IL MODERNISMO TEOLOGICO E IL SUO SISTEMA DI CONCILIAZIONE
La
contraddizione teoretica e la ipocrisia pratica inerente per necessità logica
all'assurdità del modernismo – come accennavamo nei precedenti articoli [1],
comprovando le asserzioni dell'enciclica con le testimonianze di capiscuola
modernisti – appare ben manifesta nella sintesi delle dottrine nebulose del
modernista credente: fede ridotta
primariamente a un intuito della coscienza, a un'adesione del cuore o esperienza
intima, e insomma a un sentimento sui generis;
rivelazione a quell'eccitamento psicologico, organico, talora anche
morboso che lo causa, a una « emozione » partecipata immediatamente alla
coscienza di ciascuno, che è pure esperienza o via di esperienza; tradizione a una trasmissione di siffatta
esperienza; ispirazione a un impulso o
bisogno di spiegare o « formulare l'esperienza »; domma a una concezione umana, come « formula »
ordinata a rappresentare, o piuttosto a simboleggiar l'esperienza secondo
categorie mutabili del pensiero umano; e via via, con vario, ambiguo ed esotico
frasario, che pallia ma non mitiga l'enormezza degli errori.
Ma
più anche appare evidente, l'una e l'altra contraddizione dell'assurdo, quando
inseguendo il modernismo nei suoi infiniti rigiri, nelle sue sparse e molteplici
manifestazioni, se non in tutte le conseguenze innumerevoli e pestifere dei
suddetti principii, si veda raccolto – quello che prima si dava per semplice
metodo o per tendenza teologica – in un dottrinale proprio, quasi in un corpo di
teologia, fermo, determinato e complesso, o vogliamo dire in un formale e
proprio sistema teologico. Allora ci si
scopre un sistema ibrido di negazioni, il quale si stende a tutte universalmente
le parti della teologia cristiana, a tutte fa contrasto arditamente e tutte le
vuole abbattere dai fondamenti per ricostruire su le macerie dell'antica la
nuova teologia. Quindi un sistema che è di proposito l'antitesi della teologia
cristiana e cattolica, a quel modo stesso e per le stesse ragioni, che la
filosofia del modernista filosofo è antitesi di filosofia razionale e la fede
del modernista credente è negazione della fede religiosa, come abbiamo
dimostrato precedentemente dietro i passi dell'enciclica. E ciò intende
inculcare l'enciclica stessa, mentre stringe in una sintesi vigorosa gli
elementi sparsi e fluttuanti, ma non fittizii, delle premesse e delle
conseguenze teologiche più gravi del modernista teologo, come prima del filosofo
e del credente; poichè, giova ripeterlo, questo smascherare l'errore n'è la
prima e più necessaria, come la più opportuna e la più efficace confutazione. Nè
per altro titolo, crediamo noi, ne presero tanto sdegno i modernisti ostinati,
nè per altro ancora essi protestano di non voler sapere di sillogismi, di
logica, di sintesi definitiva. Sdegno impotente e inutile protesta, perchè niuno
può presumere di opporsi alla legge stessa del pensiero; e il modernista che ciò
presume, si smentisce da se stesso con la contraddizione intrinseca dell'errore:
contraddizione tanto più riprovevole ed enorme in chi ha preteso escogitare un
sistema nuovo di conciliazione tra la scienza e la fede, la cultura nuova e la
teologia antica, il progresso dell'evoluzionismo e il trionfo del
cattolicismo.
La
contraddizione sgorga anche qui da tutte le parti dell'edifizio che si sfascia;
da tutti e singoli i punti della nuova teologia; giacchè tutti si manifestano di
primo tratto ripugnanti all'uno insieme e all'altro dei due elementi che si
vorrebbero comporre in nobile accordo.
Ma
non potendo noi dilungarci nei particolari, la cui espressa e distinta
confutazione per il nesso intimo delle questioni trarrebbe seco un troppo ampio
trattato di pressochè tutta la teologia cristiana, ci restringeremo da capo ad
uno sguardo sintetico del tutto, cioè del sistema complesso già sopra mentovato,
del modernista teologo; il quale è tutt'uno col modernista credente e col
filosofo, e in quanto assegna le fonti e i principii della sua teologia, e in
quanto spiega la genesi e la evoluzione dei suoi « germogli » di fede.
II.
Alla
doppia contraddizione teoretica e pratica del modernismo teologico, in quanto
sistema di conciliazione nuova tra scienza e fede, allude anzitutto l'enciclica,
quando ci addita il modernista scendere « sull'arena teologica », spiegare alla
luce del sole la sua recondita teologia – brevis profecto supellex, sed ei
superabundans... – più che abbondante cioè a lui che professa doversi
stare in tutto alle così dette conclusioni della scienza: teologia perciò «
tutta ligia ai deliramenti dei filosofi »; quindi con filosofemi esoterici, con
finzioni o speculazioni umane studiarsi a ingrossare questa sua tenue
suppellettile teologica; da filosofie esoteriche, da speculazioni umane, non daa
fonti divine, non da un deposito sacro
di rivelazione, attingere l'interpretazione dei misteri divini, come anche la
spiegazione tutta dell'origine, dello svolgimento, del progresso dei floridi e
rigogliosi « germogli » della sua fede. Tutto ciò per ottenere il gran fine che
è appunto, dice l'enciclica, « la conciliazione della fede con la scienza,
restando però sempre incolume il primato della scienza su la fede ».
