismo e il panteismo, nondimeno gran mercé al principio tutelare dell'autorità, egualmente rispettato dai due partiti, nessuno propugnò scientemente e ostinatamente l'uno o l'altro di questi formidabili errori.

Il quattordicesimo secolo vide comparire Raimondo Lulli.

Bisogna che i moderni Razionalisti siano ben imbarazzati nel crearsi una genealogia per mettere questo personaggio fra i loro proavi. Raimondo Lulli è tutt'altro da quello ch'essi lo fanno: teologo, filosofo, medico, chimico, fisico, giureconsulto, uomo di stato, religioso applaudito da tutt'Europa per ben sessant'anni: tre volle missionario in Africa, ov'è ucciso dagli infedeli. Poi onorato come santo, Raimondo è tenuto autore di venti opere nelle quali troviamo mista la verità coll'errore. Nel 1374 papa Gregorio XI condannò quanto contenevano di riprensibile. Certo vi trovate proposizioni che suonano male ma non la formola del Razionalismo. Nel suo Mundus subterraneus, il padre Kircher pretende a buon dritto che se Lulli ha sostenuto degli errori, gli abbia anche espiati con la penitente ed austera sua vita: che aveva risoluto bruciar i suoi libri, ma che i discepoli lo distolsero da questo atto di saviezza e di giustizia (23).

Tali sono i precipui personaggi che si danno al medio evo per apostoli del Razionalismo. Or non vi ha alcuno che abbia chiaramente, sistematicamente, ostinatamente deificata la ragione, nessuno che ahbia messo in problema l'infallibile autorità della chiesa o sfidatene le condanne: nessuno che abbia negato l'ordine soprannaturale, l'autorità di Gesù Cristo, la necessità della grazia: nessuno che abbia ridotto il simbolo dell'umanità alle dottrine della pura ragione, e il decalogo alla pratica delle virtù puramente umane. Basta d'altra parte rammentarsi che cosa fosse il medio evo sì rispetto all'ordine religioso e sì al sociale per avere incontrastabile prova che la fede era principio vitale e come anima di questa grand'epoca. Gli è dunque un fatto ch'entra nel dominio della storia essere stato il Razionalismo tal quale da sé stesso si definisce e tal qual lo vediamo regnare ai dì nostri, interamente sconosciuto prima del Rinascimento all'Europa cristiana.



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CAPITOLO IV.



Cagione dei tentativi del Razionalismo prima del Rinascimento



Contatto dell'intelligenza cristiana con l'antichità pagana, - Donde tutti i tentativi del Razionalismo. - Contatto con la Grecia sofista e l'islamismo materialista. - Fisica e metafisica di Aristotele recate a Parigi. - Sua filosofia proscritta dai padri della Chiesa d'oriente e di occidente: Tertulliano, Sant'Ireneo, Origene, Lattanzio, Eusebio, Ermia, san Basilio di Cappadocia, san Gregorio Nazianzeno, sant'Epifanio, sant'Ambrogio, san Giovanni Crisostomo.



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Tomasio, Spizelio, Bayle, Voltaire, tutti i liberi pensatori, protestanti e cattolici, affermano essere stati i loro avi, razionalisti o ateisti, come si piacciano chiamarli, sconosciuti al medio evo (24). La storia invocata a conferma del loro asserto, rispose come in fatti prima del Rinascimento, il Razionalismo fosse, per valermi di una frase di sant'Agostino, tanto raro in Europa quanto in Africa le cornacchie. Ad una voce le stesse testimonianze fan risalire l'origine del Razionalismo alla giunta dei Greci in Occidente nel cuore del quindicesimo secolo. Prima di provare storicamente questa seconda parte della loro testimonianza, fermiamoci su un punto degno del più serio esame e che non sarà sfuggito all'attenzione del lettore.

Abbiamo veduto come i tentativi del Razionalismo che di quando in quando si produssero nel corso del medio evo fossero determinati dal contatto della intelligenza cristiana coll'antichità pagana. Ora non avrà dimenticato il lettore come il Cesarismo, il quale si riduce al Razionalismo applicato all'ordine sociale derivasse dalla fonte medesima. Certo il germe della rivolta intellettuale, anzi d'ogni rivolta, è indistruttibile pel cuore dell'uomo decaduto, ma gli è ben da notarsi che fra i popoli cristiani, come un tempo fra il popolo ebreo, la leva che le dà moto è sempre il paganesimo. Per dirla di volo, é più che un fatto, è una legge: legge immutabile di cui la formola popolare è l'adagio di tutti i tempi e di tutti i luoghi: dimmi con chi vai e ti dirò chi sei.

A far più manifesta l'esistenza di questa legge, aggiungiamo che nell'evo medio i tentativi d'intellettuale rivolta si fanno più numerosi e più gravi di mano in mano che il contatto pericoloso per noi indicato si fa più consueto e più stretto. Nella storia psicologica del male che rode l'Europa presente, e la minaccia d'un cataclisma senza pari, questa osservazione è di tale momento che torna necessario porla in tutta la sua luce, e studieremo di farlo.

Le crociate avevano posto l'occidente cattolico e profondamente credente in immediato e lungo contatto da una parte con la Grecia terra classica dell’eresia, dello scisma e del sofisma, di cui i dotti si ascrivono a gloria prender per oracoli gli antichi capi del Portico e del Liceo; d'altra parte con l'islamismo panteista e fatalista.

Non tarda l'Europa a provare una piaga insino allora a lei sconosciuta. Numerose sette nate dalla Cabala, dal Manicheismo e dal Gnosticismo orientale s'agitano nell'ombra. Vedonsi per lungo tempo comparire e scomparire, poi comparire di nuovo sotto nomi diversi: Coterelli, Albigesi, Spiritualisti, Fraticelli, Beggardi, Vodesi, Flagellanti. Affrettiamoci ad aggiungere che tutti questi tentativi del vecchio uomo non ottennero alcun trionfo sociale, voglio dire generale e permanente.

Il germe fatale però di cui erano manifestazione stava per svilupparsi in seno alle generazioni letterate con lo studio troppo passionato d'Aristotile. La fisica e la metafisica di questo autore vennero recate da Costantinopoli a Parigi nel 1167. Furono quest'opere voltate, pei dotti d'occidente, in latino coi commentari degli Arabi (25).

Come permettevasi di insegnare nelle scuole d'Italia i principii dell'antico diritto cesareo, a Parigi si prese a giocare, dirò cosi, col metodo razionalista del filosofo stagirita, giuoco perfido di cui non si sarebbero mai prevedute le conseguenze. Perché la fede s'era fortemente abbarbicata nelle anime e nelle sociali istituzioni, e geni possenti della levatura di Alberto il Grande, san Bonaventura, san Tomaso sapevano mozzar l'ugne al lione, disciplinarlo persino a certi utili esercizi, alla confutazione dell'errore ed alla dimostrazione della verità, si supponeva non aver nulla a temere: troppo si mettevano in non cale i gravi avvertimenti dei Padri della Chiesa. Questi grandi che con gli occhi loro avevano veduto i funesti effetti della aristotelica filosofia, nulla avevano risparmiato a sbandirla per sempre dalle scuole cattoliche. Il momento è venuto di far conoscere i loro motivi, mostrare la fedeltà con la quale per lungo ordine di secoli fu osservato il loro divieto: come si pensò poterlo infrangere, e quali sino al rinascimento furono le conseguenze del prevaler d'Aristotele. Indipendentemente dalla sua capitale importanza nella questione che abbiamo fra mano, questo punto di storia avrà per parecchi, il crediamo, un interesse di novità.

Dopo i dogmi di fede non so, se ci sia punto sul quale i padri della Chiesa siano unanimi tanto quanto nella proscrizione della filosofia pagana e segnatamente di quella d'Aristotele. Ne conosciamo VENTINOVE fra i più celebri che non sembrano trovare frasi forti abbastanza ad allontanare i cristiani da quella cattedra di pestilenza. Ecco sino a che punto si consigliava nei primi secoli della Chiesa l'uso degli autori profani per l'educazione della gioventù.

Accontentiamoci di alcune testimonianze. «Dalla filosofia, dice Tertulliano, sono nate le eresie. Gli Eoni di Valentino derivano da Platone: il Dio tranquillo di Marcione dagli stoici .... Sciagurato Aristotele, che per gli eretici e i filosofi, inventasti la dialettica, arte di disputare, atta in pari modi ad edificare e distruggere; vero proteo negli assiomi, angusto nei pensieri, tirannico negli argomenti, fabbro di contese, insopportabile a sé stesso, che a tutto si applica e nulla rischiara. Di là le favole, le interminabili genealogie, le quistioni di lana caprina, e quei discorsi che ti invadono la mente come gangrena il corpo, contro i quali l'apostolo volendo metterci in guardia segnatamente accenna alla filosofia e scrive ai Colossesi: Badate che nessuno di voi si lasci ingannare dalla filosofia e dai vani ragionamenti giusta le tradizioni degli uomini, e non l'ordine statuito dalla sapienza dello Spirito Santo.

San Paolo era stato ad Atene e aveva imparato dal dialogizzare che vi si faceva quell'umana sapienza bugiarda promettitrice e corruttrice della verità, in mille sette divisa, nemiche capitali l'una dell'altra: Che mai v'ha di comune fra Atene e Gerusalemme? fra l'Accademia e la Chiesa? tra gli eretici e i cristiani? La nostra filosofia vien dal portico di Salomone, ed ecco la lezione del gran maestro: Bisogna cercar il Signore con cuor semplice e retto. Di questo si ricordino coloro che pretendono darci un cristianesimo stoico, platonico e dialettico (26)».

Nel suo libro contro le eresie, sant'Ireneo è più laconico ma non meno forte di Tertulliano, allorché dice Aristotele «maestro di ciarle e sottigliezze, invocato sempre dagli eretici in aiuto per corromper la fede» (27).

«La filosofia d'Aristotele, soggiunge Origene, pende più che tutt'altra al sensualismo ed al materialismo» (28), «e verso il fatalismo e l'assurdo sistema della eternità della materia» continua Lattanzio (29).

«Aristotele, scrive Eusebio, è in gran venerazione fra gli eretici. A lui ricorre chi vuol con le proprie sottigliezze corrompere il senso delle Scritture» (30).

Ermias si ride nel modo più solenne d'Aristotele e di tutti i filosofi tornati in idolatria all'Europa dopo il rinascimento (31), e san Basilio di Cappadocia domanda con ironia: «Che bisogno abbiamo noi dei sillogismi d'Aristotele o di Crisippo per conoscere il Verbo e la sua eterna generazione? Che vuole l'eretico assumendoli a maestri, se non mostrare il suo genio e la sua abilità a fabbricare e discioglier sofismi per giungere a negare i dommi della fede? (32)»

San Gregorio Nazianzeno, che alcuni si permettono considerare come propugnatore degli autori profani, gli è ben altrimenti energico quando ricorda i «filosofi gentili, e segnatamente Platone e Aristotele, piaghe d'Egitto, che desolarono la Chiesa» (33).

«Son pieni del nerbo d'Aristotele, sclama sant'Epifanio, gli eretici che sprezzano la semplicità dello Spirito Santo ... Coi sillogismi di costui combattono la divinità di Gesù Cristo. Ma avete un bel fare il regno di Dio non consiste né nei sillogismi, né negli argomenti, né nei discorsi arroganti e tronfi, ma nella virtù e nella verità» (34).

Fabbro d'eresia, dottor d'empietà, che prebende non debba la provvidenza di Dio discendere che sino alla luna, tale è Aristotele agli occhi dell'illustre arcivescovo di Milano, sant'Ambrogio (35).

Quel che sant'Ambrogio dice in Occidente, un dottore non meno illustre, san Giovanni Crisostomo, lo proclama in Oriente.

Per lui i filosofi pagani e fra tutti Platone e Aristotele non furono se non razionalisti che invece di accettare semplicemente le verità tradizionali, le sottoposero allo scalpello della loro ragione, e caddero nello scetticismo, passando per infinite variazioni: pericolosi nemici della fede e poveri maestri dei cristiani (36).



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CAPITOLO V.



Cause dei tentativi del Razionalismo prima del Rinascimento



Nuove testimonianze dei Padri contro Aristotele. San Girolamo, sant'Agostino, san Cirillo d'Alessandria, Enea di Gaza, Enrico di Lione, san Bernardo, il concilio di Parigi nel 1209. - Opere d'Aristotele condannate al fuoco. - E però prima fase della fortuna d'Aristotele dal cominciar della Chiesa sino al tredicesimo secolo; proibizione assoluta delle sue opere. - Decreto del cardinale di Courçon. - Seconda fase della fortuna d'Aristotele. - Tolleranza della sua dialettica. - Bolla di Gregorio X - Terza fase della fortuna di Aristotele -Autorizzazione ad insegnare la fisica e la metafisica espurgate. – Riassunto.



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San Gerolamo, che non esitò a chiamar la rettorica, la poesia e la filosofia pagane cibo dei demonii, conserva tutta la sua energia per imprecare al male operato alla Chiesa da Platone e da Aristotele. «Dalla loro scuola, dice egli, son venuti i declamatori avidi di gloria, i sofisti, gli sprezzatori della Scrittura e gli eretici, che chiudono la semplicità del Vangelo negli spineti della filosofia» (37).

Sant'Agostino che sì altamente deplorò la consuetudine di porre gli autori pagani fra mano della gioventù, proclama come tutti i padri, che gli eretici andavano a cercar le loro armi in Aristotele (38).

«Gli eretici, sclama san Cirillo Alessandrino, ne corrono sopra armati della filosofia d'Aristotele, e tronfi dell'orgoglio loro ispirato dalla mondana sapienza, fan risonare il mondo d'un vano fracasso di parole» (39).

Parlando dei filosofi del suo secolo Rousseau li paragona a ciarlatani sul trespolo, che gridano a tutto fiato ognun dal canto suo: Avanti, avanti signori: sono io il solo che non inganna; e che non consentendo tra loro in nulla sembrano non aver altro scopo che contraddire gli uni agli altri ed anche a sé stessi. Enea di Gaza, uscito dalla scuola di Platone per divenir cristiano, avventa lo stesso rimprovero ai filosofi pagani senza far grazia al proprio maestro. Per lui Aristotele altro non è che un pericoloso sofista, che alterando la natura dell'anima e negando la sua immortalità, trascina il mondo nell'abisso d'un goffo materialismo (40).

«La morte di Gesù Cristo, continua, Enrico di Lione, distrusse il regno di Platone ed Aristotele, la sapienza dei quali fu contata per nulla nella Chiesa» (41). Potevano dire più chiaramente che non alla loro scuola debbono informarsi i cristiani, e a più forte ragione che non alla loro scuola dev'essere indirizzata la gioventù?

E però san Bernardo sclama in uno de' suoi sermoni: «Godo siate della scuola dello Spirito Santo. Perché sono io più dotto dei maestri? forse per avere studiato le arguzie di Platone, le sottigliezze d’Aristotele? No certo. Gli è, mio Dio, perché ho meditata la vostra legge. Forse che gli apostoli ne insegnano a legger Platone, o a sbrogliare gli intralciati concetti d'Aristotele? (42)»

La qual solenne riprovazione forma l'opinione pubblica d'Europa e sino al dodicesimo secolo la norma immutabile di sua condotta. Meno poche eccezioni, vedute sempre di malocchio, in nessuna scuola Aristotele fu insegnato, meno poi Platone: gli è molto se alcuna delle loro opere fu conosciuta dagli eruditi (43). Verso la fine dello stesso secolo e al principiare del decimoterzo due o tre maestri in filosofia si assunsero spiegare, in vece della filosofia di sant'Agostino, in sino allora dominante in tutte le scuole, certi tratti del filosofo stagirita. A questa fonte pericolosa attinsero gli errori per noi indicati. Intervenne allora il concilio di Sens, tenuto a Parigi nel 1209.

Il celebre decreto di questa assemblea è autentica conferma del giudizio dei Padri della Chiesa e luminosa prova della fedeltà con la quale tenevasi in ossequio. A troncar fin dal principio il male, a sbarbicarlo, il concilio fulmina a un tempo Aristotele e il suo discepolo Amauri. Condanna al fuoco i libri d'Aristotele, la sua metafisica e la sua filosofia: proibisce sotto pena della scomunica a chicchessia di copiarli in avvenire, insegnarli, conservarli: abbandona i discepoli d'Amauri al braccio della giustizia secolare, che fa arderne dieci, dissotterrare il cadavere del loro maestro e spargerne al vento le ceneri (44). E però prima fase della fortuna d'Aristotele proibizione assoluta e condanna delle sue opere.

Il decreto del concilio di Sens non fu a lungo osservato. I libri d'Aristotele voltati in latino, continuavano ad esser letti da un certo numero di persone. Arroge che i commentari su questi libri di Alessandro, Algazel ed Alkinda, filosofi arabi, spingevano gli animi ai più perniciosi errori che parevano favoreggiati da certi filosofi reggenti, e da uditori od artisti (45). Per questo fatto allarmante il cardinale di Courçon delegato della Santa Sede nel 1215 alla riforma dell'Università di Parigi, avvisò poter fare una concessione. Tenuto saldo il veto di leggere i libri di Aristotele condannati al fuoco, autorizzò la spiegazione della sua Dialettica (46). Sino allora la filosofia di Sant'Agostino, aveva, come dicemmo, regnato nelle scuole. Ora sant'Agostino cede il campo ad Aristotele, il dottor cristiano al filosofo pagano (47). E però seconda fase della fortuna d'Aristotele: proibizione assoluta della sua Fisica e Metafisica, ma tolleranza della sua Dialettica.

La concessione fatta dal legato fruttò poco alla repubblica cristiana, e l'esperienza non tardò a giustificare i Padri della Chiesa e il concilio di Sens. Alla scuola di Aristotele, di questo gran maestro di sottigliezze le università si convertirono troppo spesso in un'arena di disputatori, che di tutto contendevano, ciaramellando senza comprendersi: sbracciantisi a difendere per egual modo il pro e il contro, e parati a recar nei campi della teologia quello spirito che dicevano filosofico, osi interpretar colle norme della dialettica aristotelica il libro divino, e trascorrenti sino a sostenere certe cose vere a tenore della filosofia non della fede. Il male si fece grave tanto da richiamar l'attenzione della Santa Sede e provocare la famosa bolla di Gregorio IX nel 1231.

In questa bolla diretta all'Università di Parigi biasima il pontefice i maestri di quella scuola, fra tutti celeberrima, d'aver introdotto nell'insegnamento della teologia quistioni puramente filosofiche: sostituito al nativo linguaggio della teologia un barbaro gergo, esoso misto di parole cristiane e di parole pagane: sciagurati imitatori degli ebrei che reduci dalla schiavitù di Babilonia più non parlavano il linguaggio dei loro maggiori, ma una lingua deturpata da parole pagane, e li esorta a tornar quel che erano stati teologi e non filosofi. Poi nella speranza senza dubbio di ottenere più facilmente la sommissione ai suoi ordini, tempra il rigore del canone emanato dal concilio di Sens, sanzionando della propria sovrana autorità la saviezza del suo decreto. All'assoluta proibizione della Fisica e della Metafisica d'Aristotele sostituisce il veto di leggere quelle opere sino a che siano convenientemente purgate (48) e però terza fase della fortuna d'Aristotele proibizione temporaria della sua Fisica e della sua Metafisica.

Gli è assai dubbio che la bolla papale abbia sortito l'esito che se ne doveva sperare: da l'uno dei lati non v'ha prova che i libri d'Aristotele siano stati espurgati, e dall'altro non tardarono a comparir nuovi errori attinti a questa fonte funesta. Enrico di Gand dice che si dava taccia al novatore Simone di Tournai d'aver attinte alla scuola aristotelica le sue avvelenate dottrine (49). Un'accusa simile è mossa ad altri professori da Odone cancelliere della Università di Parigi, poi cardinale. Si lagna questi amaramente che le sottigliezze filosofiche invadano il campo della teologia. Chiama tale disordine una fornicazione che distrugge il legittimo vincolo della ragione e della fede: un delitto somigliante a quello degli Ebrei che la manna del deserto posponevano alle cipolle d'Egitto: una follia somigliante a quella del villano che tanto si rimpinza di pan nero da non poter dar luogo nel suo stomaco ad un pezzetto di pan bianco (50).

Come vedesi non si cominciò già ai dì nostri a deplorare il pericolo degli autori pagani nella istruzione della cristiana gioventù! Se al secolo tredicesimo il buon senso e lo spirito della Santa Sede trovavano contradditori, incontravano pure come ai nostri tempi uomini che ne formavano la regola di loro condotta e dei loro scritti. All'illustre vescovo di cui riferimmo le parole uniamo il beato Luigi contemporaneo d'Odone. «Tutta questa filosofia pagana, dice l'autore della sua vita, spiacevagli; gloriavasi di prender lezioni dagli autori cristiani, come sant'Ambrogio, sant'Agostino, san Girolamo, san Gregorio. Di tal modo nel suo insegnamento opponeva il cristianesimo al paganesimo (51).

Fra i grandi uomini egualmente ligi all'antiche tradizioni ed ossequienti delle decisioni di Roma e dei concilii, bisogna al certo annoverare Alberto il Grande e san Tomaso suo discepolo. Tuttavia gli è indubitato che l'uno e l'altro commentarono Aristotele; o almeno frequentemente si valsero dei suoi scritti, e ciò poco dopo la proibizione del concilio di Parigi e la bolla di Gregorio IX. Come spiegar questo fatto singolare? Parecchi dotti, tra gli altri Campanella, pensano che san Tomaso abbia ottenuto dal papa la permissione di leggere Aristotele, per combattere coll'armi sue stesse il male da lui operato (52).

A detta d'alcuni, la proibizione del papa e del concilio non era che locale, e suppongono che Alberto il Grande e san Tomaso non fossero a Parigi quando leggevano le opere d'Aristotele, o che non si valsero che degli scritti non condannati di questo autore. Checché ne sia gli è cosa curiosa veder poco dopo la facoltà teologica di Parigi dar nota al cospetto del papa a fra Tomaso d'essersi valso troppo del Peripatetico e d'aver introdotto il suo linguaggio filosofico nel dominio della teologia. Non diciamo meritato il biasimo, lo diciamo solo inflitto (53).

Riassumiamo in poche parole tutta la storia di questo fermento del Paganesimo con le sue cause e i suoi effetti al principiare del tredicesimo secolo: chi ha orecchie per udire oda. «Prima di quest'epoca, dice un autore non sospetto, non si conoscevano che alcuni trattati d'Aristotele, insegnati e commentati da pochi maestri; ma in generale non era in gran fama, né luminoso era il suo nome; ma tradotti e penetrati in Francia, per la via della Spagna, ove gli Arabi ne facevano un conto singolare, furono studiati, e divennero pascolo di tutte le menti.

»Ben tosto fu manifesto l'inconveniente della dottrina di un filosofo pagano ammessa nelle scuole cristiane. Si concepivano cattivi principi negli studi filosofici e si recavano poi nella teologia: alcuni giunsero sino ad una notabile incredulità, prova ne sia Simone de Tournay celebre maestro sullo scorcio del XII secolo e il principio del XIII; ne siano prova gli errori d'Amauri di Bène nel 1204, proscritto dall'Università che ne ottenne da papa Clemente III la condanna.

Si risalì alla fonte del male, e si pensò che i libri d'Aristotele risgnardanti la metafisica, avessero contribuito ad inspirare lo sprezzo della cristiana religione, e potessero produrre in seguito il medesimo effetto. L'universita vietò leggerli, copiarli, e ne arse quanti esemplari poté rinvenire. Conseguentemente a tale decreto Roberto di Courçon, legato di papa Innocenzo III, nel 1215, proibì la lezione nelle scuole dei libri di fisica e metafisica d'Aristotele. Nel 1201 papa Gregorio IX si accontentò di sospenderne la lettura fino a che fossero corretti. Notasi in queste condanne un'eccessiva diminuzione di severità. La prima è la più rigorosa, le altre vanno temperandosi. Apparirà dai fatti che la più severa era la più saggia» (54).


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CAPITOLO VI.

Cagione dei tentativi del Razionalismo prima del Rinascimento



Importanza delle nostre ricerche. - Quarta fase della fortuna di Aristotele: permesso, comandato anzi alla gioventù l'insegnamento di parecchie sue opere tra le altre della sua Metafisica. - Risultamento di questa concessione. - Testimonianza di Gerson e di Clemengis. - Quinta fase della fortuna d'Aristotele: ordine di insegnar la sua morale e la massima parte dei suoi trattati. - Nuovi risultamenti di questa concessione. - Testimonianze di Tritemo e dell'arcivescovo di Rouen. - Occasione del Protestantismo. - Riassunto. - Quattro fatti principali



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Come bene spesso accade, la condiscendenza della Chiesa servì di pretesto a strappar nuove concessioni. E nondimeno sullo scorcio del secolo tredicesimo era bisognato proscrivere un intero sistema d'errori fondato su Aristotele ed insegnato da parecchi maestri. Il che provocò la condanna emanata dal vescovo di Parigi, Stefano Tempier nel 1277, non che la fulminante bolla di Giovanni XXI, dell'anno stesso. In quella bolla il sovrano pontefice biasima altamente i teologi di Parigi e vieta in virtù di sua suprema autorità, unire le filosofiche opinioni alla dottrina celeste imparata dalla Rivelazione (55).

Nel 1336, i cardinali di San Marco e san Martino, commissari di papa Clemente V, per riformare l'università di Parigi, indicano per la prima volta le opere di Aristotele, la spiegazione delle quali viene espressamente ingiunta. Fra le ultime appaiono la Metafisica ed alcuni trattati di filosofia naturale (56). E però quarta fase della fortuna di Aristotele, autorizzazione, ingiunzione, anzi di insegnare alla gioventù parecchie delle sue opere e tra le altre la Metafisica.

La qual nuova concessione estorta senza dubbio dalle circostanze fu ben lontana dal tornare a vantaggio di coloro che la avevano sollecitata. Incessanti discussioni, la triste mania di sottilizzare, puerilità e sofismi, con tanta amarezza rimproverati poscia ai teologi scolastici, guai tutti succeduti al sano metodo di esposizione, alla gravità, alla maestosa semplicità del primitivo insegnamento, furono per molti ingegni conseguenze del loro passionato commercio con Aristotele. Donde il rimprovero troppo fondato che ai suoi colleghi stessi dà il celebre cancelliere dell'Università di Parigi, Gersone (57).

Altro più grave inconveniente fu l'autorità magistrale a attribuita ad Aristotele. Parecchi giuravano sulla sua parola, e parevano attribuir valore alle sue massime quanto agli oracoli della Scrittura. La ragione umana prendendo poco a poco il posto della divina, dava visibilmente principio al regno fatale del Razionalismo. «Giusta l'espressione dell'Apostolo, scriveva un discepolo di Gerson, i nostri teologi languiscono intorno a questioni di parole e orpelli di frasi, cosa da sofisti e non da teologi. Cercano i tesori della scienza fra i rovi e gli sterpi dell'umana filosofia, fra i quali languiscono e muoiono di fame .... perché non trovano frutti o se ne trovano quei frutti pari a quei del Mar Morto son belli al di fuori ma pieni al di dentro di una polvere infetta. Un gran numero di scolastici giunsero a fare sì poco caso delle più inconcusse testimonianze della Scrittura che un ragionamento fondato su una simile autorità pare loro debole e volgare, l'accolgono a fischi ed a scherni, come se le invenzioni e i sogni dell'umana sapienza fossero di maggiore momento (58).

I quali reclami non fermarono già la marcia trionfale d'Aristotele. Nel 1452 il cardinale Totavillas, incaricato di riformare l’Università Parigina, avvisò dover aggiungere una nuova concessione a quelle già da noi riferite. Confermando i regolamenti dei suoi immediati predecessori, prescrive inoltre di insegnar la morale d'Aristotele (59). E però quinta fase della fortuna d'Aristotele: comando assoluto d'insegnare alla gioventù la sua morale, e la massima parte delle sue opere.

Abbiamo seguito nel tortuoso suo progredire l'elemento razionalista dal secolo XIII sino al Rinascimento. Prima di mostrar questo germe fatale divenuto un grand'albero al soffio dei Greci di Costantinopoli additiamo i danni da lui prodotti in Europa. Il celebre Gian Tritemo proclama che da Abelardo in poi la filosofia cominciò a bruttare la teologia (60). Senza dubbio un tale lamento non si volge a tutti i teologi, ma a quelli che, non fatto il debito calcolo delle sacre prescrizioni dei papi Gregorio IX e Giovanni XXI, introdussero l'elemento sofistico e razionalista nello insegnamento della scienza sacra.

Un illustre arcivescovo di Rouen, contemporaneo quasi ai teologi di cui parliamo, espone pure i frutti del loro metodo. «Si é creduto assicurarsi, fortificarsi e fuggir gli errori abbandonando la Scrittura ed i Padri per studiare quella teologia metodica o piuttosto nominale che corre nel tempo nostro: E si è preso un goffo sbaglio. Di tal modo cadono senza dubbio nella presunzione che si accompagna sempre ad un eccessivo ardimento: infievoliscono la religione facendo fondamento su deboli ragioni, e invece di errori perdonabili all'ignoranza in cui cadono coloro che non pretendono saper tutto, come se ne ebbero parecchi nell'antichità, senza che perciò ne venisse danno alla Chiesa, vediamo un abisso di moderne temerità e d'errori gnostici, più pericolosi degli ugonotici che pullulano tra le bande scolastiche, sui quali metterò fuori il mio avviso quando mi vedrò circondato d'un concilio» (61).

Lo spirito ragionatore, la presunzione, la vanità, l'indebolimento delle prove della religione, un abisso di temerità e di errori sovranamente pericolosi tali erano a detta del savio vescovo i risultamenti della filosofia pagana in un gran numero di scuole di teologia, al momento del Rinascimento. Quando udremo Lutero declamare contro la teologia e la filosofia scolastica, chiamar Aristotele un maestro del diavolo, una peste, un agente dell'inferno, bisognerà senza dubbio donare qualche cosa all'esagerazione; ma non si potrà a meno di convenire che le sue accuse non erano già destituite di fondamento.

Non dimentichiamo che nei suoi primordi il Protestantismo si chiarì come reazione legittima contro un metodo d'insegnamento disapprovato anche dai più eminenti cattolici. Questo fu, siccome abbiamo dimostrato il suo primo, il suo gran cavallo di battaglia. Da questo fatto troppo manifesto deriva che la pagana filosofia severamente sbandita dai Padri della Chiesa e richiamata poco a poco nelle scuole del XIII e XIV secolo, può rivendicare gran parte nelle calamità che desolarono l'Europa cristiana.

In somma, la storia dello spirito umano in Occidente dallo stabilimento del Vangelo sino al Rinascimento, indica quattro fatti principali. Il primo che nel corso del medio evo vi furono parecchi tentativi di Razionalismo. Vedonsi anche fervere nel fondo della società i germi della maggior parte degli errori moderni cesariani, comunisti, panteisti, rivoluzionari. Né poteva essere altrimenti perché la radice del male vive sempre nel cuore dei figliuoli d'Adamo. Ma da una parte gli uomini in cui questi errori si personificarono furono pochi relativamente: d'altra parte l'opinion generale non li salutava come mirabili geni, le cui, parole fossero oracoli e le azioni norme di condotta. Non traducevansi le loro lezioni né in romanzi a pervertire il focolare domestico, né in teatrali produzioni a corrompere la moltitudine. La società nulla faceva per propagarle; in quella vece prestava docile il suo braccio alla Chiesa per estirpar la zizzania.

Il secondo, che i tentativi del Razionalismo, più o meno locali e più o meno effimeri, non mutarono lo spirito, profondamente cristiano di quel tempo, né formarono mai del medio evo un libero pensatore. La prova è palpabile; le tre grandi manifestazioni del Razionalismo, la negazione del principio di autorità in filosofia, il Naturalismo in religione, il Cesarismo in politica, mai non pervennero a mettersi in luce, in modo completo, e molto meno in modo permanente. Di tutte le quistioni che in allora agitarono le menti, la più formidabile, è fuor di dubbio quella dei Nominali, sollevata da Roscelin e combattuta dai Realisti. Poteva condurre al Panteismo e al Materialismo. Nondimeno ad onta dei trambusti cagionati nelle scuole, non produsse, gran mercé all'azione sovrana del principio d'autorità, né un aperto materialista, né un aperto panteista.

Il terzo, di grandissima importanza, che i tentativi del Razionalismo nel medio evo furono invariabilmente determinati dal commercio dell'intelligenza cristiana coi filosofi pagani. Ma come questo pericoloso commerciò non era che un fatto particolare ed accidentale, la filosofia, di quest'epoca si mostra nel suo insieme fedele al suo glorioso nome di ancella della fede, ancilla fidei. Meno alcune eccezioni, tutti i suoi lavori tendono a provare, a mettere in luce e non a combattere le verità che son principio e sanzione dell'ordine religioso e del sociale. «Erede del fondo se non della forma della filosofia dei Padri della Chiesa, la filosofia del medio evo, dice il dotto Moeller, facendo fondamento su incrollabili credenze, rimase sempre la stessa quanto ai principii. Acquistò anzi con lavori secolari una grandezza ed una estensione che non furono eguagliate giammai da nessun'altra filosofia (62)».

Il quarto che i tentativi del Razionalismo al medio evo si fecero più numerosi e più gravi di mano in mano che il contatto con la pagana filosofia fu più consueto e più stretto. Nondimeno i Razionalisti propriamente detti, quali li vediamo ai dì nostri e quali essi stessi si definiscono, furono sconosciuti durante quel lungo periodo e sino al Rinascimento.

Tale è la prima parte della testimonianza di Tomasio, Spizelio, Bayle, Voltaire e di tutti i liberi pensatori moderni; abbiamo veduto come la storia dia loro compiutamente ragione, ma non basta. Non solo affermano con verità che il Razionalismo fosse sconosciuto all’Europa cristiana prima del Rinascimento, ma sostengono ancora che al XV secolo apparisse in Italia coi Greci cacciati di Costantinopoli, e che di là si spargesse in tutto il paese, ove si fece comunissimo. Tale è la seconda parte delle testimonianze che esaminiamo: per appurarle continuiamo a consultare la storia.




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CAPITOLO VII.



IL RAZIONALISMO DOPO IL RINASCIMENTO - ITALIA



Ricomparisce tale quale si mostrò nelle scuole della filosofia pagana di cui rinnova i principii e i più gravi errori. - Razionalismo politico. - Formulato da Machiavelli. - Dovunque diffuso. - Prove. - Razionalismo filosofico insegnato dal Rinascimento e dai Rinascenti. - Testimonianze: Spizelio, Pier Mathieu. - Principali Razionalisti italiani: Pomponaccio, Porzio, Cesalpino, Vernia, Cesare di Cremona, Simon Simonio, Pietro Aretino, Nanno, Orefo, Cosimo de' Medici, Machiavelli, Pomponio Leto, Calderino, Bruno.



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Sul punto che ne occupa le dottrine dell'istoria di tal modo si compendiano. «Sessant'anni appena sono scorsi dall'arrivo dei Greci di Costantinopoli e il Razionalismo conta in Italia numerosi settatori. Fa di più; sbalzando d’un sol tratto al più alto sviluppo, riproduce nel centro stesso della cattolicità i più mostruosi errori della pagana filosofia, la mortalità dell'anima, il fatalismo, lo scetticismo e il panteismo. Da questi errori fondamentali ne discende una folla d'altri che giusta la frase stessa del concilio Lateranense, tende a niente meno che a far crollare il Cristianesimo e la società da cima a fondo. Intanto il Razionalismo diventa in politica il Cesarismo, in filosofia ed in religione il libero pensare: nelle arti, nella poesia, nella letteratura, e ben presto nei costumi, il Sensualismo, il cui tipo non si trova che nella pagana antichità. Tanto accadeva, nol dimentichiamo, parecchi anni prima di Lutero, che nei suoi più grandi eccessi, mai non trascorse tant'oltre». Veniamo alle prove.

Quanto al Razionalismo, o piuttosto all'ateismo politico che fa man bassa sull'Europa, la storia determina con piena evidenza che esso risale non a Lutero, ma a Machiavelli (63). Questi condensando nelle sue opere i germi del Cesarismo diffusi in Europa, lo eresse in sistema: egli ne redasse la formola, ne formò il catechismo, che lo fece dapprima prevalente nelle corti di Francia ed Italia, poscia in tutte le altre. Egli, postasi sotto i piedi la distinzion cristiana dei due poteri, proclamò la dottrina pagana dell'assorbimento del potere spirituale nel temporale, della Chiesa nello stato, della religione semplice strumento di regno, con le sue conseguenze, per egual modo fatali ai re ed ai popoli.

Nei suoi scritti e in quelli dei suoi primi discepoli trovate le definizioni atee della religione: «Sacro culto introdotto dai magistrati per ottener la pace nello stato: - Opinione su Dio e il culto che a lui è dovuto, pietosamente stabilita per conservare la pubblica tranquillità; - Maniera d'onorar Dio, approvata dal pubblico potere, principalmente allo scopo di mantenere i sudditi nel dovere e la repubblica in quiete: - La religione politica è un culto della divinità falso e simulato, eloquentemente propugnato dai sacerdoti e fortemente dai re, per conservare ed accrescere la pubblica e privata felicità» (64).

