Translate

domenica 12 maggio 2013

don curzio - TEOCONSERVATORISMO, AMERICANISMO E DEMOCRAZIA

TEOCONSERVATORISMO, AMERICANISMO  E  DEMOCRAZIA
DON CURZIO NITOGLIA
11 luglio 2009


 Nazionalismo americanista
Padre John Navone (un gesuita americano) sulla “Civiltà Cattolica” (16 febbraio 2008) ha scritto un interessante articolo su “Il nazionalismo americano”. Egli spiega che “il nazionalismo americano è diverso da tutti gli altri, perché è di matrice ideologica. La sua è una storia separata, che non accetta paragoni con altri, e per questo è stata la più nazionalista tra le nazioni importanti” che “ribadisce costantemente la sua superiorità su tutti gli altri” (p. 349). Egli continua “la rivoluzione americana ebbe un notevole influenza sulla successiva rivoluzione francese” (ivi). Onde, sfata il mito dei teocons italiani (Pera, Ferrara, Introvigne, Respinti…), i quali ci vorrebbero presentare una rivoluzione anglo-americana conservatrice, sostanzialmente diversa da quella francese. Mentre la loro differenza è solo accidentale o qualitativa, quanto al grado più o meno radicale del loro modus operandi. Lo stesso dicasi della massoneria anglo-americana e di quella latina, esse, pur essendo distinte quanto al modo di agire con maggiore o minore radicalità, sono essenzialmente eguali quanto alla natura della filosofia immanentistica, che è l’anima di ogni massoneria, sia latina che anglo-americana. Anzi, il gesuita americano, spiega – onestamente – che la rivoluzione americana “era fondata su principi che costituirono il fondamento delle grandi idee politiche delle grandi idee politiche dell’epoca [Sette-Ottocento], quelle dell’illuminismo: gli uomini sono eguali, e lo scopo dei governi è di assicurare gli inalienabili diritti dell’uomo, ottenendo il consenso di coloro che da essi sono governati” (p. 350). Onde anche la “gloriosa rivoluzione americana” (come la chiamano i nostrani “spaghetti-cons”) è illuminista e non solo sensista o empirista, egualitarista, liberale e praticata sub specie di fratellanza (“liberté, egalité et fraternité”), come quella francese, tranne la maggior compostezza, freddezza o aplomb anglosassone, rispetto a “sangue caldo” latino[1]. Tuttavia, come spiega il gesuita, errerebbe chi volesse negare ogni “radicalità” nella rivoluzione o ideologia americanista. Infatti, “l’idea americana all’epoca [Sette-Ottocento] era radicale e continua anche oggi ad avere implicazioni radicali” (p. 351). L’America dal protestantesimo-calvinista iniziale si è spinta sempre più verso il “secolarismo e il materialismo, il test di mercato per i valori, un’educazione non direttiva […], e più recentemente lo sforzo di adottare un sistema sociale multiculturale e multirazziale. Tutte scelte di natura ideologica” (ivi). Dopo la guerra civile tra nordisti e sudisti (1865) il nazionalismo americano si spinse verso l’oceano Pacifico, “esso si manifestò in pieno nei confronti dell’impero spagnolo nel 1898: questo fu distrutto in una sola notte […], con la conquista da parte degli americani dei principali possedimenti spagnoli dei Carabi e nell’oceano Pacifico: Cuba, Portorico, Wake Island e le Filippine. Furono annesse anche la Hawai” (p. 354). Tale espansionismo, nota il gesuita, era sostenuto dall’ideologia del “darwinismo sociale, […] secondo cui l’espansione nazionale in Europa era sempre avvenuta perché la razza era una grande razza” (ivi). Woodrow Wilson (+ 1921) riteneva che “le virtù americane non abbiano paragone è […] e rappresentino un forma del più alto grado di perfezione della società umana. […]. Tale assunto si fonda sul convincimento che tutto ciò che è accaduto nel passato era finalizzato alla realizzazione di questa società, che è […] migliore di qualsiasi cosa esistita prima” (p. 355). Tale politica estera, che caratterizzò l’influsso americano in Europa dopo la prima guerra mondiale, trovò la resistenza di Germania, Spagna, Portogallo, Italia e Giappone, che vennero annientate dall’America col secondo conflitto mondiale[2]. Essa continuò e si accentuò dopo la seconda grande guerra e trovò, in Europa, l’opposizione solo della Francia di De Gaulle. Questa politica estera espansionistica, era supportata dall’ideologia protestantica del XIX secolo, chiamata “Vangelo sociale”, essa “sosteneva che l’essere umano sconfigge progressivamente il male man mano che la natura umana progredisce, e implicava che negli Usa, grazie ai meriti delle istituzioni politiche, la natura umana stava raggiungendo un livello di perfezione più rapidamente che altrove. Di conseguenza l’America aveva il dovere di estendere i benefici di tale sistema” (ivi). Addirittura “lo storico Cambridge H. Butterfield chiamava questa, ‘l’interpretazione liberale della storia’, benché sia facilmente identificabile nella sua forma naturalizzata americana, secondo la quale tutta la storia aveva come punto di arrivo la nascita degli Usa e della società americana” (ivi, nota n° 4). Questo ultimo asserto ha caratterizzato l’ideologia e la prassi dell’amministrazione Bush jr e dei teocons, che hanno voluto esportare la democrazia americana anche in medio oriente, iniziando dall’Iraq, ma hanno dovuto fermarsi e accusare una cocente sconfitta, simile a quella del Vietnam. Padre John Navone scorge nel “Vangelo sociale” americanista un influsso del millenarismo, premillenarismo e dello gnosticismo (p. 356). Non a caso il neo Presidente americano ha citato, nel suo discorso programmatico dell’autunno 2008 durante la campagna elettorale per le presidenziali, Gioachino da Fiore. Il padre gesuita conclude “Gli Usa contemporanei sono figli della guerra del Vietnam, prodotto dell’ottimismo liberale e della fede nel valore universale dei princìpi democratici americani, […] il governo statunitense aveva la piena fiducia di insediare in Asia la democrazia in contrapposizione al comunismo” (p. 360). Tale convinzione, scossa dalla sconfitta nel Vietnam, si è rifatta viva, pin piano, con l’amministrazione Reagan e Bush senior, per scoppiare - con forte radicalismo e aggressività – sotto l’influsso dei teocons, con l’amministrazione Bush jr. che ha dovuto, però, constatare la non infallibile applicabilità della democrazia americana nel mondo intero, specialmente asiatico e arabo.
 