Questo
atteggiamento ardito e contradittorio del teologo modernista che scende
nell'arena teologica disarmato affatto di tutte le armi della teologia, di ogni
presidio di parola divina scritta o tramandata, di ogni magistero autentico ed
infallibile, come di ogni criterio esterno di verità rivelata; quindi il metodo
che ne consegue, di procedere nella scienza divina affatto all'umana, anzi
peggio che nelle cose umane, ad arbitrio individuale o soggettivo, si può dire
atteggiamento e metodo necessario e, secondo la logica dell'errore, anche logico
nel teologo modernista che ha negato come filosofo e come credente la
soprannaturalità della fede, della rivelazione positiva e delle sue fonti
(Scrittura e Tradizione), che ha scosso insomma il fondamento stesso della
religione cristiana. Ma da ciò appunto balza irresistibile l'evidenza della
ipocrisia pratica e dell'assurdità teoretica dell'atteggiamento e del metodo
stesso in chi promette di difendere e conciliare la fede medesima e il
cristianesimo con la scienza e la modernità: la quale evidenza poi getta
necessariamente la sua fosca luce su tutta l'opera di conciliazione
pseudo–scientifica e pseudo–teologica, tentata dal modernista teologo.
Siffatti
metodi e atteggiamenti appaiono di primo tratto così pieni d'incoerenza, che
sembrano implicare una manifesta slealtà, e ci fanno ricorrere alla penna le
gravi parole dei teologi relatori del Vaticano contro l'arte o la frode dei
vecchi razionalisti del secolo passato. Poichè questi appunto si studiarono e
riuscirono ad oppugnare più efficacemente la religione cristiana mediante la
depravazione dei dommi e l'abuso dei nomi [2].
Con
simile metodo – osservava già Edoardo Quinet, scrivendo al traduttore francese
del Kant [3] –
nel secolo XIX come nel XVIII, « mentre la Francia uscita dalla cerchia della
tradizione, negava scopertamente il cristianesimo per bocca degli
enciclopedisti, l'Allemagna giungeva al medesimo termine, mutando, modificando,
trasformando il dogma per modo da sostituirvi un teorema morale. Nella Francia
la filosofia procedeva con uno spirito di rivoluzione, lottava alla scoperta.
Dall'altra sponda del Reno, invece, essa penetrava, s'insinuava fin dentro al
santuario ; infine s'assideva senza tumulto nel luogo del sacerdote. Iddio
medesimo già si dileguava, e nulla ancora sembrava mutato ». Fu questa l'opera
esiziale degli idealisti tedeschi; e con essi, come abbiamo già dimostrato,
particolarmente col Kant e con l'Hegel, hanno certo profonde, poniamo che
inconsapevoli, attinenze i nostri modernisti del secolo vigesimo.
Ma,
lasciando star ciò, l'evidenza della contraddizione risulta, ad ogni modo, dal
fatto che nessuno può mettere in dubbio, non potere la dottrina del modernismo
teologico, considerata nel suo sistema e nella serie complessa delle sue
sequele, riuscire punto meno ripugnante ad ogni forma di cristianesimo positivo,
di quel che riesca considerata nei suoi presupposti filosofici, e più nel
fondamento stesso e nella radice, da cui pullula, che è la dottrina e il
concetto di verità, di scienza e di fede. Il che ci legittima, ci costringe anzi
a ripetere di tutte le teorie del modernista teologo – anche prima di metterne a
prova i capisaldi del sistema dottrinale – nè solo a ripetere, ma ad aggravare
ciò che abbiamo dimostrato dei suoi fondamenti, a proposito del modernista
filosofo e del credente.
III.
Ma
gioverà nondimeno a farne giudizio più diretto, osservare in questi capisaldi
stessi l'edifizio brioso che egli vuole sostituire al castello uggioso della
teologia medievale; osservare cioè l'attuazione pratica del sistema nuovo,
tentativo di conciliazione presunto dal modernista teologo. Abbozzato nei suoi
tratti precipui, dietro la traccia dell'enciclica e
gli scritti a noi già noti dei capisetta modernisti, esso poggia anzitutto, come
abbiamo già detto, sui postulati filosofici soggettivi e su la dottrina ora
mentovata della fede « emozionale », della rivelazione individuale e immanente,
del criterio unico della esperienza intima o così detta coscienza religiosa, e
di simili aberrazioni che sono tutte ugualmente frutto e applicazione di una
falsa filosofia. Semplificando poi con l'enciclica il sistema del modernista
teologo, si può ridurlo ai tre punti capitali : simbolismo teologico, immanenza e permanenza divina.