Dinanzi a siffatte scandalose definizioni che avevano corso nella maggior parte delle opere politiche, il dotto Stapleton, volgeva seriamente a sé stesso tale domanda: «I politici dei nostri giorni vogliono annoverarsi fra i cristiani»? E risponde: «I politici son quelli che preferiscono alla religione gli interessi della cosa pubblica e della privata, e che considerando come un nulla la religione, nascondono la flagrante empietà sotto la bella larva della prudenza civile e della politica; sicché i politici altro non sono che atei» (65). «Gli atei che oggi governano i regni, continua il celebre Contzen, si fan gloria del nome di politici» (66). «Di questi atei son piene le corti d'Europa», soggiunge Guezarra (67). Non insisteremo oltre su questa trista verità, provata ad esuberanza nella nostra storia del cesarismo.

Trattasi del Razionalismo filosofico, cioè dell'emancipazione della ragione in materia di credenza divina ed umana? La storia le assegna invariabilmente il Rinascimento per origine in tutta Europa. «I professori, dice Spizelius, di belle lettere e di scienze propinarono, all'epoca del Risorgimento, sotto pretesto dell’autorità degli antichi il veleno dell'ateismo alla incauta gioventù» (68). Accorsa da ogni parte alle scuole d'Italia, bevvero a lunghi sorsi al nappo fatale: e tornati nel proprio paese, questi giovani vi sparsero il contagio: l'Italia fu la prima infettata. «In questo paese, dice un antico cronicista francese, non mancano spiriti libertini tanto da non credere se non a quello che loro talenta, per onorar Dio a loro modo, e non aver fede che nel proprio senno. La loro fede sull'anima consiste nel convincimento che bisogna godere e darsi in braccio alle voluttà. In conseguenza loro unica sollecitudine è vivere come bestie. Cercano persuadersi l’anima non esistere e non esservi un Dio testimonio e punitore del vizio» (69).

Un altro contemporaneo scrive: «Se cercate atei in nessuna parte ne troverete tanti quanti in Italia. Infatuati dagli autori pagani, sarebbe più facile il provar loro con Omero e Virgilio l'esistenza del Purgatorio che col Vangelo la risurrezione dei morti» (70).

Se dalle generali passiamo ai nomi propri l'elenco è infinito. Citiamo soltanto alcune di tali celebrità che dominarono di questo tempo e diedero il colore allo spirito pubblico, come Voltaire e Rousseau lo diedero essi stessi al loro secolo. Era altra cosa che un libero pensatore qual Pomponaccio, «il più gran filosofo del suo tempo, come dice Matter, che separa la religione dalle dottrine morali, il cui insegnamento raccogliesi in due parole: emancipar la filosofia dai dogmi della religione»; (71) e che con audacia sino allora inaudita nell'Europa cristiana, combatte la immortalità dell'anima, la Provvidenza e i miracoli?

E il discepolo di Pomponaccio, Simon Porzio, che con grande scandalo della Chiesa, insegna in un trattato ad hoc che l'anima muore col corpo: «Opera, dice Gesner, più degna d'un porco che d'un uomo»? (72)

E il contemporaneo di Porzio, Andrea Cesalpino che osò sostenere il fatalismo tanto in Dio che nell'uomo, e che facendo del libero arbitrio una chimera converte l'uomo in una macchina e diventa precursore di Spinosa? (73).

E il famoso Vernia professore di filosofia a Venezia, che insegna alla gioventù l’anima universale degli antichi? «E ciò, dice Bruker, con tale successo, che giusta l'opinione d'un gran numero quasi tutta Italia era imbevuta di tal mostruoso errore, alla quale aggiunge la negazione d'esseri immateriali, tranne le intelligenze motrici delle sfere. Non contento di professare a viva voce siffatte empietà, le consegna nel suo libro dell’Intelligenza e dei Demonii» (74):

E l'emulo dei precedenti, Cesare di Cremona, l’oracolo filosofico della università di Padova, al quale i suoi più intimi danno taccia d'essere stato uomo senza religione, e che nel segreto dell'animo suo se ne gloriava, negando la immortalità dell’anima, la Provvidenza e insegnando al pari di Vernia la chimera dell'anima universale? Giano dalla doppia faccia che diceva: Quando insegno queste dottrine parlo da filosofo, ma mi sottopongo al giudizio della Chiesa. «Nessuno, nota Bruker, si lasci allucinare da tali proteste. La paura degli inquisitori gli suggeriva siffatta cautela; a cui ricorsero tutti gli italiani di quel tempo che volevano professar l'errore scansando le censure della Chiesa. Ma nel foro interno conservavano tutta l’indipendenza del libero pensare. Al filosofo di Cremona viene attribuito l'aver risuscitato il seguente adagio, di Tullio: Nel mio segreto penso come voglio io, in pubblico come vogliono gli altri» (75).

E Simon Simonio di Lucca professore di filosofia a Ginevra, donde fu costretto a fuggire in Germania, poi in Polonia ovunque spargendo l'ateismo? Nel 1588 comparve uno scritto il cui titolo solo fa conoscere la fama che quest'uomo lasciava dietro sé:

«Sunto della religione di Simon Simonio, nativo di Lucca: prima cattolico, poi calvinista, poi luterano: finalmente di nuovo cattolico e sempre ateo» (76).

E Pietro Aretino i cui scritti degni di Voltaire schiantano per egual modo l'ordine religioso e il sociale; Aretino che nella sua troppo famosa opera dei tre impostori, de Tribus impostoribus, porta il cinismo dell'empietà a segno non più veduto e non mai oltrepassato? È noto come per dipingere quell'audace razionalista, gli fu fatto il seguente epitaffio:

Qui giace l'Aretin poeta tosco,

Che disse mal d'ognun fuorché di Dio,

Scusandosi col dir: non lo conosco (77).

E Cardano di Pavia, medico, astrologo, gran giocatore, filosofo di cui uno storico ha detto: «Uomo senz'ombra di fede e di religione: nel suo tempo, principe degli atei di second'ordine che si nascondevano nell'ombra»? (78)

E quei due fiorentini si conosciuti ai loro tempi Nanno Crosso, e Luca Orefo? In tutta la loro vita fanno aperta professione d'ateismo: poi al momento della morte, unendo lo scherno all'empietà, l'uno domanda un crocifisso da baciare, ma a patto espresso che glielo recasse Donatelli, e l'altro si raccomanda all'essere più potente, Dio o il diavolo, proferendo quest'ultima bestemmia: «Chi più può, più tiri» (79).

E se vuolsi dar fede a parecchi storici, Cosimo de' Medici, il padre del Rinascimento? Ammonito al momento della morte di temere il giudizio, si mise a gridar sghignazzando: «Imbecilli, ritiratevi: non vi sono altri diavoli che i nostri nemici ed altri dei che re e principi. Dai primi viene il mal che soffriamo: i secondi soli possono farci del bene» (80).

E Machiavelli che, dato l'ateismo politico come base governamentale, diceva morendo che amava meglio andarsene all'inferno coi filosofi, gli oratori e i capitani dell'antichità che non in cielo coi santi del cristianesimo, la maggior parte dei quali non ebbe né genio né talento? (81)

E Pomponio Leto che nella stessa Roma, ai piedi del Quirinale innalzava un altare a Romolo, che celebrava con religiose cerimonie la festa della fondazione di Roma pagana, come i cristiani celebrano quella di Natale: che istituiva un'accademia dei Razionalisti, ove si mettevano in discussione i più sacri dommi; che dichiarava non esser fatto il cristianesimo che pei barbari (82): che piangeva di tenerezza ad ogni scoperta di qualche vecchia statua di déi o di dee, e sclamava: O monumento dei bei giorni dell'umanità? (83) «Insensato, empio! sclama a sua volta un dottore cattolico. I bei giorni dell'umanità son dunque per te quelli in cui regnarono gli imperatori pagani o piuttosto le fiere chiamate Cesari! E tu le preferisci al regno di Gesù Cristo, ai giorni di salute sì a lungo desiderati da patriarchi e profeti!»

Per finirla con questi italiani più o meno celebri che formarono, o piuttosto che pervertirono lo spirito pubblico al secolo XV, e al principiare del XVI, citiamo ancora Domizio Calderino. A quest'uomo era venuto in tanta antipatia il cristianesimo, che non poteva più nemmeno assistere alla Messa dicendo ai suoi amici, allorché ve li accompagnava per compiacenza: «Andiamo all'errore comune» (4).

Dopo lui, tra molli altri, comparve Giordano Bruno, che altamente esprime i segreti pensieri di tutta questa generazione di Razionalisti. La sua opera Spaccio della Bestia trionfante, non fu vinta in cinismo religioso né dai filosofi del secolo XVIII né dagli empi moderni. Arrestato a Venezia nel 1598, il fanatico missionario del Libero Pensare è spedito a Roma ove si rimane due anni prigioniero. Invano furono tutti gli espedienti tentati a fargli ritrattare i propri errori. Condannato alle fiamme voltò la testa dal crocifisso che gli veniva presentato e morì impenitente.

La qual nomenclatura, che potrebbesi molto più oltre produrre, prova abbastanza che fossero il rapporto della fede la maggior parte delle filosofiche sommità dell'Italia al quindicesimo ed al sedicesimo secolo. Qual fosse l'influenza dei liberi pensatori, la maggior parte fecondi scrittori e rinomati professori che vedevano accorsa intorno alla loro cattedra una numerosa gioventù venuta da tutte le parti d'Europa, ce lo additerà la storia.



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CAPITOLO VIII.



IL RAZIONALISMO DOPO IL RINASCIMENTO - ITALIA



Razionalismo nei costumi o emancipazione della carne. - Danni da esso recati. - Il principe di Parma e la sua corte. Nifo, Poliziano, Alessandro Piccolomini, Bembo, Beroaldo, Gregorio Leti, Bolzanio, Poggi.



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Il Razionalismo è l'apoteosi dell'umana ragione: or l'uomo non deifica la propria ragione che per deificare la sua volontà ed emancipar la sua carne: è un fatto di generale esperienza. E però nell'antichità, come nei moderni tempi, tre grandi manifestazioni del Razionalismo: il Cesarismo in politica; l'incredulità in religione; il Sensualismo in morale. Intorno ai liberi pensatori italiani che insegnano più o meno apertamente l'emancipazione della ragione in materia di dottrina, vediamo aggrupparsi e i razionalisti che emancipano la volontà dell'uomo in politica, e quelli che emancipano la propria carne con tutte le sue concupiscenze. Pullulano questi ultimi nelle università e nelle corti italiane del XV e XVI secolo, come le oscenità pagane nelle gallerie e nelle ville. Tutti questi Razionalisti pratici traducono senza arrossire la filosofia del Libero Pensare nel loro linguaggio e nei loro costumi.

E però il principe di Parma e i suoi tanti cortigiani altra fede non conoscono che l'ateismo, altra norma di costumi che lo romane virtù e una immoderata licenza (85).

Il nemico officiale di Pomponaccio, Nifo, che tanto strepito solleva in Italia, vantasi nei suoi scritti discepolo d’Aristotele, ma nella sua condotta mostra esserlo segnatamente di Epicuro. Ad esempio di molti altri mena vanto d'essere stato schiavo pubblicamente tutta la vita delle più vergognose passioni (86).

Alla corte stessa dei Medici Poliziano, l'oracolo dei letterati suoi contemporanei, accusato d'aver detto ho letto una sola volta la Bibbia e non ho mai perduto peggio il tempo, passa la vita a risolvere il gran punto se debba scriversi Vergilio o Virgilio, Carthaginensis o Carthaginiensis. l suoi ozi sono spesi a comporre osceni madrigali in onor di Venere e di Cupido e versi galanti in onore della sua bella, e il suo cuore arde sino alla morte delle più sozze fiamme (87).

Se il sensualismo pagano invadeva il santuario stesso, s'immagini il lettore che guasto recasse fra i laici. Come raccontare la vita e analizzar gli scritti della maggior parte dei letterati italiani di quel tempo? Può chi volesse averne qualche idea consultare Tiraboschi nella sua Storia della letteratura italiana. Non contenti di abbandonarsi apertamente al libertinaggio spendevano molti i loro ozi a celebrarlo in versi ed in prosa.

L'Ariosto infarcì le sue poesie di tante oscenità, che il cardinal Ippolito d'Este non può fare a meno di volgergli la domanda: Messer Lodovico, dove diavolo avete pigliato tante corbellerie (88)?

Leonardo Aretino compone un'infamissima scrittura, intitolata Arringa d'Eliogabalo alle sue cortigiane.

Alessandro Piccolomini, che gli Italiani d'accordo con Boccalini chiamano il primo dei loro poeti comici, pubblica tali produzioni da teatro che bisognerebbe arrossire analizzandole. Certo ne piace ammettere col P. Niceron che abbiano veduta la luce durante la gioventù dell'autore. Ma non so d'altra parte che nessuno dei suoi contemporanei gliene abbia fatto colpa; rimangono intanto, e il loro merito letterario le fa ancor più pericolose. Alle tragedie ed alle commedie Piccolomini aggiunge sonetti e trattati pieni di massime lascive ed esecrande. Ne basti citare la sua Orazione in lode delle donne, poi il suo Dialogo dove si ragiona della bella creanza delle donne.

Bembo, il ciceroniano per eccellenza, rimpinza i suoi carmina e le sue Epistolae familiares di pensieri oltre ogni dire licenziosi. Paolo III voleva nominarlo cardinale, dice il P. Niceron; ma alcuni, gelosi dell'onore della Chiesa, addimostrarono al papa come i costumi e gli scritti di Bembo fossero più degni d'un pagano che d'un cristiano. Dai quali discorsi impressionato il pontefice, lasciò Bembo in disparte. Non ponno scusarsi le sue poesie, ingenuamente continua il buon padre Niceron, se non dicendo che Bembo le componesse in sua gioventù ed ancor laico; il che sembra probabilissimo (89). Gli è certo intanto che ei le ha compose e che non ne prese né il gusto né il modello dagli autori cristiani, ma sibbene dai pagani e massimamente da uno dei più licenziosi, Terenzio, di cui formavasi un idolo. Gli Asolani sono con le Rime le opere di Bembo più diffuse e più pericolose; son dialoghi sull'amore. Al loro comparire, dice Imperiali, sortirono tanta voga fra uomini e donne, che sarebbe stato tenuto in conto di mezzo imbecille chi non le avesse lette (90)». Tal riflessione è un tratto di luce che ne scopre lo stato dei costumi e degli spiriti in Italia, meno d'tlfi mezzo secolo dopo il Rinascimento del paganesimo e parecchi anni, prima di Lutero.

Intanto che Bembo a Venezia ed a Padova propaga il culto della voluttà, Beroald lo canta, lo pratica a Bologna, al cospetto della numerosa gioventù di quella università. Aperto libertino, i giorni da lui non consacrati al piacere spende, per trent'anni, ad illustrare i più osceni autori pagani: Properzio, Plauto e l'Asino d'oro d'Apuleio.

Quel che Beroald a Bologna, Filelfo a sua volta fa a Firenze, a Siena, a Milano, mentre Marini scandalizza l'Europa col famoso poema l'Adone. Famoso, dico, non pel merito, ma per la licenza. Il canto intitolato Trastulli è una descrizione in quattrocento versi dei baci di Venere e di Adone.

Continuando questa generazione di epicurei e di liberi pensatori, Gregorio Leti esce dal collegio di Cosenza passionato per le idee e massimamente pei costumi della bella antichità. Schiavo d'un doppio libertinaggio d'animo e di cuore, il giovane Leti recasi a Ginevra, e non tarda a far aperta professione di protestantismo. Gli scritti di Leti son degni de' suoi costumi: può giudicarsene da quanto ne resta; le diatribe contro Roma e le sue opere oscene.

Citiamo ancora Bolzanio di Belluno che consacra le lunghe veglie a scifrar geroglifici ed a comporre amorosi versi, e il Mantovano, la cui inesauribile vena lancia contro il clero satire che mai non avrebbero dovuto vedere la luce e dota la sua patria di più di cinquantamila versi, dicesi, fra i quali Le Bucoliche sono tutt'altro che caste.

Chi non sa quali furono sotto il rispetto della licenza del linguaggio e della corruzione dei costumi i liberi pensatori Castiglioni, Asculano, Groto, Puccio, Cenzio, Codro, Septabina, Mazzucciolo Franco, che, giusta la frase di Brucker tramandarono alla posterità carri d'immondezze e d'empietà (91)?

A tutti questi nomi tristamente celebri facile sarebbe aggiungerne molti altri. Si possono vedere nella nostra storia del Protestantismo. Ma il vero tipo delle lettere italiane di questo tempo è il troppo famoso Poggio, il quale merita più diffusa notizia.



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CAPITOLO IX.



IL RAZIONALISMO DOPO IL RINASCIMENTO - ITALIA



Poggio tipo dei letterati del Rinascimento. - Suo libertinaggio conforme a quello dei modelli classici. - Sue Facezie. - Origine e natura di quest'opera. - Lungo tessuto d'empietà e di oscenità. - Successo scandaloso che ottiene. - Tradotto, imitato, arricchito, prima fonte del torrente d'immoralità che deturpa l'Europa. - Poggio nemico della Chiesa. ­ Sua lettera a Leonardo Aretino su l'eretico Girolamo di Praga. - Impugnatore d'ogni autorità. - Provocatore alla Rivoluzione - Lettera di Magliabecchi sui poeti italiani del Rinascimento.-Giudizio di Salvator Rosa.»



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Educato alla scuola degli autori pagani, Poggio visse in sua gioventù una vita conforme alle dottrine ed agli esempi dei suoi maestri. Prima che ammogliato era già padre di tre fanciulli. Rimproverato del suo libertinaggio dal cardinal di Sant'Angelo, il giovine libertino gli diede una risposta degna pel cinismo di Catullo o di Petronio. Lui vediamo poscia più tardi menar rimprovero a Filelfo con inaudita acrimonia, degli stessi disordini di cui è colpevole.

Ammogliato di cinquantaquattro anni fu più ammisurato nei suoi costumi? Lo tace la storia, e solo adduce le sue Facezie e le sue Lettere in prova dolorosamente incontrastabile non essere stata la sua penna più casta della sua vita da celibe. A malincuore facciamo conoscere la prima di queste opere; ma non è più tempo di tacere. La quistione vitale dell'origine del mal presente e soprattutto del Razionalismo, che fa ora man bassa sulle credenze e i costumi di tutta Europa, ne impone la verità.

È noto di che i Propositi da tavola o facezie di Lutero fossero cagione all'Occidente. Ma ignorasi forse che in questo genero Lutero non ha il merito dell'invenzione. Rinascente egli stesso, e null'altro che rinascente, Lutero trovò in fatto di libertina condotta e di parole modelli tali nei suoi maestri, i Rinascenti d'Italia, che non valse a superare. Col Decamerone e la Cronologia degli Dei, le facezie di Poggio son la prima opera crudamente oscena che abbia afflitto l'Europa dopo lo stabilimento del Vangelo. È una memoria, una imitazione di Lucano e di alcuni dei più sfrontati libertini della pagana antichità. Dandoci un giusto concetto dei Rinascenti di quell'epoca, l'iniquità dell'autore è accresciuta da parecchie circostanze; la posizione sua personale, il tempo e il luogo in cui quell'opera immonda fu parlata, prima d'essere scritta, e finalmente lo scandaloso successo sortito di cui l'autore si vanta.

Poggio era addetto alla Corte di Roma come scrivano delle lettere apostoliche. Diventò poscia segretario pontificio, carica in che si tenne per più di quarant'anni. Anzi che conciliar rispetto a sé stesso e alla Chiesa di cui viveva, di tal posto d'onore e di fiducia si fece velo a scrivere le oscenità che ne deturparono la vita e ne infamarono la memoria. Lo stesso Poggio racconta l'origine delle sue Facezie. «Al tempo di Martino V. io e parecchi segretari pontifici, fra i quali Antonio Lusco, Cinzio di Roma e Razello di Bologna, scegliemmo nel palazzo stesso un sito appartato che chiamavano il Bugiale, cioè fabbrica delle bugie. Là si raccontavano novelle, si spacciavano scherzi e storielle: si batteva tutto quello che non si approvava, e si approvava pochissimo. Il papa soprattutto non era risparmiato, ed egli pel primo veniva posto in canzone (92)».

A detta di Poggio, si crederebbe che le sue Facezie altro non fossero che l'innocente scherzo di alcuni uomini di spirito, pieni d'altra parte di reverenza per tutto ciò che n'è degno: ma ben altrimenti va la bisogna. Lungo tessuto d'empiezza e nauseanti oscenità, espresse in ischerzi, in epigrammi, in bisticci , in storielle ore han parte i personaggi e le cose più venerabili, tali sono le facezie. Non lorderemo la nostra penna trascrivendone un solo saggio. S'immagini il lettore questa mano di letterati pagani epicurei e liberi pensatori, raccolti per molti e molti anni in un angolo del Vaticano, allorché la Chiesa, circuita da nemici, non sapeva a chi volgersi a difendere la fede d'Europa, intenti coi loro propositi beffardi, ingiuriosi, empi ed osceni alla ruina della religione, dei costumi, della fama dei buoni, osi vantarsene, e pubblicare i loro discorsi.

Ma la mente si perde riflettendo all'accoglienza trovata presso tutti i letterati d'Europa da un'opera tanto infame, dice Gesner, da meritarsi l'acqua ed il fuoco (93). Si fecero innumerevoli edizioni delle Facezie; furono tradotte in tutte le lingue ed arricchite di qualche tratto di spirito d'altri Rinascenti. E tale era allora il pervertimento delle idee e l'obliterazione del senso cristiano fra i letterati, che un religioso, Giacomo di Bergamo, non esitò a chiamare questa satanica produzione una bellissima opera, pulcherrimus liber (94).

Egli stesso Poggio osa vantarsi del suo esoso successo. Inveendo contro Valla con la cortesia di Cicerone e di Demostene nelle loro filippiche: «Che meraviglia, dice che le mie Facezie non piacciano ad uno che non ha nulla d'umano, a uno stupido, a un selvaggio, a un matto, a un barbaro, a un facchino? Ma chi ne sa un po' più di te, le legge e le approva, le ha fra mano e sul labbro, e sappi bene, dovessi tu crepa me, che sono diffuse in tutta Italia, in Francia, in Spagna, in Inghilterra e dovunque si sa parlare latino (95).

E Poggio ha ragione; le sue Facezie non furono soltanto divorate da tutti i Rinascenti d'Europa, ma altresì imitate. «Le Facezie di Poggio, dice Niceron, han più di quant'altro avesse mai scritto giovato a farlo conoscere. Fu il primo che pubblicò un qualche cosa di quel genere. Fu seguito da altri infiniti che ne saccheggiarono i racconti, senza nemmeno fargliene onore. E però trovate in Rabelais, nelle Cento Novelle, nell'Ariosto, nelle Duecento Novelle di Celio Malespini, in La Fontaine e in diversi altri, il racconto dell'Anello di Hans Carvel, la cui invenzione è dovuta a Poggio che la dà nella 133a delle sue facezie sotto il nome di Filelfo (96)»

Abbiamo mostrato nel Cesarismo che i rivoluzionari e i mazziniani non fanno che ripetere parola per parola le dottrine di Machiavelli, e nel Protestantismo, che Lutero altro non fu che l'eco dei liberi pensatori d'Italia. Qui scopriamo la prima fonte di questo torrente d'oscenità che da quattro secoli ingrossando sempre ediffondendosi per mille diversi canali inonda l’Europa cristiana e sembra or minacciare d'universale bruttura le più modeste capanne e i borghi e le città ad un tempo. Cominciato da Poggio discende a Rabelais, da Rabelais a Chorier, da Chorier a La Fontaine, da La Fontaine a Voltaire, a Piron, a Parny, a Pigault-Lebrun, per varcare ogni limite nei nostri drammaturghi, nei nostri romanzieri, nei nostri appendicisti di giornale.

Padre di osceni autori, Poggio è altresì il precursore degli increduli scrittori. Nelle loro diatribe contro i frati Erasmo, Reuclin, Ulrico di Hutten non ebbero che a copiare il suo scritto De humanae conditionis miseria. Così per giustificare Girolamo di Praga, e rendere odiosa la Chiesa, i protestanti non hanno che, mutate poche parole, a riprodurre l'elogio funebre che Poggio osò fare dell'eretico. Questo scritto assai poco conosciuto, merita nell'interesse della nostra causa d'esserlo molto. Rendendo conto in una lettera a Leonardo Aretino degli ultimi momenti di Girolamo di Praga, Poggio comincia dal lasciar indecisa la colpabilità di Girolamo. Ne loda la presenza di spirito, la fermezza, la forza degli argomenti, la dignità del linguaggio. Se i sentimenti interni di Girolamo corrispondevano alle sue parole gli è giocoforza dire ch'era il più innocente, degli uomini. Or come la Chiesa non giudica dall'interno ne deriva che facendo fondamento della sua condanna sugli atti e le parole, ha, in sentenza di Poggio, ingiustamente condannato quest'uomo da bene. La sua eloquenza tutta ciceroniana lo rapisce; gli ricorda i grandi oratori dell'antichità ch'egli stesso ammira. La sua morte degna di Catone è il più imponente spettacolo che abbia contemplato. Il suo entusiasmo che va sempre crescendo fa dell'eretico un eroe degno di vivere eternamente nella memoria degli uomini. Muzio Scevola, Socrate stesso, i più grandi uomini che Poggio conosca, sono dappoco in confronto, dell'incomparabile stoico che la Chiesa fece perir su un rogo (97). A questo linguaggio più che strano nella bocca d'un notaio apostolico succedono attacchi più diretti e più pronunciati. È noto che il giogo dell'autorità religiosa o politica non pesa meno, ai liberi pensatori dei precetti della morale.

Nel suo trattato De infelicitate principum, Poggio non risparmia, né papa, né cardinali, né re. Ai suoi occhi son colpevoli di aver messe in bando dalla terra quasi tutte le virtù. La diatriba non sarebbe completa, se all'accusa dei grandi non si unisse come contrasto l'elogio dei proletari. Modello le mille volte imitato da tutti i democratici figli del Rinascimento, Poggio eccita le passioni del popolo mostrandogli le sue virtù, e commiserandone la miseria, cagionata naturalmente dall'autorità (98).

Ma basti su Poggio di cui avremo opportunità di parlar altre volte. Basti pel momento aver provato da una parte che le opere di questo rinascente epicureo e libero pensatore potentemente contribuirono a corrompere i cuori ed a pervertire gli animi, più di cinquant’anni prima di Lutero: d'altra parte che da lui e dai suoi emuli comincia in Italia la sinistra generazione d'epicurei, d'increduli e d'atei, in una parola di Razionalisti, dai quali questo paese, più del resto dell'Europa non fu da quattro secoli preservato: e che ora, ad onta della presenza del papato, continuano ad agitarsi nella Penisola egualmente numerosi e non meno audaci che altrove.

Se il campo della nostra opera lo consentisse, quanti, famosi nomi verrebbero a dirci che cosa fossero sotto il rispetto dei costumi, tutti questi sciami di retori, poeti ed umanisti, o come allora dicevasi di Bilingui e Trilingui che il Rinascimento fece pullulare in Italia! Potremmo citare i Bibiena, i Casti, i Russoli, i Mauro e mille altri la cui penna stillò la corruzione sotto tutte le forme (99). Dopo aver, come meritavano, battute le poetiche insanie del Della Casa, il dotto bibliotecario di Firenze Magliabecchi, accenna una folla di poeti italiani dello stesso tempo, le cui opere sono non meno esecrabili (100).

Finalmente Salvator Rosa, recando alla nostra causa l'autorità del suo gran nome di poeta ed artista, stimmatizza con l'energia di un'indignata coscienza tutte queste corruttrici poesie che disonorano e deturpano l'Italia.

Da qual donnella non son oggi intese

Le Priape? …

E quando cesserete di cantare

Le donne, i cavalier, l'armi, gli amori,

pungolo d'impudicizia ai lettori? Non è già figura rettorica: I tempi moderni sono infetti da tre cose: da malizia, ignoranza e poesia. Uditemi o voi che coi vostri canti fate sì che la pietà vacilli e il timor di Dio sia sbandito dal mondo. Voi distillate nell'anime il veleno di mille immoralità. Voi gettate la scintilla sulla materia infiammabile: voi date alimento all'incendio. E venite poi a dirci: Giusta la loro natura dallo stesso fiore cavano l'ape benefica il mele e la vipera crudele il veleno. Oh empii! o quattro volte e sei scellerati!

Pormi il tosco alla bocca, e poi s'io pero

Dir, che maligni fur gli affetti miei!

Dannata poesia che assunse a modelli i Machiavelli e gli Erasmi, padri degli empii moderni. Più pagani e più colpevoli di Lutero che separò il Cristo dalla Chiesa, vi fate gloria di quanto si risolve in una vergogna. Buffoni insolenti ed atei, credete non poter scriver con grazia, se non entrate per profanarle nelle chiese e nei santuari. Anticristi del Parnaso, per l'opere vostre l'insaziabile inferno fa più ricca la sue messe di dannati.

L'orecchio, ha il mondo sol per Lesbia.

Per lui parlar di virtù non è più di moda; ingozzato di oscene poesie non sogna che Laide e Batillo. Tempi da far fuggire nella Tebaide; da seppellir nel silenzio anziché da paragonare ad altri secoli (101)».

Niente di più meritato dei rimproveri di Salvatore. Corrotti e corruttori, la più parte dei poeti, indegni di tal nome, accoppiano al libertinaggio dello spirito il libertinaggio del core, sicché la loro condotta apertamente scandalosa giustifica il proverbio dello stesso Rinascimento: di rado chi si mostra Catullo nei versi, mostrasi nei costumi Catone.

Raro moribus, exprimit Catonem

Quisquis versibus exprimit Catullum





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CAPITOLO X.



IL RAZIONALISMO DOPO IL RINASCIMENTO - ITALIA



In seguito alla politica, alla filosofia ed alla poesia, le belle arti si emancipano. - Che facciano pittori, incisori, statuarii diventati liberi pensatori. - Cantano la carne e i suoi allettamenti. - Critica rigorosa delle loro opere fulminata da Salvatore. - Da Erasmo. - Da Properzio. - Abbomini dell'arte divenuta, pagana. - Profanazione delle Chiese. - Continui insulti alla pietà e al pudore. - Critica del giudizio finale di Michelangelo. - La musica fatta pagana e sensualista. - Suoi funesti effetti. - Profanazione del culto cristiano. - Eguali effetti nel resto d’Europa.



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Mentre col disprezzo delle dottrine della fede e delle leggi del pudore, umanisti, poeti, prosatori e filosofi emancipano la loro ragione e la loro penna, artisti, pittori, incisori, scultori, nuova classe di razionalisti emancipano il loro pennello ed il loro bulino. Tutt'insieme inondano l'Italia d'un diluvio d'oscenità in versi, in prosa, in tela, in marmo, in bronzo, in legno, in gesso, che glorificando la carne in tutti i suoi alletta menti, ricordano i più cattivi giorni di Roma e di Pompei. Quel che l'occhio cristiano non aveva mai contemplato, il nudo per il nudo, mostrasi da tutte le parti. I Giovi incestuosi ed adulteri, le Lede, le Pasifae, le Veneri, i Cupidi, tutte le oscenità mitologiche spiegansi alla luce del giorno, nelle ville, nei giardini, sulle pubbliche piazze, nelle strade, nelle gallerie. Alle produzioni dell'antico l'arte materialista aggiunge i trovati della più sfrenata immaginazione. Non una delle cose che l'Apostolo non vuol nemmeno che si nominino, che riprodotta non sia da migliaia di pennelli e di bulini.

Non contenti di parlar nelle reggie, nelle case e nei luoghi profani, questi predicatori invadono il santuario. Le porte della Chiesa spiegano sui loro arazzi di decorazione le favole più immonde dell'antichità. I santi e i martiri diventano atleti o filosofi, gli angeli geni, e quando non riproducono i lineamenti delle cortigiane, le nostre sante trasformansi or in naiadi, or in ninfe, dive, baiadere, le cui gambe nude, il petto scoperto, le voluttuose pose fanno arrossire il pudore, rincacciano la preghiera al fondo dell'anima ed anziché innalzare il pensiero sino ai cieli lo concentrano nell'Olimpo. Quali sentimenti di adorazione, di umiltà, di compunzione, ditemi, di grazia, valgono ad eccitare nel cuore una posa accademica, un braccio tornito, una gamba nuda e tutta una raccolta di petti e di femori potentemente pronunciati, che sembrano l'indispensabile condizione del bello nella maggior parte delle pitture, delle sculture e delle incisioni così dette cristiane degli operai del Rinascimento? Dov'è la reverenza alle dottrine del cristianesimo, alle regole della morale, alle tradizioni dell'arte cristiana? Qual sacerdozio esercitano qui gli artisti? E lo spirito o la carne che respira nelle loro produzioni? Tali non pertanto sono le opere d'arte dalle quali la moderna Europa è inondata.

Fra mille voci più autorevoli delle nostre che da quattro secoli non si ristanno dal protestare contro questo scandalo immensa, udiamo quella d'un uomo che ha un diritto particolare ad essere ascoltato, «Come contenersi, sclama Salvator Rosa, vedendo che più il pennello è osceno e più viene blandito e più nuoce?»

Di lascive pitture il mondo è pieno,

E per le vie degli occhi il cor tradito

Dal nefando color beve il veleno (102).

Non si accenna nei quadri che alle infamie dei falsi Dei, perché l'uomo si faccia oso ad imitarli. La libidinosa voluttà alza dovunque i suoi trofei e più d'un nuovo Tiberio empie la sua dimora di sfrontate pitture degne dei ginecei.

«Giulio Romano scolpì mille volte oscene posture. Gli impudici Caraccio e Tiziano profanarono con figure da bordello i palazzi dei principi cristiani. Donne nude sono la sola decorazione dei quartierini dei grandi, e però essi stessi si cangiano in Sibariti. Da qualunque lato si volga il guardo delle fanciulle cade fra le Veneri e le Bersabee. Qual meraviglia poi se diventano cortigiane?

Fuor che Giacinto, Satiri e Napee

Per i musei moderni altro non vedi,

E Psichi, e Lede, e Danai, e Galatee.

Mirre, Europe, Diane, e Ganimedi:

E le Pasife adulteri e bestiali

Son delle gallerie pregiati arredi, etc.

E una tale indignazione trova eco dovunque: tutta Europa manda lo stesso grido di riprovazione, e mirabile cosa, sfugge bene spesso dai cuori adoratori del Rinascimento, ma che talvolta trovano tutta l'energia del sentimento cristiano, del pudore e dell'onestà. Parlando di queste innumerevoli collezioni d'opere scandalose raccolte nelle gallerie e nei musei moderni, Erasmo di tal modo si esprime: «Se mai visitaste a Roma i musei dei Ciceroniani, ditemi se avete veduta una statua di Gesù Cristo o degli apostoli. Tutti son pieni dei monumenti del Paganesimo. E nei quadri, Giove trasformato in pioggia d'oro per sedur Danae, attrae ben più i nostri sguardi che l'angelo Gabriele annunciante alla santa Vergine il mistero dell'Incarnazione: Ganimede rapito nell'Olimpo dall'aquila di Giove ne alletta assai più che Gesù Cristo ascendente al cielo; i nostri sguardi si fermano con assai più piacere sui baccanali e sulle feste del dio Termine, tutte piene di turpitudini e di oscenità, che su Lazzaro richiamato dal sepolcro, o sul figlio di Dio battezzato da san Giovanni. Ecco i misteri che si nascondono sotto il velo dell'amore, dell'ammirazione per la bella antichità. Non siamo più cristiani che di nome, confessiamo colla bocca Gesù Cristo, ma portiamo nel cuore Giove e Romolo (103)».

Parecchi cercano giustificar questo scandalo, dicendo che l'abitudine di veder le statue e le pitture indecenti scema il danno dei costumi. «O padri, o madri; colpevoli e ciechi che fate della vostra vigilanza, se ad addobbar le camere, comperate sempre di questi quadri? Voi siete la provvidenza delle vostre famiglie, ma che giova custodire il limitare, se entro le mura corrompono le tele i vostri figli?

Queste pitture ignude, senza spoglia,

Son libri di lascivia; hanno i pennelli

Sensi, da cui disonestà germoglia (104).

Salvator Rosa non è qui che l'interprete di San Paolo e dei Padri.

Il grande Apostolo dice che i cattivi discorsi corrompono i buoni costumi, corrumpunt mores, bonos colloquia prava. Ora una cattiva pittura, una cattiva scultura, non sono cattive parole, cattivi libri, ove il più operoso dei nostri sensi attinge il male che comunica all'anima, con maggior fedeltà ed energia che non l'orecchio medesimo? Ben a ragione Gregorio Nisseno chiama le sculture e le pitture oscene infami spettacoli, infamia spectacula, e Tassiano provocatrici di delitti, vitiorum monimenta. Soppressi che siano il peccato originale e la concupiscenza, si potrà allora presentare agli occhi quel che Dio stesso volle che fosse nascosto; ma, sino a che ciò non sia, l'arte pagana con le sue nudità, sarà fra le più larghe fonti di corruzione.

Gli è strano in vero che gli artisti del Rinascimento si siano fatti, ed anche ai dì nostri, che dei cristiani si facciano illusione su un punto per sé medesimo evidentissimo. Pagani non sospetti danno loro lezione su ciò. Platone aveva preteso che la consuetudine di veder fanciulle nude nel ginnasio spunterebbe ogni pungolo alla concupiscenza, e Plutarco ne dice che i costumi degli Ateniesi e degli Spartani, diventarono per quest'uso i più corrotti della Grecia (105). Erodoto soggiunge a buon diritto che una donna spogliandosi delle sue vesti si spoglia altresì del suo pudore, e impara ben presto a non più arrossire di nulla.

Si dirà che qui si tratta di persone vive; or bene, non parliamo che di quadri e di statue. Aristotele proibisce ogni statua, ogni quadro impudico (106). Un gentile, ancor meno sospetto, dichiara che la consuetudine di esporne agli sguardi fu prima fonte della spaventevole corruzione dei Romani.