Le tre forme di governo
 
Oggi (grazie al dominio americanista in Europa dal 1945) va di moda - nel Vecchio Continente - presentare la democrazia come l’unica forma di governo lecita. Tuttavia, l’esperienza ultima (2003-2009) e il pensiero dei filosofi, dei Padri, dei Dottori della Chiesa e del suo Magistero, non è questo; basti citare S. Pio X che condanna la tesi del Sillon secondo cui: “Solo la democrazia inaugurerà il regno della perfetta giustizia - e continua - non è questa una ingiuria alle altre forme di governo...?” ([3]). Ma Socrate (come Gesù), ad esempio, fu una vittima innocente di una maggioranza (cinquecento giudici) che sbagliò a giudicarlo e a condannarlo a morte, galvanizzata e forse impaurita dai demagoghi che lo travolsero ricordando minacciosamente che il volere del popolo è al di sopra della legge, e gridando “qui si vuole impedire al popolo di fare quello che vuole! ”. In un “processo politico o alle idee”, nella famosa e rinomata democrazia ateniese. Secondo Platone ciò era dovuto al fatto che in democrazia tutti si alzano a dir la loro, operai, contadini, commercianti demagoghi e filosofi; ed è proprio per questo che S. Tommaso e gli scolastici insistono sul fatto che nella politeìa non è la massa a governare ma i buoni cittadini o la sanior pars civitatis. Il diritto e la verità non sono una cifra. La Bibbia insegna che “il numero degli stolti è infinito”. Specialmente ora, quando “gli odierni movimenti... conseguono la maggioranza... attraverso una vasta, capillare ed efficace diseducazione di massa resa possibile nella società cosiddette avanzate... dalla potenza, oggi illimitata, degli strumenti di comunicazione e di manipolazione delle menti” ([4]). “Il fondamentalismo democratico... indica l’arrogante uso di una parola (democrazia) ... e, insieme, l’intolleranza verso ogni altra forma di organizzazione polìtica che non sia il parlamentarismo” ([5]). Le odierne democrazie sono guidate da lobby o élites di carattere essenzialmente oligarchico e snob, guidate da “intellettuali-banchieri-finanzieri” come, ad esempio è avvenuto in Italia, con Mattioli e Cuccia ([6]). S. Tommaso, contrariamente al Sillon, insegna che le forme di governo sono tre (monarchia, aristocrazia e politeìa) e non una sola: la democrazia (che è una degenerazione della politeìa). Al contrario per Maurras l’unica forma di governo è la monarchia, il che non corrisponde alla dottrina cattolica e alla retta filosofia. Per l’Aquinate la prima forma di governo è la monarchia (governo di uno solo); essa può degenerare in tirannia. La seconda è l’aristocrazia (governo dei migliori) che può degenerare in oligarchia (tirannia di pochi). La terza è la politìa o politèia (governo della moltitudine o dei cittadini) o timocrazia (governo in cui le cariche sono assegnate in base all’onore [timé] che tutti possono avere anche i semplici cittadini), la quale può degenerare in democrazia (tirannia del popolo); oggi, tuttavia, al posto di politia o timocrazia è prevalsa la parola democrazia (che anticamente aveva in sé una valenza negativa) che può degenerare in ‘demagogia’.
 