Il simbolismo vuole che le rappresentazioni della
divina realtà, le formole cioè, che sono i dogmi, essendo meri simboli e
strumenti, siano affatto provvisorie, salvo l'onore che per rispetto sociale è
dovuto alle formole del magistero pubblico, o come altri dicono, « alla teologia
convenzionale, uffiziale, tradizionale », secondo che variamente essi chiamano
la dottrina della Chiesa.
L'immanenza teologica poi del modernista fa
Iddio immanente nell'uomo, ma non
d'ordinario in senso ortodosso, bensì confondendo l'azione di Dio, causa prima,
con quella dell'uomo, causa seconda; ovvero il concorso divino dell'ordine
naturale con quello di ordine soprannaturale, come fa il naturalismo deista:
anzi alcuni trascorrono, più logicamente, sino a confondere non pure l'azione ma
l'essere, secondo il naturalismo panteista.
La permanenza divina finalmente è per rispetto
all'immanenza ciò che l'esperienza privata rispetto all'esperienza trasmessa per
tradizione, o, come altri dicono, la coscienza individuale rispetto alla
coscienza collettiva; la quale ultima comprende in sè la somma delle esperienze
private, ossia delle coscienze individuali. Così, proporzionalmente, l'immanenza
divina, continuata in ciascuna di esse coscienze individuali, ci darebbe la
permanenza divina nella coscienza collettiva.
Ma
insistendo nell'esempio recato dall'enciclica,
i modernisti conseguenti diranno che la istituzione della Chiesa e dei
sacramenti, non è da Cristo; e pure potersi dire che è da lui (mediatamente) e perciò divina, perchè nella
coscienza di Cristo stavano virtualmente inchiuse tutte le coscienze cristiane;
onde la costoro vita – che è poi la vita della coscienza collettiva – secondo la fede, è vita divina, come la vita
di Cristo. Così per questa permanenza sola si spiega l'origine divina della
Scrittura, dei dommi, come dei sacramenti, della Chiesa e di ogni istituzione
ecclesiastica, come di ogni definizione o elaborazione dommatica, e via dicendo;
sebbene l'origine prima o immediata sia pure naturale e e psicologica, come
quella che per sè va tutta attribuita a qualche « bisogno ».
E
come si spiega l'origine, così anche l'evoluzione, unendo ai suddetti principii
la teoria dei « bisogni »: il che bene illustra l'enciclica, passando tosto alla
sintetica rassegna delle dottrine modernistiche intorno aigermi della fede; dove pure è da notare che si
fa uso della parola « germe » non in senso di causa vitale, ma di effetto, come
sarebbe dire « germoglio o rampollo », che già prorompe dal seme; e il seme qui
sarebbe appunto il « bisogno ». Quindi si dichiarano vie meglio le dottrine, o
piuttosto le eresie molteplici, da noi sopra menzionate, nel loro nesso con la
così detta « metafisica dei bisogni »: e ne appare da sè la doppia
contraddizione del sistema, in quanto si consideri come « teologia dei bisogni
».
IV.
Dal
bisogno di elaborare il proprio pensiero religioso per chiarire la propria e
l'altrui coscienza nasce il dogma: dal bisogno di dare alcunchè di sensibile
alla religione e propagarla sorge il culto; nel quale si vogliono compresi anche
i sacramenti, ridotti a meri simboli, o segni efficaci a colpire gli animi
(secondo il vecchio errore protestantico, condannato dal Tridentino): dal
bisogno più veemente di manifestare a voce o per iscritto la propria fede od
esperienza religiosa – col quale bisogno si confonde pure l'ispirazione – è
venuta la Scrittura sacra, che può perciò definirsi una raccolta di esperienze: dal bisogno parimente sia della
coscienza individuale del credente, di communicare ad altri la propria fede, sia
della collettività delle coscienze, di unirsi per il bene comune, è nata la
Chiesa, la quale perciò è « parto della coscienza collettiva »: dal bisogno
infine, per ogni corpo sociale, di un'autorità che lo regga, è sgorgata nella
Chiesa la triplice autorità: disciplinare, dogmatica, cultuale; sicchè è da ritenersi come provenuta
non immediatamente da Dio e perciò autocratica, ma bensì dalla coscienza
religiosa del popolo, e perciò a questo soggetta, cioèdemocratica.
Ancora,
dal bisogno della Chiesa di accordarsi con la società civile, che ha fine
diverso, nasce la necessità che lo Stato sia separato dalla Chiesa, e
logicamente ne verrà anche quella che la Chiesa, nell'autorità sua disciplinare,
sia soggetta allo Stato nelle cose temporali; come dal bisogno di accordarsi con
la coscienza collettiva segue il debito per l'autorità disciplinare e la
dogmatica di dipendere dalle coscienze individuali, da cui nasce ed a cui bene è
ordinata: onde la necessità di riforme democratiche.
In
tutto ciò il modernismo aggrava enormemente l'errore del liberalismo vecchio e
del vecchio razionalismo, come pur troppo si fa manifesto ad ognuno che ne
intenda i termini.
Ma
più ancora quando esso viene alla sua dottrina capitale che è quella dell'evoluzionismo – per cui tutto in una religione
vivente si vuole mutabile – e vi applica ad un modo la teoria dei « bisogni ».