Ah quella man che colorì primiera

Impure tele e fra penati onesti

Di quadri appese invereconda schiera,

Quella i casti occhi di malizia ha tinto

A le fanciulle e sprigionar si piacque

Anzi stagion lor nequitoso istinto.

Pera colui che con quest'arte rea

Sotto i sembianti del piacer celata

Eride (107) sulla terra dischiuclea!

Non di queste s'ornaro i tetti antichi

Sozze figure, né su alcun parete

Pinse pennel sfacciato atti impudichi (108).

Ricollocata sotto l'influenza del Paganesimo, l'arte doveva trascorrere a tanto. Il bello é lo scopo dell'arte. Or il bello non si trova che nel mondo soprannaturale o nel sensibile. Il primo è chiuso agli artisti liberi pensatori. Nel mondo sensibile il bello per eccellenza è il corpo umano. Il riprodurlo in tutte le sue parti o per mettere in luce l'ingegno dell'artista, o piuttosto per blandire la concupiscenza degli occhi, tale è, a farcene ragione delle loro opere, lo scopo supremo dei pittori e degli scultori di cui parliamo. Dal che una nuova abominazione ch'essi osano chiamare esigenza dell'arte, e di cui Salvatore parla in questi termini:

Peggiorar sempre, quanto più s'invetera,

Far di ragazzi e femine un serraglio

Per farlo stare al naturale e cetera. (109)

E dopo il Rinascimento queste infamie continuano a praticarsi in tutte le grandi città dell’Europa cristiana! E poi ci lagniamo della corruzione dei costumi! (110)

Ma una cosa eccita soprattutto l'indignazione del grande artista ed è la profanazione delle chiese operata dall'arte pagana. Il viaggiatore che visitò l'Europa meridionale, e studiò con qualche accuratezza le pitture, le sculture, i funebri monumenti, i bassorilievi, i medaglioni d'un gran numero di Chiese, non può a meno di trovare nelle seguenti parole la traduzione fedele dei sentimenti ispirati da un tale spettacolo. «Ma non basta, continua il gran pittore che ne piace citare, questi artisti fanno un abuso ancor più empio della loro sacrilega industria. Nei templi ove si adora e si prega, fanno ritratti di donne, e la casa di Dio diventa un fondaco. Ad onta d'ogni santo timore e d'ogni fede, i colori fomentano l'empietà, l'adulterio e l'incesto.

Deh, torna in terra col flagello usato!

Che per man de' pittori entro le chiese

Delle vacche ogni dì fassi il mercato.

E tu non sol dissimuli l'offese,

Ma comporti che sian di questi porci

Sull'are tue le frenesie sospese!

Per vantarsi più d'un, che ben conosce

Di tutto il corpo le minuzie e i bruscoli,

Fa mostrar alle sante e poppe e cosce,

E per farsi tener fra i più maiuscoli,

Spogliando i santi, vuol mostrar che intende

I propi siti e rigirar de i muscoli …

Più tavola non v'è che almen sia casta,

Che per i tempi la pittura insana

La religion col puttanesmo impasta.

Di numi in cambio nelle sacre tele …

Onde tradito poi lo stuol fedele, Con scelerata e folle idolatria,

Porge i voti all'inferno e le querele.

Ché di un angelo in vece, e di Maria,

D'Ati il volto s'adora e di Medusa,

L'effigie d'un Batillo o d'un'Arpia.

A onor de' lupanari arde l'incenso

Ne' turriboli e nelle lampe, ecc. (111).

Per abbreviare porremo qui un brano della robusta critica del finale giudizio di Michelangelo (112).

Terminando il suo lavoro, Salvator Rosa flagella di santa ragione l'innumerevole generazione dei pretesi artisti sbucciati al sole del Rinascimento e che infetta l'Europa cristiana delle sue opere empie ed oscene.

Tutto il mondo è pittore

Più tele ha il Tebro, che non ha lombrichi,

E fan più quadri certi capi insani

Che non fece Agatarco ai tempi antichi.

Onde dissero alcuni oltramontani

Che di tre cose è l'abbondanza in Roma:

Di quadri, di speranze e baciamani.

Escon dal Lazio le pitture a soma,

E tanta de' pittori è la semenza

Che infettato ne resta ogn'idioma (113).

«Ho scritto i sentimenti d'un cor sincero e amico del bene. Se il mio stile difetta di grazia, non difetto io almeno né di zelo, né d'amore della verità. Ma sia pur il mio stile sublime o volgare so che non andrà a grado di coloro che ho flagellato: la bile fu sempre amara al palato».

La profanazione della musica non eccita meno della profanazione della pittura la vena del grande artista. Al cospetto di tutto un mondo, preso ad un tratto d'insensato amore per le arti pagane, la sua anima si sdegna e lascia sfuggirsi questi energici accenti: «Non v'ha un angolo nel nostro emisfero, in cui non s'oda solfeggiare e in cui non trovansi musicanti. Gli insensati principi vanno in cerca di questa canaglia, scandalo delle corti e dei palazzi. Chi può mostrarmi un musicante i cui canti richiamino la gioventù alla castità?

Sol di Sempronie le città son piene ...

Che con maniere infami e vergognose

Danno il tracollo agli uomini dabbene ...

Arrossite al mio dir, donne romane,

Le di cui profanissime ariette

Han fatto al disonor le strade piane ...

Io sgrido, io sgrido voi, maestri indegni, …

Tutti i canti oggi mai sono immodesti, etc.

Che scandalo non è udire ai sacri leggii gorgheggiar i Vespri, cantar la Messa, urlar il Credo, il Gloria, il Pater noster, e su l'aria del Tralalà cantar il miserere! (114) Chi vuol cantare non ha che a far una cosa; seguire il sacro salmista, imitar Cecilia e non Talia, correre sull'orme di Giobbe e non d'Orfeo. Sola armonia che penetra nei cieli è quella la quale, anziché far udire colpevoli accenti piange i peccati come Geremia. Ormai non è canto che sia casto, nelle corti la musica è bestiale. Se vivesse ai nostri giorni che direbbe il grande artista della musica dei teatri e degli eletti convegni?

Si conosce adesso l'epoca nefasta in cui le belle arti, un tempo tanto cristiane divennero libere pensatrici (115). Si sa di più di che innumerevoli oscenità. deturparono l'Italia. E come la loro storia e quella delle loro produzioni è con poche varianti la stessa pel resto della moderna Europa, sfioreremo ormai appena un tale argomento.


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CAPITOLO XI.



IL RAZIONALISMO DOPO IL RINASCIMENTO



Dall'Italia il Razionalismo passa in Germania - Danni che vi produce. - Testimonianze di Cornelio a Lapide, di Lobkowitz. - Hutten, testo dei razionalisti in Germania. - Importanza della sua biografia. - Suoi scritti. - Trionfo di Capnion. - Lettere degli uomini neri. - Suoi rapporti coi liberi pensatori di Francia. - Sua triade romana. - I Razionalisti moderni invocano la forza per estirpare il cristianesimo. Non sono che gli eco di Hutten e degli altri liberi pensatori del Rinascimento.



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Il Razionalismo politico, filosofico, artistico e letterario schiuso in Italia al sole del Rinascimento, non tardò a superare le Alpi. Alla vista dei danni operati in Francia nelle credenze e nei costumi, un celebre dottor di Sorbona, a cui il suo secolo decreta il soprannome di flagello degli eretici, Gabriele di Puyberbaut, sclamava: «Dio volesse che l'Italia avesse tenuto per sé le sue merci, i suoi profumi, i suoi unguenti e i suoi libri (116)». Tutte le altre nazioni d'Europa avrebbero diritto di fare lo stesso voto.

Già abbiamo veduto (117) i liberi pensatori di Germania, formati alle scuole italiane, diffondere il Razionalismo nelle università e nei ginnasi della loro cattolica patria. Or dovunque sia seminata la zizzania produce sempre. Zizzania. Non tardò la Germania a vedersi popolata di liberi pensatori e di epicurei. Al pari dei lordo maestri, costoro, calpestate l'autorità della fede e le norme dei costumi, sparsero dottrine morali e filosofiche che ben presto si conversero in ateismo, in empietà e sensualismo: fu come una efflorescenza generale dell’antico paganesimo. Alla luminosa autorità del celebre principe di Carpi, da noi citato nella nostra Storia del Protestantismo, ne basterà aggiungerne alcune altre scelte fra mille. «Quasi sola l'Europa, sclama Cornelio a Lapide, professa il Cristianesimo; ed ecco che quasi la metà dell'Europa si compone di eretici, di scismatici, di politici pagani, e di atei; fra i cattolici, quanti concubinari, vendicativi, ingiusti possessori dell'altrui e beoni (118)!

Un tale stato di cose sconosciuto prima del Rinascimento viene pure lamentato dal filosofo alemanno Lobkoswitz. «Vuolsi notare, dice egli, come la presente Europa, non eccettuata la Germania, sia infettata delle due pesti dell'ateismo: la peste fisica e la morale. L'ateismo fisico nega la causa delle cause, l'ateismo morale il fine dei fini. Fra questi atei gli ultimi non sono coloro che abusando dei loro viaggi e dei loro studi in Italia, sembrano essersi collegati per giungere alla perfezione della setta. Da queste scuole uscirono a distruggere la pietà, il candore e la buona fede dei loro avoli. Che se cercate atei pratici corruttori della vita e dei costumi, la Germania ne è coperta. Chi vi toglie dal dire con s. Girolamo: «Nella nostra patria Dio è il ventre, ed il più santo è il più ricco? (119)

Come Poggio è il tipo dei letterati italiani figli del Rinascimento, così in Germania Ulrico di Hutten personifica i liberi pensatori e gli epicurei venuti dalla medesima madre. Agli occhi dei moderni Razionalisti egli è capo del movimento che trascina il settentrione d'Europa fuor delle vie del cattolicismo, tanto rispetta alla letteratura, quanto alla fede. Anteriore a Lutero di cui preparò i miserabili trionfi, è tenuta a buon dritto in conto d'una dei principali autori delle sanguinose rivoluzioni che desolarono la sua patria, ed anche pel più ardente promotore della Rivoluzione che oggidì minaccia l'Europa intera. La sua biografia quindi deve occupare un gran posto nella storia del male moderno.

«In questa lunga educazione dal genere umano procacciata a sé stesso, dice Chauffour, meglio si può scoprire il principio delle cose che non negli uomini stessi che vi hanno data l'impulso. Quanto la società operò di riforme religiose o politiche, di leggi, istituzioni, costumi, tutte le lotte che dovette sostenere, tutte le azioni e tutte le reazioni si sono attuate nel loro animo prima di mostrarsi all'aperto. E da questo appunto la biografia assume un immensa virtù d'insegnamento (120)»

Ad esempio della giovane generazione letterata alla quale apparteneva, Hutten nutrito del latte pagano, non tardò ad insorgere contro le istituzioni religiose e politiche del suo paese, contro l'autorità della Chiesa, contro le dottrine della fede e le norme dei costumi. Sfrontato libertino e libero pensatore, dichiara guerra a morte a quanto si oppone all'orgoglio della sua ragione ed all'emancipazione dei suoi appetiti. Il suo canto trionfale in onore del giovine Capnion ne segna la discesa in arringa. Capnion o Reuchlin, a buon dritto combattuto dai teologi di Colonia e dagli ordini religiosi (121) diventa col fatto l'eroe dei Razionalisti, e i suoi avversari si fanno ignoranti, mascalzoni, barbari da cui bisogna sbarazzare la terra che disonorano di loro presenza.

«Cingetevi i fianchi, teologastri, loro grida Hutten, e affrettatevi a fuggire. Siam più di venti congiurati alla vostra infamia e ruina. Lo dobbiamo alla innocenza di Capnion, alla vostra scelleratezza, alla repubblica delle lettere ... La sorte è gittata, impossibile l'indietreggiare. No, i Turchi non son più esosi di costoro!... Qual pontefice si iniquo ha osato imporne il loro giogo? E qual imperatore sì vile l'ha tollerato»? (122)

Il trionfo di Capnion non è che uno sperimento ed è tosto seguito dalla famosa satira dal titolo Epistolae obscurorum virorum, Lettere degli uomini neri. Mentre Poggio nascosto coi suoi degni amici riversa l'odio e il ridicolo su gli uomini religiosi e sulle istituzioni dell'evo medio, Hutten, riparato nel suo castello di Steckelberg, compone insieme con Croto Rubiana, Reuchlin ed alcuni altri, la diatriba in cinque cento pagine che «fu tanto fatale ai frati ed al papato» (123). Gli scherzi di buono e di cattivo gusto, le calunnie, le empietà, le grossolane ingiurie, le oscenità, vi sono sparse a larga mano. Precursore di Voltaire, Hutten combatte tutto con l'arme del ridicolo e la storia dei santi e le reliquie e i pellegrinaggi. Come Voltaire, cerca, con odiosa profanazione, i suoi più acuti sarcasmi nella Santa Scrittura, i cui fatti e le cui massime indegnamente travisati si trasformano sotto la sua penna in sacrileghe facezie.

Per un nuovo tratto di conformità che prova come lo spirito figlio del Rinascimento sia lo stesso in tutti i paesi, la Satira di Hutten ottenne lo stesso successo delle Facezie di Poggio .. Le edizioni si moltiplicano in latino ed in italiano. Tutti i letterati d'Italia, di Francia, di Germania, del Brabante e d'Inghilterra ne fanno loro delizia (124). Narrasi che Erasmo guarì d'un accesso, tanto aveva riso alla lettura di questo odioso libello.

Fatto animoso dal successo, Hutten continua la sua guerra insensata. Dopo gli avamposti attacca il cuore stesso della piazza. In questi nuovi combattimenti, altro non fa che seguir l'esempio dei Rinascenti d'Italia. Vide Roma e ne recò la stessa impressione che, Boccaccio, Poggio, Bembo, e più tardi Lutero, Montaigno, Rabelais. Di là venne a Parigi. «Vi si incontrò, dice il suo panegirista, nei liberi pensatori Lefebvre d'Etaples, Budée, Copp e Rueil e se ne cattivò l'amicizia. Gli indusse a prender parte alla guerra da lui intrapresa contro la barbarie scolastica, o piuttosto ne li confermò, perché da lungo tempo quei nobili; ingegni avevano abbracciato questa causa (125).

La costante preoccupazione di Hutten di questo tempo è formare una santa lega dei liberi pensatori contro gli oppressori dello spirito umano. «Piacque a Dio, scrive egli al conte di Nuenar (1517), che tutti rimanessero confusi gli avversatori del Rinascimento delle lettere ... Se la Germania volesse credermi si libererebbe dalla cancrenosa piaga (i frati) prima di pensare a combattere i Turchi, cosa per altro al pari necessaria; perché ai Turchi in fin dei conti non disputiamo che l'impero, mentre soffriamo fra noi i distruttori delle scienze, dei costumi, della religione» (126).

Non basta ad Hutten sollevar la Germania contro la Chiesa. Al pari di tutti i liberi pensatori del Rinascimento, vuole una una rivolta generale dell'Europa contro il cristianesimo. «E però continua incessante la sua vasta cospirazione anticristiana di quanto in Francia, in Germania, in Italia, emergeva per scienza, genio, nobiltà, o merito; a collegare più strettamente i suoi proseliti sì da condurli a un assalto generale e decisivo (127).

«Ulrico di Hutten e i suoi amici, precursori della riforma rappresentano la reazione dell'antica incredulità contro le idee fondamentali della religione e della rivelazione. Hutten e i suoi partivano dal punto di vista d'un grossolano paganesimo ... Ulrico di Hutten fu il Catilina alemanno del XVI secolo ... Fu un ultrarazionalista che in cuor suo onorava Cicerone come un santo apostolo. La sua brutale e grossolana incredulità pagana ridesi del cielo e dell'inferno come d'un assurda fiaba di preti» (128).

Il trionfo del libero pensare eccita la sua gioia. Scrive all'amico Pirckeimer: «Il nostro partito ogni giorno più guadagna terreno. I consiglieri dell'imperatore, quelli dei principi si fanno con noi; e per ciò chiamiamo i principi Mecenate ed Augusto, non perché meritino questi bei nomi, ma per far nascere in essi una generosa emulazione. Sinora non siamo male riesciti. Erasmo continua a produrre. Guglielmo Budée, il più dotto dei nobili francesi e il più nobile dei dotti, sta compiendo le sue annotazioni sulle Pandette. Ecco dunque pel momento due Ercoli, sterminatori dei mostri: Erasmo e Budée ... Arroge Lefebvre che lavora sì bene in filosofia ... O secolo, o lettere, come è dolce ora la vita quantunque non sia ancor tempo di riposare! La tua ora è sonata o barbarie; cingiti i fianchi e parti per un eterno esilio» (129).

Il miglior modo d'affrettar la partenza della barbarie e liberar l'Europa dalla cancrenosa piaga del monachismo è attaccar la Chiesa che propugna gli ordini religiosi, e dovunque li invia a diffondere la barbarie. Hutten lo comprende. Nel 1519 il fedele rinascente mette in luce Tito Livio e avventa contro la corte di Roma e i suoi legali tre dialoghi zeppi di fiele e d'ironia. In pari tempo si fa a combattere lo stessa papato, pubblicando contro S. Gregorio VII una diatriba che sfrontatamente dedica a Leon X. Questi colpi che fan gran rumore nell'esercito dei liberi pensatori, non sono che il preludio d'un più violento assalto. Ben tosto comparisce la Triade romana. Ne pesa il far conoscere altrimenti che accennandola col titolo una produzione che il medio evo non avrebbe creduta possibile, e che il solo paganesimo coll'insaziabile suo odio del cristianesimo poteva ispirare. Ma gli è necessario snebbiare, se pur ne è tempo ancora, gli occhi degli onesti; i quali si ostinano a negar l'origine del libero pensare, e le sue tendenze dopo l'apparizione in Europa al tempo del Rinascimento.

La Triade romana è un dialogo i cui interlocutori sono Hutten, ed un suo amico Ehrenhold. Hutten racconta a questi ciò che della corte di Roma gli disse un viaggiatore per nome Vadisco. «Tre cose, dice Vadisco, mantengono in fama la corte di Roma: la potenza del papa, le reliquie e le indulgenze. Tre cose portano seco reduci da Roma i viaggiatori: una mala coscienza, uno stomaco guasto, una borsa vuota. Tre cose non trovate a Roma: la coscienza, la buona religione, la fede del giuramento. I Romani ridono di tre cose: delle avite virtù, del papato di san Pietro e del giudizio finale. Tre cose siete sicuri di trovare in Roma: veleno, antichità, e piazze vuote. I Romani vendono pubblicamente tre cose: Cristo, le dignità ecclesiastiche e le donne. A Roma i poveri mangiano tre cose: cavoli, cipolle ed agli, e i ricchi: il sudor dei poveri, i beni scroccati e le spoglie della Cristianità. Roma ha tre sorta di cittadini: Simon Mago, Giuda Iscariota e il popolo di Gomorra. Roma è la fonte impura da cui derivano a tutte le nazioni la furfanteria, la corruzione, la miseria e i popoli non si adopereranno ad inaridirla»? (130)

L'opera tutta procede nello stesso stile. Tale fu la impressione prodotta da questo libello, massimamente in Germania, che ormai niun nome più odioso in questo paese della corte Romana (131).

E nondimeno, notevole cosa! nei suoi più grandi trasmodamenti, il semi-protestante Hutten non fa che ripetere a modo suo le diatribe avventate contro Roma dai suoi predecessori, i Razionalisti cattolici d'Italia, Lorenzo Valla, Machiavelli, Poggio, lo stesso Bembo. Ecco a che era giunto lo spirito cristiano fra i Rinascenti di questo tempo.

Né basta: odonsi ora da un capo all’altro di Europa i logici del libero pensiero appellarsi alla forza per estirpare il cristianesimo ed a buon dritto tutti gridano allo scandalo. «Il dispotismo religioso, dicono, non può essere estirpato senza uscire della legalità: cieco chiama contro sé la cieca forza» (132). Or è bene il far sapere a chi mai l'ignorasse, come i Razionalisti feroci da noi citati, e quei che citeremo ancora, altro non siano che i continuatori di Hutten e dei loro antenati del secolo XV.

Questo uomo che scriveva col pugno in su la spada, volge a sé stesso una tale domanda: «Ma se potessimo emanciparci senza versar sangue?» E risponde: «Il sangue cada sul capo di coloro che rinunciar non vogliono alla loro ingiusta tirannia. Feriamo, se gli è d’uopo, di spada chi della spada si è valso ....

Purgheremo la città di Roma e il suo senato: restituiremo all'imperatore la capitale dell'impero: riporremo il papa a livello degli altri vescovi: diminuiremo la rendita dei preti e il loro numero: ne conserveremo appena uno su cento. Quanto a coloro che si chiamano FRATI ... li sbandiremo interamente. E distruggendo i conventi... avremo molte risorse su cui far capitale ... daremo una mano ai Boemi che prima di noi si sottrassero a questa marmaglia rapace, e l'altra ai Greci che si separarono soltanto dalla tirannia romana: Non indietreggerò mai d'una linea di quanto ho detto: rimarrò libero perché non pavento la morte. Hutten non si farà mai schiavo d'un sovrano straniero, per grande che sia, e meno poi del papa: perché crederei disonorarmi e chiamar su me la collera divina, se adorassi la bestia dalle cento teste» (133).

Tali sono parola per parola i voti ed i progetti del principe dei liberi pensatori del Rinascimento. E perché non manchi alcun tratto della somiglianza fra Hutten e gli altri Razionalisti dei tempi suoi, all'emancipazione della ragione il fiero apostolo unisce l'emancipazione della carne. l vergognosi trasordini ai quali Hutten si abbandona, e di cui non arrossisce, gli procacciarono un turpe morbo, che dopo averlo tormentato tutta la vita, lo trascinò alla tomba di trentasei anni (1524): orgoglio e vanità: ecco tutto il Razionalismo antico e moderno. Gli scritti di Hutten, assecondati dal pennello di Holbein e di Cranach, sortirono in Germania una voga senza pari e la popolarono di liberi pensatori. Tutti diventarono proseliti di Lutero e ferventi apostoli del Protestantismo. I loro nomi e i loro scritti sono conosciuti; e faremo senza di citarli, avendolo già fatto nella nostra storia del Protestantismo.

Aggiungiamo soltanto che in Germania; come in Italia, la generazione dei liberi pensatori figli del Rinascimento e padri del Protestantismo si è senza interruzione continuata sino ai dì nostri. Reuchlin ed Ulrico di Hutten dan mano a Buschio, Barzio, Camerario, Cornelio Agrippa, il ristoratore del Mercurio Trismegisto, che meritò coll'impudente suo razionalismo le censure della chiesa e con la sua vena satirica l'odio di tutti i colleghi (134); a Giacomo Acconcio che nel suo libro de Stratagematibus Satanae, predica il disprezzo del clero e l'apatia in materia di religione: a Kant, ad Hegel e ad altri infiniti. Di mano in mano che questa generazione ingrandisce formula più nettamente le proprie idee. Dagli attuali razionalisti della Germania, come Heine, Feuerbach e moltissimi altri, l'Europa udì bestemmie e gridi di rivolta contro l'ordine religioso e l'ordine sociale, tali che lo stesso inferno pareva non ne potesse profferire di somiglianti.


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CAPITOLO XII.



IL RAZIONALISMO DOPO IL RINASCIMENTO.

INGHILTERRA, SPAGNA, BELGIO.



Dall'Italia il Razionalismo passa in Inghilterra. - Testimonianze. - Guasti che vi produce. - Prepara il protestantismo. - Dopo il Rinascimento continua a regnare in questo paese. – Il signor Alloury. - Razionalismo in Spagna. - Testimonianze. - Nel Belgio. - Testimonianze. – In Polonia e nel Settentrione. - Prove. - Erasmo, tipo ed apostolo del libero pensare. - Sue opere. - Sua influenza. - Scandalo delle sue lettere. -Singolare giustificazione dei Rinascenti. - Il Razionalismo nato dal Rinascimento, sempre vivo nel Belgio. - Che debba pensarsi della presente educazione.



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Cisner, Caye, Linacer, di cui abbiamo dato un'idea della vita nel Protestantesimo e molti altri giovani inglesi del secolo XV, diffusero nel loro paese il libero pensare ch'erano venuti ad attingere in Italia alla scuola dei Greci di Costantinopoli e dei primi rinascenti. La semente non tardò a fruttificare. Ben tosto l'Inghilterra, al pari dell'Italia e della Germania, si coprì di Razionalisti e si trovò preparata al Protestantesimo. Udiamo un autore inglese di quel tempo: «Che dirò dell'Inghilterra divenuta la sentina di tutte le dottrine velenose? Grande è, fra noi il numero degli atei. Il nostro popolo ora, somigliante alla tribù di Gad, corre ad occhi chiusi in braccio ai seduttori. Più non si battezzano fanciulli, più non si fa comunione; la stessa orazione dominicale è venuta in uggia» (135).

Un altro soggiunge: «Non v'ha eresia, non bestemmia, non enormità in fatto di dottrina che non si trovi o che non nasca in Inghilterra. Dal principio del mondo in poi mai non si videro tante mostruose opinioni quante fra noi» (136).

Fra i Razionalisti, o, come allora si chiamavano, ateisti, senza pudore e senza ritegno discernevasi il troppo famoso Briand che Enrico VIII chiamava suo vicario generale nell'inferno (137). Intorno a quel libero pensatore d'alta levatura si raccoglieva una moltitudine di Razionalisti di secondo ordine che infettarono l'Inghilterra di loro perniciose dottrine. Cosa che non s'era mai veduta nell'Europa cristiana, prima del Rinascimento, l'ateismo vi fu pubblicamente insegnato e come i filosofi pagani loro maestri e loro modelli, i professori di questa mostruosa dottrina ne trassero arditamente l'ultima, l'inevitabile conseguenza, il materialismo più grossolano. «Abbiamo qui, scrivevano due autori inglesi, professori che pubblicamente insegnano l'ateismo. Precipuo articolo di loro fede è che il cristiano per nulla differisce dalla bestia, che non renderà conto dell'operar suo, ma che morra come gli animali e non risusciterà mai» (138).

Il gesuita Durée, nella sua risposta a Witaker, stabilisce, sulla testimonianza degli stessi Inglesi che l'Inghilterra contava un infinito numero di Razionalisti empi tanto da non trovare altro nome per indicarli fuor quello di atei (139). Ecco una testimonianza più grave ancora. Il celebre Cass, professore di filosofia ad Oxford, premunendo la gioventù contro l'ateismo che invadeva l'Inghilterra, così si esprime: «Cosa orribile a dirsi, eppur non vuolsi tacerla: v'ha gran numero ai dì nostri di audaci tanto da sostenere che Dio non esiste. Di che tempi viviamo! Se non avessi veduto, se non avessi udito questi mostri, certo non avrei sì a lungo né con tanto calore trattato un simile argomento» (140).

A voler citare tutti gli atei famosi, tutti gli empi, tutti gli increduli, tutti gli epicurei, tutti i settari impuri, ridicoli o fanatici, in una parola tutti i liberi pensatori che comparvero in Inghilterra dal Risorgimento sino ai nostri giorni, basterebbe appena un volume. Si conoscono i Cranmer, i Buchanan, gli Hobbes, gli Hume, i Bolingbroke, i Collins, i Milton, l'apostolo del divorzio, e del regicidio, or cattolico, or protestante, ariano, puritano, indipendente, sprezzatore e discepolo di tutte le religioni, che finì col non conservare che quella del Rinascimento, la religione del libero pensare. Vengono poi i Toland, i Tindal e quel Beverland ateo, epicureo, le cui opere furono condannate alle fiamme dagli stessi protestanti: generazione innumerevole che vive ancora e che manifesta la propria esistenza con un odio satanico contro la verità, col materialismo più completo e finalmente con oscenità che la polizia inglese è costretta a condannare arrossendo. Or se domandate a questa generazione quale sia la sua origine vi additerà in Inghilterra, come in Germania e in Italia, non il Protestantismo, ma il Rinascimento. Coi volterriani francesi, vi risponde, colla storia alla mano: «Siamo figli del Rinascimento prima di essere figli della Rivoluzione: dire che la Riforma è uscita dal Rinascimento, non è calunniare il Rinascimento, è solo raccontare quali diversi effetti produsse a seconda dei luoghi e delle circostanze» (143).

Ad onta dell'Inquisizione, la cattolica Spagna non sfuggì al contagio del libero pensare. Partendo dal Rinascimento, gli atei pratici vi si fecero numerosissimi, massimamente fra i grandi e letterati. Si possono per tal riguardo consultare gli autori francesi del sedicesimo secolo: prima di difendere il proprio paese dalla taccia d'ateismo mossa loro dagli Spagnoli provano con numerosi documenti che la stessa zizzania pullulava nell'antica Iberia. La necessità d'essere brevi ne costringe a rimandare il lettore ai loro scritti, e fra tutti all'opera di Perrier intitolata Il cattolico di Stato (144).

Citiamo solo Sepulveda accalorato rinascente, grande amico di Aldo Manuzio, di Pomponaccio, di Musurus, che nel commercio dei pagani e dei loro ammiratori pone tanto in non cale gli elementari principi del diritto cristiano, da osar sostenere contro Las Casas aver gli Spagnuoli il diritto di uccidere gli Indiani come bestie. Fra molti altri il Portogallo vide uscir dalla scuola del Rinascimento Emanuele de Faria tre volte apostolo del libero pensare, e nella sua filosofia indipendente, e nelle sue poesie oscene, e nei suoi costumi licenziosi (143).

Che dire del Belgio e dei Paesi Bassi? In queste contrade Erasmo spera aver pel primo covato l'uovo del libero pensiero, dal quale Lutero fece sbucciare il Protestantismo. Ego peperi ovum Lutherus exclusit. Tale il padre, tale il. figlio; tale il principio, tale la conseguenza: e però il' celebre Voigt non esita a chiamare il Belgio del Rinascimento l'Africa di tutti i mostri del libertinaggio e del fanatismo (144).

L'olandese Francesco Junius scrive del suo paese e segnatamente d'Amsterdam, esser l'asilo degli atei, e rinvenirvisi un considerevole sciame di persone che a gara si precipitano nell'ateismo. Tale è l'audacia di questi liberi pensatori che negano l'esistenza di Dio, gli angeli, i demoni e l'immortalità dell'anima (145).

Lo stesso flagello interamente sconosciuto nel Rinascimento desola la Polonia, la Danimarca, la Svezia e la Livonia (146). Avremmo qui una folla di nomi a far conoscere, accontentiamoci di citarne un solo che riassume pel settentrione d'Europa lo spirito del Rinascimento in fatto di costumi e dI credenze. Erasmo era il tipo e l'apostolo del Razionalismo quale poteva mostrarsi di quel tempo in un paese socialmente cattolico. Fanatico dell'antichità pagana nulla nel medio evo e quasi nulla nel cristianesimo trova grazia dinanzi a lui. Vent'anni prima di Lutero la sua vena satirica, diffuse contro le istituzioni religiose e sociali della vecchia Europa, contro i frati, contro i teologi, contro i prelati stessi collocati al sommo della gerarchia, epigrammi, invettive e calunnie ripetuto da tutte le bocche.

Grazie lo spirito volterriano desto dal Rinascimento le opere di Erasmo ebbero un pazzo successo. Simone di Colines che ristampò i colloqui nel 1527, ne tirò ventiquattromila esemplari che tutti in pochi mesi, furono smaltiti. Erano il vademecum d'ogni letterato, uomo o donna. Si leggevano pubblicamente nei collegi, sino a che i cardinali, incaricati da Paolo III della riforma degli abusi ne proibirono la lettura (147). L'Elogio della pazzia (148) che per la prima volta vide la luce nel 1505 con caricature d'Holbein, ebbe quasi cento edizioni. È una diatriba in 528 pagine contro papi, cardinali, teologi, predicatori e massimamente contro gli ordini religiosi. I grandi e i principi batterono le mani, vedendo posta in deriso la spirituale potenza che pazzamente consideravano siccome rivale della propria: non sapevano che loro volta verrebbe (149). Quanto abbiamo detto dei Colloqui e dell'Elogio della pazzia, possiamo ripeterlo degli Adagi.

In Erasmo come nella massima parte dei letterati del Rinascimento, l'emancipazione della carne si accoppia all'emancipazione della ragione. Non parliamo né del quadro che Scaligero ne lasciò della condotta d'Erasmo (150), né delle oscenità di cui Erasmo bruttò le sue opere; stiamoci paghi a citare alcuni passi delle sue lettere. Vedete quanto costui, prete e religioso, scrive ad un suo amico per indurlo a portarsi in Inghilterra, ove il Rinascimento trionfa e dà i naturali suoi frutti. «Se tu conoscessi bene i pregi dell'Inghilterra, voleresti in questo paese e se la gotta ti privasse del ministero dei piedi, vorresti essere Dedalo. Per non accennare che a pochi fra i tanti piaceri che si gustano in questo paese, vi si trovano ninfe di sovrumana beltà, carezzevoli e compiacenti, e che senza dubbio preferiresti alle tue muse. V'ha di più un uso che non può essere abbastanza encomiato. Se tu arrivi, tutti ti accolgono coprendoti di baci: se parti, non ti lasciano andare che dopo averti baciato; se torni, ti rinnovano i baci: da qualunque parte tu torni riceverai baci. Se avessi provato come son dolci e soavi, daresti le spalle al tuo paese non per dieci anni soltanto come fece Solone, ma vorresti morire in Inghilterra (151)» Qui forse non vuolsi sclamare: «che! un sacerdote tiene siffatto linguaggio? Non un sacerdote del medioevo in cui non trionfavano le belle lettere, ma un sacerdote al pari di Erasmo nutrito d’autori pagani in onta della Chiesa e quale il Rinascimento ne formò in tanta copia. Notiamo come tutte queste empiezze siano sparse di rimembranze pagane. Era il genere di moda in allora: per noi è il certificato d'origine.

Gli è curioso assai il vedere come i rinascenti sacerdoti e religiosi si provino giustificare la gelosa cura adoperata ad abbellir le loro opere di pagane rimembranze, e il loro infaticabile zelo a raccogliere gli avanzi artistici o letterari dell'antichità. Gli uni spendevano la loro vita di cristiani, preti e religiosi, a restituire un testo alla vera lezione, a rettificar l'ortografia d'un nome, a raccoglier varianti, frammenti sparsi di qualche autore; altri a far tesoro di tronchi di colonne, di busti, di piedi, di braccia, di nasi di alcune statue pagane, sprezzanti com'erano dei più bei monumenti della letteratura e dell'arte cristiana. Chi lo crederebbe? A giustificare i suoi fratelli e sé stesso da somigliante fanatismo; che dico? a mostrar che forma parte dei doveri del clero, il celebre Stefano Ricci, traduttore, annotatore, commentatore tedesco delle Georgiche di Virgilio, non esita a invocare l'autorità di Gesù Cristo, che avrebbe comandato questo genere di lavoro, e l'interesse della Religione alla quale sarebbe indispensabile.

«Il Figlio di Dio Nostro Signor Gesù Cristo, dice egli comanda a suoi apostoli di raccogliere i rilievi dei miracolosi pasti, perché non vadano perduti. Tal precetto non deve solamente riferirsi alla trasmissione della dottrina evangelica alla posterità, ma altresì alla conservazione dei frammenti dei buoni autori e dei buoni artisti in qualunque parte si trovino. In fatti le lettere e le arti sono doni di Dio, i soccorsi necessari della vita umana e gli ornamenti indispensabili della Chiesa. Non arrossisco del lavoro al quale mi sono consacrato, poiché tende a raccoglier le briciole degli autori classici, a farne vantaggiare la gioventù, e ad impedire che una colpevole negligenza non le faccia perire (153)».

Gli è facile rispondere a Ricci che v'è arte ed arte, letteratura e letteratura, filosofia e filosofia; che se gli è utile conservare quanto v'ha di veramente buono nell'antichità, gli è cosa poco degna d'un prete e d'un cristiano consacrar la vita a tal genere di occupazione, massimamente quando, per un'odiosa preferenza, nulla si trascura per salvar dall'oblio i resti del Paganesimo, mentre si sprezzano, o si lasciano nell'ombra i più begli e i più utili monumenti dell'arte, della letteratura o della filosofia cristiana: Haec oportuit facere, et illa non omittere.

Checché ne sia, la generazione dei liberi pensatori, tedeschi, belgi e bavari, alla quale, anteriormente a Lutero, diedero origine Erasmo, Reuchlin, Hutten, si perpetuò fino ai nostri giorni. La vediamo al sesto secolo popolar l'Aia, Amsterdam, Rotterdam e inondar l'Europa delle sue dottrine; al secolo XVII si personifica in Olanda nello scettico Spinosa, come al XVI s'era personificato nel Belgio in Marnix del Monte Sant'Aldegonda. Ad esempio di Erasmo questo nuovo libero pensatore pubblicò (1571) il suo Alveare romano. Questo libro rimpinzito di burlevoli racconti, fu da tutti i letterati accolto con incredibili applausi, cagionò moltissime defezioni al Protestantismo, e fece più danno alla religione che non avrebbe fatto un libro pensato e dotto. «I Colloqui d'Erasmo, dice un autor protestante, avevano prodotto il medesimo effetto (154)».