La miglior forma di governo
 
In sé è la monarchia, ma quoad nos gli scolastici preferiscono il regime misto delle tre forme di governo, data la malizia dell’uomo, ferito dal peccato originale, e che facilmente è portato a degenerare. S. Tommaso scrive “Est etiam aliquod regimen ex istis comixtum, quod est optimum . (Vi è un certo regime, che è un misto di queste tre forme, il quale è il migliore)” ([7]). E ancora: “La miglior forma di potere è bene temperata dall’unione della monarchia, in cui comanda uno; e dell’aristocrazia, in cui governano i migliori o i virtuosi; e dalla democrazia, che è il potere del popolo in quanto i prìncipi possono essere scelti nella classe popolare e possono essere eletti dal popolo stesso”([8]). Tuttavia i teologi cattolici, seguendo S. Tommaso, precisano che: “Quando gli ebrei chiesero un re - scrive S. Roberto Bellarmino - Dio si dispiacque; pur tuttavia permise che si scegliessero a sorte un re. Perciò Dio (I libro dei Re), in molti modi dichiarò che non gli era piaciuta la richiesta del popolo di aver un re, come lo avevano gli altri popoli... Poi, per far recedere il popolo da questa richiesta, comandò a Samuele di preannunciare il... giogo pesante che i re erano soliti imporre ai loro popoli.... Tutte queste parole della S. Scrittura hanno lo scopo di far capire al popolo che non è vantaggioso avere un re, come i gentili; avendo avuto essi, per il passato, giudici scelti... da Dio... Poiché, tuttavia, il popolo persisteva per avere un re, Samuele diede loro il re Saul. (...) Saul, che da privato cittadino era il migliore, diventato re, divenne il peggiore... Poi Davide, prima di salire al trono, non volle mai recare alcuna offesa a Saul a lui nemico... Diventato re, uccise un soldato... e commise adulterio con la moglie. Tuttavia fece sincera penitenza e ritornò in grazia di Dio. Salomone, uomo all’inizio buono, nella vecchiaia adorò gi idoli e la sua salvezza eterna fu in pericolo (...) Di conseguenza, chi è tanto cieco da non vedere quanto sia pericoloso il governo del re ed anche dei prìncipi assoluti?” ([9]). Onde ogni buon regime deve esser misto e radicato nel principio del popolo-canale, che trasmette compiti e funzioni di governo ad uomini atti, preparati ed onesti (i migliori); mentre nel vertice, la suprema unità di governo, appartiene ad un uomo prudente e maturo (il monarca). S. Tommaso ritorna più volte sull’argomento e precisa: “Secondo Aristotele, 8 Etica , cap 10, lect. 10, il regime in cui uno solo comanda (monarchia) , è più nobile che l’aristocrazia, in cui comandano i migliori” ([10]). E l’Angelico continua: “nella monarchia, sebbene tutta la pienezza del potere risieda nel re, tuttavia non sono esclusi i poteri dei ministri, che sono partecipazioni al potere regio” ([11]). “Tre sono le forme di governo e altrettante le loro perversioni. La monarchia, l’aristocrazia, la ‘timocrazia’: (governo in cui le cariche sono assegnate a tutti quelli che hanno un certo onore [timé] che ogni cittadino può possedere); oppure politìa o politeìa: governo dei cittadini o governo cittadino. Di esse la forma migliore è la monarchia, la peggiore la ‘timocrazia’ ” ([12]). Inoltre: “il miglior ordinamento della società è che sia governata dal re: poiché tale regime rappresenta più di tutti gli altri il governo divino, nel quale un solo Dio governa tutto il mondo sin dall’inizio” ([13]). Tuttavia  l’Aquinate ci mette in guardia sui pericoli della monarchia, non in sé, ma quanto a noi: “La monarchia è la miglior forma di