Per quei bisogni stessi onde nacque, la fede che fu da prima rudimentaria e
comune a tutti gli uomini, perchè sorta dalla stessa natura, si svolse con
evoluzione vitale, ossia non per giunta
di forme estrinseche, ma per maggiore penetrazione del senso religioso nella
coscienza; e ciò in due modi: negativamente, con la rimozione di ogni
elemento estraneo, e positivamente, col
perfezionamento intellettuale e morale dell'uomo onde si ampliò l'idea divina e
il sentimento religioso si affinò, concorrendovi anche il genio religioso dei
profeti e del massimo fra essi, Cristo. Dal bisogno poi della fede di vincere le
opposizioni, come dal bisogno del fedele di penetrarne gli arcani, si spiega
l'evoluzione del domma: dal bisogno di adattarsi alle usanze dei popoli come di
profittarsi della efficacia di esse, l'evoluzione del culto; dal bisogno di
accomodarsi alle condizioni storiche e alle forme di governo stabilite,
l'evoluzione della Chiesa.
Ma
perchè l'evoluzione non trasmodi, sospinta dai bisogni e dalle forze
progressiste che vi corrispondono, rappresentate specialmente dai laici, si
oppone a queste una forza conservatrice, quella della tradizione, rappresentata
dall'autorità religiosa. Quindi un conflitto; e da ciò il bisogno di un accordo
o compromesso fra le due forze, dovuto questo a coscienze individuali che
operano sopra la coscienza collettiva; giacchè quest'ultima, incalzata dal
bisogno di quelle, è a sua volta necessariamente nel bisogno di far forza e
premere sopra l'autorità, e quindi l'autorità viene essa pure a trovarsi nel
bisogno, o necessità, di capitolare.
A
siffatte teorie è naturale poi che si conformi la pratica dei modernisti nel
loro atteggiamento verso la Chiesa; teorie e pratica assai peggiori in sè e più
perniciose ad altrui che quelle del vecchio naturalismo dei liberali e, diremo
anche, dei razionalisti e nemici aperti della nostra fede.
Gli
uni infatti non si scostavano dalla verità cattolica con tanta universalità di
errori; gli altri con tale arte di mentita conciliazione. Quanto alla prima, noi
possiamo conchiudere con l'enciclica che « se quasi d'un solo sguardo
abbracciamo l'intiero sistema, niuno si stupirà ove noi lo definiamo, affermando
esser esso la sintesi di tutte le eresie. Certo, se taluno si fosse proposto di
concentrare quasi il succo ed il sangue di quanti errori circa la fede furono
sinora asseriti, non avrebbe mai potuto riuscire a far meglio di quel che han
fatto i modernisti. Questi anzi tanto più oltre si spinsero che, come già
osservammo, non pure il cattolicismo, ma ogni qualsiasi religione hanno
distrutta ».
Fin
qui l'enciclica;
e ciò che essa afferma, noi abbiamo dimostrato fin dalla prima, mettendo a
riscontro il vecchio naturalismo col giovine modernismo. E ne è conferma
pratica, a tutti manifesta senza bisogno di lungo discorso, il fatto pubblico e
quotidiano, additato pure nell'enciclica: il plauso dei nemici della Chiesa. «
Perciò coloro che fra i razionalisti parlano più franco ed aperto, si rallegrano
di non avere alleati più efficaci dei modernisti ». Così è purtroppo: e « così
si spiegano i plausi dei razionalisti », ci dice l'enciclica[4].
Ma
non così si spiegano i plausi, o le simpatie, o la mite tolleranza, o almeno le
timide e carezzevoli riserve da parte di tanti cattolici, laici ed
ecclesiastici, fino all'apparire dei recenti atti pontificii. A spiegar tutto
ciò occorre senza dubbio far ragione di quello che tanto può presso i più,
massime giovani: il fascino delle novità e il potere delle idee oscure: l'uno e
l'altro già ricordato dal compianto Brunetière, che ne fu vittima in parte,
sebbene vittima generosa e scusabile come altri laici studiosi in Francia. Ma è
necessario ripensare altresì all'altra proprietà del sistema modernista; cioè
l'arte mentita, ora smascherata dall'enciclica,
di avviluppare il pensiero incredulo in apparenze di scienza e di ortodossia, di
atteggiarlo anzi ad apologia ed a conciliazione, mentre per i consapevoli non è
altro che tradimento e aperta negazione: ciò è un accoppiare alla contraddizione
teoretica la contraddizione pratica; all'incredulità l'ipocrisia.
V.