Più audace, più che cresce, questa generazione per cui nulla è sacro, proclama ora in mezzo a un concerto di lodi, le dottrine crudamente prudoniane di Marnix. Stendendo la biografia del suo avolo illustre «Marnix dice il sig. Quinet, non ha voluto soltanto ad esempio d'altri scrittori, discutere la Chiesa di Roma contro un punto letterario. La lotta é seria e a ultimo sangue. Non si tratta soltanto di rifiutare il papismo ma di estirparlo: non solo di estirparlo: ma di disonorarlo, non solo di disonorarlo; ma come voleva l'antica legge germanica contro l’adulterio, di soffocarlo nel fango. Tale é lo scopo di Marnix. Ecco il perché dopo la dialettica la più forte, la più dotta, la più luminosa stende l'obbrobrio sul cadavere che trascina nella grande cloaca di Rabelais. Non cercate più dunque la capitolazione del nostro tempo. È un libro non di furberia, ma di verità, senza mercede e senza misericordia. Se volete essere illusi nol leggete. Quanto ci promette, ci dà. Per chiunque l'avrà letto fino al fine il domma cattolico sarà interamente sparito (155).



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CAPITOLO XIII.



IL RAZIONALISMO DOPO IL RINASCIMENTO - FRANCIA



Rabelais continuatore di Poggio. - Montaigne libero pensatore ed epicureo nei suoi scritti. - La Boetie. - Charron. - Budée. – Copp. – Rueil. ­ Lefebvre d'Étaples. - Lamothe-Levayer.- Bayle. - Bodin. - Cartesio.»



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«Non si trovano atei o Razionalisti in Francia prima del regno di Francesco I, né in Italia, se non dopo la presa di Costantinopoli». Ecco quanto ne scrive Spizelio, Tomasio, Bayle ed una folla d'altri autori. «Di quello stesso tempo, aggiunge Voltaire, un ateismo funesto, che é il contrario del teismo nacque in pressoché tutta Europa (156)». Con l'istoria alla mano demmo prova di ciò rispetto alle altre nazioni, ne resta ora a dimostrarlo per la Francia.

Di tutti i corpi dotti la Sorbona fu con l'università di Colonia, quella che con maggior energia si oppose al Rinascimento del Paganesimo. In questa lotta decisiva che cambiar doveva la faccia dell'Europa si distinsero fra tutti i due celebri dottori Beda e Gabriele di Puyherbaut. Per lungo ordine d'anni lamentarono con scritture assennate non meno che eloquenti, la disastrosa influenza del moto insensato che trascinava il loro secolo verso la pagana antichità. Sventuratamente la voce profetica non fu udita. Corte e città, re e parlamento, università e poeti intendevano a gara a far fiorire in Francia la bella letteratura, la bella poesia, la bella filosofia che Germania, Inghilterra ed Italia massimamente vantavansi aver trovate alla scuola dei Greci venuti da Costantinopoli. Ben tosto gli ordini furono rotti e il libero pensiero si riversò sulla Francia, che, fino a quel punto cattolica, vide sorgere nel suo seno, come nel resto d'Europa, tutta una generazione di Razionalisti. Gli uni coi loro ragionamenti, gli altri coi loro canti, questi con le oscenità del loro pennello e del loro bulino, quelli coi lavori filologici, pressoché tutti collo scandalo flagrante di loro vita, riscossero le credenze e i costumi corruppero. Contentiamoci di citare alcuni nomi.

Epicureo e libero pensatore, Poggio è il tipo, come il primo in data, dei Rinascenti italiani. Rabelais fu il Poggio della Francia. «Per essere uno sciagurato in tutte le regole non gli mancava alcun vizio, scrive il suo contemporaneo Gabriele de Puyherbaut; non cercate in lui né timor di Dio, né rispetto per gli uomini. Si pone per egual modo sotto i piedi le cose sante e le umane, e si ride di tutto. Qual Diagora ha mai parlato peggio di Dio? Qual Timone ha mai più insultato l'umanità? (157)

Prima macchia di Rabelais è il gettare a piene mani il ridicolo su l'ordine religioso e sociale del medio evo, su la Chiesa che l'aveva ispirato e sugli ordini monastici coi quali la Chiesa la difendeva. In tutta Europa fu questa la macchia dei Rinascenti, sacerdoti e laici: Poggio, Machiavelli, il Mantovano, Erasmo e una moltitudine d'altri. Nel suo Pantagruel, Rabelais vince tutti i suoi predecessori. Empietà e oscenità senza nome, insieme con calunnie odiose e di grossolana gaiezza, trovate nella satira atroce contro i frati. Per lo spirito libertino, la licenza, l'incredulità che respirano le altre opere di Rabelais,come le lettere, il suo Gargantua, i suoi sogni (Songes drolatiques), formano uno scandalo immenso e continuano, ingrossandolo, il torrente d'oscenità, aperto dalle Facezie di Poggio. Arroge che gli scritti di Rabelais, al pari di quelli di Poggio, furono accolti con plauso ed ebbero molte e molle edizioni. Ad accrescere il trionfo dell'ateismo e della corruzione, di cui furono fra noi i primi propagatori, il bulino ti apre dinanzi agli occhi le nefande scene che Rabelais presenta all'immaginazione.

Rabelais non era ancor disceso nella tomba (1553) che un altro libero pensatore, figlio pure del Rinascimento, ne continuò l'opera. Meno scapestrato, più cortese, più moderato del curato di Meudon, Michele Montaigne, nato nel 1533, combatte con deplorabile successo quanto v'ha di più sacro fra gli uomini, le credenze e i costumi. Né alcuno si meravigli se poniamo Montaigne fra i Razionalisti e gli epicurei. La vera fede è sempre affermativa ed il libero pensare ora affermativo, or negativo, a tenore del capriccio della ragione. Se si poté immaginare il Cristianesimo di Montaigne, si può assai più agevolmente immaginarne lo Scetticismo. In lui trovi due uomini: il pagano, figlio dell'educazione letteraria, e il cristiano, figlio dell'educazione materna. Chi lesse i suoi Saggi non può menomamente revocare in dubbio quanto asseriamo.

Dio tolga sospettiamo della sincerità di Montaigne, quand'egli scrive che sottomette l'opera sua «alla Chiesa cattolica apostolica e romana nella quale muoio e nella quale son nato (158). Diremo solamente che i più famosi liberi pensatori d'Italia, come Pomponaccio, Nifo, Cardano, fecero la stessa professione di fede. Aggiungeremo solo con Tiraboschi che a norma dell'adagio legale: contro il fatto non vale protesta. Protestatio facto contraria non valet. Or contro Michele Montaigne sta il fatto. È un cristiano o un libero pensatore che di quel modo ragiona del suicidio? «La più volontaria morte è la più bella: la vita dipende dall'altrui volere, la morte dal nostro. In nessuna cosa dobbiamo tanto assecondare il nostro talento, quanto in ciò; l'onore è salvo, è follia temere infamia» (159)

Con tutta la sua fede alla cattolica Chiesa, depositaria esclusiva della verità, Montaigne cade frequente in eccessi di scetticismo. A proposito dei cannibali trova che abbiamo torto di chiamarli selvaggi, perché più di noi s'avvicinano alla nostra grande e possente madre natura. Giunge sino a negare alla verità il suo assoluto carattere, sino a non far più dell'umana intelligenza che un zimbello dei pregiudizi. «Altro modulo non abbiamo noi, dice egli, della verità e della ragione che l'esempio e l'idea delle opinioni e delle consuetudini del paese in cui siamo. La è sempre la religione perfetta, la perfetta polizia, il perfetto e compito uso d'ogni cosa (160)».

Altrove, immemore di tutte le regole cristiane del pudore, confessa aver la bocca sfrontata (161), e scrive racconti che per la loro brutalità non hanno nulla ad invidiare ai più o meno famosi coi quali il sedicesimo secolo allettava la sua immaginazione libertina. Non accenneremo nemmeno alla lontana certi capitoli che, sotto titoli innocenti, racchiudono inqualificabili oscenità.

Più oltre all'umiltà cristiana, al distacco evangelico dal mondo e dalla vita sostituisce la fredda e orgogliosa filosofia degli stoici, che pretende bastare a sé medesima (162); poi discute sulla morte alla maniera di Cicerone o di Seneca, accende un'ultima volta la cinica lanterna di Diogene per visitare tutte le tenebre della sua anima; anatomizza la malattia e il dolore, e finisce invocando, come supremo bene, la mediocrità, la sanità di anima e di corpo, una onorata vecchiezza, sonnecchiando al soave canto delle Muse con una strofa d'Orazio.

Tuttavia all'accostarsi della morte, l'umanista sparisce per dar luogo al cristiano. Montaigne fece celebrare la messa nella sua camera e morì con sentimenti che ne giova sperare gli avranno fatto trovar grazia presso Dio. Checché ne sia Montaigne è a detta sua propria, un tal meticcio quale il medio evo non ne conobbe, uno di quei liberi pensatori che sono la larva della bonomia e della reverenza per la religione più che mai contribuirono a rendere fra noi popolare il doppio libertinaggio del pensiero e della parola. E però la Chiesa giustamente lo condannò e per lo scetticismo di cui fa pompa e per la immondezza dei suoi scritti. Il mirabile si è che ad esempio d'Erasmo e di Voltaire si ride anche degli autori pagani che adora e che lo han pervertito. Tutti questi savi, questi capiscuola, questi maestri del pensiero, questi famosi precettori dello spirito umano, da Pitagora che adombrò dappresso la verità, ma non la raggiunse, sino a Socrate che va sempre domandando ed eccitando la disputa, sino a Platone che altro non è che uno sbrigliato poeta, vede tutti questi maestri della naturale sapienza, dubitare, negare, contraddirsi, cercare la verità, com'essi dicono, e al menomo raggio di quella fuggirne abbacinati e sprofondarsi nelle tenebre del loro orgoglio e nella belletta delle loro passioni. E conchiude: or fidatevi alla vostra filosofia: vantatevi d'aver trovato il pel nell'uovo: al veder quei filosofoni menar tanto fracasso per un mucchio di sapienti asinerie gli è roba da far le meraviglie! (163)»

Alla scuola di Montaigne appartengono molti discepoli, tra gli altri il democratico la Boetie e Charron razionalista più pagano del suo maestro: deista, sociniano che combatte l'immortalità dell'anima e predica l'immoralità (164). Vengono ancora Budée, Renil, Copp, Lefebvre d'Etaples; poi la Mothe-Levayer, una folla d'altri e Bayle che tutto in sé li riassume. Degno figlio del Rinascimento, apostolo del libero pensare, scrittore d'oscenità nauseanti, Bayle si definisce da sé stesso. Sono Giove aduna-nubi, tutto il mio ingegno sta nel formare dubbi. E altrove: non sono né luterano, né calvinista, né anglicano, né cattolico: son protestante, perché protesto contro tutto ciò che si dice e tutto ciò che si fa.

Su una linea parallela procedono Bodin e i liberi pensatori politici usciti dalla scuola di Machiavelli, e la cui dottrina tutta pagana s'è riassunta ai nostri giorni nel celebre motto: la legge è atea e debbe esserlo.

Più non finiremmo se citar volessimo tutti i razionalisti che pullulano in Francia dal Rinascimento sino al secolo di Luigi XIV. Veniamo al francese che primo formulò nettamente la filosofia del dubbio, ed eresse il libero pensare in sistema: abbiamo nominato Cartesio. Senza scrutarne le intenzioni, senza ricominciar l'esposizione tante volte data dal suo metodo filosofico, basti a farsi giusto concetto di lui il ricordare che il suo sistema fu censurato dalla Sorbona, proscritto dagli stessi protestanti e condannato dalla Santa Sede; che diè origine a Spinosa, il geometra dello scetticismo e dell'ateismo, giusta il pensiero di Bayle (165); e fu accusato dalla censura della sua filosofia d'avere attinto la maggior parte dei suoi principi nell'opera di Giordano Bruno (166) magnificato da tutti i liberi pensatori come padre del Razionalismo di cui ha dato la formola.

«Al cancelliere Bacone, sclama d'Alembert, succedette l'illustre Cartesio. Quest'uomo tutto possedeva per cambiar la faccia della filosofia. Cartesio osò insegnare alle buone menti a scuotere il giogo della scolastica, dell'opinione, dell'autorità: in una parola dei pregiudizi e della barbarie, e con questa rivolta di cui oggi noi raccogliamo i frutti rese alla filosofia un servigio forse più essenziale di quanti essa deve agli illustri suoi predecessori. Si può considerarlo come un capo di congiurati, che osò sorgere il primo contro un potere dispotico ed arbitrario e che preparando una luminosa rivoluzione, gettò le fondamenta d'un governo più giusto e più felice che non poté vedere statuito» (167).

Né meno esplicito è Condorcet. «L'antico sapere, dice egli, conservato nei libri greci, che i letterati espulsi da Costantinopoli faceva conoscere all'Italia, rianimò il gusto delle scienze. Cartesio con un genio più vasto e più ardito venne a porre l'ultima mano alla Rivoluzione. Ruppe le catene di cui l'opinione aveva gravato lo spirito umano, e portando ad un tempo su tutti gli oggetti dati alla nostra intelligenza la sua audace ed ardita filosofia, assicurò per sempre alla ragione i suoi diritti e la sua indipendenza» (168).

«A Cartesio, spirito indipendente, continuano i Razionalisti dei nostri giorni, ardito innovatore, genio di singolare potenza, piaceva troppo comporsi egli stesso le proprie idee, affidarsi al suo intimo sentimento, per non riconoscere l'autorità della ragione, individuale, e il diritto che possiede di esaminare e giudicare ogni maniera di dottrine. È gloria di Cartesio l'aver proclamato e praticato questi principi e d'esser l'autore di quella intellettuale riforma che recò suoi frutti al XVII e XVIII secolo, e che ora più che mai esercita la sua influenza sul mondo filosofico. Ora in fatti grazie a Cartesio siamo tutti protestanti in filosofia come lo siamo tutti, grazie a Lutero, in religione» (169).

A tali testimonianze che facile sarebbe moltiplicare contentiamoci d'aggiungere quella della rivoluzione francese. Quando facendo conoscere al mondo la sua genealogia, cercò i propri avi per vantarsene, da figlia riconoscente si guardò bene dal tacer di Cartesio. Alcuni giorni prima di collocar la Ragione su gli altari della Francia rigenerata, decreta l'apoteosi del moderno filosofo che ella tiene in conto del maggior apostolo della Dea. Il documento seguente assai poco conosciuto gioverà ad edificare i filosofi cattolici, che si ostinano a difendere il Razionalismo o il semirazionalismo cartesiano.

Il mercoledì 2 ottobre 1793 Chenier, in nome del Comitato di pubblica istruzione, sale alla tribuna e propone di collocare Cartesio nel Panteon accosto a Voltaire ed a Rousseau. Ad ottener questo onore si fa forte: 1° della necessità di manifestare agli occhi d'Europa il rispetto della Rivoluzione per la filosofia sua madre: 2° della piena giustizia che una nazione fatta libera diventando filosofa debba rendere all'uomo prodigioso che insegnò all'umanità ad esaminare e non a credere. «Quindi è che il vostro Comitato domanda per Renato Cartesio gli onori del Panteon francese; e però la nazione francese e la Convenzione nazionale saranno associate alla gloria di questo profondo pensatore, che piantò per così dire la fiaccola sulla via dei secoli e la cui esistenza segna un'epoca notevole nella storia del genio umano».

Lo stesso giorno la Convenzione decreta quanto segue:

«Art. 1. Renato Cartesio meritò gli onori dovuti agli uomini grandi.

« Art. 2. Il corpo di questo filosofo sarà trasferito al Panteon francese.

«Art. 3. Sulla tomba di Cartesio saranno scritte queste parole: In nome del popolo francese la convenzione nazionale a Renato Cartesio. 1793. Anno II della repubblica.

«Art. 4. Il comitato di pubblica istruzione fisserà col ministero dell'interno il giorno del trasporto.

«Art. 5. La convenzione nazionale assisterà in corpo a questa solennità. Il Consiglio esecutivo provvisorio e le diverse autorità costituite, stanti nel recinto di Parigi, vi assisteranno egualmente. - A Parigi il sedicesimo giorno del primo mese dell'anno II della Repubblica francese una ed indivisibile. - L. G. Charlier presidente. Pons (de Verdun) e Louis (del Basso Reno) segretari (170)».

La nomenclatura di tutti i liberi pensatori francesi sorti da Cartesio ne condurrebbe troppo oltre. Basti pel momento ricordare che anziché spegnersi, questa generazione di Razionalisti sviluppasi al secolo diciottesimo in Voltaire, Rousseau, d'Alembert, d'Holbach, Elvezio, Lamettrie, negli enciclopedisti, nei parlamentari e nella nobiltà di corte. Trionfante nel ‘93, ridotta al silenzio sotto l'impero, ricomparisce sotto la Ristorazione. Sotto Luigi Filippo ripiglia l'antico stile, s'impianta dovunque, insegna nei giornali, nelle rassegne e nelle pubbliche cattedre. Ora continuando l'opera sua attacca con più circospezione forse, ma non con minore ostinatezza e perfidia, il Cattolicismo su tutti i punti, proclama altamente il naturalismo pagano invece del soprannaturalismo cristiano, la religione di Socrate invece di quella di Gesù Cristo, e minaccia la Chiesa e la società delle più formidabili prove che mai abbiano subite.


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CAPITOLO XIV.

IL RAZIONALISMO DOPO IL RINASCIMENTO. FRANCIA



Desportes - Regnier. - Amyot - Malherbe - Saint Evremond.- Motto di madama di Maintenon. - La pleiade poetica. - Sacrificio del capro. - Gli artisti insegnano il libero pensare. - Loro opere. - Effetto dell'insegnamento letterario ed artistico del libero pensare. - Ateismo dogmatico e pratico. - Gran numero d'atei in Francia. – Testimonianze.»



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Al Razionalismo filosofico vedemmo accoppiarsi in Italia il Razionalismo morale, cioè l'emancipazione della ragione cagionò l'emancipazione della carne. Gli epicurei o come si chiamavano all'epoca del Rinascimento, gli ateisti pratici, non si annoverano in minor numero degli atei speculativi. Così fu in tutto il resto d'Europa e soprattutto in Francia. Gli apostoli dell'ateismo pratico furono in Francia come in Italia gli umanisti d'ogni genere, d'ogni colore, i poeti e gli artisti.

Qui ancora appaghiamoci di citare alcuni nomi fra le centinaia che ne si presenteranno. Uno dei primi traduttori francesi dell'epicureismo pagano fu Desportes. Imitatore di Bombo, e come lui passionato ammiratore del Rinascimento, del quale aveva veduto le opere in Italia, il degno abate passa una parte di sua vita a comporre erotiche poesie. Tale era allora l'entusiasmo per quanto ricordava il genere antico, che alcuni re francesi, Enrico III e Carlo IX, pagarono a prezzo d'oro le opere di Desportes. Un sonetto gli fruttò un abbazia e le sue poesie parecchi benefici che gli producevano più di 10.000 scudi di rendita. La maggior parte dei suoi componimenti son versioni dei più licenziosi poeti dell'antichità. Tibullo, Ovidio, Properzio, imitazioni del libidinoso Ariosto, o elegie, st-atlZ8 edancbe canzoni alle quali si vogliono aggiungere due libri degli amori di Diana ed uno degli amori di Ippolito. Desportes era abate di Bon-Port e canonico della santa cappella di Parigi! Essere ecclesiastico e profanar così il proprio ingegno, il proprio carattere, la propria vita! è certo uno scandalo; con tutto ciò, ed anzi a cagione di tutto ciò, godere del favore del pubblico, non è uno scandalo mille volte più grande e che mostra a quel punto recato fosse il fanatismo del Rinascimento?

D'allora in poi se si arrossisce, non si meraviglia di vedere di quel tempo un gran numero di sacerdoti, religiosi ed anche prelati,camminar sulle tracce di Desportes, popolarizzare nel regno cristianissimo l'opere più immorali della Grecia e di Roma, aggiungervi le proprie elucubrazioni, ed averne in compenso gli applausi di tutta la classe atea, i favori dei re ed anche le ecclesiastiche dignità (171). Fra tutti coloro che l'interesse solo della grande e santa causa ne costringe a nominare, si segnalò il nipote stesso di Desportes, Regnier, canonico di Chartres. Sacro alla satira sua musa, per parlare il linguaggio del Rinascimento, non rispettò né le opinioni, né i costumi. Regnier, pervertito dal suo commercio coi pagani è un'anima nella quale non v'ha più una parola di Evangelo. Ebbro di fiele lo riversa alla cieca su quanti gli spiacciono, e bene spesso con una brutale licenza. Tutta voluttà, spaventa il meno timido pudore ed a ragione Boileau, dice di lui:

I suoi sermoni offesa a casto orecchio

Fean prova dei bordelli in cui soleva

Il poeta inspirarsi, e i suoi sarcasmi

D'ogni pudico eran spavento.

Il prete che si permettesse adesso di scrivere la menoma parte delle oscenità cadute dalla penna del canonico di Chartres sarebbe giustamente e infallibilmente interdetto. Invece d'un castigo troppo meritato, Regnier fu premiato dei suoi versi, blandito dai grandi, applaudito dagli umanisti, provveduto di parecchi benefici, e dotato su una badia, d'una pensione di due mila scudi. Epicureo nei versi, Regnier non l'era meno nei costumi. I beni sacri di cui godeva non servivano che a soddisfare la sua immoderata propensione ai piaceri. «Vecchio a trent'anni, dice il suo biografo, morì a quaranta, interamente consunto dagli stravizzi».

Mentre Desportes e Regnier corrompevano coi versi i costumi del loro secolo, altri ecclesiastici intendevano in prosa a quest'opera di distruzione, con un non meno scandaloso successo. Costretti alla brevità non citeremo in questa nuova categoria che il famoso Amyot. Esordì nel mondo letterario con la versione degli amori di Teagene e di Caricle, osceno romanzo di Eliodoro d'Emesi. Questa sciocca e nauseante lubricità gli valse la badia di Bellozane. Incoraggiato dal successo, tradusse gli amori di Dafni e Cloe, altro romanzo greco più osceno ancora, che, gran mercé alle incisioni di Audran, non contribuì meno alla corruzione dei costumi della famosa Coppa dell'Aretino o delle Facezie di Poggio. Amyot era in voce di saper il greco e il latino classici; faceva professione d'adorare il Rinascimento, e non ostante le infamie della sua penna, fu eletto precettore dei figli di Francia, ch'egli educò alla scuola di Plutarco; cavaliere dello Spirito Santo, gran cappellano di Carlo IX, abate di San Cornelio di Compiegne e vescovo di Auxerre!

I quali incoraggiamenti solenni, e che non possono trovar spiegazione, se non nel fanatismo dell'antichità, attrassero sull'orme di questi fortunati ecclesiastici una folla di letterati d'ogni classe e d'ogni colore avidi di denaro e di onori. I limiti dell'opera nostra ne astringono a non far motto di Maret e Marot, e di quello sciame di Catulli, romanzieri, umanisti osceni che disonorarono la letteratura del sedicesimo e diciassettesimo secolo. Ricorderemo soltanto alcuni nomi fra i più conosciuti nella genealogia dei Razionalisti epicurei. Accanto a Regnier, troviamo Malherbe. Questo poeta dei principi e principe dei preti, come chiamavasi, disonora il suo ingegno con l'estrema licenza del linguaggio, col suo amor sfrenato delle donne, con la sua avarizia, la sua collera, le sue impertinenze, le violenze del suo carattere, e le asprezze del suo umore. Degno rampollo del Rinascimento la sua influenza fu grande sulla classe letterata, di cui esprimeva in eleganti versi i sensi e i pensieri. Fu dei primi a dar l'esempio di quella volterriana apatia per la religione sconosciuta in Europa prima del Rinascimento, e fattasi poi comune tanto, che sembra ormai passata nei costumi di tre parti degli uomini e della metà delle donne. Più non rispettando la religione che le donne, gli sfuggiva detto sovente: non aver i galantuomini altra religione fuor quella del loro principe.

La qual professione d'ateismo aveagli inspirata la seguente risposta. Se i poveri gli domandavano la limosina dicendo: pregheremo Dio per voi, loro rispondeva sghignazzando: «Non credo abbiate gran credito presso lui, se vi lascia sì male in arnese. Vorrei piuttosto raccomandazioni presso il signor de Luynes per Luigi XIII di cui è favorito». Tali i discorsi quale la condotta.

Ma tanta era ancora di quel tempo l'influenza del cristianesimo sulle consuetudini esterne, che Malbherbe non osava, più di Voltaire, dispensarsi dal debito quella confessione e della comunione annuale: lo spirito però di quest'atto ad un tempo si eminentemente religioso e sì eminentemente sociale, Malherbe nol comprendeva più della maggior parte dei liberi pensatori del Rinascimento. In articolo di morte, ricusava confessarsi sotto pretesto che non aveva preso la consuetudine di farlo che a Pasqua. Un giovane gentiluomo suo amico trovò il segreto di vincerne la ripugnanza. «Avete, gli disse, fatto professione di vivere come gli altri, e bisogna morire com'essi. - Che volete voi significare? domandò Malherbe - Quando gli altri muoiono ripigliò il gentiluomo, si confessano, si comunicano e ricevono l'estrema unzione. - Avete ragione», soggiunse Malherbe, e per conformarsi al costume mandò a cercare il vicario di San Germano. Ora l'istoria soggiunge che il confessore parlandogli della felicità dell'altra vita in istile poco accademico, e domandandogli se non provasse desiderio di goder quanto prima di quella felicità, il moribondo gli rispondesse: «Non me ne parlate più; il vostro cattivo stile me ne ha nauseato» (172).

Alla scuola di Malherbe, erasi formato Saint- Evremond, le cui poesie sortirono un sì meraviglioso successo che il libraio Barbin pagava autori perché ne scimmiottassero lo stile. Allievo dei gesuiti di Parigi e vero Rinascente per la forma e per la sostanza, Saint-Evremond è un nuovo specimen dello spirito delle classi letterate del secolo di Luigi XIV. La licenza del linguaggio insieme col libertinaggio dello spirito e del cuore, il naturalismo in fatto di virtù, il sensualismo in fatto di consuetudini, con un certo esteriore di religione, ecco Saint-Evremond come uomo e come poeta.

A tutti è noto, scrive Bayle, che Saint-Evremond non fu preparato alla morte né da alcun ministro, né da alcun sacerdote. Ho udito assicurare che l'inviato di Firenze gli spedisse un sacerdote, e che avendogli questo ecclesiastico domandato se non voleva riconciliarsi: Ben volentieri, rispondesse il malato, vorrei riconciliarmi con l’appetito perché il mio stomaco non fa più le solite funzioni. Ho veduto versi da lui composti quindici giorni prima di morire, e non rimpiange che l'esser ridotto ai brodi lunghi e il non aver più forza di digerir pernici e fagiani (173). Per fama, per nascita, per lunga carriera, Saint-Evremond è uno dei poeti liberi pensatori che maggior influenza esercitasse sui letterati e sulla gioventù del suo tempo. La loro pratica filosofia è la sua. Gli è anche certo che la maggior parte trascorresse più in là di Saint-Evremond, e che al pari di lui non si astenesse dal far la religione argomento di buffonerie. Fra molte prove, ecco una linea di madama di Maintenon che vale essa sola a mostrare a che punto era disceso, sotto Luigi XIV, lo spirito cristiano nelle classi alte: «I progressi del duca di Borgogna nella virtù erano manifesti da un anno all'altro. Dapprima beffato da tutta la corte, era diventato l’ammirazione di tutti i libertini» (174). Al nipote di Luigi XIV, sotto gli occhi dell'avolo volgeansi siffatti scherni. Tant'è vero che di questo tempo lo spirito pagano era gentiluomo: che più tardi s'è fatto borghese, e che perciò adesso è divenuto popolare.

Terminiamo la lista dei Razionalisti epicurei, figli del Rinascimento con alcune parole sulla pleiade poetica del secolo XVI. Componeasi d'Antonio Baif, Stefand Jodelle, Gioachimo di Bellay, Enrico Bellau, Pier Ronsard, Pontus di Tyard e Gian Dorat. Eran tutti liberi pensatori, e amanti dell'allegra vita, cioè Rinascenti di costumi e di credenze (175); Questa pleiade fu immaginata da Ronsard, ad imitazione di quella dei Greci. Dapprima vi fu ammesso Jodelle. Se la lubricità la più nauseante merita un siffatto onore, nessuno n'era più degno. Non diremo né dei versi suoi, né di quelli degli altri membri della pleiade. Un solo tratto della loro vita farà conoscere questi nuovi pagani e i loro troppo numerosi compagni.

Nel 1522, si raccolsero in numero di cinquanta e andarono ad Arcueil a far carnevale. «Il caso, dice Binet nella vita di Ronsarcl, fece loro incontrare un capro, che diede occasione ad alcuni di essi, dopo averlo ornato d'una corona di fiori, di condurlo nella sala del banchetto, tanto per far mostra di sacrificarlo a Bacco, quanto per presentarlo a Jodelle: il capro era fra gli antichi il premio del poeta tragico:

Carmine qui tragico vilem certavit oh hircum,

dice Orazio. Infatti il capro così ornato, e con la barba dipinta fu spinto vicino alla tavola, e dopo aver fatto ridere la brigata fu cacciato e non sacrificato a Bacco.

Tale è la versione di Binet. Ma un contemporaneo, Chandieu, assicura che il capro fu realmente sacrificato, e rimprovera Ronsard di avere con questo sacrificio commesso un atto d'idolatria. La qual cosa non deve far meraviglia. In Roma stessa Pomponio Leto offrì molti sacrifici a Romolo. Checché ne sia, Binet soggiunge: «Non vi fu alcuno dei convitati che non facesse versi in onore del capro ad imitazione degli antichi baccanali. Ronsard fra gli altri ne compose sotto il titolo Ditirambi in onore del capro di Stefano Jodelle poeta tragico (1).

Se niente manifestava la crapula più dei loro simposi rinnovati dei Greci, niente era più osceno dei loro discorsi. Naudé volendo giustificare un Rinascente delle innumerevoli lubricità di cui lordò le sue opere, ne getta la colpa sul costume generale dei letterati di quei tempi. «I costumi più osceni, dice egli, erano sì famigliari agli umanisti d'allora che quando si legge il Boccaccio, Poggio, Aretino Casa, Castiglione, Pacifico Asulano, Giulio Grotto, Puccio, Luigi Cenzio, Filelfio, Codro, Suptabina, Mazzuccio Franco e i loro pari, gli è forza convenire, che l'impudenza, la perversità, l'oscenità, l'empietà hanno vomitato tutto il veleno contro Dio, contro i suoi ministri, contro le persone pubbliche e private e contro ogni onestà ed ogni pudore» (177).

Quanto i poeti e i prosatori del Rinascimento facevano per la mente, facevano gli artisti per gli occhi: dappertutto, in Francia, come in Italia, le arti subirono l'impulso della letteratura; il fatto è tanto conosciuto che non abbisogna di prove. Non un'infamia dell'antichità pagana, storica o mitologica, greca o romana, studiata in collegio, tradotta dagli umanisti, cantata dai poeti, che trasformala in pittura, in scultura, in incisione, non venisse a far mostra di sé, nelle nostre città, nelle nostre gallerie, nei nostri palazzi, e che non bandisse con deplorabile successo il sensualismo e la immoralità. E però al pari dei loro maestri e confratelli d'Italia, la maggior parte degli artisti francesi figli del Rinascimento, meritano a tutta ragione gli anatemi di Salvator Rosa. Chi volesse darci nota di rigorismo, visiti il Louvre, Versailles, Anet, Compiegne, Fontainebleau, il museo di Cuny , le residenze reali, principesche o borghesi, decorate al Rinascimento, e da quell'epoca sino ai giorni nostri.

Or questo insegnamento del libero pensare e del sensualismo, questo insegnamento venuto dall'alto, sempre applaudito, sempre presentato all'immaginazione, agli occhi, a tutte le facoltà ed a tutti i sensi, non poteva fare a meno di produrre i suoi frutti (178).

Negli animi la impazienza del giogo della fede, il Razionalismo; nei cuori la leggerezza dei costumi, la corruzione, l'epicureismo, in due parole l'ateismo dogmatico e pratico. Alle particolari prove che abbiamo fornite di questo deplorabile risultamento, aggiungiamo prove generali. Non essendo in certo modo che individuali mal potrebbero le prime legittimare una assoluta conclusione: le seconde invece derivando dall'insieme dei fatti bastano a meraviglia a caratterizzare un'epoca.

Prova che i liberi pensatori fossero numerosissimi in Francia dopo il Rinascimento del Paganesimo, si è dapprima quella moltitudine infinita di difese, apologie, trattati, dissertazioni, di continuo pubblicate a propugnar l'esistenza a Dio, la divinità di Gesù Cristo, i miracoli, l'immortalità dell'anima, tutti gli articoli del simbolo cattolico. La difesa suppone l'attacco; una difesa generale, incessante, continuata in tutta Europa, e segnatamente in Francia, da quattro secoli, fa supporre un attacco generale, incessante, continuato in tutta Europa e segnatamente in Francia da quattro secoli. Né lo scisma, né l'eresia attaccano il Cristianesimo da tutte le bande. Di quella guerra generale quale è dunque il principio se non il libero pensare o il Razionalismo, che deificando la ragione, la costituisce giudice supremo d'ogni divino insegnamento? Tale è il fenomeno di cui il mondo è testimonio dopo il Rinascimento, ed unicamente dopo il Rinascimento.

Passiamo alle testimonianze della storia. Sul principiare del secolo XVII, un autore celebre, Gregorio di Tolosa, scriveva: «Si contano in Francia più di sessantamila atei (179)». Giuseppe Scaligero, nato ed educato in Francia, afferma la stessa cosa (180). Nel suo trattato contro gli atei, Alessandro Capelle non esita a dire: In Francia vi è adesso un maggior numero di uomini senza religione ed atei che non ve ne fosse ai tempi del Paganesimo (181)».

Il dotto P. Mersenne che si trovò a lungo in correlazione con le alte classi sociali, ne dà pure spaventevoli cifre. «Nel 1623, dice egli, la sola città di Parigi contava più di cinquanta mila atei: in una sola casa trovate talora sin a dodici che professano questa mostruosa dottrina. Chi s'avvisasse sospettarmi d'esagerazione sappia che in Francia e negli altri regni la moltitudine degli atei è tale da far meraviglia come Dio li lasci vivere (182). Narrato il supplizio di Vanini (183), l'autore soggiunge: «Ma come la superbia non ha limiti e va sempre crescendo, ha fatto nascere ai giorni nostri e nel cuore della nostra Francia dalle ceneri di questi sciagurati un'altra setta che sotto l'attrattiva d'un nome più specioso, propina un veleno assai più fatale del primo. I complici di questa fazione assumono il nome e il titolo di deisti (184). E altrove volgendosi al cardinale Richelieu, dice, tanti sono gli atei in Francia che gli è a temere l'ateismo non succeda all'eresia (185)».

Un uomo di alta levatura della corte di Luigi XIII esprime lo stesso pensiero del P. Mersenne: «Il numero degli atei dice egli, è enorme (186)». Lo stesso ripete un altro scrittore del medesimo tempo: - «Quantunque nessuno fra noi faccia pubblica professione di negar la immortalità dell'anima e la risurrezione dei morti, nondimeno la vita all'intutto epicurea della maggior parte degli uomini è indizio manifestissimo che non credono all'altra vita. Se nol dicono in pubblico, il dicono nelle loro cene (187).

Definendo i letterati di Francia come quelli del resto d'Europa, Lutero ch'era del numero dice: «Credono come porci, vivono come porci, muoiono come porci (188)». E Calvino, quell'altro missionario del libero pensiero: «Il loro principio, dice egli, è il fatalismo, in virtù del quale tutto venendo da Dio, tutto è buono, anche la fornicazione e l'adulterio (189)».

Abbiamo veduto testimoni non sospetti, eccone altri che non son meno incensurabili. Il gesuita Cornelio a Lapide giudica il suo tempo e la Francia in particolare, come il P. Mersenne: «Dal Razionalismo, dice egli, è venuto l'epicureismo. Si è sviluppato tanto e fa ogni giorno tali progressi che Calvino stesso si meraviglia esservi nel solo regno di Francia, sciami di dotti che lo predicano, e una infinita moltitudine di discepoli che lo praticano (190)».

Un altro gesuita, il P. Antonio Sirmond, parla come il suo confratello, e dice che in Francia gli epicurei che negano la immortalità dell'anima sono tutt'altro che pochi (191).

Abbandonati senza ritegno ai loro appetiti il decalogo di questi pratici razionalisti si riassumeva nel motto supremo d'uno di essi: «Perduto è tutto il tempo che in amor non si spende» Un terzo gesuita, il padre Garasse, contemporaneo dei precedenti, riporta un fatto che conferma tutte le testimonianze citate. Nel 1608, il celebre Nicola Rapin cadde malato a Poitiers. La sua vita trascorsa nell'indifferenza religiosa fece temere non rifiutasse gli ultimi sacramenti. Dopo molte difficoltà, finì con l'acconsentire a ricevere il P. Giacomo di Moucy gesuita. Tocco dalla grazia si confessò; dopo la confessione, sentendosi presso a morte disse: «Sono felice; ma non so ciò che abbia potuto meritarmi la grazia ricevuta. Tutto il bene che mi ricordo aver fatto dopo la mia gioventù, fu d'aver impedito che l'ateismo non si insegnasse pubblicamente in Parigi (192)». A tale erano giunti in Parigi sotto il rispetto della fede i letterati classici cento anni prima del Rinascimento.

E non credasi già che questo ateismo si riducesse ad una vana parola, una specie di titolo di gloria; come più tardi quello di grue e spiriti forti, compatibile, nel gran numero colla fede. Il contrario emerge dagli scritti del tempo (193), e in particolare dal simbolo di quegli ateisti, che pullulavano non solo in Francia, ma nel resto d'Europa; i quali piaceansi ripetere l'adagio: «Muore la mente col corpo: mens perit et corpus».