governo (in sé); se non si corrompe (quanto a noi). Ma a causa del grande potere che ha il re, facilmente la monarchia degènera in tirannia” ([14]). Si può concludere dicendo che se in sé la miglior forma di governo è la monarchia, quanto alla malizia degli uomini è bene che sia temperata dall’aristocrazia e dalla timocrazia. Nel De regimine principum S. Tommaso spiega più dettagliatamente che è necessario che gli uomini, vivendo in società, siano governati da qualcuno: “Se è naturale per l’uomo vivere in società, è necessario che fra gli uomini ci sia un qualcosa che governi il popolo. Infatti, quando gli uomini sono in molti, se ognuno provvedesse soltanto a ciò che gli serve, il popolo si frantumerebbe nei suoi componenti, qualora non ci fosse qualcuno che si occupasse anche del bene comune; così come il corpo dell’uomo si dissolverebbe, se nel corpo non ci fosse una facoltà coordinatrice generale (cervello) rivolta al bene comune di tutte le membra... Se una moltitudine di uomini è ordinata dal capo per il bene comune di tutti, il governo sarà retto e giusto. Se invece il governo è ordinato non al bene comune, ma al bene privato del capo, sarà ingiusto e perverso... Perciò come i pastori debbono cercare il bene del gregge, così i governanti debbono cercare il bene del popolo loro soggetto. Dunque: se c’è il governo ingiusto di uno solo che cerca nel governo i suoi personali vantaggi... questo reggitore si chiama tiranno. Se poi c’è il governo ingiusto di diverse persone, però poche, si chiama oligarchia e questo si ha quando pochi con la ricchezza opprimono la plebe, differenziandosi dal tiranno solo per il fatto di essere in diversi. Infine, se il governo ingiusto è esercitato da molti, si chiama democrazia, cioè predominio del popolo” (cap. 1°). Nel capitolo secondo l’Angelico spiega: è più utile che una moltitudine di uomini sia governata da uno solo, piuttosto che da molti. “Infatti l’uno per essenza, può garantire l’unità meglio di molti individui, così come la causa più efficace del riscaldamento è quel che è caldo per natura. Dunque è più utile il governo di uno solo che di molti”. Ma nel terzo capitolo ci mette in guardia contro la degenerazione della monarchia: infatti, come il governo di uno solo è il migliore quando è giusto, così quando è ingiusto costituisce il dominio peggiore. “Alla cosa migliore si contrappone quella peggiore, ne consegue che la tirannia, opposta alla monarchia, è la peggior forma di governo... Inoltre: un governo è ingiusto, perché disprezza il bene comune della moltitudine, e ricerca il bene privato di chi governa. Un governo dunque è tanto più ingiusto quanto più si allontana dal bene comune. Ora nell’oligarchia, nella quale si ricerca il bene di pochi, ci si allontana di più dal bene comune che nella democrazia, nella quale si ricerca il bene della moltitudine; e ancora di più ci si allontana dal bene comune nella tirannia, nella quale si ricerca il bene di uno solo. Quindi il governo del tiranno è il più ingiusto. Fra i governi ingiusti dunque il più tollerabile è la democrazia, il peggiore la tirannide”. Nel capitolo sesto, infine, scrive che la monarchia in sé è il governo migliore, ma può degenerare e diventare il peggiore, allora è bene che essa sia temperata da un’aristocrazia e da una certa ‘politeìa’: “Dal momento che si deve preferire il governo monarchico, essendo il migliore, e che può avvenire che si muti nella tirannia che è il peggiore... perciò bisogna temperare il potere del re in modo che difficilmente