E
ciò si può confermare ancora, esaminando così di volo, i primi frutti, cioè
alcune delle conseguenze prime, della conciliazione vagheggiata dal modernismo
teologico, nei tre principii spiegati sopra, di simbolismo, d'immanenza e di
permanenza divina. Col simbolismo i
modernisti pretendono trovar modo di salvare i dogmi contro qualsiasi
oppugnazione o ritrovato della scienza moderna. Ma essi fanno un tentativo
disperato, peggiore di quello ardito già dai sofisti e filosofi pagani, come da
Celso, da Porfirio, da Giuliano Apostata, dalla scuola neopitagorica e
neoplatonica, dei primi secoli della chiesa, per salvare il paganesimo crollante
e la sua screditata mitologia. Il tentativo scientificamente è un assurdo,
religiosamente è un'ipocrisia; poichè ridotti i dogmi a simboli e istrumenti
provvisorii e mutabili, non hanno più verità; nè si possono più ammettere, molto
meno imporli a credere con assenso ragionevole e irrevocabile; nè v'è più luogo
a parlare di cristianesimo storico e positivo, nonchè di cattolicismo. E vi è di
peggio: perchè, bene osserva l'enciclica,
« se tutti gli elementi che dicono intellettuali, non sono che puri simboli di
Dio, perchè non sarà un simbolo il nome stesso di Dio di personalità divina? E
se è così, si potrà bene dubitare della stessa divina personalità, ed avremo
aperta la via al panteismo ».
Vero
è che i modernisti credono di « spuntare questa arma » protestando nel loro
famigerato Programma[5],
che « in quanto al simbolismo, il simbolo non implica più oggi l'idea di una
creazione fittizia, forse anche fraudolenta.... Esso è una realtà, una
realtà sui generis, a cui la fede
conferisce un valore inestimabile, fino a farlo diventare veicolo reale e
occasione benefica di una elevazione dello spirito e di una più profonda
penetrazione religiosa ». Ma non dicono essi di quale « realtà » intendono, e a
ragione; perchè al simbolo, stando massimamente ai loro principii di idealismo, essi non possono attribuire altro
che una « realtà ideale », l'essere cioè intenzionale e soggettivo che ha nella
mente, o come essi amano meglio dire, nella coscienza del credente; chè dalla
fede appunto esso simbolo ha il « valore inestimabile », ovvero – ciò che torna
al medesimo – l'ha dalla vita e dall'azione. Quindi alle parole citate i
modernisti soggiungono immediatamente questa ragione: « E poichè la nostra vita
è per ciascuno di noi qualcosa di assoluto, anzi l'unico assoluto, tutto ciò che
da essa emana e ad essa ritorna, tutto ciò che ne alimenta e ne arricchisce
l'esplicazione ha ugualmente il valore di un assoluto ». Ora questo valore –
giova ripeterlo – non è una verità assoluta, non è un valore di conformità del
simbolo con l'oggetto simboleggiato: è al più un valore pratico, cioè di una
semplice conformità del simbolo col senso religioso: o per dirla con eleganza da
modernista, è « il valore inestimabile » di « veicolo reale » ecc. [6],
o con espressione più pittoresca, di « vibrazione del diaframma dello spirito »
o della coscienza, di « vibrazione dell'essere morale all'unisono con la parola
del divino che si è rivelato e si rivela »; intendendo questa parola del divino
e la conseguente rivelazione non quale manifestazione di verità, ma quale
eccitazione psicologica del sentimento, quale propagazione di vita. Con ciò
s'intende meglio, cio che abbiamo notato più d'una volta, come, secondo il
modernista, tutte le verità religiose sieno contenute implicitamente nella
coscienza religiosa dell'uomo, il quale perciò « potrebbe far senza maestro se
potesse leggere i bisogni del suo spirito e della sua coscienza », come parla il
Tyrrell. E s'intende pure come egli non possa ammettere la rivelazione se non
come una sorte di eccitamento del senso e della pietà che fa « leggere » o
sentire i « bisogni » suddetti; onde nasce poi la sua fede come « prodotto di
una interna esperienza », come « adesione a realtà sentite ». Il simbolismo
pertanto si connette necessariamente nel sistema modernistico al principio di
immanenza, come l'evoluzionismo al concetto della permanenza divina. Ora per
l'una e per l'altra via il modernista teologo, nonchè giungere alla
conciliazione che promette, si avvia a precipizio, verso al panteismo e
all'ateismo.
V.
L'immanenza teologica infatti, nel senso che il
modernista vanta, vorrebbe conciliare l'ordine soprannaturale col naturale, ma
lo estenua e lo confonde: vorrebbe spiegare l'unione di Dio con l'uomo
nell'essere e nell'operare, ma la stravolge e l'annienta; onde poi trascorre a
contraddizioni molte ed aperte, nell'ordine speculativo e nel pratico. Ma noi
qui, affrettando, ci contenteremo di dimandare, con l'implacabile logica dell'enciclica:
« Siffatta immanenza distingue o no Iddio dall'uomo? – Se lo distingue, che
differisce adunque cotal dottrina dalla cattolica? o perchè mai rigetta quella
della esterna rivelazione? Se poi non si distingue, eccoci di bel nuovo al
panteismo », che è appunto il confondere Dio con l'uomo, o in altre parole
negare Iddio. – E alla vibrata dimanda dovrebbero dare una vibrata categorica
risposta anche quei fautori dell'immanenza, che si appigliano al primo membro
del fiero dilemma, e dopo avere contrapposto la loro dottrina all'antica da essi
schernita, protestano ora di aver dato all'immanenza da essi difesa il
significato accennato qui dall'enciclica. Il che, se fosse vero, mostrerebbe
tuttavia che essi hanno peccato di ambiguità nei termini, stravolgendoli dalla
loro primitiva significazione, e molto più di temerità nell'opporre, quasi
nuova, la loro dottrina a quella antica e unanime dei Padri e dottori della
Chiesa. « Ma di fatto – continua l'enciclica –
l'immanenza dei modernisti vuole ed
ammette che ogni fenomeno di coscienza na.sca dall'uomo, in quanto uomo. Dunque
di legittima conseguenza inferiamo che Dio e l'uomo sono la stessa cosa, e
perciò il panteismo ».