Ecco questo simbolo fedelmente estratto dalle loro opere da un antico autore:

Articoli negativi: «Nego le sostanze incorporee; nego una intelligenza eterna sovranamente perfetta: nego la provvidenza di Dio: nego la immortalità dell'anima umana: nego le pene dell'altra vita: nego la divinità e l'autenticità della Scrittura: nego i miracoli di Mosè e di Gesù Cristo».

Articoli affermativi: Affermo essere il mondo o la natura la sola divinità: che non fu creato e non finirà mai: affermo che la religione non è che un puro trovato della politica: affermo che l'ateismo è la religione naturale e dei più grandi uomini: affermo che gli istitutori delle religioni positive sono impostori: affermo che i sacerdoti di tutte le religioni sono tanti ipocriti che altro non cercano che di insaccar denaro: affermo che gli adoratori della divinità sono una mandria di imbecilli: affermo che quanto si dà come soprannaturale e viene attribuito a Dio è puramente naturale: affermo che i miracoli altro non sono che panzane o effetto dell'immaginazione di coloro che dicono averli veduti: affermo che l'ateo è miglior cittadino del teista: affermo, che la religione è dannosa agli Stati (194).

Gli atei, pratici od epicurei erano ancora in maggior dato degli atei speculativi. A torme a torme gli annoverano gli storici dei tempi nelle corti e nelle classi superiori della società. «Allora, dice Delaplanche, ingegni curiosi maligni, dati ad ogni maniera di perversità sorsero a torme, gli scritti dei quali turpi e nefandi, e pieni di bestemmie sono tanto più detestabili che abbarbagliano con orpelli che possono far cadere non solo in ogni brutta ed esosa lubricità, ma altresì in qualunque empietà coloro che li tengono fra mano». (195)

Un altro storico che per la sua posizione fu a lungo in correlazione continua coi grandi e letterati del suo tempo, il presidente de Thou, di tal modo si esprime: «Coloro che passavano in rassegna i disordini del regno di Enrico II non contarono per meno funesta degli altri la miriade di Catulli, Anacreonti, Tibulli e Properzi, ciò è di poeti di cui riboccava la sua corte, e che corruppero la gioventù, resone schifa l'infanzia degli studi seri, e finalmente strapparono colle loro lascive poesie il pudore dal cuore delle fanciulle» (196).

L' epicureismo aveva numerosi discepoli i cui esempi più corruttori ancora degli scritti dei poeti recarono l'immoralità in tutte le vene della società, superba d'essere in ogni cosa figlia del Rinascimento. «Sotto Enrico III, dice Mezerai, la più sfrenata licenza regnò nelle feste di corte. Il re correva il ballo in abiti da fanciulla ... Diè un banchetto tra gli altri a sua madre in cui le donne servivano vestite da uomini. La regina gli rese il contraccambio con un altro in cui le più belle dame fecero lo stesso ufficio, snudate il petto e sparsi i capegli (197)». La sfrontatezza non finì col sedicesimo secolo. «L'inverno del 1608, dice Sully, si spese tutto in divertimenti ancora più grandi, e nelle feste con molta magnificenza preparate: alcune costarono sino ad un milione e dugento mila scudi» (198).

Già si intende che la maggior parte degli umanisti, traduttori, imitatori, artisti e poeti che risuscitando l'antichità pagana avevano posto su questo piede l'Europa e la Francia, mettevano senza freno in pratica le ricevute lezioni d'empiezza e di lubricità (199).



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CAPITOLO XV.



ORIGINE FILOSOFICA DEL RAZIONALISMO MODERNO.



Il Rinascimento vero padre del Razionalismo. - I Razionalisti moderni educati tutti alla scuola dell'antichità pagana. – Tutti ardenti ammiratori della pagana antichità. - Tutti hanno attinto la loro filosofia alla scuola dell'antichità pagana. - Testimonianze non sospette. - La filosofia pagana sola ammirata, sola acclamata dai Rinascenti. - L'Europa divisa in due campi ostili: il campo d'Aristotele e il campo di Platone. - Entusiasmo incredibile per Aristotele. - Fatti curiosi.



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A meno di non dar fede alla storia non può revocarsi in dubbio che l'apparizione del Razionalismo e della filosofia pagana in Europa coincida col Rinascimento del secolo XV e la giunta dei greci di Costantinopoli. Fra mille ripetiamo la sola testimonianza di Spizélius. «Chi oserebbe negare, dice questo autor non sospetto, che il Rinascimento delle lettere in Italia al quindicesimo secolo abbia riscaldato, coltivato, commentato gli antichi sistemi di Lucrezio, d'Epicuro, d'Orazio e d’altri, come risuscitò la filosofia greca, la medicina e la matematica; che in allora un gran numero di professori, insegnando queste alte scienze, abbiano propinato alla gioventù il veleno dell'ateismo sotto pretesto dell'autorità degli antichi?» (200).

L'origine storica del Razionalismo è dunque certa. Rimane adesso a mostrare la sua origine filosofica. Con ciò si spiega la causa suprema che sviluppò ad un tratto con un vigore sino allora sconosciuto il principio di intellettuale rivolta indistruttibile nel cuore dell'uomo decaduto; che diè sistema a questo principio e finì col renderlo dominante. Or noi diciamo che questa causa è il Rinascimento, cioè l'antichità pagana e soprattutto la pagana filosofia restituita in onore e insegnata con entusiasmo alla gioventù dapprima in Italia poscia in tutta Europa, dai Greci espulsi da Costantinopoli e dai loro discepoli. L'origine filosofica del Razionalismo sarà dimostrata con la stessa credenza dell'origine storica, se stabiliamo:

Che tutti i padri del moderno Razionalismo furono educati alla scuola della pagana antichità, per la quale professarono una entusiastica ammirazione.

Che attinsero a questa scuola la loro filosofia.

Che la loro filosofia non è che la filosofia pagana, riprodotta da essa parola per parola in tutti i suoi errori, in tutte le sue applicazioni ed anche in tutte le sette.

Che la filosofia pagana altro non è nel suo principio che il Razionalismo.

Finalmente che le autorità più gravi pronunciano essere la pagana filosofia, e non il protestantismo l'origine del moderno Razionalismo.

Cominciamo dall'abbozzare l'istoria pedagogica dei principali liberi pensatori, ateisti ed epicurei del XV e XVI secolo (201). A conoscerli basta nominarli. Il capo dei razionalisti, italiani, Pomponaccio, la cui filosofia tende, dice Matter, ad emancipare la filosofia dai dogmi della religione, fu educato a Padova dal Rinascente Pietro Trapolini, discepolo dei Greci. La passione dell'antichità invade la sua giovane anima e l'attacca con indissolubili nodi alla cattedra d'Aristotele. Se diventa professore a Padova, a Bologna, a Venezia, gli è per insegnar Aristotele; se scrive, gli è per esporre i veri sensi d'Aristotele, studiati in extenso nel testo originale; se combatte è per difendere Aristotele come difeso avrebbe il Vangelo.

Pomponaccio forma Simon Porta e Nifo. Dalla stessa scuola escono, Cesalpino, Cesare di Cremona, Simon Simonio, Pier Aretino, Cardano, Achillini, Beroald, e molti e molti altri pedagogici più o meno in fama che dall'alto delle cattedre di Firenze, Bologna, Venezia e Padova, si cattivano l’opinione pubblica appassionano per l’antichità letteraria e filosofica l'eletta gioventù accorsa alle loro lezioni da tutte parti d'Europa.

Nutriti dalla infanzia, di autori pagani procedono per la stessa via Poliziano adoratore di Virgilio: Focino adoratore di Platone: Pomponio Leto adoratore di Romolo: Lazaro Buonamico adorator di Pindaro: Machiavelli adoratore di Tito Livio e dei Romani: Filelfo adoratore di Demostene e dei Greci: Cosimo de’ Medici adoratore dei Greci e dei Romani: Bembo, Guarini, Piccolomini, Poggio, Lorenzo Valla, adoratori di Cicerone: Calderino che spende la vita a commentar le Priapee di Virgilio, ed Ermolao Barboro, che s'intitola pagano e libero pensatore paganus sum et spontis meae. Giordano Bruno che ad esempio dei filosofi pagani non adora che la sua ragione; Campanella adorator di Licurgo e Vanini che si chiama Giulio Cesare.

Quanto accade in Italia, accade in tutta Europa. In Germania Erasmo, Reuchlin, Hutten, Camerario, Buschio, Barzio, Melantone, Lutero altro non sono che giovani formati alla scuola della pagana antichità, compresi d'ammirazione per l'antichità letteraria e filosofica: come tutti i demagoghi della rivoluzione francese lo erano, gran mercé agli stessi studi di collegio, per le istituzioni della pagana antichità. In Isvizzera, Swinglio, Judd, Farel, Miconio, non erano, come già provammo nel Protestantismo, che Rinascenti fanatizzati dalla loro educazione.

Inghilterra, Spagna, Francia, ne presentano lo stesso fatto, provato da tutti i nomi conosciuti nella storia delle lettere e della filosofia di questo tempo. Linacer, Caye, Cisner, Sepulveda, Emanuele de Faria, Beza, Calvino, Lefebvre d'Etaples, Lefebvre di Caen, Budée, Lambin, Murel, Bodin, Montaigne, Rabelais, Charron, la pleiade filosofica, Francesco I, Amyot, Desportes, Regnier, Ronsard, sono allievi dei Greci e dei Romani, appassionati pei loro maestri, imitatori, magnificatori, entusiasti dell'ingegno, del genio, del linguaggio, delle virtù dei loro maestri. Così dicasi degli artisti, pittori, architetti, scultori, incisori del tempo medesimo, in tutta Europa. Nel diciassettesimo o diciottesimo secolo l'educazione in Italia, in Francia, in Germania, continua ad esser la stessa. Lo ripetiamo: sono fatti questi tanto conosciuti, che sarebbe un sciupar inchiostro e carta scrivere una linea a provarlo (202).

Ne resta ora ad esaminare se dalla scuola del Paganesimo sia uscita la filosofia razionalistica ed epicurea che da quattro secoli invase l'Europa. Facciamo qui tre supposti soltanto. La filosofia razionalistica ed epicurea che scorre a larga vena dai loro scritti in prosa ed in verso, che manifestasi impudente nelle loro opere d'arte, i filosofi, i poeti, gli artisti del Rinascimento e dei secoli successivi l'hanno inventata da sé stessi; o imitata nel medio evo, o attinta nell'antichità pagana.

Di questi tre supposti il primo è evidentemente inammissibile.

La storia stabilisce che i Rinascenti nulla inventarono: essi stessi si vantano non solo di non dir nulla di loro capo, ma altresì di parlare in versi o in prosa, di filosofare; disegnare, dipingere e scolpire sui tipi e i modelli dell'antichità che rispettano come perfetti regolatori del loro pensiero, della loro penna, del loro bulino. Sicché il Rinascimento, come indica il suo nome, fu a così dire una ricalcatura, non una scoperta, una imitazione, non un trovato.

Il secondo non è più ammissibile del primo. Tutti i Rinascenti, filosofi, letterati artisti, non fanno forse professione di un sovrano disprezzo per la filosofia, per la letteratura, per l'arte del medio evo? Ad una voce non han chiamata quell'epoca l'epoca della barbarie in ogni cosa? È il primo articolo del loro credo. E si pretenderebbe che domandato avessero le loro ispirazioni alla filosofia, alla letteratura, all’arte di quest'epoca? Ma fra tutte queste cose quali erano al medio evo e quali il Rinascimento le ha fatte, corre la differenza stessa che fra il giorno e la notte. Principio della filosofia del medio evo è la soggezione della ragione alla fede: principio della filosofia dei Rinascenti è l'emancipazione della ragione dalla tutela della fede. Il medio evo l'arte è un sacerdozio cristiano che cerca le sue ispirazioni e i suoi tipi nel mondo soprannaturale: l'arte del Rinascimento è un sacerdozio naturalista e pagano che assume ispirazioni e modelli nella semplice natura. Ideale l'uno, l'altro plastico; l’uno inventa, l'altra copia.

Resta il terzo supposto cioè che il Razionalismo moderno sia figlio del Razionalismo pagano, o piuttosto non sia che lo stesso Razionalismo restituito in onore dal Rinascimento. Or questo, supposto è una verità matematica, e tre prove lo dimostrano:

Prima prova: l'insegnamento filosofico di quell'epoca. Fu quello della filosofia pagana dato e ricevuto con tale entusiasmo che diventò norma agli ingegni. «Quando i Greci cacciati da Bisanzio afferrarono il suolo d'Italia, l'Europa, dice Matter, aveva una rettorica, una logica, una filosofia, una teologia, in una parola la scienza del mondo … L’Europa offriva un sistema quale più non presenta ai dì nostri: dovunque la stessa fede; dovunque lo stesso pontefice; e questo pontefice padre di tutti i fedeli... Eguale era la situazione morale e politica di tutti, regnavano in tutti i cuori i voti medesimi. La religione era norma alla morale ed alla politica: il clero aveva creato o data regola a tutti gli studi, tutte le dottrine e quasi tutte le istituzioni erano opera sua, e quell’opera ne formava ad un tempo il regno e la gloria. L'Europa era sì ben governata dalla religione, che a tutti i codici sovrastavano i decreti del diritto canonico, che regolavano ad un tempo lo Stato e la famiglia ... Quest'ordine di cose offriva non solo un carattere altamente religioso e morale, ma presentava ancora ben determinati rapporti, e posava su un sacro fondamento, su leggi divine, e quindi su leggi eterne ... Tale era l'Europa, tali erano le sue istituzioni e le sue generali dottrine prima del 1453.

Or tutto quest'ordine, tutte queste dottrine, e queste istituzioni gli esuli di Bisanzio vennero a scrollare dai fondamenti, a lacerare il patto della religione e della filosofia; a separar la politica dalla morale, ad operare una doppia emancipazione, sostituendo all'autorità la discussione, il progresso all'immobilità (203)».

Il deplorabile trionfo da loro ottenuto era stato preparato. Il Rinascimento non era sorto come un fungo sotto una quercia; aveva le radici nell'indistruttibile concupiscenza del cuore umano e della società! Il libero pensare segnatamente trova nel secolo XV un ausiliario nello spirito di rivolta manifestato sia dal gran scisma d'Occidente, sia dagli errori di Wicleffo e di Giovanni Hus, sia dagli scritti di Dante, di Boccaccio e del Petrarca: non ci stanchiamo di ripeterlo. Dopo averlo detto al pari di noi Matter soggiunge: «È meraviglia che la folgore caduta, ad un tratto fra questi elementi abbia accese sì subite fiamme e sì vivaci? Lo scontrarsi del genio della Grecia antica col genio del tempo era lo scontrarsi del lampo col lampo» (204). Se come siamo d'avviso quest'ultime parole son troppo assolute, provano almeno che al giudizio non sospetto di Matter, il genio dell'antica Grecia, recato in Italia dagli esuli di Bisanzio, era ben il genio del libero pensare, dell'emancipazione della ragione, in una parola del Razionalismo.

«L'apparizione dei greci, con tutto ciò che vi si unisce, continua il nostro prezioso storico, diventa una specie di risurrezione della Grecia antica, della vecchia Atene e delle sue illustri scuole ... Il loro entusiasmo molto lungi trascorse. Pletone risuscitò tutta una filosofia, tutta una politica sconosciuta (205) esponendo le credenze dell’Ellade, le istituzioni di Sparta, la morale del Portico. E tutto ciò Pletone fece conoscere con un zelo, una sollecitudine che fece a lui stesso dimenticare d'essere cristiano (206)».

L'opera di Pletone di cui parla il signor Matter è intitolata De legibus. L'empietà e la stravaganza del nuovo legislatore greco sopratutto si dimostrano negli articoli che riguardano la religione. Riconosce parecchi dei: gli uni di primo, gli altri di secondo ordine. Dà a tutti questi dèi un re che chiama Zeus o Giove come appunto i pagani. A detta sua i demoni non sono spiriti maligni: il mondo è eterno. Al par di Platone, stabilisce la poligamia: vuol che vi siano donne in comune. Tutto il suo libro formicola di siffatte dottrine (207).

«Gli è certo scrive l'autore dell'opera intitolata Comparatia Platonis et Aristotilis, che Pletone era sì zelante platonico, da non nutrire altri sentimenti fuor quelli del suo maestro sulla natura degli dei, dell'anima, sui sacrifici ecc., ed ho udito io stesso dalle sue labbra, quando, eravamo in Firenze che fra pochi anni tutti gli uomini dovunque disseminati abbraccerebbero di comune consenso e con uno stesso spirito, una sola e medesima religione, su una sola predicazione che verrebbe loro fatta. E perché io gli domandava se questa religione sarebbe quella di Gesù Cristo o di Maometto: Né l'una né l’altra mi rispondeva, ma una terza che non sarà diversa dal Paganesimo. Parole, le quali m'indignarono per modo che da quel punto l'ho sempre sfuggito come una vipera velenosa (208).»

In quell'opera di pagana ristorazione, Pletone, era in diversi gradi caldamente assecondato dai suoi compatrioti. «I libri pubblicati dai Greci, aggiunge Matter, per quanto di poca levatura, commossero gli animi più delle loro dottrine. Quei libri non erano più lezioni di greco; formavano la più bella letteratura e la più bella filosofia che mai fosse. Inspiravano insieme il buon gusto della critica, l'amore della libertà, l'odio del despotismo, lo sprezzo della barbarie. Non era un attaccarsi a quanto esisteva? Quello a cui non riuscirono i letterati e le loro opere lo poterono i discepoli: ed erano molti questi discepoli: tutti italiani di buon gusto: presso che tutti principi e prelati di quel paese, e tutta la gioventù che dagli altri emergeva: gli uni continuano a sommettere la loro ragione alle dottrine della Chiesa; ma attingono altri negli studi e nel linguaggio dei loro maestri più ardite ispirazioni, una specie di rivolta contro i costumi, le dottrine, gli usi dell'occidente (209)».

Il Rinascimento fu una lotta generale contro quanto esisteva, e quanto esisteva era l'Europa cristiana con la sua fede, il suo linguaggio, la sua poesia, la sua filosofia, la sua politica, le sue tradizioni nazionali e cristiane. E penne cristiane osano scrivere adesso che il Rinascimento fu un magnifico moto!

A propagarlo, la lotta cresceva nerbo alle lezioni ed ai libri. I rifugiati di Bisanzio andavano tra loro divisi da uno scisma filosofico; gli uni giuravano per Aristotele, gli altri adoravano Platone. Alla loro giunta in Italia lo scisma irrompe con scandalose discussioni che ricordano quelle dei filosofi dell'antica Grecia, e con esagerazioni di linguaggio, di cui immediato effetto fu l'intellettuale fermento dell'Occidente.

Al cospetto della dotta Europa e della studiosa gioventù, Pletone e Giorgio di Trebisonda combattono disperatamente fra loro, l'uno per sostener Platone, l'altro Aristotele. La quistione di preminenza fra questi due patriarchi della filosofia indipendente forma il grande avvenimento e la passione dominante del tempo. Gli spettatori s'infervorano e l'Europa si divide in due eserciti ostili conosciuti sotto il nome di neoperipatetici e di neoplatonici. A difendere la supremazia del proprio eroe ogni campo con febbrile ardore sottopone a scrutinio le dottrine del Liceo e dell'Accademia. Aristotele e Platone diventano pei rispettivi loro partigiani i sublimi fra gli uomini anzi più che uomini: specie di semidei, argomento di lodi, di amore, di sollecitudine, spinte sino alla idolatria. Giustifichiamo le nostre parole cominciando da Aristotele.

Un giovine membro della greca emigrazione Michele Apostolio, osò avversare Aristotele, ed ecco tosto Bessarione così lo apostrofa: «Mal sopportai che tacciaste di ignoranza un uomo saputo al pari di Teodoro Gaza (210), ma che abbiate trattato si indegnamente Aristotele stesso, Aristotele nostro maestro e guida nostra in ogni maniera di erudizione, giusto cielo! può mai esser possibile! Per me non credo possa trovarsi esempio di somigliante audacia

«Posso io compatir Pletone? O piuttosto compatirlo non posso per quanta stima debba professarsi a un uomo della sua sorte, quando gli sfuggono somiglianti frasi contro Aristotele. Or come potrei io compatir voi, che non studiaste ancora a fondo nessuna di queste materie? Credete a me, abbiate per l'avvenire in conto di altissimi savi Aristotele e Platone. Seguiteli passo a passo, prendeteli a guida, meditateli. Se qualche volta differiscono d'avviso, non sospettateli d'ignoranza, non osate formar simile pensiero. Ammirate il profondo loro sapere, e, con tutti i sensi di un'umile gratitudine fate senno dei tesori che ne hanno procacciati. Ora massimamente che la loro autorità, puntellata per lungo ordine d'anni su l'universale approvazione; e, sul comune suffragio di tutti gli uomini, è salita a tanto da non poter sperar grazia alcuna chi s'attentasse erigersene in censore (211)».

Così un principe della Chiesa parla d'Aristotele, padre del materialismo e del machiavellismo, di Platone apostolo del comunismo e della promiscuità: Se avesse avuto a difendere gli apostoli e gli evangelisti di che frasi il grave cardinale si sarebbe valuto?

Alla voce di Bessarione l'esercito peripatetico unisce la propria, e fa risonare tutti gli echi dell'Europa d'un costante grido in favore d'Aristotele. In Francia Giuseppe Scaligero fa di lui la più alta personalità del genere umano; poi inchinandosi gli indirizza questo omaggio. «Essere in tutto sublime, apostolo della verità, in ogni scienza incomparabile, genio immortale, genio divino, vo' piuttosto ingannarmi con te che aver ragione con gli altri. Chi ama te da prova di diventar filosofo. Non la Grecia soltanto, ma l'universo intero addottrini: di quanto è nel mondo sublunare, nulla quasi ti si può dir sconosciuto (212)».

Le lettere d'Olanda lo venerano a dir poco al pari dei profeti e degli apostoli. «E tanto culto professavano, dice Brucker, i Batavi per Aristotele che i filosofi di quel paese erano meno sdegnati a udir parlar male di lui che ad udir mormorare della santa Scrittura» (213).

Volumi interi basterebbero appena a registrar tutti gli elogi compartiti dall'Italia al filosofo di Stagira, e questi elogi si sono per parecchi secoli ripetuti. Appaghiamoci di riferirne un solo. Nella sua prefazione al libro dell'Ecclesiastico, il gesuita Cornelio a Lapide di tal modo si esprime. Aristotele, capo dei peripatetici, ridusse la morale a scienza metodica ... Nei libri di morale spiega si perfettamente la ragion delle cose che attenendosi soltanto all'ordine puramente naturale voi non abbisognate per nulla dei Clementi e degli Arnobii; e per dir tutto in una parola se in fisica Aristotele è un uomo, pei suoi discepoli, in morale, è un Dio. E però un Italiano di raro genio, rapito di ammirazione al veder che nei suoi libri di morale, di politica e di legislazione, non v'era la più piccola macchia d'errore, non esitò a dire: «Non si saprebbe se Aristotele sia più giureconsulto o sacerdote, sacerdote o profeta, profeta o Dio: anziché combattere, siccome meritavano, siffatte adulazioni empie e ridicole, il buon Cornelio si contenta di soggiungere: «è troppo bello» (214).

In Francia, un confratello di Cornelio, il Padre Rapin, ne dà le opere d'Aristotele come il non plus ultra della umana intelligenza. «Aristotele, dice egli, quel genio sì pieno di intelligenza e di ragione, scruta per modo l'abisso dello spirito umano che tutte ne scopre le più riposte latebre ... Aristotele fu il primo, che scoprisse la via di giungere alla scienza con l'evidenza della dimostrazione, e di giungere geometricamente alla dimostrazione con la infallibilità del sillogismo; l'opera la più compiuta e lo sforzo più grande della mente umana» (215).

Agli occhi di Casaubono i filosofi più eminenti dell'antichità, gli stoici, non son che fanciulli a petto del divino Aristotele collocato da un solo dei suoi libri, più di qualunque altro mortale, in seggio sublime (216).

Averroè soggiunge: «Prima della nascita d'Aristotele la natura non era perfetta. In lui ricevette il suo compimento, la perfezione del suo essere: non saprebbe andare più oltre. È l'estremo limite delle sue forze, l'estremo limite dell'umana intelligenza».

Né di ciò pago un altro dice: «Aristotele è una seconda natura» (217).

Lo Spagnuolo Medina afferma che umanamente mai non potrà spingersi a tanto da comprendere, senza l'aiuto d'un genio, i segreti della natura come Aristotele li ha penetrati. Credeva quindi avesse Aristotele un angelo che lo istruisse visibilmente di mille, cose alle quali l'umana intelligenza non potrebbe da sé stessa, pervenire (218).

L'adulazione non è ancor giunta al suo estremo. Abbiamo, udito neoperipatetici far d'Aristotele il maggiore dei mortali, un sacerdote, un profeta: eccone altri che ne fanno un nuovo Battista precursore del Messia, un evangelista, un santo. A Tubinga un religioso spiega in cattedra la morale d'Aristotele e dice al popolo: «Come Giovanni Battista fu il precursore di Cristo nei misteri della grazia, Aristotele fu il precursore di Cristo nei misteri della natura» (219).

Spanheim, Fabricio, Agrippa, Magirio, Bayle, Burigny riferiscono che in altre chiese di Germania erasi giunto a tanto da leggere Aristotele invece del Vangelo (220). Che rimaneva più altro se non che canonizzarlo ed anche divinizzarlo? Il fanatismo non si spaventa di quest'atto d'idolatria. Dapprima comparisce un libro sulla salute d'Aristotele e l'autore conclude come il predicatore di Tubinga che Aristotele è un novello Giovanni Battista (221). Celio Rodiginio soggiunge con piena logica che Aristotele fece una bella morte ed ebbe presentimenti dell'incarnazione del Figlio di Dio (222).

Il celebre Sepulveda, uno dei più zelanti Rinascenti del secolo XVI, non esita ad annoverarlo fra i beati, e scrive un libro in sostegno della propria opinione. «Io pure, aggiunge il gesuita Grester, propendo in favor d'Aristotele come Sepulveda, del quale disapprovo soltanto il modo di esprimersi» (223). A detta d'un testimonio oculare parecchi neoperipatetici tenevano Aristotele come un dio, e credevano che il contraddirgli fosse presso a poco lo stesso come con tradire alla verità, a Dio medesimo (224).

Messi in voga dai Greci, ogni dì ripetuti, sotto una forma o sotto un'altra dai libri, dall'alto delle cattedre, da tutta Europa, queste iperboli appena ora credibili si cambiano in assiomi nell'esercito numerosissimo dei neoperipatetici. Come la gioventù avvezza a giudicar sulla parole dei suoi maestri, sfuggir poteva alla seduzione? Come all'uscir dai ginnasi e dalle università, la maggior parte non avrebbe giurato essere Aristotele il maggior dei filosofi come altri giuravano essere Cicerone il più grande degli oratori passati, presenti e futuri, com'altri ancora che l'antica Roma e l'antica Grecia erano le più belle cose che il mondo si avesse mai veduto?

Conseguenza tanto più inevitabile che queste lodi esagerate d'Aristotele servivano di base all'insegnamento e formavano norma alla condotta della gioventù.

Poco infatti dopo il Rinascimento, l’autorità d'Aristotele diventò sacra per modo nelle scuole, che quando un disputante citava una massima di questo filosofo, l'allievo che sosteneva la tesi, più non osava, dir transeat, ma bisognava negasse l'esattezza della citazione o la spiegasse a suo modo, per darle un senso che si accomodasse col punto in quistione. Di tal modo nelle nostre scuole di teologia ci comportiamo adesso coi più illustri dottori della Chiesa San Tomaso, Sant'Agostino e con la Santa Scrittura (225).

Non basta: il braccio secolare elle abbandonava il Vangelo ai colpi del Razionalismo, prende Aristotele sotto la sua protezione. Il potere si fa scudo ai peripatetici. A Ginevra scostarsi d'una linea dalla dottrina del maestro porta con sé la pena del bando. Ramo, condotto al protestantismo dal suo amore per l'antichità, riparasi nella città di Calvino sperando platonizzare o socratizzare a sua posta, e ne è distolto dalla ricisa ammonizione che riceve da Teodoro di Beza. «V'ha una legge fondamentale a Ginevra che i professori di logica o d'altra scienza non si dipartano una linea dalla dottrina d'Aristotele» (226).

In Inghilterra chiunque si permette, anche nelle particolari discussioni, opporre una obbiezione all'autorità d'Aristotele è punito di forte ammenda senza remissione (227).

La Francia va più oltre, nei due scritti (228) che eccitarono la stessa tempesta sollevata ai nostri giorni da un'opera che a noi non spetta il citare, Ramo osa attaccar Aristotele. Tutti i peripatetici levansi in armi: gridasi da ogni parte all'empietà, alla bestemmia: dicesi ch'è finita per la scienza, pel regno, per la religione: si domanda il supplizio del fuoco pel sacrilego: la Sorbona si raccoglie, il consiglio del re è convocato: la Francia intera è commossa, quasi dicendo male d'Aristotele Ramo avesse spenta nel cielo la lampada del sole (229).

Finalmente il 10 maggio 1543 il Padre delle lettere Francesco I, che incoraggiava la traduzione e la propagazione delle opere più immorali dell'antichità, emanò il seguente decreto: «A richiesta di parecchie dotte e notabili persone, abbiamo soppresso, condannato e abolito, condanniamo, sopprimiamo e aboliamo i detti due libri: abbiamo fatto e facciamo proibizione a tutti stampatori e librai del nostro regno, e a tutti gli altri sudditi di qualunque stato e condizione, di stampare o far stampare, vendere e spacciare i detti libri sotto pena di confisca dei libri stessi e di punizione corporale, o siano stampati nel nostro regno o in altri luoghi in onta alla dovutaci obbedienza. E al detto Ramo di non più permettersi tali maldicenze contro Aristotele, sotto le pene più sopra indicate» (230).

Il fatto seguente è più che una conferma del primo. Nel 1624 tre filosofi antiperipatetici, Gian Bitault, Antonio Villon e Stefano di Claves, pubblicano in Parigi tesi contrarie alla dottrina d'Aristotele, o piuttosto tesi nelle quali dimostrano i grossolani e pericolosi errori di questi filosofi. La Sorbona censura le tesi e ne abbandona gli autori al Parlamento. «Il quattro settembre sulle conclusioni del procuratore generale del re e tutto considerato, la corte comanda che le tesi siano lacerate alla presenza degli autori: che de Claves, Villon e Bitault sgombrino da Parigi entro ventiquattro ore con la proibizione di riparare in nessuna città soggetta a questa corte e d'insegnar filosofia in alcune delle università del regno. Vietato a chiunque sotto pena della vita fomentare o insegnar massime contro gli antichi autori» (231).

Esiliare non è rispondere; ma il fanatismo non consentiva di credere che Aristotele avesse potuto ingannarsi. E però il Mercurio di Francia soggiunge: «Villon, Bilault e de Claves erano ingegni volatili più difficili ancora a fissarsi dell'arsenico e del mercurio; oppure erano misti incorporei che non difettavano di solfo o mercurio, ma di sale» (232).

Nel 1629 intervenne un altro decreto del Parlamento di Parigi emanato sulle rimostranze della Sorbona. Il qual decreto dichiara che non si può far guerra ai principi di Aristotele senza urtar quelli della teologia scolastica ricevuti dalla Chiesa (233). Trattati dalle leggi come nemici della Chiesa e dello Stato i contraddittori d'Aristotele passano per miscredenti coi quali non bisogna aver correlazione alcuna. Epperò il celebre Paolo di Foix, sì conosciuto per le sue ambasciate e per la sua erudizione, non volle vedere a Ferrara Francesco Patrizio, perché sapeva che l'illustre dotto insegnava altra filosofia fuor quella d'Aristotele. Non è forse la stessa condotta prescritta da San Giovanni ai fedeli riguardo agli eretici? Nec ave ei dixeritis? Riepilogando tutta la storia precedente questo fatto dimostra la differenza che passa tra i secoli cristiani e le età moderne. Ad una voce i padri della Chiesa condannano Aristotele e lo bandiscono dalle scuole cristiane: al tredicesimo secolo, si danno alle fiamme pubblicamente in Parigi le sue opere principali: e gran mercé al Rinascimento, due secoli dopo Aristotele è dappertutto insegnato, ascoltato come un oracolo, rispettato come un santo e quasi adorato come un Dio.



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CAPITOLO XVI.



ORIGINE FILOSOFICA DEL RAZIONALISMO MODERNO.



Entusiasmo per Platone. - Testimonianze. - Storia di Marsilio Ficino. ­ Prepara alla morte Cosimo de’ Medici leggendogli Platone. - Professa platonicismo a Firenze. - Suoi discepoli. - Ficino adora Platone. - Lo loda dovunque. - Sue iperboli. - Abuso della Santa Scrittura. - Istituisce la festa di Platone. - Fonda un'accademia di Platone. - Il platonicismo predicato in Germania, in Inghilterra, in Ungheria, a Roma. ­Fr. Patrizi scrive al papa perché sia ovunque imposto l'insegnamento della filosofia di Platone. - Pretende sia l'unico mezzo a convertire i peccatori e a ricondurre sulla retta via gli eretici.



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Intanto che sotto gli auspici dei Greci, l'esercito d'Aristotele esaurisce in favor del suo capo le formole dell'entusiasmo e si sbraccia a creargli partigiani, l'esercito di Platone condotto pure dai Greci rivaleggia in elogi pel suo generale e nulla trascura a chiamare la gioventù sotto la sua bandiera. Avreste detto la salute di Europa dipendere dal trionfo del filosofo stagirita o del filosofo ateniese. Ecco un saggio dei titoli largiti a Platone dai suoi settatori: Fiume inessiccabile; solo atleta nelle lotte filosofiche, gran sacerdote di sapienza; Omero dei filosofi, il più eloquente degli oratori; il più sottile dei dialettici, il più prudente dei giureconsulti, il più savio dei legislatori; l'ottimo, massimo, il padre della filosofia, di cui tutte le parole sono oracoli (234). Mancando ad essi le frasi a tradurre i loro sentimenti fan capo a Cicerone e dicono con lui: «Platone è il re dell'intelligenza e dell'eloquenza, padrone della parola: parlò come Giove se Giove parlava, il Dio dei filosofi, il principe del genio, l'amabile, l'ammirabile, il pontefice della dottrina e della virtù, con cui val meglio ingannarsi che aver ragione cogli altri» (235).

Udimmo Gemisto Pletone, Pontano, Galea, Scaligero , Bessarione, Cardano e molti altri dei quali sarebbe una noia il ripeter le iperboli. Marsilio Ficino canonico di Firenze non si tiene pago di semplici elogi. D'accordo con Cosimo e Lorenzo de' Medici fonda un'accademia, destinata a propagare la filosofia ed il culto di Platone, salito al cielo con Gesù Cristo. Più d'ogni ragionamento alcuni particolari sulla vita e su gli scritti di Ficino gioveranno a far conoscere l'entusiasmo dei neoplatonici.

«Il gran Cosimo de' Medici, dice Ficino, padre della patria, udito avendo un filosofo greco di nome Pletone, meravigliò tanto della filosofia di Platone che fermò il divisamento d'un'accademia destinata a insegnarlo. Fui scelto dall'infanzia per esserne il fondatore: mi dedicò allo studio del greco e mi procurò tutti gli autori di cui avevo bisogno. Mi terrò beato per tutta la vita d'esser nato nel secolo d'oro in cui la bella antichità tratta dalla tomba splende come sole sul mondo caduto nelle tenebre della barbarie» (236). Il giovane Ficino si dà con tutto l'ardore allo studio di Platone che diventa suo oracolo, suo evangelo, quasi suo Dio: «Umile sacerdote, dice egli, ho avuto due padri, Ficino medico, e Cosimo Mediceo. Dal primo nacqui, dal secondo rinacqui. L'uno mi confidò a Galieno medico insieme e platonico: l'altro mi consacrò al divino Platone, medico dell'anima» (237).

Adorator di Platone, Ficino lo porta dovunque con sé: pensa con Platone, con Platone parla. Per dodici anni Platone è continuo argomento ai suoi colloqui con Cosimo de' Medici. «Debbo molto a Platone, dice egli, ma non debbo meno a Cosimo. Le virtù che il primo insegna le ho vedute praticate dal secondo, di cui era unica sollecitudine farsi somigliante al tipo proposto da Platone. Ad esempio di Solone volle sino alla fine esser discepolo di questo divino maestro. Mai non filosofò tanto con lui quanto al momento della morte. Voi lo sapete che eravate presenti; dopo che leggemmo il libro dell'Unico principio e del sovrano bene, morì quasi per anelar a fruire di quel sovrano bene col quale s'era tanto di buon grado intrattenuto» (238).

Al medio evo, in quei secoli di barbarie, il cristiano si studiava di conformare la propria vita a quella di Gesù Cristo: malato gettava gli occhi su lui, ne meditava la passione, pregava e faceva pregare per ottenere una buona morte. Gran mercé ai lumi della bella antichità ecco un principe moribondo, assistito da un canonico, che invece di fargli ministrare i sacramenti, lo prepara a comparir dinanzi a Dio leggendo Platone, e il principe muore da filosofo. E tutto ciò nella bocca di Ficino prete cattolico è un argomento di elogi.

Ficino intanto era diventato professore di filosofia a Firenze: e s'intende già che Platone insegnò per bocca del suo discepolo.