possa mutarlo in tirannia. Se la tirannide non è eccessiva, è certamente più utile sopportarla per un certo tempo, piuttosto che, reagendo, incorrere in molti pericoli più gravi della stessa tirannide. Infatti può succedere che quelli che si sollevano contro il tiranno siano sconfitti e così il tiranno provocato diventerà più crudele. Ma anche dalla loro vittoria possono derivare molte gravissime discordie nel popolo: la comunità si divide in fazioni. Talvolta succede anche che, avendo il popolo cacciato il tiranno con l’aiuto di qualcuno, questi diventi a sua volta tiranno dopo aver preso il potere ed opprima i sudditi ancor più pesantemente. Se poi l’eccesso di tirannide fosse insopportabile, secondo alcuni, toccherebbe al valore degli uomini migliori e forti uccidere il tiranno ed esporsi al pericolo della morte per la liberazione del popolo. Sarebbe pericoloso per il popolo e per i suoi governanti, se arbitrariamente si potesse attentare alla vita di coloro che governano, sia pure tiranni. (...) Risulta quindi che contro la crudeltà dei tiranni si deve procedere non secondo l’arbitrio di qualcuno, ma per mezzo della pubblica autorità. Se alla comunità spetta scegliersi il re, esso può essere destituito e i suo potere frenato dalla comunità stessa, se adopera il potere tirannicamente” ([15]). Nel “Commento alla politica” di Aristotele l’Angelico spiega meglio il concetto di Politìa. Essa è una forma di governo che conserva l’ordine pubblico, l’esecuzione delle leggi e la tranquillità dello Stato ed amministra la giustizia tramute i magistrati e i loro ministri, ossia i militari che oggi si chiamano anche “polizia”. Onde la Politia è il governo dei magistrati, mentre la “Democrazia” è il governo della massa informe e quindi è una degenerazione della Politìa. Gli antichi romani dicevano: “aggiungi l’individuo e trovi il popolo, togli l’individuo e hai solo la massa”; vale a dire, il popolo è un insieme di persone, mentre la massa informe non è, in senso stretto, popolo ma gregge. La Democrazia si fonda - per Aristotele e S. Tommaso - sul gregge o massa, mentre la Politìa sul popolo o società di persone razionali e libere. Secondo Aristotele la Politìa consiste nell’equa partecipazione degli onesti cittadini al potere, vale a dire «i cittadini che non siano stati sottoposti a condanne» (Politica IV, 1292 a.). In essa la «sovranità risiede nella legge e non nella moltitudine e nelle sue deliberazioni» (Ivi). Nella Democrazia (o corruzione della Politìa) la legge perde la propria forza e la massa popolare diventa arbitra dello Stato. In tale regime i demagoghi (e non i migliori cittadini, come nella Politìa) tengono le redini del governo, e le leggi positive come specificazioni della legge naturale (quale partecipazione della legge eterna o divina), inscritta dal Creatore nell’animo umano, (diversamente dal Giusnaturalismo di Grozio o Pufendorf, i quali fanno dipendere il diritto naturale dall’uomo, privandolo così delle basi oggettive e stabili) non sono più sovrane, ma dipendono dal capriccio del popolo (che diventa dispotico) e dalla scalata sociale dei demagoghi e degli adulatori. La Politìa è una via di mezzo tra due vizi (l’eccesso o oligarchia e il difetto o democrazia), che si fonda sulla “classe media” e non sulla massa o sull’aristocrazia. In essa la partecipazione degli onesti cittadini alla vita politica è la più vasta e intensa possibile, ogni valido cives deve poter partecipare (se capace) all’esercito, alla magistratura e al governo ([16]).
 