Queste
parole dell'enciclica hanno
pure una triste conferma, oltrechè nel Programma dei modernisti già citato, nella
recente affermazione del Loisy: « L'evoluzione della filosofia moderna tende
sempre più all'idea di un Dio immanente, che non ha bisogno d'intermediario per
operare nel mondo e nell'uomo ». Con questo l'apostata corre non solo a
rovesciare tutta la dottrina della Chiesa cattolica e di Cristo redentore, mediator Dei et hominum; ma altresì a
confondere, com'è nella logica del suo sistema, l'idea stessa di Dio quasi una
forma soggettiva, ovvero sia evoluzione meramente psichica dell'uomo stesso,
giusta il puro idealismo panteistico dell'Hegel.
Nè
vi fa rimedio, anzi aggrava il male, la dottrina mistica del modernismo,
particolarmente quella del Laberthonnière in Francia, del Tyrrell, del von
Hügel, di altri in Inghilterra; la quale dà un colorito nuovo all'immanenza, e vuol passare da essa alla trascendenza, mediante il concetto proprio a
cotali mistici, della fede « come atto emozionale », intuitivo o sperimentale,
onde l'anima sente in sè Dio, o piuttosto, come essi dicono, il divino. Il
Tyrrell stesso ne conviene; e mentre stiamo scrivendo, egli manda pubblicando a
tutti i giornali dell'orbe, quella sua sdegnosa mentita, onde nega di avere mai
opposto il suo modernismo mistico, che è di caldo visionario, a quello critico,
di freddo razionalista, del Loisy. « Tengo a dichiarare, egli scrive, che le
posizioni critiche, mistiche e filosofiche del modernismo differiscono non già
quali tendenze opposte, bensì come tendenze parallele o meglio convergenti » [7].
Ma
noi non abbiamo bisogno di tali testimonianze. È troppo chiaro per ragione e
troppo confermato per l'esperienza nella storia di ogni falso misticismo, come
dalla pretensione di voler sentire,
apprendere e quasi afferrare il divino in sè, dalla confusione della vitale e
intenzionale unione della mente con l'oggetto per via di similitudine, (che è
propria dell'atto conoscitivo) con una unione propria e reale, quasi di identità
– la quale pretensione è comune ad ogni falso misticismo – il mistico può
passare troppo facilmente, e per breve tragitto, alla identificazione del divino
con la natura, col tutto, o infine con la sua propria coscienza, o con «
un'autocoscienza infinita che è l'anima del mondo e nella quale si ritrova la
nostra molteplice coscienza personale ». Questo insinua pure William James,
altro oracolo pei modernisti, il quale di ciò appunto dà merito alla scuola
hegeliana « che sta oggi così profondamente influenzando il pensiero inglese ed
americano » [8],
com'egli dice, e noi dobbiamo aggiungere anche francese ed italiano. – Ora
questo panteismo non è altro che ateismo larvato.
Non
è dunque contradittoria l'accusa che l'enciclica fa
al modernismo di favorire per l'una parte l'ateismo e per l'altra lo
pseudo–misticismo; e quei modernisti i quali nel loro Programma trovano che la
contraddizione appare da sè [9],
si mostrano o ben poco intelligenti o ben poco sinceri. Nessuna cosa per contro
appare così evidente nella moderna confusione di sistemi e di errori, quanto
l'ibrido connubio del falso misticismo col panteismo e con l'ateismo più o meno
aperto; connubio del resto che « appare da sé » non poche volte nella storia
delle aberrazioni umane. E basterebbe che i modernisti avessero ricordate certe
opere pseudomistiche, di cui si è iniziata da qualche tempo la pubblicazione col
loro plauso e favore, anzi possiamo dire con la loro attiva partecipazione, in Italia e fuori: su
le quali preferiamo ora tirare un velo.
VII.
Nè
pure vogliamo insistere qui su le conseguenze pratiche e le dottrine morali, che
scenderebbero logicamente, e si possono trovare più o meno timidamente insinuate
negli scritti modernistici. Vi sarebbe troppo che dire: tanto più che
l'ascetismo, e misticismo del modernista teologo sa molto bene trasfigurarsi in
angelo di luce, sotto il nimbo non solo della immanenza divina nella coscienza individuale,
ma ma anche della permanenza del
divino nella « coscienza collettiva, solidale, immensa » della
Chiesa.