La moltitudine accorre in sterminata folla alle sue lezioni. Firenze diventa una nuova Accademia. I discepoli condividono l'entusiasmo del maestro. Poliziano scrive che Ficino opera un miracolo assai maggiore di quello d'Orfeo. Orfeo ricondusse Euridice dall'inferno, Ficino richiamò sulla terra la sapienza del divino Platone (239).

La maggior parte dei celebri Rinascenti assiste alle lezioni di Ficino: e professori a loro volta propagano con ardore il platonicismo in Italia e nel resto d'Europa. Si contano fra loro Cristoforo Landini, Benedetto Accolta, Bartolomeo e Filippo Valori, Antonio Calderino, Michele Mercati, Comandone, Allio, Platina, Vespucci, Demetrio di Bisanzio, Guicciardini, Alessandro Albizi, Bibiena (240). Lo studio appassionato di Platone produce in Ficino lo stesso effetto che lo studio di Virgilio produsse in sant'Agostino, di Cicerone in san Girolamo, degli autori gentili in tanti cristiani, anche religiosi e sacerdoti: nausea della pietà, allontanamento dai libri cristiani ed entusiasmo della classica antichità, Ficino non tiene in camera né crocifisso, né statua della Madonna, né immagine di Santo, ma sibbene un busto di Platone dinanzi a cui arde notte e giorno una lampada (241). Platone è, a suo avviso, un profeta che predisse la felicità del mondo, quando gli uomini ne abbracciarono la filosofia; un santo di cui venera la vita, di cui ammira la santità e la castità, soggiungendo però a voce sommessa ch'egli era come Socrate dato a sozzi amori (242).

Tiene per suprema felicità l'aver tradotte le sue opere. Ne parla di continuo sul tuono del ditirambo: non trova una parola, una sola da avventare contro le mostruose infamie di Platone nel suo libro della Repubblica. Anzi, la promiscuità, il comunismo, l'infanticidio, dal suo filosofo comandati, sembragli ottime cose e basi d'uno Stato ben ordinato (243).

In tutto quest'ordine di cose degno dei maiali vede, come i maltusiani ed i comunisti più sperticati dei nostri giorni, il regno perfetto della carità di cui gli uomini presenti non sono capaci; l'età d'oro, ma che spunterà allorché la filosofia abbia preso il governo dell'uman genere (244). Dopo questa solida apologia sfida gli avversari di Platone a rispondere un sol motto: gli esorta piuttosto a convertirsi al platonicismo e ad unire la loro voce alla sua per esaltare il divino Platone». Ammirate, dice egli, la profonda sapienza del discepolo di Socrate. Esculapio - Apollo del genere umano, Platone aveva veduto che le leggi sulla proprietà dei beni e delle donne, anziché la felicità degli stati ne formavano la sventura, e volle a buon diritto sostituirvi le leggi della amicizia, comandando che tutto fosse comune tra amici, e, togliendo così ogni causa di scissura e di guai, procacciarne pace e felicità» (245).

Se in queste lezioni Ficino si volge ai suoi uditori, non li chiama già fratelli in Gesù Cristo, ma fratelli in Platone (246). Con un convincimento che può sembrar sincero insegna loro il più audace razionalismo. «La filosofia, loro dice, è un dono di Dio; chi la possiede sulla terra è quel che Dio è in cielo. Il filosofo è il mediatore fra Dio e l'uomo: uomo per Dio e Dio per gli uomini» (247). In conseguenza Ficino seriamente domanda s'insegni la filosofia di Platone nelle chiese come la Santa Scrittura. Volgendosi al numeroso uditorio così comincia una sua lezione: «La filosofia platonica essendo cosa santa debba esser letta nelle sacre funzioni. Inspiratemi gran Dio; insegnerò il vostro nome ai miei fratelli, vi loderò nella chiesa, canterò la vostra gloria al cospetto degli angeli. I nostri avoli, i platonici, solevano, dilettissimi fratelli, insegnar nei templi la sapienza venuta dal cielo, vo' dire i santi misteri della filosofia: Li imiteremo» (248).

Quanti studiano Platone, quanti favoriscono i discepoli di Platone diventano per lui esseri sacri, ai quali Ficino per sacrilego abuso non esita ad applicar le più auguste parole dei libri santi. In una lettera volta al sovrano pontefice, parlando del platonico Gian Nicolini si esprime in questi termini: «Abbiamo non ha molto posseduto un pontefice pieno di grazia e di verità. Un uomo inviato da Dio che si chiama Giovanni. E venuto in testimonio per rendere testimonianza della divinità di Sisto» (249). Altrove si fa a ripetere le stesse frasi in favore di Giovanni de' Medici, poi soggiunge: «La tua prole, o Giovanni, rifulgerà nei secoli come stella del cielo: alla tua posterità benediranno i popoli: nel tuo seme saranno in fine benedette tutte le genti» (250).

Nella prefazione su Plotino, si volge in questi termini ai suoi uditori: «Credete udir Platone stesso dirvi di Plotino: questi è il figliuolo mio diletto in cui collocai tutta la mia compiacenza: ascoltatelo» (251).

Se Ficino così parla dei discepoli di Platone che dirà mai del maestro? Agli occhi del canonico paganizzato Socrate è un santo, che al par di Platone è salito al cielo con Gesù Cristo, di cui fu la figura, e stabilisce quindi fra nostro Signore e Socrate quel sacrilego e lungo parallelo che tutti sanno (252).

Non resta più a Ficino che perpetuare a Firenze il suo entusiasmo per Platone, propagarlo dovunque e rendergli culto siccome a un Dio. A tale scopo instituisce insieme con Cosimo de' Medici la festa di Platone celebrata con tutti i platonici in una villa del gran duca con un banchetto che ricordava il simposium dei Greci, e con discorsi in onore di Platone e di Socrate e dell'amor platonico, il tutto ad imitazione dei platonici della antichità (253). E, prova del fanatismo dei tempi, il primo dei convitati era un vescovo (254). Ficino stabilisce ancora in Firenze un'accademia platonica composta dei suoi migliori discepoli. Ma ben tosto le dottrine comunistiche di Platone si traducono dai nuovi accademici in cospirazioni e congiure contro la repubblica. Giacopo da Diacetto loro capo è ucciso: gli altri si sbandano e l'accademia svanisce (255). Così accadde e per consimili cause dell'accademia platonica fondata in Roma da Callimaco a mo' di quella di Firenze.

E non solo in Italia diffondesi il platonicismo e con esso l'entusiasmo di Ficino e per giunta tutto lo spirito di indipendenza. Prima del 1490 la Germania s'empì di ammiratori di Ficino e di adoratori di Platone. Martino Uranio di Costanza celebra ogni anno fra un numeroso concorso di neoplatonici e con grande magnificenza la nascita di Ficino (256). Per comando di parecchi principi di Germania, Uranio insieme con Luigi Naukler e Gian Reuchlin invia, a Ficino l'elella dei giovani tedeschi per farne la speranza della patria, che a detta loro non poteva essere rigenerata se non dalla platonica filosofia. (257). Intanto che la Germania corre al platonicismo come ad un nuovo evangelo, Erasmo lo propaga in Inghilterra. Suo più illustre allievo fu il cancellier Moro. Il grand'uomo non tardò a mostrare il profitto tratto dalle nuove dottrine. La sua bella mente subì un eclisse e pubblicò la sua Utopia, cioè i sogni socialistici di Platone applicati alla società. All'altra estremità d'Europa Mattia re d'Ungheria, trascinato dal movimento che spinge il mondo verso la pagana filosofia scrive a Ficino pregandolo venisse ad insegnare Platone. Ficino risponde al re che non potendo abbandonar Firenze gli spedirà qualcuno dei suoi discepoli. Una lettera di Ficino in data del 1489 ne insegna che l'onore di sostituire il suo maestro e insegnar platonicismo agli Ungaresi fu serbato a Filippo Valori (258).

In mezzo ai suoi trionfi il platonicismo aveva subito un doppio smacco: la dispersione dell'accademia platonica di Firenze e la soppressione di quella di Roma. A riparare al primo Ficino continua ad insegnare e tradurre con zelo gli antichi discepoli di Platone, quale Plotino, Giamblico. Francesco Patrizi si assume di ristabilire in Roma il regno del Platonicismo. Dopo aver per quattordici anni invocato l'entusiasmo per Platone della gioventù dell'università di Ferrara, viene a Roma, professa platonicismo, compone un corso di filosofia universale sulle tracce di Platone e lo dedica al sovrano pontefice. Le lodi che canta tutti i giorni al filosofo ateniese al cospetto dei suoi numerosi uditori sono altrettante diatribe contro Aristotele. Esaltare l'uno, invilire l'altro: tale è il suo scopo e nettamente lo esprime nel suo libro.

Volgendosi a papa Gregorio XIV così gli parla: «Come accade che non si insegnino nelle scuole fuorché i trattati d'Aristotele i più ostili a Dio ed alla Chiesa? Ai dialoghi di Platone i frati, o delitto! preferiscono l'impudente empietà d'Aristotele. Certo per ignoranza: ché non sanno qual veleno beva la gioventù a quella malefica fonte, Quanto ai più mirabili di tutti i libri, a quei libri divini, o vergogna! non ne conoscono neanche il nome. I Padri dicono che gli è facile render cristiani i discepoli di Platone (259); ed ecco che da circa quattro secoli i teologi scolastici operano in un senso diametralmente opposto, ponendo a base della fede le empietà di Aristotele. Li scusiamo ché, non sapendo il greco, sono loro sconosciute. Ma non è assurdo forse volere stabilire la verità con la menzogna?» (260) Segue una lunga enumerazione d'errori e d'empietà del filosofo stagirita.

Non contento di indurre alla diffalta i soldati d'Aristotele denigrando il loro generale, si sovviene Patrizi dei re e dei parlamenti che gli hanno accordato patrocinio. A render equa la lance fa capo al pontefice supplicando assuma la causa di Platone. «Comandate, gli dice, pel primo e tutti i pontefici comandino, e i vostri ordini confortate coll'attrattiva degli onori e dei premi, che in tutti i collegi dei vostri stati, in tutti i monisteri si spieghi un qualche libro di Platone siccome io stesso feci a Ferrara per quattordici anni. Curate che tutti i re del mondo cristiano facciano lo stesso nei loro ginnasi» (261). A dare il decisivo colpo volgesi alla coscienza del papa e gli persuade unico mezzo a destar la pietà nella gioventù e convertir gli eretici, essere l'insegnar Platone. «Proponetevi per tanto, beato padre, di istituire un insegnamento sì pio, sì utile, sì necessario» (262).

Povere genti e poveri tempi! Far d'Aristotele un santo, un Giovanni Battista, e di Platone un evangelista, un Dio: eccitar nella gioventù di tutt'Europa l'entusiasmo per questi due grandi pagani brutti di tutti i vizi e padri di tutte le eresie (263): volerli far tenere in conto di rigeneratori delle cristiane nazioni, tale era la somma delle cose pei filosofi del Rinascimento!



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CAPITOLO XVII.



ORIGINE FILOSOFICA DEL RAZIONALISMO MODERNO



I padri del Razionalismo moderno, discepoli tutti dei filosofi pagani. - La filosofia pagana altro non è che il Razionalismo in atto. - Prove. - Storia degli errori e delle sette della filosofia pagana. - Perfetta somiglianza della moderna filosofia con la pagana. - Prove.



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Dimostrando con la storia alla mano che l'insegnamento filosofico del Rinascimento fu l'insegnamento della filosofia pagana dato e ricevuto con entusiasmo, abbiamo fornita la prima prova che il Razionalismo moderno uscì, dal Rinascimento. Rimane a confermarla sviluppando la seconda.

Seconda prova: I padri del moderno Razionalismo hanno attinto la loro filosofia nella filosofia pagana, che altra cosa non è che il razionalismo in atto: ne hanno adottato il principio, riprodotti tutti gli errori e per quanto si può rinnovate tutte le sette. - Una sola osservazione basterebbe a statuire questa verità.

L'uomo non trasmette che quanto ha ricevuto: uomini e popoli sono figli della loro educazione: dimmi con chi vai e ti dirò chi sei. Or quale filosofia trasmisero i filosofi del Rinascimento, i Greci di Costantinopoli e i loro discepoli? Di chi sono immagine? Per chi sono le loro simpatie e la loro ammirazione? Assomigliano forse ai filosofi cattolici del medio evo ed ai Padri della Chiesa, o non piuttosto ai filosofi pagani di Roma e di Grecia? Qual è il principio rigeneratore delle loro investigazioni, il loro appoggio, la loro bussola? È la fede o la ragione emancipata dalla tutela della fede? Ma non insistiamo di più e veniamo ai fatti.

«Il vero filosofo, dice Epicuro, non poteva nascere che fra i greci, perché dappertutto altrove regnava la tradizione». Questa frase è un tesoro. Significa nell'antichità pagana essere stato un corpo di verità, venute dalle primitive rivelazioni; che sino alla nascita della filosofia greca queste verità facevano generalmente autorità fra le nazioni di cui componevano il patrimonio religioso e sociale; che i Greci invece di rispettar quel sacro deposito che chiamar si potrebbe la Bibbia dei gentili, lo sottoposero allo scalpello della loro ragione come i Protestanti usarono con la Bibbia dei cristiani: che invece di prendere la tradizione a norma delle loro indagini e a pietra di paragone di loro scoperte, i filosofi greci si diedero a discuterle, a spiegarle, ammettendole o rigettandole, senza altra regola che la indipendente loro ragione.

Rovesciata questa barriera, i sistemi, le contraddizioni, le setta filosofiche e con esse, i più mostruosi errori si moltiplicano all'infinito. Tanto nota il signor Lamennais: «I grandi errori della mente, dice egli, erano pressappoco sconosciuti nel mondo prima della filosofia pagana: Essa li fece nascere, o almeno li sviluppò, infiacchendo la reverenza, per le tradizioni e sostituendo il principio dell'esame particolare al principio di fede» (264).

Di queste, sette filosofiche onorate del nome di scuola, la prima in data è la ionica, Il suo fondatore Talete di Mileto, cercando alla luce della sua ragione l'origine del mondo, insegna come acqua ed umido, siano i principi rigeneratori di tutte cose: il materialismo diventa il punto di partenza dell'incredula filosofia. Dopo Tante comparisce Pitagora che fonda la scuola italica e pone a basi della filosofia di metempsicosi e il panteismo. Vien poi Platone, Capo della scuola accademica. Questo filosofo che i suoi ammiratori dicono divino professa gli errori più grossolani, il panteismo e la metempsicosi; l'anima unica ed universale tante volte cantata da Virgilio, l'indipendenza in materia di religione, la schiavitù, il dispotismo, il comunismo, la promiscuità delle donne, l'infanticidio e tante altre infamie che fanno arrossire (265).

Discepolo di Platone e fondatore della scuola peripatetica, Aristotele, accusato d'ateismo, di cui fa un essere non curante delle azioni umane e soggetto al destino (266), nega la creazione del mondo, la Provvidenza, l'immortalità dell'anima: insegna il panteismo, sanziona la schiavitù, fa della religione un semplice strumento di regno, prescrive l'infanticidio e l'aborto (267).

Della famiglia d'Aristotele, Epicuro fonda la scuola sensualistica. Negando la creazione del mondo, spiega la formazione degli esseri col sistema degli atomi, nega l'immortalità dell'anima, ed insegna consistere nella voluttà la felicità dell'uomo. A sua volta Zenone istitutore della scuola stoica, volendo reagire contro Epicuro, cade nell'estremo opposto. Il piacere è l'unico bene, dice Epicuro; il dolore stesso il più vivo non è un male, replica Zenone. Il che non toglie che Zenone insegni il panteismo, il fatalismo, il suicidio per sfuggir al dolore, e si abbandoni, discepolo d'Epicuro nella condotta, ai più laidi piaceri.

A metter d'accordo tutte queste pretese scuole filosofiche Arcesilao Pitaniese stabilisce la nuova accademia. Col suo discepolo raccomanda la conciliazione che studiasi ottenere modificando tutti i sistemi in quanto gli sembrano troppo assoluti. Sm filosofia fu l'eclettismo. Dopo altre fluttuazioni nelle quali la filosofia cade d'errore in errore, arriva Sesto Empirico. Censore inesorabile di tutte le querele, di tutte le assurdità filosofiche, trae la conclusione da questi dibattimenti di ottocento anni. La prima parola che cade dalla sua penna è contraddizioni, l'ultima scetticismo (268).

Fu allora che un gran numero di platonici e di altri filosofi quali Plotino, Giamblico, Porfirio, Apollonio di Tiane, disperando trovar la verità col ragionamento, la cercano nella teurgia, cioè nella pratica delle scienze occulte (269). Arrroge che per un giusto castigo dell'ostinata loro rivolta contro la verità, tutti i filosofi pagani, nessuno eccettuato, abbandonaronsi ad ignominiose passioni. Socrate, Platone; Aristotile, Pitagora, Aristippo, Zeno né Bione, Crisippo, Epicuro, Periandro , Cicerone e gli altri omnes Epicuri de grege porci si danno pubblicamente alle abominazioni di Sodoma e se ne gloriano (270). In questa infetta cloaca trovò l'Evangelo quei sì vantati savi di Roma e di Grecia.

Tale è il rapido quadro della pagana filosofia. Ora a che si riduce una somigliante filosofia, se non alla filosofia del libero pensare, o meglio al libero pensare in azione? Qual é l'autorità comune cui si sommette? Quale la fiaccola che la rischiara? Non forse la sola ragione dichiarata in ogni filosofo indipendente e infallibile? «Mio sistema, dice Platone, è di non credere ad alcuna autorità e non cedere se non alle ragioni, che dopo aver riflettuto, mi sembrano le migliori» (271). A detta di Cicerone, Protagora proclamava ancora più nettamente questo principio razionalistico: «Protagora, dice egli, crede non debba tenersi per vero se non quanto a tutti par vero» (272). Lo stesso Cicerone, rappresentante della filosofia fra i Romani, professa la egual dottrina: «Ognuno, dice egli, dovendo riferirsi alla propria ragione in fatto di verità, è difficilissimo si arrenda alla ragione degli altri» (273). Tutti adottano la stessa regola, e nelle loro investigazioni non ne seguono altra.

In conclusione, al suo nascere, la pagana filosofia trova un corpo di verità tradizionali: anziché rispettarle ed intendere a sceverarne la lega dall'errore, arrogasi il dritto di discuterle, mutilarle, negarle, gettarle al disprezzo. Dopo aver distrutto vuol edificare. Nuova opera di Babele, ammassa sistemi con sistemi, cade in infinite contraddizioni, crea le tenebre e non discopre una sola verità. Respinto dal mondo superiore, di cui l'orgoglio e il dubbio figlio dell'orgoglio, mai non apriranno la porta, proclama lo scetticismo universale come suprema sapienza. In quel nulla del pensiero, anziché alzar gli occhi al cielo e domandare la verità all' autorità della generai tradizione, la filosofia si piace cercarla nell'immediata comunicazione coll'angelo delle tenebre: finalmente stanca dal combattere, s'addorme nella voluttà insino a che l'ordine religioso e sociale da lei profondamente riscosso la schiaccia sotto le sue rovine. Cominciata dall'adorazione dell'orgoglio, la pagana filosofia finisce con l'adorazione della carne. Tale è e tale sempre sarà il termine fatale d'ogni audace rivolta contro la verità.


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CAPITOLO XVIII.



ORIGINE FILOSOFICA DEL RAZIONALISMO MODERNO



Stratagemma dei razionalisti, celano il loro principio e i loro errori sotto la maschera dell'antichità. - Testimonianza decisiva di Brucker e del signor Cousin. - Vanità delle loro proteste di reverenza verso l'autorità della Chiesa. - Rinnovano tutti gli errori e tutte le sette filosofiche dell'antichità. - Arrivano all'ultimo termine. - Ultima prova della origine filosofica del Razionalismo moderno. - Il concilio di Laterano. - Analisi della Bolla Regiminis apostolici. - Che ne insegni essa dello stato degli animi e dell'entusiasmo per la pagana filosofia.


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Lo spirito di Dio, disceso per rinnovar la faccia della terra spazzò prontamente gli avanzi di tutte le scuole così dette filosofiche della pagana antichità. Al quarto secolo erano cadute in tale oblio, che sant'Agostino scrivendo a Dioscoro, bramoso di conoscere la soluzione di certi problemi dell' antica filosofia: «Oggi, gli dice, s'ode tanto parlare in Africa di queste puerilità quanto a cantar le cornacchie» (274). Per tutto l'evo medio rimasero sepolte col Razionalismo loro padre nella tomba, in cui il Razionalismo le aveva racchiuse. Col rinascimento tutte risorgono: gli stessi nomi, gli stessi principi, le stesse pretese; le stesse fasi, lo stesso risultamento.

Appena i rifugiati di Bisanzio annunciarono d'aver seco recato il testo compiuto ed originale degli antichi filosofi che tutta la generazione letterata accorse alle loro lezioni e si diè a studiare il greco, per meglio, diceva essa, comprendere gli insegnamenti sublimi della pagana sapienza. E pure l'Europa cristiana possedeva la verità, tutta la verità teologica, filosofica, sociale: un'autorità infallibile la conservava e la dava pure d'ogni miscela alla menti avide di nutrirsene. Anziché raccoglierla a piene mani nelle inesauribili miniere del cristianesimo, innumerevoli cercatori, sprofondansi, per trovarne alcune briciole impure, nei tenebrosi labirinti del paganesimo.

Che strano mistero è questo? Lo stesso che diè origine alla pagana filosofia. Vuolsi pur dirlo: non si cercava già la verità che, si aveva sotto mano, ma solo, e ad ogni costo, un modo di sottrarsi al giogo della verità e di emancipar la ragione dalla tutela della fede. Or questo modo si offriva da sé stesso e consisteva nel metter la ragione coi suoi traviamenti e i suoi errori sotto l'egida dei nomi acclamati d'Aristotele e Platone e della splendida antica filosofia. E ne sia prova che i filosofi del Rinascimento ben si guardarono nelle loro investigazioni dal prender per bussola e pietra di paragone le dottrine dell'Evangelo.

Però, come sul principio si suole, non osavano urtarle di fronte, e traevansi d'imbarazzo asserendo che una proposizione vera secondo Aristotele o Platone, poteva non esserlo secondo la fede: ma che avevano parlato come filosofi, non come teologi. Per morir tranquilli nel loro letto, finivano anche, massimamente in Italia, col dichiarar di sottomettere le loro opere al giudizio della Chiesa. Ammettevano di tal modo come possibili due contraddittorie verità, ponevano la ragione a livello della rivelazione, e facendole trattar potenza a potenza, avvezzavano il mondo a considerarle come da due immortali sorelle egualmente degne di rispetto.

La qual tattica del moderno razionalismo ne fu svelata da un uomo che ben lo conosceva. «I primi, dice Brucker, che al tempo del rinascimento entrarono nella via del libero pensare, si posero sotto l'ombra d'Aristotele, di Platone, di Pitagora, di Zenone insino a che con l'aiuto di Dio, lo spirito umano poté liberarsi da tutte le sue pastoie. Fu allora che rigettando ogni particolare filosofia si diè a crearne una propria scegliendo da tutte quel che più gli conveniva. Allora la dignità umana sì a lungo tenuta nei ceppi della superstizione, ricomparve in tutto il suo splendore» (275).

Su questo punto capitale abbiamo un'autorità anche maggiore, quella del signor Cousin. «Di qualunque modo si voglia giudicare il memorabile incidente che tanto modificò al quindicesimo secolo la forma (276) dell'arte e della letteratura in Europa, non può revocarsi in dubbio che lo stesso incidente non abbia avuto anche una immensa influenza sui destini della filosofia, e qui a mio avviso fu d'una incontrastabile utilità (277). Quando la Grecia filosofica comparve all'Europa (278) nel quindicesimo secolo, pensate quale impressione dovettero produrre i suoi tanti sistemi, animati da sì assoluta indipendenza, su quei filosofi del medio evo, chiusi ancora nei chiostri e nei conventi, ma che già aspiravano alla libertà. Il risultamento di questa impressione doveva essere una specie d'incanto e di fascinazione momentanei. la Grecia non solo ispirò l'Europa, l'inebriò; carattere, della filosofia di quest'epoca è l'imitazione dell'antica filosofia senza alcuna critica.

«Cominciava a formarsi allora in Europa un certo spirito filosofico, incomparabilmente al disotto però dei sistemi che si presentavano a lui: era dunque inevitabile che questi sistemi il trascinassero e il soggiogassero. E però dopo aver servita la Chiesa al medio evo, la filosofia al decimoquinto ed al decimosesto secolo scambiò questa dominazione con l'altra dell'antica filosofia. Era, ammettiamolo, autorità anche quella! ma che differenza di grazia! Non poteva si correre immediatamente dalla scolastica alla filosofia moderna e farla finita di botto con ogni specie di autorità. Era dunque un vantaggio il cadere sotto una nuova autorità, tutta umana, senza radice nei costumi, senza potenza esterna e divisa in sé stessa, quindi flessibilissima e pochissimo durevole, e a senso mio nell'economia della storia generale dello spirito umano, la filosofia del decimoquinto e sedicesimo secolo fu una transizione necessaria ed utile dall'assoluta schiavitù del medio evo all'assoluta indipendenza della moderna filosofia» (279). Habemus confitentem.

Meditate il passo che abbiamo trascritto: fermatevi alla conclusione il rinascimento fu una transizione necessaria ed utile dall'assoluta schiavitù del medio evo (philosophia teologiae ancilla) all'assoluta indipendenza della moderna filosofia e domandate a voi stessi per quale aberrazione dei cattolici, anche sacerdoti e religiosi, trovano ottimo per principio d'autorità un moto che il servo dei servi del Razionalismo stima non solo utile ma ancor necessario al suo trionfo!

Quanto alle loro proteste di rispetto alla Chiesa e di sommissione ai suoi dommi, nulla di più illusorio. Nella sua Storia della letteratura italiana Tiraboschi le riduce al giusto valore. Le sue parole volgonsi non solo a Pomponaccio, capo dei liberi pensatori del Rinascimento, ma a tutti i suoi ammiratori. Si contenta, per vero, di sostener che Aristotele non ammette l’immortalità dell'anima, e che la ragione è impossente a provare questa verità. Nondimeno, soggiunge, bisogna crederla fermamente, perché tale è l'insegnamento della Chiesa di cui mi dichiaro figlio rispettoso e sommesso. Ma quando Aristotele era tenuto in conto d'un oracolo tanto infallibile, che allontanarsi dal suo avviso era un cader nell'errore, provar che Aristotele aveva sostenuta la mortalità dell'anima era un affermar l'assoluta certezza di questa opinione. Non vuolsi dunque far le meraviglie se Pomponaccio fu a buon dritto tenuto per propugnatore della rea dottrina. Protesta, lo so, di sommettersi alla Chiesa; ma prima di tutto si potrebbe opporgli l'assioma legame: Contro il fatto non val protesta: protestatio facto contraria non valet. Di più la distinzione tra il filosofo e il teologo è una ridicola sottigliezza di cui Buffalini ha fatto giustizia con questo motto: «Apollo, dice egli, avendo udito la difesa di Pomponaccio, e trovatolo innocente come teologo e colpevole come filosofo, lo condannò alle fiamme solamente come filosofo» (280).

La tattica dei padri del Razionalismo non cessò d'essere quella dei loro figli. Fu quella dei liberi pensatori cattolici in Italia, in Spagna negli ultimi secoli: nessuno ne fece maggior uso di Voltaire: essa è ancora il ritornello favorito degli eclettici e dei Razionalisti più destri dei nostri giorni. Sostengono gli errori più pericolosi, posano i principi più sovversivi d'ogni credenza, e protestano rispetto per la religione.

Non meno adesso che altre volte queste proteste debbono trasformare i cattolici in apologisti, e meno ancora in apostoli di quanto chiamasi sistema di conciliazione, e lo scorso secolo chiamava tolleranza! Quale conciliazione è mai possibile tra la fede e il Razionalismo? Comecchè, sotto la pelle di agnello, i lupi saranno sempre lupi, e con tutte le loro proteste i liberi pensatori saranno sempre pericolosi nemici della Rivelazione. «Abbiate, dicono, riguardo alla nostra ignoranza, alla nostra educazione. Siamo filosofi non teologi: stabiliamo, insegniamo quanto la ragione ne dimostra: se le nostre conclusioni sono contrarie agli insegnamenti della teologia, ne duole, ma non possiamo fare che la verità non sia verità».

Con questo bill d'indennità s'arrogano il diritto di scalzare tutte le credenze: così facevano i loro avoli del secolo XV: adoratori segreti del libero pensare, furono visti attaccarsi appassionatamente chi ad un filosofo, chi ad un altro, esaltare sino alle stelle il maestro di loro scelta, rinnovare, almeno come passaporto, tutte le scuole filosofiche della Grecia e diffondere sull'Europa moderna il diluvio d'errori di cui avevano inondato il mondo antico. Pomponaccio mette in voga la filosofia di Aristotele. Per esso e pei suoi numerosi discepoli, questa filosofia ben intesa consiste, fra le altre cose, nel negare l'immortalità dell'anima, i miracoli e la provvidenza. Nelle sue opere dell'immortalità dell'anima, del Destino e dei sortilegi (281) insegna questi tre errori, i più mostruosi della pagana filosofia. Fa anche di peggio, inaugura il principio di tutti gli errori, il Razionalismo. «Nell'ultima sua opera, dice Matter, Pomponaccio va più in là della sua tesi; mostra alla religione intera che avrebbe torto di voler ancora lanciare le folgori dell'anatema, mentre essa potrebbe aver bisogno un giorno di tolleranza da parte dei filosofi, e che per indubbi segni il suo regno stava per finire» (282).

Ecco a qual eccesso di empietà, soggiunge un antico autore, arrivò un gran numero di filosofi: quanto le leggi vieta loro di pubblicamente insegnare, lo presentano sotto il manto di Aristotele. Il che fece a vergogna di tutta Italia l'audace campione dell'errore Pier Pomponaccio, in iscritti che non si perita porre dinanzi agli stessi sovrani pontefici. Tali sono i guasti della fiera di cui a Parigi stessa trovate chi si gloria d'essere discepolo (283).

Ficino, secondato da Callimaco, Pico della Mirandola, Erasmo, Tomaso Moro, Patrizi, Campanella ed altri molti, rinnova la filosofia di Platone. Tutti i deliri religiosi e politici del discepolo di Socrate, anche i più osceni, sono magnificati come dommi benefici e luminosi. Ficino tanto se ne mostrava convinto che ai suoi occhi la restaurazione del platonicismo è una nuova rivelazione preparata dalla Provvidenza, e ai persecutori del Vangelo paragona i persecutori di Platone, su cui non tarderanno a cadere i fulmini dell'ira celeste (284).

Questi dommi professati da Ficino sono tra gli altri il panteismo e il fatalismo, cioè la grossolana empietà dell'anima unica ed universale del mondo, divisa in particelle in tutti gli esseri animati, e la fantastica credenza all'influenza degli astri: Moro rinnova i principi socialistici di Platone, discutendo a mo' degli antichi le fondamentali verità del cristianesimo: Callimaco e la sua accademia praticano apertamente nel seno stesso di Roma il principio platonico del libero pensare: e Pico della Mirandola propone al papa di farne una solenne applicazione a tutte le basi dell'ordine religioso e sociale (285).

Colle migliori intenzioni del mondo, dice il signor Matter, Pico della Mirandola, lo zio, niente meno proponevasi che il pubblico esame di novecento quistioni di religione, di morale e di politica. Per un istante il papa autorizza la disputa, ma presto s'avvede del pericolo che emergeva dal porre in quistione tutte le basi dell'ordine stabilito. Si notarono d'altra parte eresie nelle tesi di Pico, pubblicate nel 1483, l'anno stesso in cui nacque Lutera (286).

Discepoli dei Greci e di Ficino, Reuchlin, Cornelio Agrippa e la numerosa loro famiglia d'Italia, di Francia, d'Inghilterra e di Germania rinnovano la filosofia di Pitagora (287). Reuchlin se n'era vantato con Leon X a cui non temé dedicar la sua opera, dicendo essersi addentra lo in tutti i labirinti della cabala per far brillare nel pieno loro splendore i dommi di Pitagora (288). Al pari di quelli d'Aristotele e di Platone i discepoli di Pitagora insegnarono in un enigmatico linguaggio i più gravi errori su la creazione del mondo, su la natura di Dio e dell'uomo: professarono il panteismo ed altre enormità di cui faremo altrove parola (289).

Appassionato per Talete, Berigard ripone in onore la scuola ionica e, nel suo dialogo di Cariclea e di Aristea, sostiene, al pari del suo maestro, il materialismo e il fatalismo (290). Giusto Lipsio, Scioppio ed alcuni altri rinnovano la scuola stoica coi suoi abominevoli errori (291). Crisostomo Magnen e Gassendi ristaurano su l'origine del mondo la filosofia epicurea. Nella sua parte morale non ne aveva più bisogno: dal Rinascimento in poi nessuna scuola filosofica aveva maggior seguito. Dopo di loro si presentano Francesco Sanchez, Bayle, Spinosa, seguiti da un immenso corteggio che la filosofia rinnovano del scetticismo. Finalmente sì dopo il Rinascimento, come nell'antichità, la teurgia conta numerosi apostoli. Coi loro scritti e coi loro esempi Ficino, Cornelio Agrippa, Bodin, Bingelberg e moltissimi altri fan popolari fra gli umanisti i segreti delle scienze occulte, trovati negli antichi filosofi, e la generazione dei moderni teurgisti fu dopo il ritorno del paganesimo, ed è ancora tuttodì in Europa, infinitamente più numerosa che non si creda (292).

Tale è la moderna filosofia vista nelle diverse sue fasi e nei suoi generali caratteri. Sicché non v'ha cosa più giusta di questa definizione dell'autore dell’Helviennes. «La pretesa moderna filosofia, dice egli, altro non è che una matta squarquoia di più di mille anni, che si impiastra di rossetto per ringiovanire la faccia fatta gialla dai secoli. I suoi apostoli altro non sono che pagani risuscitati» (293).

Or che cos'è in sua natura, se non il Razionalismo in azione, il libero penare ridotto in sistema? Donde è venuta questa filosofia, in tutto sconosciuta nel medio evo? Di chi è figlia? L'albero si riconosce ai suoi frutti: i simili danno simili. Fra la pagana e la moderna filosofia v'ha somiglianza, per non dire identità. Come la prima, la seconda trova, nascendo, un corpo di verità, alimento delle anime e patrimonio delle nazioni: anziché rispettarle le discute e le scrolla: Rompendo il giogo salutare dell'autorità, deifica la ragione e la piglia a guida dei suoi lavori. Come la calamita attrae il ferro un irrefrenabile istinto la trascina verso i Razionalisti dell'antichità: li esalta, li ammira e li adora, li assume ad oracoli, rinnova tutti gli errori, tutte le scuole precipita, com'essi, d'abisso in abisso, non scopre alcuna verità, cade nell'universale scetticismo, s'addormenta nell'epicureismo, e piuttosto che domandar la verità al cristianesimo, vergognosamente la cerca nelle tenebrose pratiche della superstizione e della teurgia.

Come i loro avoli di Grecia e di Roma che furono i patriarchi di tutte le eresie, i liberi pensatori del rinascimento creano il protestantismo, il socinianesimo, tutte le moderne eresie. Perché nulla manchi alla similitudine la maggior parte dei Razionalisti cristiani sono, in castigo della loro rivolta contro la verità, abbandonati come i pagani razionalisti ad ignominiose passioni e ne menano vanto! Citatemi un vizio infame che non abbia trovato o nella loro condotta o nei loro scritti, in verso o in prosa, la propria apologia. Cominciato dall'adorazione dell'orgoglio il moderno Razionalismo, al par dell'antico, finisce coll'adorazione della carne. Eppure questi filosofi hanno scrollato il mondo sin dalle fondamenta: religione, società, proprietà, famiglia, tutto è minacciato d'un cataclisma quale i secoli non videro mai, d'uno stato somigliante a quello cui i loro avoli avevano ridotto il vecchio mondo, alcuni giorni prima dei Barbari.

Se pur la storia può stabilire un fatto, chiaro dunque riesce come la luce del giorno essere il moderno Razionalismo figlio del Razionalismo pagano, o piuttosto essere il Razionalismo medesimo tornato in voga dal Rinascimento. E però come mai uomini gravi possono ora asserire: «La risurrezione della filosofia pagana nello scorso secolo è il fatto culminante del tempo nostro? Si citi una parte pur minima della pagana filosofia che il secolo decimottavo abbia risuscitato. Il fatto è che la filosofia pagana da quattro secoli esiste in Europa. L'ultimo secolo non l'ha fatta rinascere: Voltaire, Rousseau, Bayle ne furono i continuatori e non i ristoratori. Una terza prova darà maggior forza alla nostra dimostrazione.

Terza prova: La Chiesa afferma che il Razionalismo moderno è nato dalla filosofia pagana ristaurata dal Rinascimento. Sessant'anni appena erano scorsi dalla giunta dei Greci in Italia, e i più gravi errori della filosofia pagana, la mortalità dell'anima, l'eternità del mondo, il panteismo, il fatalismo e lo scetticismo si riprodussero pubblicamente nel centro stesso del cattolicismo. Da questi errori fondamentali ne uscirono mille altri, a nulla meno tendenti che a distruggere il cristianesimo da cima a fondo.