Conclusione
 
La crisi attuale, che attanaglia America ed Europa, non è più soltanto intellettuale e morale, ma è diventata economica, sociale e persino bellica. Sembra che il ‘Nuovo Mondo’ - nato dalle macerie della ‘Vecchia Europa’ - fondato su il primato della democrazia moderna stia per dissolversi, dopo aver toccato il suo apice (11 settembre 2001). L’alternativa è o la distruzione totale o il ritorno ai principi che hanno fatto grande il mondo, i quali sono quelli nati nel Area Mediterranea e sviluppatisi nella Grecia classica e nella Roma antica, per essere perfezionati dalla Cristianità europea: patristica, scolastica e ‘canonistica’ civile/ecclesiastica. Saprà l’Europa ritornare alle sue fonti e far rivivere le sue radici? Solo Dio lo sa, noi non possiamo che aspettare il compimento dei tempi, secondo il piano prestabilito dalla Provvidenza.
 
d. Curzio Nitoglia
 
11 luglio 2009
 

NOTE
[1] Questi stessi princìpi portarono l’America “nel 1917 a salutare la rivoluzione di ottobre in Russia […]. Sette giorni dopo l’abdicazione dello zar, gli Usa furono il primo paese a riconoscere il nuovo governo russo di Aleksadr Kerensky […]. Ma quando i bolscevichi presero il potere […], questa volta gli Usa furono l’ultima potenza a riconoscere il nuovo governo. L’ostilità degli Usa nei confronti di bolscevichi dipendeva molto dal fatto che l’Urss minacciava di prendere il posto degli Usa all’avanguardia della storia” (p. 357). Come si vede la questione dell’anticomunismo di principio, ideologico e teologico, americano, è una delle invenzioni dei teocons. “La risposta degli Usa fu di affermare che la rivoluzione bolscevica era una falsa rivoluzione, che usurpava la vera rivoluzione democratica” (ivi). “Fatti in là, ci vo’ star io”.
[2] “Nei primi due anni della prima guerra mondiale, come potenza neutrale, gli Usa si considerarono unici e al di sopra delle parti, moralmente diversi, custodi dei sani e giusti valori del tempo di pace […]. Tuttavia, tale convinzione della superiorità morale americana, a partire dal 1917, fu trasformata in una campagna volta ad annientare i signori della guerra tedeschi, grazie alla guerra che avrebbe messo fine alla guerra” (p. 356).
[3]) Notre charge apostolique, 25 agosto 1910.
[4]) L. Canfora, Critica della retorica democratica, Laterza, Bari, 2002, pagg. 13-14.
[5]) Ibidem, pag. 17.
[6]) Cfr. anche S. Gerbi, Raffaele Mattioli e il filosofo domato, Einaudi, Torino, 2002.
[7]) S.T., I-II, q. 95, a. 4.
[8]) S.T., I-II, q. 105, a. 1, in corpore.
[9]) R. Bellarmino, Il dovere del principe cristiano, Morcelliana, Brescia, 1997, pagg. 223-225.
[10]) S.T., Suppl., q.37, a.1, 3um. 
[11]) Ibidem, ad 3um. 
[12]) S.T., II-II, q.50, a.1, 2um. 
[13]) S.T., I-II, q.105, a.1, 2um. 
[14]) Ibidem, ad 2um.
[15]) De regimine principum, 16.
[16] Cfr. r. spiazzi, Enciclopedia del pensiero sociale cristiano, ESD, Bologna, 1992, pp. 54-57.
 

Nessun commento:

Posta un commento