E
così protestano i modernisti nel loro Programma che dopo la « constatazione leale
della evoluzione » furono indotti « per sostenere la loro fede, al concetto di
una permanenza del divino nella Chiesa [10].
»
Ma
se a questo principio della permanenza del
divino si dà il senso modernista, con tutta l'estensione e la
comprensione logica di cui è capace, nonchè sostenere la fede, non lascia
intatta una parte sola della teologia; tanto ampia e sterminata è l'applicazione
che ne fa il modernista. Egli presuppone infatti, mediante questa permanenza del divino, intesa in un senso
affatto nuovo, di conciliare con l'origine divina che il cristianesimo si
attribuisce, l'origine tutta umana e naturalistica, che gli appongono i
razionalisti, nominatamente gli evoluzionisti o trasformisti, e quindi la
sformata evoluzione della religione stessa e di tutto ciò che alla religione
appartiene, derivata egualmente l'una e l'altra, e l'origine e l'evoluzione, dal
« bisogno »; come dal « bisogno » è originata la fede. Di qui anche quelle sue
teorie sulla genesi e laevoluzione dei
così detti « germi » o rampolli della fede, su cui distesamente parla l'enciclica,
facendone seguire appunto l'ampia trattazione alla sintesi dei tre principii
accennati, secondo un certo nesso logico ben ragionevole, checchè abbia
giudicato altri che non ne seppe scorgere le conseguenze dai principii.
Poichè,
secondo questi principii e segnatamente in virtù dell'immanenza e della
permanenza divina, il « bisogno » sia della coscienza individuale, sia della «
coscienza solidale », della coscienza immensa o collettiva della società
cristiana o dell'intera generazione umana, come parlano i modernisti, si
vorrebbe dir cosa divina. Onde supposto essere Dio e anche Cristo immanente per
la fede nelle coscienze che l'apprendono col senso religioso, cioè lo sentono in
sè per l'esperienza interna, tutto ciò che è da un impulso o « bisogno »
religioso della coscienza si può dire che è da Dio, e nella coscienza cristiana
unita al Cristo della fede, si può dire che è da Cristo, come una nuova
rivelazione.
Non
occorre insistere a dimostrare l'enormità dell'equivoco o piuttosto dell'insidia
che si cela in questa tentata conciliazione dell'origine e della vita del
cristianesimo, in quanto storica, soprannaturale e divina, con la genesi e la
evoluzione affatto naturale e psicologica delle religioni, ammessa unitamente da
razionalisti, da teosofi e da modernisti. Essa distrugge il fondamento stesso
della istituzione positiva della Chiesa e della sua prodigiosa propagazione e
conservazione: distrugge il vero senso e l'efficacia tutta di quella divina
promessa, che è la nostra consolazione e la forza della Chiesa: « Ecco io sono
con voi, tutti i giorni fino alla consummazione dei secoli ». – La
contraddizione dunque del modernismo teologico, anche qui, è così enorme e
palpabile che la pretensione della conciliazione o dell'accordo ha tutta l'aria
di una ipocrisia, di uno scherno.
Ai
modernisti teologi non sarebbe quindi inopportuno di ricordare per ultimo la
energica ammonizione della Scrittura, che con Dio non si finge nè si
scherza: Deus non irridetur!

Prospetto degli articoli della Civiltà Cattolica sul modernismo: | Fascicolo | Data: | Anno | Volume |
Decreto Lamentabili, testo, traduzione e commento | 1371 | 24 luglio 1907 | 58° | III |
Enciclica Pascendi testo latino | 1374 | 18 sett. 1907 | 58° | III |
Enciclica Pascendi traduzione italiana | 1375 | 28 sett. 1907 | 58° | IV |
Il modernismo filosofico (I parte) | 1377 | 22 ottobre 1907 | 58° | IV |
Il modernismo filosofico (II parte) | 1379 | 28 novembre 1907 | 58° | IV |
Motu Proprio Prestantia Scripturae Sacrae lat./it | 1379 | 27 novembre 1907 | 58° | IV |
Il modernismo teologico (I parte) | 1381 | 26 dic. 1907 | 59° | I |
Il modernismo teologico (II parte) | 1382 | 8 genn. 1908 | 59° | I |
Il modernismo teologico (III parte) | 1384 | 5 febbr. 1908 | 59° | I |
Il modernismo teologico e il Concilio Vaticano | 1386 | 12 marzo 1908 | 59° | I |
Il modernismo teologico e il suo sistema di conciliazione | 1388 | 10 aprile 1908 | 59° | II |
Il modernismo ascetico | 1390 | 6 maggio 1908 | 59° | II |
Il modernismo apologetico | 1391 | 29 maggio 1908 | 59° | II |
Il modernismo riformista | 1401 | 29 ottobre 1908 | 59° | IV |
NOTE:
[1] Vedi
quad. 1381–1386.