Alla vista di questa subita e minacciosa invasione del male, fino a quel punto sconosciuto ai popoli cristiani, papa Giulio II convocò il quinto concilio generale di Laterano. Raccolto nel 1512, continua nel 1513 sotto Leone X, e dal seno della augusta assemblea emana la famosa costituzione Regiminis apostolici. Nel nostro studio genealogico del libero pensare, non v'ha più importante documento:

Il concilio comincia dichiarando che gli errori che sta per condannare non sono antichi errori, ma errori attualmente insegnati; che questi errori sono più gravi di quelli d'un tempo e consistono nel sostenere che l'anima non è immortale, esservi un'anima unica ed universale per tutti gli uomini; esservi due verità, la filosofica e la teologica, sicché la stessa cosa può esser vera in filosofia e falsa in teologia» (294). Questo ultimo errore non essere altra cosa che il Razionalismo, il quale mettendo la ragione a livello della fede consacra la incredulità e conduce al pirronismo.

Quali sono le fonti di questi abominevoli e pestilenziali errori? Abominabiles et perniciosissimos. Il concilio due ne accenna: «La filosofia e la poesia, le cui radici sono avvelenate. Infectas philosophiae et poesis radices». Di che filosofia e di che poesia la Chiesa ha voluto parlare? V'ha due sorta di filosofia e di poesia: la filosofia e la poesia cristiana, la filosofia e la poesia pagana: sicché v'han due letterature, due arti, due politiche, due uomini nell'uomo e due città nel mondo. La filosofia cristiana è

Quella che ha suoi principi, sue fonti, sue radici negli insegnamenti divini. Anziché cercar la verità alla luce della sola ragione, questa filosofia si fa gloria d'esser la serva della teologia. Suo scopo è dilucidare le divine verità, che mai non pone in problema. In vece ripudia come falsa una conclusione qualunque che non s'accordi con le dottrine della Chiesa; È la filosofia dei Padri, la filosofia dell'evo medio, di Sant'Anselmo, di San, Tomaso, come di S. Giustino e di Sant'Agostino. E questa la filosofia indicata dal concilio come uno dei mostruosi, errori, di cui geme, e infetta nelle sue radici?

V'ha pure una poesia cristiana. E la poesia che prende le sue ispirazioni, le sue fonti, le sue radici, nel vero, nel bello, nel veramente buono. Questa poesia, figlia della fede, si fa gloria di essere l'eco armonioso del mondo soprannaturale. Tende a sollevar l'uomo al disopra della triplice concupiscenza e nei suoi canti religiosamente rispetta le leggi della verità e quelle del pudore. È la poesia dei profeti , la poesia di Prudenzio, di Sedulio, di San Tomaso, di Sant'Avito, d'Adamo di San Vittore e degli illustri loro successori. E’ la poesia che il concilio indica come una delle cause dei mostruosi errori, di cui geme, e infetta nelle sue radici?

Se non alla filosofia cristiana né alla cristiana poesia impreca il concilio imprecherà dunque ad una filosofia e ad una poesia ben diverse e che allora si coltivavano con esagerato ardore. Quali sono? Una filosofia, dice il concilio stesso, di cui Dio ha dimostro la follia, una filosofia che non progredendo al lume della rivelazione è una fonte d'errori assai più che di verità, una filosofia e una poesia avvelenate nelle loro radici. Qualificazioni che a meraviglia si addicono; ed esclusivamente, alla filosofia ed alla poesia pagane riposte in onore dal Rinascimento: filosofia e poesia fattesi radici e modelli della filosofia e della poesia di quest'epoca: filosofia e poesia insegnate e studiate dappertutto con un entusiasmo per egual modo pericoloso e ridicolo (295).

La storia ecclesiastica non consente dubbio alcuno su questo punto. «La condanna del concilio, essa dice, colpisce quei filosofi infetti della dottrina degli antichi pagani, che cominciavano allora a diffondere le vergognose e desolanti dottrine della mortalità dell'anima, del panteismo ed altre infinite che tendono alla rovina del cristianesimo» (296). Ma quand'anco la storia tacesse, quale uomo è sì poco addentro in filosofia da ignorare come siffatti errori, pullulassero dall'antichità e si trovassero chiaramente insegnati in verso ed in prosa dai più ammirati autori pagani, e tra gli altri: Aristotele, Platone, Zenone, Plinio, Seneca, Catone, Orazio, Virgilio, Lucano, siccome nel volterianismo abbiamo dimostrato? Ricordiamo qui soltanto le parole di Seneca e di Lucano: «Se, dice il primo, vuoi chiamar Dio il mondo, mal non ti apponi. Dio infatti è tutto quello che vedi: diffuso in tutte le sue parti e per propria forza reggentesi. Perché ricuserai d'ammettere esservi nel tutto un qualche cosa di divino, se sei tu stesso una porzione di Dio? Tutto che ne circonda è uno e Dio, e noi siamo suoi soci e suoi membri» (297).

Il secondo, facendo parlare Catone: «Dio ha forse egli altro soggiorno che la terra e il mare, il cielo e la virtù? A che pro cercar altrove gli Dei? Giove, trovi in quanto vedi e dovunque ti porti» (298).

Ognuno sa che il dogma dell'anima del mondo formava precipua parte del sistema degli stoici.

Il Concilio dichiara pertanto e a buon dritto questa filosofia e questa poesia avvelenate nelle loro radici. E le radici infatti della filosofia e della poesia pagane, le loro tendenze, la loro divisa, sono lo sprezzo dell'autorità, l'emancipazione della ragione, la glorificazione della triplice concupiscenza: in altri termini quanto v'ha di più attossicato e di più attossicante, il Razionalismo e il Sensualismo. Gli è ben a notarsi come la Bolla ravvolga nella stessa riprovazione la filosofia e la poesia pagane, infectas philosophiae et poesis radices. Non si può qui che ammirare la profonda sapienza della Chiesa. La filosofia pagana, come dicemmo, emancipa la ragione; la poesia pagana emancipa la carne. La riunione di questi due elementi forma la compiuta apoteosi dell'uomo e la negazione assoluta del cristianesimo.

La costituzione che ne occupa non è soltanto decisiva a stabilire l'origine del moderno Razionalismo, ma conferma ancora con sovrana autorità quanto abbiamo dello dell'incredibile fanatismo dal quale fu presa l'Europa per la pagana antichità. Tale era al principiar del secolo XVI il delirio del clero stesso per gli studi profani, che il concilio è obbligato dall'un dei lati a proibire agli ecclesiastici secolari o regolari, insigniti degli ordini sacri, di dedicarsi pubblicamente per più di cinque anni, dopo aver imparato grammatica e dialettica (299), allo studio esclusivo della filosofia e della poesia pagane; dall'altro a comandare a questi stessi ecclesiastici, i quali scorsi cinque anni, volessero passar la vita nel commercio dei filosofi e dei poeti pagani, ad intendere pure alla teologia ed al diritto canonico per rinvenir in quegli studi salutari di che purgare e disinfettare le avvelenate radici della filosofia e della poesia (300).

Sessant'anni dopo il Rinascimento v'erano dunque in tutta Europa diaconi, preti e religiosi in gran numero che invece di intendere con qualche studio aliquo studio alla Santa Scrittura, ai Padri della Chiesa, alle sacre scienze si pascevano esclusivamente in tutta la loro vita del cibo dei demoni: secularis sapientia, rhetoricorum pompa verborum, carmina poetarum, cibus demoniorum, giusta l'espressione di San Girolamo. Se tale era l'ebbrezza del clero per questi studi avvelenati, qual doveva essere quella dei laici? Si può formarsene un concetto, prima dal silenzio medesimo del concilio, che non osa estendere la proibizione sino a loro, poi dalla norma di condotta ch'esso prescrive. Non sembra dovesse essere la proibizione d'insegnare ormai alla gioventù nelle pubbliche scuole una filosofia ed una poesia fonti degli abominevoli errori che desolavano la Chiesa? Ma, elice il padre Possevin, il mondo allora era ebbro d'Aristotele e di Platone, ebbro d’Orazio, e di Virgilio, e la proibizione della Chiesa ad altre non sarebbe riuscita che a moltiplicare i prevaricatori» (301).

La Bolla si contenta di comandare ai professori confutino, allorché se ne presenti opportunità, tutte le dottrine degli antichi filosofi favorevoli agli errori condannati dal concilio; di più limita, come vedemmo, agli ecclesiastici soltanto lo studio della filosofia e della poesia profane. Finalmente il concilio comanda che le sue prescrizioni siano ogni anno pubblicate, al loro principiare, in tutte le scuole (302).

Come tristi, ma come istruttive sono le rivelazioni contenute in questa costituzione firmata da Leone X. Ne insegnano qual fosse agli occhi del concilio l'origine del male, la cui inaudita violenza scalzava la religione fin dalle fondamenta; manifestano il profondo sentimento che aveva la Chiesa del pericolo che la minacciava: mostrano la gigantesca potenza del Rinascimento a quel tempo, potenza tale che la Chiesa non osa incerto modo combatterla di fronte nelle sue principali manifestazioni.

Almeno nel poco che comanda ne sarà udita la voce? Risponde a ciò la storia dei tre ultimi secoli. La sua risposta conosciuta è che, non scemata, ma più energica si fece la febbre della pagana antichità, che la poesia pagana continua ad aver migliaia di adoratori e di imitatori, che la filosofia pagana risuscitò con tutti i suoi errori e tutte le sue sette: che il Razionalismo e il sensualismo usciti da queste avvelenate fonti hanno invasa l'Europa: che la Chiesa non ebbe mai a gemere su un eguale libertinaggio di idee e di costumi. «La Chiesa ben innalzò la sua voce, dice Brucker, ma tanta era già l'estensione e la profondità del male, che non fu rallentato in suo cammino, né a maggior ragione. toccato nelle sue radici» (303).

Corsi trionfalmente tutti i gradi dell'errore, il Razionalismo, figlio del Rinascimento giunge ora al suo apogeo.



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CAPITOLO XIX.

Ultima parola del moderno Razionalismo



Nel passato, tre effetti del Razionalismo: il Protestantismo, il filosofismo del diciottesimo secolo, la Rivoluzione francese. - Minacce per l'avvenire. ­ Distruzione della religione. - Testimonianze. - Associazione formata a questo fine. - Distruzione della società. - Testimonianze. - Associazione formata a questo fine. – Conclusione.


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Non fu mai, come al tempo del Rinascimento, tanto necessario ascoltar con reverenza la voce della Chiesa. Riavutasi appena l'Europa dalle violenti scosse prodotte dal gran scisma d'Occidente, il rogo di Girolamo di Praga non aveva già consumato tutti i germi di rivolta che fermentavano, nelle anime; i costumi pubblici molto avevano deteriorato: La società non poteva rinnovarli che ritemprandosi nel cristianesimo, cioè alle fonti stesse della sua vita religiosa, politica, scientifica, artistica e letteraria, e sventuratamente si domandò al paganesimo classico di Grecia e di Roma una tale rinnovazione. Divenuto l’oracolo universale insegnò quel che sa, comunicò quel che è: Lusso e miseria, orgoglio e voluttà. Lusso di forme, parole e sistemi, difetto di verità e di virtù, orgoglio della ragione e voluttà dei sensi. Alla sua scuola i filosofi emancipano la ragione, i politici emancipano lo stato, i letterati ed artisti emancipano la carne.

La triplice emancipazione apre la via al protestantismo, di cui spiega gli strani successi. «Le dottrine della riforma, dice il signor Matter, uscirono dalle scuole del Rinascimento» (304). Quando Lutero comparve già il libero pensiero era cresciuto: lo fermò al limitare delle Scritture, e tenne il libro per divino, il che non fecero i liberi pensatori che il precedettero e lo seguirono. Checché se ne dica, il cattivo genio che si libra sui tempi moderni non è lo spirito di Lutero, ma lo spirito indipendente della greca filosofia, sotto l'inspirazione del quale i Rinascenti, anteriori a Lutero, inaugurarono la libertà del pensiero e la libertà dell'azione.

E però al principiare del secolo XVI il paganesimo manda a vuoto la l'innovazione cristiana dell'Europa, e prepara l'immensa Rivoluzione che chiamasi protestantismo, con tutte le sue disastrose conseguenze sì nell'ordine sociale, come nel religioso.

Più tardi, ad onta della generale riforma prescritta, dal concilio di Trento, ad onta delle religiose tendenze d'una parte della società al secolo XVII conduce il mondo morale alla più grande catastrofe conosciuta nella storia, il filosofismo del secolo XVIII. «Ah! sclama uno scrittore non sospetto, se la letteratura del secolo di Luigi XIV avesse invocato il cristianesimo invece di adorare gli dei pagani; se i suoi poeti fossero stati quel che erano nei tempi primitivi, sacerdoti che cantavano i fasti della loro religione e della loro patria, il trionfo delle dottrine sofistiche dell'ultimo secolo sarebbe stato assai più malagevole, e forse anche impossibile. La Francia non ebbe tale fortuna: i suoi poeti nazionali erano pressoché tutti poeti, pagani, e la francese letteratura era più l’espressione d'una società idolatra e democratica che d'una società monarchica o cristiana. E però i filosofi giunsero in meno d'un secolo a cacciar dai cuori una religione che più non dominava nelle menti» (305).

Alla fine del secolo XVIII, quando il despotismo di Luigi XIV e le orge della reggenza, rendevano necessaria una sociale rivoluzione, il paganesimo precipita l'Europa nel cataclisma che chiamasi Rivoluzione francese. «Se abbiamo, diceva il regicida Chazéll, sollevate le fronti prone sotto il giogo della monarchia, gli è perché la fortunata incuria dei nostri re, ne consentì educarci alle scuole di Sparta, d'Atene e di Roma. Fanciulli frequentammo Licurgo, Solone, i due Bruti, e li ammirammo; uomini non potevamo che imitarli» (306).

Tant'è vero che in ragione delle secrete propensioni dell'uomo decaduto, la filosofia, la letteratura, l'incivilimento, la politica pagana, in una parola l'elemento pagano sotto una o sotto altra forma, proposto allo studio ed all'ammirazione della gioventù, sarà mai sempre un immenso pericolo pei popoli cristiani. È la favilla accosto alla paglia, il frutto proibito sotto gli occhi d'Eva, l'idolo in mezzo ad Israele: il lampo che si scontra col lampo.

Ora l'Europa, la quale sembra aver occhi per non vedere ed orecchi per non udire, insensibile si rimane a sì terribili lezioni. Se non nella forma, nello spirito almeno, il paganesimo classico continua ad essere l'ospite prediletto del focolare. Col suo lusso babilonico, colle ree sue usanze, e coi suoi balli ancora più rei della sue usanze, è in tutte le pubbliche feste, recita la tragedia nei piccoli seminari e la commedia nei conventi, è redattore in capo dei grandi giornali, predica il naturalismo in religione e l'odio della Chiesa; altrove, appendicista o romanziera, eccita tutti gli appetiti del sensualismo; nei collegi insegna il greco e il latino, l'eloquenza e la poesia: negli studi forma il pittore e lo scultore: sotto il nome di semirazionalismo, stilla troppo spesso il suo veleno nelle più ortodosse scuole di filosofia (307) e sotto nome di Razionalismo domina sovrano l'insegnamento della storia, della geologia, dell'astronomia, dell'economia sociale e della filosofia. Gran mercé a questa fortunata incuria, prende ogni giorno nuove forze, aumenta le sue reclute, disciplina i suoi soldati, concerta i suoi piani, prepara le sue armi, scava le sue mine, sino al giorno, meno lontano forse di quanto parrebbe credersi, in cui sulle rovine dell'Europa, scriverà a lettere di sangue la sua ultima parola.

Qual è l'ultima parola del Paganesimo e del Razionalismo suo primogenito? A conoscerlo si vogliono interrogare non già i suoi volgari adepti, ma i suoi capi più accreditati e più logici. Tavola rasa di quanto esiste, distruzione completa della religione e della società, tale è a detta dei suoi pontefici l'ultima parola del moderno Razionalismo.

Razionalismo e socialismo sono fratelli. Il primo proclama l'assoluta indipendenza della ragione nell'ordine delle idee; il secondo, l'indipendenza assoluta della volontà nell'ordine dei fatti: il primo, dice: Non Dio, non leggi religiose: il secondo, non re, non leggi sociali: l'uno e l'altro libertà assoluta, eguaglianza assoluta: odio a tutte le supremazie d'ingegno, di nascita e di fortuna, morte a tutte le tirannidi divine ed umane. L'esecuzione del doppio piano è il fatto supremo, al quale in loro sentenza va unita la rigenerazione del mondo, e ad incarnarlo eccitano il mondo intero.

Alle classi letterate i Razionalisti filosofi vanno ogni giorno sclamando su tutti i tuoni. Non più Cristianesimo. «Invano, dicono essi, col diciottesimo secolo, ci lusinghiamo avere schiacciato l'infame, l'infame rinasce più vigoroso, più intollerante, più rapace e più affamato che mai. La religione cattolica è un'avida teocrazia senza spirito di famiglia e senza focolare, ligia a un capo straniero e che fa curvar sotto il giogo popoli e governo ... Contro un tale dominio vuolsi combattere ... A toccar questo scopo, vuolsi innalzare altare contro altare ... La massoneria combatte il Cristianesimo ad ultimo sangue ... bisognerà bene che il paese finisca col farne giustizia, dovesse adoperar la forza per guarire da questa lebbra (308)».

Ad arruolar tutte la passioni sotto la loro bandiera, rappresentano il Cristianesimo come nemico del progresso, della libertà, dei piaceri. «Sì, il Cattolicismo è il partito del passato: sì il cattolicismo si oppone allo sviluppo d'ogni idea, d'ogni dottrina, d'ogni istituzione, contrassegnata col marchio del progresso: tutti i liberali lo sanno. V'ha per gli uomini del progresso, per quanto dissenzienti fra loro, un comune nemico, il cattolicismo. Bisogna vincerlo questo nemico, bisogna congiurare ad annientarlo. Uomini del progresso, comprendetelo bene: sulle rovine del cattolicismo innalzar dovete l'avvenire dell'umanità. Dall'unione l'unione! Combinate i vostri sforzi per schiacciare l'eterno nemico d'ogni lume: il cattolicismo (309)».

Altrove: «finché non avrete estirpata l'intima servitù, quella che il cattolicismo ha radicato in più di mille anni nelle moderne nazioni, la servitù morale: finché lo spirito non avrà cantato la sua marsigliese, a nulla gioverà emancipare gli uomini ... Una Chiesa che altro titolo non ha all'universalità che l'universale invilimento dei popoli da lei insegnato, continua la lotta della fede contro la ragione, della tirannia morale contro il libero esame (310)».

E' più oltre: Sì, quanto v'ha di più spaventevole al mondo è il veder popoli e Stati tranquillamente sedersi all'ombra d'una religione morta. Che silenzio! Gran Dio! Che tenebre! ... La discussione è chiusa col Cattolicismo, perché meno l'ingiuria, non sa opporre contraddizione. I suoi dommi invecchiati altro più non sono che il cadavere d'una religione, e se la società con uno sforzo qualunque non sì scioglie, diventa cadavere anch'essa» (311).

«E però noi gridiamo ai Cristiani imbrutiti che erigono chiese alla Dea immacolata: Dio, quale i nostri tempi possono comprenderlo, non è il vostro Dio: alla vostra mistica filosofia, che non vede nell'uomo se non un'anima da salvare e che soggioga il corpo come uno schiavo, opponiamo la filosofia della ragione, che riconosce tutti i diritti della natura e le sublimi intuizioni del cuore ... Vuolsi dirlo? non una sola idea del cristianesimo ci stiamo dal combattere da veri negatori, da negatori ostinati, e ce ne vantiamo » (312)

«Bisogna che il cristianesimo cada. Vogliamo noi da ciechi permettere che le cose vadano per la loro china? Il diciannovesimo secolo sarà il solo che trarre non voglia alcun frutto dalle proteste che partono da tutti i punti della terra contro la stessa tirannia? il dispotismo religioso non può essere estirpato senza uscire dalla legalità. Cieco invoca contro di sé la cieca forza; nessuna tregua coll'ingiusto, non ne accetto alcuna (313)».

È bene il notarlo: siffatte infernali vociferazioni il mondo non le ha udite che due volte: la prima sotto i Cesari allorché il Paganesimo, pavido di perder l'impero, armava i suoi carnefici, accendeva i suoi roghi, e gridava da ogni parte: i cristiani al leone! Christianos ad leonem! La seconda volta nel secolo del Rinascimento, quando il Paganesimo richiamato dalla tomba, riprendeva il suo scettro infranto dal cattolicismo.

Più destro della francese rivoluzione alla quale rimprovera di aver combattuti tutti i culti, anziché concentrare le sue forze contro il cattolicismo, il che gli avrebbe permesso di farla finita, il Razionalismo attuale esclama: Non torniamo allo stesso fallo! e fatto richiamo a tutto l'esercito del male, vuole riunisca le sue colonne e si metta in moto contro il comune nemico. «Ecco il perché, dice egli, mi volgo a tutte le credenze, a tutte le religioni che hanno combattuto Roma. Son tutte nelle nostre file. Trattasi qui della causa del secolo XVI, come del XIX e della riforma come della Rivoluzione. Non solo Rousseau, Voltaire, Kant, stanno con noi contro l'eterna oppressione; ma Lutero altresì, Zwinglio, Calvino, e tutta la legione degl'intelletti che combattono col loro tempo, coi loro popoli contro lo stesso nemico che in questo istante ne chiude la via» (314)

Quali espedienti per estirpare il cattolicismo e svincolare l'umanità da una religione cadavere, il cui contatto minaccia di renderlo cadavere? Ve n'ha due, la forza e la diffalta. «Colui, aggiunge, che si propone sradicare una superstizione caduca, se gode autorità debba prima di tutto render l'esercizio di questa superstizione assolutamente e materialmente impossibile» (315). Ma finché la forza sia in mano del Razionalismo, che fare? Abbandonar in massa il cattolicismo. Uscite dalla vecchia Chiesa, voi, le vostre donne, i vostri figli; uscite da ogni porta schiusa, uscite (316)».

Come i popoli usciranno dal Cattolicismo? Coll'abbandono di tutti i doveri ch'esso impone «Vuolsi per ben cominciare che uomini illuminati, fermamente convinti dei mali spaventevoli cagionati dalla cattolica religione e dei continui pericoli di cui minaccia l'umanità, prendano l'impegno di limitarsi essi e la loro famiglia all'osservanza della legge civile, in ciò che riguarda la nascita, il matrimonio, il decesso, conseguentemente a respingere tutti i sacramenti religiosi» (317).

Usciti dal Cattolicismo quale religione darete ai popoli, perché l'uomo come di pane così non può far senza di religione? Gli daremo la religione del Razionalismo. L'ideale debba essere il razionalismo puro» (318).

Ed è chiaro. Ma tra il cattolicismo e il Razionalismo puro, la distanza è lunga: i popoli possono superarla in un batter d'occhio. «Questo, dicono, sarebbe in tutta logica, sarebbe oltre ogni dire desiderabile; ma sventuratamente la cosa non è possibile. Intanto bisogna dar loro una religione transitoria. Ora fra le più moderne forme del cristianesimo, una ve n'ha che sembra a bella posta preparata per fare il pemte su cui gli uomini passar possono senza patir vertigine e provar desiderio di voltarsi indietro: l'Unitarismo. L'Unitarismo altra cosa non è che la professione di fede del Vicario Savoiardo, che fu si a lungo l'anima della Francese Rivoluzione. Quella setta tocca quasi al Razionalismo, stantechè, rifiuta il papato, la confessione, il celibato dei preti, i sacramenti religiosi alla nascita al matrimonio, al decesso, gli ordini monastici: può dunque servire di religione transitoria senza nulla presentare che ripugni alla ragione. Di fatti che rimane? La Bibbia opera umana, l'Evangelo opera umana, Gesù di Nazareth, un savio, un filosofo, come Socrate, Marco Aurelio, Platone (319)».

Tali predicazioni degne dello stesso Satana trovarono un eco, e fanno capo ad una associazione di cui ecco il programma. «Un certo numero di cittadini volendo mettere in pratica i principi i professati dalla maggior parte dei liberi pensatori, ma lasciati finora allo stato di teoria, fermarono l'ordinamento d'un'associazione che comincia dalla sepoltura eseguita senza alcuna cattolica cerimonia. Dopo parecchie tornate in cui le basi dell'associazione furono discusse e fermate, venne composto un comitato provvisorio. e l'associazione definitivamente costituita la sera del 20 luglio (320).

»L'associazione prende la sepoltura civile come punto di partenza per giungere alla successiva soppressione di tutte le pratiche cattoliche. Come mezzo stabilisce la fondazione d'una cassa per quote e soscrizioni volontarie e si volge a tutti i liberi pensatori.

»La quota mensile è fissata ad un franco.

»Il comitato centrale siede a Brusselles. Si porrà immediatamente in correlazione coi comitati delle provincie, in modo da imprimere alla associazione il carattere di unità e di solidarietà che debba assicurarne l'andamento e il buon successo (321).

In seno all'Europa cristiana, dopo diciotto secoli di Cristianesimo, una associazione pubblicamente sistemata, non di Tartari o Chinesi, ma di cristiani per la distruzione del cristianesimo; e ciò con non maggiore riguardo che se si trattasse d'aprire una miniera o una strada ferrata: tale è dunque l'ultima parola degli attuali Razionalisti, di quei filosofi che menano vanto d'essere figli del Rinascimento prima d'essere figli della Rivoluzione.

Che questa associazione satanica si risolva nella ridicola manifestazione d'un odio impossente vogliamo di buon grado ammetterlo, ma il fatto sta che esiste e rivela le supreme tendenze del Razionalismo: il fatto sta che l'idea di siffatta associazione non nacque nel medio evo: il fatto sta che se un qualche cosa di simile fosse venuto a spaventare i nostri maggiori sarebbero corsi agli altari, per ottener misericordia dal cielo all'armi per esterminare gli autori di cotanta enormità; il fatto sta che ora quest'associazione si manifesta alla libera luce del sole, che l'Europa ne è informata dalle cento voci della stampa; che apertamente o di soppiatto parecchi vi applaudiscono, molti ridono ed i più se ne stanno indifferenti; che nessun governo s'inalbera, e nessuna porta si chiude in faccia a questi apostati letterati che giurarono di ricondurre la società alla pagana barbarie.

Altro fatto non meno istruttivo si è che il Belgio popolato di Razionalisti di questa tempra e dominato da franchi muratori non meno impudenti, gode da quarant'anni e più della libertà d'insegnamento e fu per la maggior parte educato da ordini religiosi. A vista d'un cotal fatto desolante che si rinnova in Svizzera ed in Italia, come si produsse in Francia sullo scorcio del secolo passato, come sottrarsi a questo importuno dilemma? O l'educazione secondaria data anche dal clero è incensurabile o non lo è. Se è incensurabile a che serve, se non lo è, perché ostinarsi a dispetto dell'esperienza a mantener un sistema di insegnamento che se direttamente non favorisce la Rivoluzione, non ha potuto in alcun paese, ad onta delle più favorevoli condizioni, impedirle di spingersi all'ultima formola e di crescere al punto da tenere ora in tutta Europa, in assai arduo frangente l'ordine religioso e il sociale?

Diciamo l'ordine sociale. In fatti, mentre i loro fratelli primogeniti, i Razionalisti filosofi minacciano il cristianesimo d'una completa distruzione, i Razionalisti socialisti dicono apertamente che cosa contano di fare dell'ordine sociale il giorno in cui il potere cadrà fra le loro mani.

Non più re, non più possidenti. Tale è la parola d'ordine delle loro segrete società; la solita canzone dei loro giornali, lo scopo manifesto di tutto quell'esercito di barbari che chiamasi LA SOCIALE (322). Per essa il regicidio è il primo, il più santo dei doveri, non solo assolve gli assassini, ma li eccita e li glorifica. «È ormai tempo, diceva essa non ha molto, che uomini come Bruto, in nome dello stesso principio compiano la stessa missione inesorabile, fatale. Già Pianori e Agesilao Milano. han cominciato la catena di quegli eroi che sviluppando la Rivoluzione dalle pastoie del dottrinismo, la spingono sull'unica via che sia logica e che possa condurla a salute. Son caduti, ma la loro gloriosa impresa verrà annoverata tra le più belle azioni della storia contemporanea» (323).

Di fatto, giusta le tradizioni del rinascimento e dell'antichità pagana, i poeti cantarono l'assassinio del re di Napoli e la giustizia del paese nulla trovò a ridire nei loro versi. Né là si ridusse la glorificazione del regicidio. Una medaglia fu coniata in onor di Milano e di Bentivegna vittime della borbonica tirannia. Da un canto della medaglia raffigurasi Milano morto; da lontano scorgesi il Vesuvio che minaccia dei suoi fuochi il tiranno. Intorno leggesi: «A. MILANO, solo di pieno giorno, a volto scoperto, si levò contro il nemico circondato e possente. REDENTOR CIVILE.

Sull'altra faccia è Bentivegna sul punto d'essere archibugiato, col ginocchio destro in terra, con la mano dritta impugna la fascia che deve cingergli gli occhi, con la sinistra scopre il petto. Al disotto leggesi: FR. BENTIVEGNA, impaziente, con pochi uomini, dichiara guerra al perverso potere, preludendo, a costo del proprio sangue, alla italiana libertà (324)».

I dibattimenti delle nostre corti d'assise manifestarono che i nomi dei due regicidi Milano e Pianori sono le parole d'ordinamento delle due segrete società la Militante e i Franchi Giudici (325).

In tutto quell'esercito tenebroso le cui colonne si estendono per l'Europa come una rete, il regicidio è primo dover del soldato, primo patto della sua milizia. I franchi muratori non son tenuti in concetto dei più immoderati fra i liberi pensatori socialisti, e nondimeno ecco il giuramento del cavalier d'Asia. Bendatigli gli occhi, legatogli le mani, postagli la corda al collo, coperto solo d'una reste tinta di sangue, con la destra su un cadavere e la sinistra sugli statuti dell'ordine, pronuncia il seguente giuramento: «Giuro per quanto v'ha di più sacro di adoperarmi alla distruzione dei traditori e dei persecutori della franco massoneria, di schiacciarli con tutti i modi che mi saranno possibili: giuro riconoscere come flagelli dei miseri e del mondo i re e i fanatici religiosi, e di averli sempre in aborrimento: giuro di bandir ovunque io mi trovi i diritti dell'uomo, e di non seguir mai altra religione fuor quella che la natura ha scolpita nei nostri cuori. Giuro illimitata obbedienza al capo di questo consiglio o a chi lo rappresenterà. Che tutte le spade volte contro di me si piantino nel mio cuore se avrò mai la sventura di allontanarmi da questi obblighi miei assunti di piena e libera volontà. E così sia.

«Pronunciatosi dal nuovo cavaliere un tal giuramento, lo scrive col sangue tratto dalle proprie vene sul gran libro dell'architettura e del carteggio segreto: poi gli vien domandato: A che tempi siamo? - alla rigenerazione del mondo. Allora il gran mastro dice: fratelli miei, ritiriamoci: andiamo ad illuminare gli uomini e a schiacciare i serpenti che propugnano l'umana ignoranza. Poi sclamano: salviamo il genere umano» (326).

All'odio dei re e della società accoppiasi nei razionalisti l'odio mortale della religione e dei preti. Ecco ciò che uno di loro osava scrivere quest'anno stesso: «La Francia, come Danton, s'è un giorno venduta cedendo ai sordidi allettamenti dei materiali appetiti: come donna a lungo tenutasi onesta, s'è un giorno indegnamente prostituita. Ma la Francia saprà gloriosamente redimere il suo passato. E quale un'ammalata che ha finalmente la coscienza del proprio male, domanderà ai topici più violenti l'estirpazione radicale del virus cattolico, morbo cronico che ne mina, no rode, ne snerva, ne imbestialisce, ne instupidisce, che valendosi della consuetudine nei nostri primi anni acquistata di credere e ciecamente sottometterci, senza esame, all'autorità dei più stupidi o dei più atroci dommi, ne predispone a sottoporci ad ogni politica autorità, per infame che sia, per quanto nella propria origine mostruosa (327).

Ne manca ancora un piacere, dice un altro, ed è quello di appiccare di nostra mano l'ultimo prete al collo dell'ultimo ricco. Talvolta faccio beati sogni. Parmi veder Roma inabissarsi all'ultimo bagliore dei troni che crollano. Roma è la Babilonia dei tempi moderni: contro essa la sanguinosa Gerusalemme del proletariato s'avanza come angelo riparatore. Possa ella, me vivo, schiacciare quanti s'avvisano poter dominare l'umanità per genio, per nascita, per fortuna, per autorità. Livelliamo, livelliamo, e un giorno la società vecchia, bastarda, decrepita vergognerà di esser dannata a morire da coloro i nomi dei quali dispregiò. Che bel giorno!» (328)

Per imporre ai semplici non temono fare un sacrilego abuso dell'adorabile nome del Figlio di Dio. «Contiamo fra i nostri fratelli, scrive Medeff ai suoi adepti, cuori che non veggono dove moviamo. Son religiosi per un sentimento attinto sulle ginocchia dell'avola. Non dobbiamo batter di fronte un sentimento che si riduce ad un fanatismo d'infanzia. Vuolsi assorbirlo in un altro: possiamo fare del Cristo una divinità. Ma egli fu proletario, si dirà, facciamone il paziente dei farisei, gli aristocratici del suo tempo. Parliamo di Cristo con un certo rispetto. Così guadagneremo a poco a poco i nostri fratelli indurati nella divozione».

Altrove, tornando all'odio infernale che gli inspira, dicono: «Il sommo d'ogni umana degradazione, la degradazione dell'uomo stesso, è la sedicente religione chiamata fra noi cristianesimo» (329).

Né già solo il Razionalismo socialista minaccia re, sacerdoti e ricchi, ma a nullo e a nulla cosa perdona.

Ad aggiungere lo scopo chiama in aiuto due potenti ausiliari, l'orgoglio e la voluttà, or dell'una facendo suo pro, ora dell'altra. «Sapete, scrive, Magari, i nostri sforzi per guadagnar gli operai. I mezzi più semplici riescono meglio. Bisogna eccitar la loro sete di godimenti e dipinger ad essi con colori più adatti alla loro ignoranza, la miseria che li rode. I nostri primi istitutori riescono d'altissimo giovamento per questa propaganda; ma il clero li combatte e li smaschera. Dunque guerra a morte al clero, che vuol uccidere la nostra chioccia dalle uova d'oro» (330).

A compir la teoria Peters soggiunge che il socialista in abito di panno non dee esitare a portarsi nelle taverne, a blandir il popolo, «cui l'esser blandito va al cuore come alla testa d'una civettuola. Quando si hanno venti o trenta proletari sotto mano, vuolsi adottare il principio di Schuller, dir loro cose che non comprendono e che si possono loro spiegare ad libitum ... Tenetevi sicuri che allora li condurrete pel naso come fanciulli» (331).

«Non dire già, scrive Stepp a Weitling. che il furto e la comunanza delle donne siano cose lecite. Lederesti un sentimento che i ricchi e gli sciocchi chiamano pudore. Noi lo sappiamo: È inutile proclamarlo. Ma fa d’uopo predicare il bisogno della vendetta contro l'ordine sociale che ha tenuto sì a lungo le nostre teste schiacciate fra le sue spire di vipera. A montar la lira al conveniente tuono, si vorrebbero flutti di sangue. Un giorno ne faremo scorrere più che non vi siano gocce d'acqua in questo lago, (il lago di Ginevra). Perché farsi del furto una risorsa legale quando annunciamo che non vi sarà più né tuomio? Perché parlare della comunanza delle donne quando la promiscuità è un dovere? Lascia dunque ai poveri di spirito questi comunali spedienti. I nostri affari progrediscono orribilmente qui ed altrove. Te lo dico con gioia: il vecchio mondo è quanto mai caduto in basso, screpola e siamo noi che nasciamo alla nuova vita di Gerusalemme» (332).

Infine come i Razionalisti filosofi hanno formato una associazione per l'estirpazione del cristianesimo, i Razionalisti socialistici ne hanno formato una per l'estirpazione della società, della proprietà, della famiglia. Eccone alcuni statuti con l'esposizione dei motivi redatti da Struve. capo della rivoluzione badese: sono a livello delle sanguinose stravaganze di Heinzen.

«Vi sono, disse Struve, sei flagelli dell'umanità: i re, i nobili, gli impiegati, gli aristocratici di danaro, i sacerdoti, gli eserciti permanenti. Questi flagelli costano quattordici miliardi. Sbarazzandosi da questi sei flagelli, i popoli conserveranno in saccoccia quattordici miliardi. Vuolsi per ciò che l'esterminio si estenda dal Tago all'oceano, dall'oceano al mar Nero, e un’esterminio compiuto tanto da distruggere non solo questi sei flagelli, ma ben anco gli elementi di cui si compongono ». Seguono gli statuti dell'associazione democratica; eccone i due primi articoli:

«ARTICOLO I. Tutti i membri delle famiglie dei principi sovrani sono in perpetuo sbanditi dall'Europa. Qualora vi rientrino gli adulti del sesso mascolino saranno messi a morte, le donne e i minorenni chiusi in perpetuo carcere.

«ARTICOLO II. Il terreno dell'Europa è perfettamente libero e sarà soggetto a un nuovo scompartimento per modo che i beni dello Stato, dei comuni, della Chiesa e delle corporazioni religiose, non che tutti i beni appartenenti ai principi, e tutto quanto un cittadino possedesse al di là dei due cento acri di terra saranno distribuiti ai cittadini che nulla possiedono (333).

Distruzione completa dell'ordine religioso e del sociale, tale nella bocca dei suoi capi e dei suoi organi più immoderati è l'ultima parola del Razionalismo filosofico e del socialistico. Se non è sul libro di tutti gli adepti, chi può farsi garante che non covi in fondo al loro cuore? Per mostruose che siano queste conseguenze del Razionalismo, sono logiche. Perciò appunto che si risolve nell'apoteosi dell'uomo in pari tempo il Razionalismo risolvesi nell'odio mortale di ogni ordine religioso e di ogni ordine sociale, che l'uomo non ha fatto e di cui è malcontento.