[2] Ecco
le parole proprie dei teologi nella loro palpitante attualità: « In fide christiana,
aiunt, non intelligitur veritas in se ipsa, sed suscipitur sub symbolicis
velaminibus... Hac fraude... duo haec consequi
student, ut se ipsos ab infamia atheismi ac impietatis tueantur, et christianam
religionem per depravationem dogmatum ac abusum nominum efficacius
oppugnent », Gaudeau, Libellus
fidei, p. 221–222. –Cf. quad. 1386, p. 662 ss.
[3] La religion dans les limites de la raison, par
E. Kant. Traduit par J. Trullard (Paris 1841), p. VI. Questa vecchia opera del
Kant pare tutto un programma di modernismo; dove, scriveva lo stesso Quinet, «
il dramma della fede e della scienza... si scioglie tranquillamente in un'eguale
mischianza di scetticismo e d'idealismo: vi si vede apparire soprattutto quel
sistema d'interpretazione figurata che, allargandosi sempre più, sembra oggimai
insinuare uno spirito nuovo nella lettera della Rivelazione ». E il frutto di
questo spirito nuovo, egli soggiunge appunto, va dalla trasformazione del domma
alla irreligione e all'ateismo, copertamente: proprio come avviene nel
modernismo, vecchio e decrepito anche in questo.
[4] E
coi razionalisti si possono bene accomunare i così detti «protestanti liberali»,
che non se ne differenziano salvo nel nome. Tra essi uno dei più audaci, il
Campbell, che nella sua New
Theology (Londra 1907) trascorre fino al pretto panteismo, riconosce come
«è il medesimo movimento per l'appunto quello che, sotto una forma leggermente
differente, è rappresentato in Inghilterra dalla Nuova Teologia, e che sotto altro nome si è
venuto svolgendo in Italia e altrove per opera di cattolici romani». Così
nell'Hibbert Journal(aprile 1907, p.
489), tanto lodato dai modernisti italiani. Cf. J. Lebreton, L'encyclique et la theologie moderniste, p. 5
ss.; p. 22 ss. Questi afferma (a p. 7) di non avere finora incontrato la forma
del panteismo puro in nessun cattolico; ma ora forse ne troverebbe più che degli
indizi nelle ultime opere del Loisy, e peggio ancora in certi articoli dei suoi
piccoli pappagalli romani di Nova et
Vetera, come in quelli di un povero «Aschenbrödel», già da noi denunziati
e da essi molto ambiguamente scusati. Di ciò conviene recentemente anche un L.
Donati nell'ultimo numero della defunta Vita
religiosa di Firenze (marzo–aprile 1908) art. «Qual è la nostra filosofia?» (Accenno di una
filosofia della vita), p. 133 s.
[5] Pag.
112.
[6] Strana
coincidenza! Anche la frase peregrina del «veicolo», come quella così gentile
del diaframmadella coscienza e delle sue
vibrazioni all'unissono (su cui vedi Civ.
Catt., 1907, vol. IV, quad. 1378, p. 392) ci suonano molto vecchie. Non
sarebbe difficile trovarle, col resto della suppellettile teologica del
modernismo, in filosofi eterodossi. Ci basti qui citare, ad es., uno dei loro
maestri in volontarismo. Così Demofele
contro Filarete nel dialogo dello Schopenhauer (in Parerga und Paralipomena, vol. II. § 174)
pretende difendere la religione come un teologo modernista: «Essa non deve, per
adattarsi all'intelligenza ed al bisogno di un pubblico così grande e così
vario, presentare la verità nuda, o per usare un paragone medico, darla allo
stato puro, ma servirsi di un solvente, di un veicolo mitico.... la verità, che in generale
non può venir altrimenti espressa che sotto forma di mito o di allegoria,
rassomiglia all'acqua, che senza vaso non può venir trasportata... Il senso
profondo e l'alto fine della vita possono venire aperti e presentati al popolo
soltanto simbolicamente. La filosofia, al contrario, deve essere come i misteri
eleusini per i pochi, per gli eletti... Forse in tutte le religioni la parte
metafisica è falsa; ma la parte morale è vera in tutte. Non è un inganno: essa è
cosa vera, ed è la più importante di tutte le verità... insegna ciò che non è
precisamente vero per se stesso, ma per il senso che in sè racchiude: e così
intesa essa è la verità ». Dello Schopenhauer è uscita or ora una parziale
traduzione dal titolo appunto Morale e
religione (Torino, 1908): noi la citiamo, comesegno dei tempi.
[7] Giornale d'Italia, 30 marzo 1908. Ammirabile
esattezza di concetto e limpidezza di linguaggio questa del povero mistico
d'oltre Manica, il quale ravvicina così bellamente le parallele alle convergenti!
[8] W.
James, Le varie forme della coscienza
religiosa. (Trad. ital.), p. 387. Una simile tendenza di «subbiettivismo
agnostico e di panteismo idealistico» è riconosciuta perfino dal citato
scrittore di Vita religiosa come
«concetto fondamentale progressivamente affermato e svolto dalla rivista Nova et Vetera, i cui scrittori perciò si
ricongiungono alla scuola hegeliana di Benedetto Croce e Giovanni Gentile».
(Vita religiosa, p. 133).
[10] Pag.
23 s.
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