Ma questi anticristiani ed antisociali ragionamenti sono sogni di cervelli infermi. Gli è pericoloso addormentarsi su un siffatto ragionamento e l'esperienza lo prova. Bisogna temere dei sogni che si indirizzano a tutti i corrotti istinti dell'umanità, ed hanno per indefettibili ausiliari tutte le avide e brutali passioni che fermentano in cuore alle masse popolari. Checché ne sia, ammettendo pure che l'uomo è meno cattivo dei suoi principi, che trovasi salute laddove meno s'aspetta, che la Provvidenza, per quanto spingasi agli estremi l'umana perversità, non scatenerà giammai la Gerusalemme del proletariato contro la Babilonia della borghesia, gli è sempre vero che l'Europa é ora minacciata da un esercito di barbari divisi in due grandi corpi, uno che attacca la religione, l'altro la società, che questi due corpi partono dallo stesso punto; obbediscono alla stessa parola d'ordine, procedono sotto la stessa bandiera, e che questo punto di partenza, quest'ordine, questa bandiera è il Razionalismo; che il Razionalismo nato dal Rinascimento e da esso acclamato, da esso sistemato, fatto per esso il re delle intelligenze, altra cosa non è che il filosofismo dell’antichità pagana, sostituito alla filosofia cristiana in religione, in politica, in letteratura, in tutto ciò che costituisce la fede, il diritto, il dovere.



CONCLUSIONE



Tuoneremo invano dall'alto dei pergami, invano gemeremo fra le domestiche mura, invano contenderemo nei giornali, invano protesteremo con eloquenti scritti contro il Razionalismo che tutto invade, e il Naturalismo e i socialismo che ne derivano; anziché rallentare il suo corso, il torrente di giorno in giorno stenderà le sue rovine, e a meno di un miracolo sul quale non abbiamo ragione alcuna per fare assegnamento, precipitiamo nell'abisso: se continuiamo, come sogliamo da più secoli a nutrire la gioventù cogli scritti dei razionalisti dell'antichità, Platone, Seneca, Plinio, Plutarco, Cesare, Cicerone, Orazio, e d'altri che erano certo bei dicitori, ma in pari tempo liberi pensatori, e che per confessione stessa di Bayle, di Rousseau, di Voltaire, d'Elvezio, di Mably, di Cousin, di tutta la famiglia dei Razionalisti in Italia, in Germania, in Inghilterra, in Spagna, in Francia dal Rinascimento sino ai giorni nostri, sono i padri del moderno Razionalismo.



FINE



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Note



1 Troveremo altrove la spiegazione e il vero senso di tale proposizione.

2 V. tra le altre l'Enciclica del 1846.

3 Globe, n. 56.

4 Goethe.

5 Jacques, Libertà di pensare.

6 Feuerbach, id., n. del 20 novembre 1850.

7 Jacques, op. cit., n. del 20 novembre 1850.

8 Alloury, Debats, 25 aprile 1852.

9 Nel mirabile capitolo dei Monologhi intitolato: Che cos'è diventar niente, quid si nihil fieri: Sant'Agostino con la sua consueta lucidezza d'idee spiega quest'opera funesta dell'annichilamento dell'uomo operato da sé medesimo.

10 Jac. Tomasii. Hist. atheism. brevit. delineata. In-12, ediz. 1723, p. 144.

11 Spizel. Scrutinium atheismi. In-12. August. Vindelicor. 1663, p. 22.

12 Jurieun, Politica del clero, p. 85.

13 Pensieri vari sulle comete, in-fol., p. 210.

14 Pensieri vari, ec. l. c.

15 Diz., art. Takkiddin.

16 Saggio sui costumi, t. II, p. 301-2, Ediz. Beuchot.

17 Saggio sui costumi, l. c.

18 Vita, ecc., nelle opere di Scot, p. 15.

19 Vedi Annali della filosof. crist., agosto 1855, p. 120 e ss.

20 Petr., Clun., lib. IV, epist. 21.

21 Caramuel, Phil. real., lib. III, § 5, p. 175.

22 Puteolus, in Elencho hoereseon: voce Amalricus, p. 25 ; Gerson, Tract. de concord. metaph, cum. Log., part. IV.

23 Non parliamo né di Vicleffo, né di Giovanni Hus, né di Girolamo da Praga, né d'Arnaldo da Brescia, né di Valdo, innovatori tutti, i quali furono eretici, non razionalisti.

24 Ed è in altri termini quanto diceva Erasmo, il grande apostolo del Rinascimento: Ego peperi ovum, Lutherus exclusit.

25 Elogio storico dell'università di Parigi, p. 32. - È una prova fra cento che allora non si studiava greco.

26 De praescript., c. VII. - Nella sua enciclica del 1846, Pio IX non dice forse a chiare note che il Cristianesimo corre adesso gli stessi pericoli che nei primi secoli correva, e che non mancano in Europa filosofi razionalisti che insegnano un cristianesimo stoico, platonico, dialettico? Si tratta sempre di sapere quando e come questi filosofi pagani siano tornati in seno alle nazioni cristiane.

27 Haeres, lib. II. c. XIX.

28 Lib. I, Contr. Cels.

29 Contr. Gentil., lib. II, c. II.

30 Hist. eccl., lib. V, c. XXVII.

31 Irrisio philosoph.

32 Contr. Eunom.

33 Orat. XXVI.

34 Contr. haraes., lib. II Haraes. 69; lib. III, Haeres. 76.

35 Offic., lib. I, c. XIII.

36 Homil. III, in c. I Epist. ad Rom.: in Psal. CXV; Homil XXIV, in Joan.

37 Dialog. contr. Lucifer.; contr. Pelag., lib. I et III.

38 Contr. Julian., lib. I.

39 Contr. Eunom. assert. II.

40 In Theophrast.

41 In cap. II Epist. I ad Corinth.

42 Serm. II, in die Pentecost.; id., Serm. I, in fest. Apost. Petri et Pauli.

43 Così Beda che formalmente esclude Aristotele dalle scuole, e, come dice un autore: A christianae fidei vicinitatibus et confiniis prohibuit, conosceva alcuna di queste opere da cui estrasse parecchie sentenze. Così Lanfranco, in I ad Cor. di Pier abate di Celles, lib. X, epist. 12, di Ricardo di Costanza a cui Giovanni di Salisbury vescovo di Chartres, scrive d'inviargli alcuni trattati d'Aristotele epist. 202. Quanto a Platone nessuno quasi lo conosceva, e molto meno lo leggeva. - Melech. Canus. Disputat. de Aristotel., lib X, De locis theolog., c. v.

44 Rigordus, in Vit. Philipp. Aug. - Hugo, Cronol. Roberti continuat. An. 1240; Joan. Victorin. in Memorial. histor.

45 Collecto judicior. de novis errorib. qui ab init. XII secul. usque ad an. 1632, in Eccles. proscripti sunt. 3 vol. in-fol. Lutetiae 1328, t. I, p. 203.

46 Cod. Mess. Academ. Parisiens.

47 Che sino a questo tempo la dialettica di Sant'Agostino abbia regnato nelle scuole ne abbiamo un'illustre conferma nella vita di sant'Odone di Cluny. Vid. Odon. Clun., lib. I.

48 Mss. Acad. Paris.

49 Lib. De script. eccles., c. XXIV.

50 Serm. domin. II post festum Trinit.

51 Gaufrid. Bellilocus c. XXIII de vit. illius. - Launoi, p. 52.

52 Prolog. Istaura. scient. art. 11.

53 Tract .. adv. Joan. Montesonem ad calcem magistri sentent.

54 Elogio storico dello Università, p. 52.

55 Elogio storico, ecc. l. c.

56 Mss. Acad. Paris.

57 Lect. in Marc.

58 Nicol. Clemeng. In op. Ms. De instituendo theologiae studio.

59 Mss. Acad. Paris.

60 Lib. De script. eccles.

61 Fr. Archiep. Rotomag., t. II De myster. Eucharist.

62 Stato della filosofia moderna in Germania, p. 4.

63 Il Fiorentino Machiavelli, dice Gentillet, gli ha dato il suo nome.

64 Daniel Classen, Relig. Polit.

65 In orat. acad.

66 Ad Contz., lib. II, Politic., 4, c. XIV.

67 Tract. Contempl. aulae., id. Contz. Trattato del cortigiano.

68 Scrutin. atheis., p. 22, ediz. in-12, 1663.

69 Pietro Mathieu, Storia di Enrico II, lib. VII, § 8.

70 Apud Spiz., t. 1, p. 22.

71 Storia di scienze morali e politiche ecc., tom. I.

72 Thom., Hist. phil. atheis., p. 158; de Thou, lib. XIII, p. 276, Brucker, lib. II, p. 134.

73 Si può convincersene leggendo le sue Quaestiones peripateticae, oppure l'opera di Samuel Parker, Disputatio de Deo et Providentia.

74 Brucker, lib. II, c. III, p.186.

75 Id., p. 228.

76 Simonis Simonii Lucencis, primum romani tunc calviniani, deinde lutherani, denuo romani, semper autem athei summa religio.

77 Giuseppe Pazzi. Cont. della mostr. far.

78 Theoph. Reginald. Erotem, VI De bonis ac malis libris, n. 44.

79 Gian. Ball. Gello, dial. II, Chimer. del. Bottajo.

80 Jo. Leti, Istor. universal., p. 716; id., Thuan. supplem.

81 Thomas, Hist. atheism. p. 171.

82 Vedi Rivoluzione.

83 Gabr. Putherb. in Theotim. lib. p. 78.

84 Id., id.

85 Apol. Wilhelm., princip. arausic., p. 66.

86 Naud. In judicio de Aug. Nipho ejus operib. moral. praefixo, p. 31; et Tiraboschi, t. VII, p. 432.

87 Spiz., p. 65; Gabr. Putherb., In Theotim., lib. I, p. 81; Vives, De verit. fidei, II; Paul. Jov., Elog. p. 83; ediz. in-12.

88 Nandee, Apol. degli uomini grandi, c. VII.

89 Mem., art. Bembo.

90 Vedi altresì P. Gio., Elog., e Bayle, art. Bembo.

91 Lib. II, c. III. - Vedi pure Bayle, art. Vayer.

92 Facetiarum conclus. p. 275.

93 Opus turpissimum et aquis incendioque dignissimum.

94 Mem. di Nicer., t. IX, p. 154.

95 In Laurent. Vallam.

96 Mem., art. Poggio.

97 Ad Leonard. Aret., Ep. inter opera.

98 Virtutes ferme omnes tanquam prosciiptae, regnum ac dominantium animos reliquerunt, seseque ad humiliores homines contulerunt, etc. etc., p. 394.

99 Vedi tra gli altri Bayle, art. Vayer e Virg. Tiraboschi, St. della lett. ital., -Ginguené, id.

100 Io non intendo qui far l'apologista del Casa: troppo chiare sono l'infamità che si leggono in quel suo sporco capitolo, ecc.; con tutto ciò come ho detto, fu sua gran disgrazia l'aver per nemico il Vergerio. Ognuno vede le orribili infamità nei medesimo genere che si trovano nel Berni; nel capitolo a Marco Antonio da Bibiena, e nell'altro capitolo sopra un garzone, ed in mille altri luoghi; in Curzio di Marignolle; nel Russoli; in Marco Lamberti; nel Persiani; ed in cento e mille altri nostri poeti fiorentini, per tralasciare altri quasi infiniti di altre patrie. - Letter. al. sig. Bigot.

101 Salvator Rosa! La Poesia. V. pure Possevino, Bibl. Univers.

102 La Pittura, in-18, 1719.

103 Titulo duntaxat sumus christiani ... Christum ore confitemur, sed Jovem optimum maximum et Romulum lgestamus in pectore. - Ciceron., p. 106, etc. V. la nostra prefaz. alle lettere di San Bernardo.

104 La Pittura, in-18, 1719.

105 Quaest. Rom., 40, T. III, p. 399; ediz. in-12.

106 Polit. lib. VIII.

107 La discordia.

108 Prop. Op. lib. III. eleg. VI. trad. Vismara.

109 La Pittura.

110 Lo scandalo è ormai giunto a tal punto che la polizia francese, che nessuno accuserà certo di giansenismo, denuncia e fa condannare i fotografi che hanno anch'essi il loro serraglio, e ne espongono i prodotti agli sguardi dei passanti!

111 La Pittura.

112 Un nobile viaggiatore si volgeva Michelangelo, e gli dice:

Sapevi pur che il figlio di Noè,

Perché scoperse le vergogne al padre,

Tirò l'ira di Dio sovra di sé:

E voi senza temer Cristo e la madre,

Fate che mostrin le vergogne aperte

In fin de' santi quì l'intere squadre,

Dunque là, dove al ciel porgendo offerte

Il sovrano pastore i voti scioglie,

S'hanno a veder l'oscenità scoperte

In udire il pittor queste proposte,

Divenuto di rabbia rosso e nero,

Non poté proferir le sue risposte;

Né potendo di lui l'orgoglio altero

Sfogare il suo rancor per altre bande

Dipinse nell'inferno il cavaliere.

113 La Pittura.

114 Alcuni erano andati tant'oltre da cantar il Kyrie sull'aria dell'Ami Baudichon o della Bella Venere.

115 Certo i romanzi di cavalleria, le fiabe, e i canti dai trovatori del tredicesimo, quattordicesimo e quindicesimo secolo non vanno esenti da taccia. Ma fra queste opere ispirate, almanco in parte dallo spirito pagano, e quelle degli scrittori e dei poeti del rinascimento, qual differenza per lo spirito generale!

116 Theotim., lib. 1, p. 79.

117 Vedi la nostra Storia del Protestantismo.

118 Comm. in Zach., c. XIII, v. 8.

119 Pholosofh. Real. Praef.

120 I Riformatori, t. J. Zwingli, p. 225.

121 Pervertito dal suo commercio coi pagani questo libero pensatore comincia come tutti gli altri dal declamar contro i frati, continua facendosi discepolo di Pitagora, e finisce col darsi alla cabala.

122 Triomph. Capnion.

123 I Riformatori, t. 1, p. 51.

124 Epist. Th. Mori inter. epist., Er. Rotterd.

125 I Riformatori, cc., Hutten.

126 Id., t. I, p. 82.

127 Idem.

128 Schizzi storici sulla Riforma, del dott. Jarcke, p. 15. 17, 29, 34, e 50.

129 Jarcke, op. cit., p. 89.

130 Analisi della Triade di Meniers. Biografia degli uomini illustri del Risorgimento, 3 vol. in-8.

131 Cochloeus act., etc.

132 Quinet, Pref. alle opere di Marnix.

133 Lettere a Federico di Sassonia, 1720. V. gli stessi voti nel Nuovo Karsthans, altro libello di Hutten.

134 A caratterizzarlo, uno fra di loro, stese a norma del gusto del tempo il seguente epitaffio.

Inter divos, nullos non carpit Momus

Inter heroas, monstra quaeque insectatur Hercules.

Inter demones, rex Erebi Plutus irascitur omnibus umbris ..

Inter philosophos, ridet omnia Democritus,

Contra deflet cuncta Heraclitus

Nescit qua eque, Pyrrhus,

Et scire se putat cuncta Aristoteles.

Contemnit cuncta Diogenes,

Nullis, his parcit Agrippa: contemnit,

Scit, nescit, deflet, ridet, irascitur, insectatur,

Carpit omnia.

Ipse philosophus demon, heros et omnia.

135 O'Connor, Comment. de statu Eccl. Britan., p. 50.

136 A condito orbe non fuerunt tot monstrosae opiniones quot nunc in Anglia. Thom. Eduard., In gangrena; id. Giuseppe Alles, vescovo di Norwich; Storia della chiesa anglicana, sezione 25; idem, J. B. François note su la Storia di de Thou. c. II.

137 Kiug, In Lect. sup. Jonam., sect. 32, p. 442.

138 Andreas Philopater, In respons. ad edict. Elizab.; item, Parker Barlow, idem, Guill. Bos., lib. De inst. rep. christ.

139 Respons. Witakerii, p. 432. Id., in-12.

140 Prolegom. ad phys. p. 14, 15 et 16.

141 Debats, 30 aprile 1852.

142 Hispania quam plurimos atheos in primis praeticos magno numero hactenus aluit, etc. - Spiz., p. 32: id., Vindictae Gallicae contr. Martem gallicum, c. XXIX.

143 Niceron, Mem., t. XXXVI.

144 Libertinorum fanaticorum monstrorum Africam. - Disp. select., I. I, p. 223.

145 Hinc plurimi certatim ruunt in atheismum, lib. VI, Theolog. - Translationem hanc elaboravi ut convincerem homines illos in Belgio qui negare audeant angelos, diabolos, animos immortales , imo ipsum Deum. – Interpres Belg. Mercurii Trismeg. Praef.

146 Wigand, lib. De Deo contr. Arian; Hermenz, Tract. de lege naturae; id., Birkerod, etc.

147 Eccone il titolo di alcune: Procaci et Puellae - Pamphilus, Maria, ­ Virgo Misogamos, - Virgo Poenitens, - Conjugium, - Diversoria - Conjugium impar, - Adolescens et Scortus. - l Colloqui furono ben a ragione condannati dall'Università di Parigi nel 1528.

148 Morioe elogium, Dedic. a Tomaso Moro.

149 -Vix aliud (opus) majore plausu exceptum est, praesertim apud magnates. Paucos tantum monachos eosque deterrimos, ac theologos nunnullos morosiores offendit libertas - Erasmo, Ep. ad Bolzhemum.

150 Orat., II.

151 Apud Anglos triumphant bonae litterae, recta studia. - Ep., lib. XVI ep. 19 et 27

152 Ep., lib. V. ep. 10.

153 Vid Thom. Crenium, Exercitatiolnes philologico-historic. Lugd. Batav. In-18, 1697.

154 Melch. Adam., Vit. jurisconsult., p. 316.

155 Pref. all'opera di Marnix.

156 Saggio sui costumi, t. II, p. 301.

157 Theotim., lib. II, p. 180.

158 Lib. I, c. LVI.

159 Lib. II, c. III.

160 Lib. I, c. XXX.

161 Lib. III, c. V.

162 Lib. I, c. XXXVIII.

163 Lib. I, c. XXXVIII.

164 Vedi la sua Saviezza e Apolog. del P. Garasse.

165 Il dogma dell'anima del mondo, comune tanto fra gli antichi, come Virgilio, Platone, Zenone, Catone, Lucano ed altri celebri classici, è nel fondo quello di Spinosa. Il che più chiaramente apparirebbe se altri geometri l'avessero spiegato: ma siccome gli scritti ov'egli ne fa menzione, hanno più del metodo rettorico che del dogmatico, e invece Spinosa pretende alla precisione, ne deriva che troviamo parecchie capitali differenze fra il suo sistema e quello dell'anima del mondo. Diz. art. Spinosa. Grande amatore dei classici pagani Spinosa volse la mente alla filosofia, prese Cartesio per guida, e le conseguenze geometriche dedotte dai principi del suo maestro lo condussero all'ateismo. - Praef., Oper. post hum.

Il titolo della principale opera di Spinosa prova la filiazione cartesiana:

Benedict de Spinosa Renati Descartes principiorum philosophiae part prima et secunda, more geometrico demonstrata.

166 Censur. phil. cartes. c. VIII, p. 215. Ediz. Parigi 1680. - Vedi pure Thomasius, Hist. atheism., p. 35.

167 Disc. prelim. dell'Enciclop., t. 1, p. 268-271.

168 Disc. sulle scienze mat. 1786.

169 Globe, n. 147.

170 Monit., id., e Collezione dei decreti, ecc.

171 Audin, Vita di Calvino, t. 1, p. 83-85, edizione in-8.

172 Vedi Memor. di Niceron, art. Malherbe. cc.

173 Dizionario, art. Saint-Evremond.

174 Vita del duca di Borg, del barone Trouvé, pag. 23. - Vedi anche la nostra Storia del Protestantismo.

175 Niceron, Mem., tom. XXVI, pag. 112.

176 Vedi de Beauchamps, Storia del Teatro, e fra tutti i poeti e prosatori francesi del Rinascimento, vedi Viollet, le Duc, Naudé, Pasquier, Ricerche sulla Francia, pag. 857; Bayle, Baillet, Teissier, ecc.

177 Naudé, Su Nifo.

178 La vista d'una cattiva immagine potentissima ad eccitare le passioni negli adulti, urta anche nei più teneri fanciulli il senso del pudore. Conosciamo personalmente il fatto seguente. Una figlioletta di tre o quattro anni guardava un giorno un'immagine del Bambino Gesù. Per la smania del nudo, o piuttosto per un abuso sacrilego egualmente contrario alla decenza ed alla storica verità, l'artista aveva rappresentato il bambino Gesù senza alcuna veste, in piedi nel grembo della madre. Mamma, domandò la fanciullina portando l'immagine a sua madre, perché mo’ il bambino Gesù è fatto così? La Santa Vergine non aveva camicia da mettergli? - La madre imbarazzatissima rispose: è vero, figliuola, la Madonna era assai povera. - Non fa nulla, avrebbe potuto nasconderlo col suo grembiale. - La madre sorrise arrossendo. - Mamma, mi par ben brutto questo modo di farsi vedere e se io facessi altrettanto son sicura che mi batteresti.

179 Societas atheorum in Gallia ad 60.000 excrevit. - T. III, Syntax., art. Mirab., c. I.

180 ... Atheos quorum illud seculum feracissimum erat. - Epist. ad. Donzan.

181 In Gallia plures nunc profanos et atheos essa, quam olim tempore Gentilismi. - Praef.

182 Commentari sulla Genesi, p. 671 e 1830.

183 V. il Mercurio di Francia, t. V, p. 46, ed anni 1608, 1611, ecc.

184 L'empietà dei deisti ed atei combattuta. - In-12, Parigi 1624, p. 11.

185 Domande vere e curiose al cardinale Richelieu. Prefazione.

186 Alheismus est illa impurissima secta cui nimio plures nomen dant. ­ Carol. Paschalius, regis in sacro consistorio consiliarius, Virtut. et vitia. In-12 Parigi 1616, c. IX, p. 115.

187 In Luc c. XX.

188 Credunt ut sues, vivunt ut sues, moriuntur ut sues.

189 Instr. contra Libertin., c. XIII.

190 II Petr, II, v. 18.

191 Non paucos hodie in Gallia esse qui eam negent. - De immortal. Anim. Praef.

192 Dottrina curiosa, del P. Garasse, lib. II, p. 124.

193 Tali sono in particolare quelli di Gafarelle, Taurelle, Perez, Vallée, Viaud, Vanini, Godefroy de la Vallée, l'uno dei quali s'intitola: L'arte di non creder nulla.

194 Vedi questo simbolo in Jacob Fayum, Contra Tolland; Spizelius, Scrutin. atheism.; e Thomas, Hist. atheism., p. 259.

195 Storia dello Stato di Francia sotto il regno di Francesco II, p. 7.

196 Storia, lib. XXII, anno 1559.

197 Storia di Francia, anno 1577.

198 Sully, Memorie, lib. XXV; Giornale della Stella, - Chi vuole altre prove le rinverrà nella nostra Storia del Protestantismo, p. 245-270.

199 Naudé, In Nifo.

200 Scrutin. atheism., p. 22.

201 I nomi che qui omettiamo, e ne ometteremo molti, si trovano nella nostra Storia del Protestantismo e del Cesarismo.

202 D'altra parte già l'abbiamo l'allo nella Storia del Protestantismo e della Rivoluzione.

203 Storia delle dottrine morali e politiche dei tre ultimi secoli, di M. Matter, ispettore generale degli studi, corrispondente dell'istituto. - Parigi, 1836, 3 vol. in-8; t. 1, p. 34-41 e seg.

204 Idem., pag. 45.

205 Dunque al medio evo non si studiava nulla di tutto ciò: dunque le scuole non si facevano come ora si fanno.

206 Storia delle dottrine, ec.,. p. 47.

207 Memorie dell'Accad. delle iscriz., tom. III, p. 531; ediz. in-12.

208 Storia delle dottrine, ec., l. c.

209 Storia delle dottrine, ec., p. 47-49.

210 Uno dei Greci partigiani d'Aristotele.

211 Dai Bagni di Viterbo, 19 maggio 1462.

212 Quidquid est capax humanus genus, virum in omni re summum.:. Non modo Graeciam, sed universum terrarum orbem instruxit., etc. - Balthas. Bonif., Hist. ludicra, etc.

213 Lib. II, c. III, p.227.

214 Cornelius a Lapide, e J. J., Comment. in Ecclesiasticum. Encom. sap. Antuerpiae, 1674, in fol.; et Lugduni, 1841, In-4, p. 4 e 5.

215 Parallelo tra Platone e Aristotele, p. 405.

216 Ego pueros puto fuisse (stoicos) prae divino Aristotele; et eorum io hoc genere scripta vana prae Aristotelis organo: quo opere omnia mortalium ingenia longe superavit. - In Persium, Satyr. V, v. 86, p. 415.

217 Vedi Balzac, Socrate cristiano.

218 In Thom. Aquin. 1-2, q. 109: art. 1 et apud Naudé, Apol. pour les grands hommes. etc.

219 Michael In Notis ad. Jac. Gaffarell. curiosit. inaudit., p. 109

220 Cornelius Agrippa, De vanit. scient., c. LIV; Burigny, t. II, p. 234.

221 Burigny, op. cit.

222 Lib. XVII, c. XXIV.

223 Lamothe-Levayer; Virtù dei pagani, l. V, pag. 114, edizione in-folio. È giusto soggiungere che sulla fine del secolo XIII cominciamo, a trovare in qualche autore esagerati elogi d'Aristotele: nuova prova che il Rinascimento ebbe radici nel passato. Ma altro è la radice, altro l'albero, altro il germe del male; soffocato, compresso, altro il male stesso che dovunque si diffonde libero e compiuto.

224 Audomar. Talaeus, Ep. ad Carol. Lotharing. cardin.

225 Vedi il P. Rapin, ubi supra, p. 413.

226 Epist. 34, p. 153; epist. 36, p. 156.

227 Christoph. Arnold. Epist. 1, p. 487. Vid Hist. ludicr.

228 lnstutiones dialecticae et Aristolelicae animadversiones.

229 Talaeus, ubi supra.

230 Decreti della Corte e del parlamento. Ib.

231 Mercurio di Francia, anno 1624.

232 Id., t. X, p. 504.

233 Rapin, Paral. Di Platone e Aristotele, p. 413.

234 Fluvium perennem, etc. - Balthas. Bonifac. Hist. Ludicr., lib. XV, c. XI, p. 452.

235 Cum quo errandum potius quam cum aliis recte sentiendum. Id., id.

236 Praef., In Plotin., t. II, p. 491; ediz. in folio. _

237 In praef., libr. De vita.

238 Epist. lib., c. XXIII, ad. Laurent. Mediceum.

239 In Miscellalleis, p. 123; ediz. in-18. Basilea, 1522.

240 Ficin. Epist., lib. IX, p. 199.

241 Bzovii, Annal., Ve Biblioth., lib. IX, p. 177.

242 Ep. ad Fr. Gazotti, t. I; Epist., lib. IV, p. 738, 741, 746.

243 Argum. de Repubblica.

244 Id. id.

245 Arg. V , Dialog.

246 .... Fratribus in Platone nostris. - Epist. , lib. IX, p. 922. - Queste espressioni vengono sovente ripetute.

247 T. I, Epist., lib. IV, p.738. - Questo è Cousin ripetuto parola per parola.

248 Lib. VIII, p. 913.

249 Epist., lib. VI.

250 Praef., In Jamblic.

251 Praef., In Plotin.

252 Epist., lib. VIII, p. 896. Oper. t. I, ad Paulum Ferobantium.

253 In proem. Conviv. Platonis.

254 Antonium Allium.

255 Tirab. t. VII, p. 155.

256 Ficin. Epist., lib. IX, p. 177.

257 Ficin. Epist., lib. IX, p. 176-177.

258 Vedi Schollern, Amoenit. litter., tomo I, pag. 58.

259 Ciò esige una spiegazione; in ogni caso, qual era dopo quindici secoli di cristianesimo, la necessità di ricondurre il mondo alla scuola di Platone?

260 Nova de universis philosophia, auct. Fr. Patritio, phil. eminentis. Venetiis, 1593, in-fol. Praef.

261 Id. id.

262 Nova de universis philosophia, p. 4.

263 Haereticorum patriarchae philosophi. Doleo Platonem omnium haereseon condimentarium. – Tertulliano e sant’Ireneo.

264 Saggio, tomo III, p. 58.

265 Vedi fra gli altri Diogene Laerzio, Ateneo, Burigny, Storia della filosofia, Bergier, articolo Platone, e segnatamente le opere di Platone, De convivio, De republica, De legibus, etc.

266 V. Valerian. Magn. de atheismo aristotelico. Aristoteles Deum nec coluit nec curavit. Lact., De ira Dei, c. XIX, Diogene Laerzio, p. 309 ; Burigny, Melch. Canus, De locis theologicis; Brucker; Hist. phil. lib. II, c. III., p. 345, fr. Patritius, Phil. univ.,Praef., etc.

267 Essendo Platone e Aristotele quale li abbiamo detti, gli è d’uopo spiegar gli elogi compartiti al primo da alcuni Padri della Chiesa e l'uso che l'evo medio, fece del secondo. Misto bizzarro di verità e d'errori, di fede e di libero pensare, son due uomini in Platone: l’uomo della tradizione e l'uomo della ragione. Così della maggior parte dei filosofi, dello stesso Voltaire, di Roasseau. Uomo della tradizione Platone, riassume meglio che la maggior parte dei suoi confratelli le verità primitive conservate in Oriente e nella Grecia; uomo della ragione, nessuno è caduto in più grossolani errori. Dal che gli elogi e le censure per egual modo fondate di cui fu oggetto per parte degli antichi Padri della chiesa. Che parecchi tra loro l'abbiano studiato, che l'abbiano opposto ai pagani, per mostrare ad essi che certe verità cristiane erano conosciute dal più illustre dei loro filosofi, si comprende di leggieri, massimamente per parte dei Padri che prima di esser platonici erano stati cristiani.

Quanto ad Aristotele vedemmo qual giudizio ne recassero i Padri della Chiesa. La sua autorità nelle scuole comincia solo al secolo XIII, e il medio evo ebbe il segreto di non lasciar straripar le acque dell'avvelenata sorgente. Lo spirito cristiano e positivo del medio evo piegava Aristotele al giogo della verità e non si valeva del suo metodo che come mezzo di dimostrazione. Nondimeno vedemmo, come anche in queste condizioni, lo studio d'Aristotele desse campo a gravi errori che la Chiesa fu a parecchie riprese costretta a condannare. «Sino al Rinascimento, dice Brucker, la scuola peripatetica non fu pericolosissima alla fede. Gli scolastici, razza quanto mai suscettiva, conoscevano a meraviglia le false massime d'Aristotele, ma le piegavano e le modificavano in modo da metterle quanto più fosse possibile in armonia coi dogmi del cristianesimo di cui si facevano anche ausiliari. Lo stratagemma fu scoperto dagli italiani ristoratori dell'antica filosofia, che ben risoluti a seguire apertamente Aristotele, professarono per conseguenza gli errori pestilenziali che si trovano nelle sue opere. - Hist. phil., lib. III, c. III, p. 345.

268 Sexti Empirici, Oper. graec. et latin. - Leipzig, in fol., 1718.

269 Baron, Ann., 234, n. 14.

270 Epist ad Rom., Com. Corn. a Lapide, c. I, v. 26.

271 Ap. Cl. Alex. Strom.

272 Protagoras putat id verum esse quod cuique videatur. – Academ., I.

273 De natura deor., lib. III.

274 Epist. ad Diosc., t. II, p. 496, n. 9, edit. noviss.

275 Brucker, Hist. phil., lib. II, c. III, p. 115 et 260; id., Thomasius Hist. atheism, p. 144.

276 Ed anche lo spirito.

277 Così deve parlare Cousin, ma certi preti!!

278 Sino al Rinascimento non era dunque comparsa.

279 Corso dell'Istoria della filosofia t. I, p. 358-60: I discepoli del maestro: Sigg. Mullet: Manuale di teologia ad uso degli allievi dell'Università, Charma Quistioni filosofiche p. 178 Giacomo, Simon, Saisset, nel Manuale di filosofia ad uso dei collegi, p. 607; ne ripetono religiosamente le parole.

280 … Il che diede occasione al lepido giudizio di Apollo, che presso il Boccalini comanda che il Pomponaccio (o Pomponazzi) sia arso solo come filosofo. - Storia, etc., p. 249; id., in-4, 1791.

281 De immortalitate animae, De fato e De incantiationibus.

282 Storia delle scienze morali, ecc., t. I, p. 61.

283 Guill. Postel. ap. Brucker, lib. II, c. III, p. 164.

284 Dedicat. version. dial., Platon.

285 Ficin. Praef. in Plotin. e De vita coelitus conservanda; mundum esse animatum, ec.

286 Storia, ecc., t. I, p. 94.

287 Petr. Mosell. Epist., Reuchlin.

288 Praef., In Verb. mirific.

289 Brucker, t. IV, lib. II, p. 376 e 410.

290 Id., p. 479.

291 Id., In Sciopp., p. 501.

292 Il tempo non ne consente di recarne la prova: la si troverà nelle opere di demonologia, comunissime e in tutte le lingue.

293 Tom. IV, lettera 76.

294 Coll. Concil., ann. 1513.

295 Coll. Concil., ann. 1513.

296 Reginald, ann. 1513, p. 41.

297 Quaest. natur., lib. II, c. 45.

298 Phars, etc.

299 Notate bene che il concilio non autorizza a studiare queste scienze negli autori pagani. - S'impose a chierici nei sacri ordini d'applicare agli studi ecclesiastici della teologia, dei sacri canoni, senza profanare o scialacquare il tempo assegnato loro, nell'apprendere la poesia, la quale nella vanità dei suoi metri non è nulla confacente alla gravità della loro professione; bastando all'acquisto d'una dicevole facondia lo studio di qualche anno dei più teneri nella rettorica o nella dialettica; senza più avvilire il tempo in tali deviamenti, quando fatti già uomini, abbisognano di frutti di dottrina, non di frondi di eleganza. - Battaglini, Ist. Univ. di tutti i concilii. Venezia, 1686. in-fol. p. 769.

300 Idem

301 Raggion.

302 Bullar., t. V, p. 393.

303 Hist. phil., t. IV, p. 348.

304 Storia, ecc., t. I, p. 229. – Lo dice dopo cento altri.

305 V. Hugo in Nettement, Storia della lett., cc. t. I, p. 347.

306 Vedi la nostra Storia della Rivoluzione, t. 1.

307 Trovate spesso, dice un illustre scrittore, imprudenti professori di semirazionalismo che non rinvengono più dal loro stupore al vedere giovani a cui fecero le loro belle dimostrazioni dell’esistenza di Dio, della provvidenza, dell'immortalità dell'anima, professar altamente all'uscir delle loro scuole, materialismo, ateismo e deismo. Mentre dovrebbero i ciechi maestri ricordarsi avere essi medesimi preparata la via agli errori ed ai traviamenti dei loro scolari. Il P. Ventura, De Method. phil. LXX.

308 Seduta massonica belgica, 2 luglio 1846 e 24 giugno 1854, Giornale d'Anversa, agosto 1857.

309 Congresso liberale, luglio 1857.

310 Meline e Cans, Questione religiosa, p. 1.

311 Quinet, Lettera ad Eugenio Sue, 5 dicembre 1856.

312 Nazionale belgico, 21 novembre 1856.

313 Quinel, prefazione alle Opere di Marnix.

314 Id. id.

315 Id. id.

316 Id., e Questioni religiose, p. 29.

317 Quinet, prefazione alle Opere di Marnix. p. '97.

318 Id. p. 70.

319 Questioni religiose, p. 18 e 75.

320 1857.

321 Giornale belgico, agosto 1857.

322 Già registrammo una parte della loro confessione, parlando della Rivoluzione.

323 Italia del Popolo,

324 L'Espero, marzo 1857.

325 Udienza del 17 settembre 1857.

326 Annali massonici, t. V, p. 219 e 226.

327 Eugenio Sue, Lettere al Nazional di Bruxelles, 1 marzo 1857.

328 Kohlmeyer a Justus di Losanna.

329 Guglielmo Marr.

330 Lettere al Comitato centrale.

331 Lettera a Kanschenplatt.

332 Evangelio del povero pescatore.

333 Alleanza dei popoli, 1850.


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Mons. gaume: la Rivoluzione
Descrizione:
La rivoluzione: ricerche storiche sopra l'origine e la propagazione del male in Europa
L'opera, tradotta per la prima volta in italiano nel 1856, non è soltanto una storia della Rivoluzione, e tantomeno una storia della sola Rivoluzione Francese, ma piuttosto una storia della genesi della plurisecolare secolarizzazione d'Europa.
L'autore infatti, osservando gli accadimenti dei suoi giorni, dedicò anni a studiarne le cause e, camminando per una via nuova e diversa da quella di quanti si occuparono del processo di scristianizzazione, giunse a proporre una radice primaria e unica del male che ancora oggi ci colpisce.
Recuperata e offerta grazie alla collaborazione del Dott. MdG e alla disponibilità dell'Università di Pavia, vengono qui proposti i primi 3 volumi in formato PDF fotografico, mentre gli ultimi tre sono frutto della consueta laboriosità dei cooperatori di totustuus.it
attenzione: il file .zip occupa 74 megabytes
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