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lunedì 13 maggio 2013

Prof. Mario Palmaro – Legale è anche morale?


Prof. Mario Palmaro – Legale è anche morale?

Prof. Mario Palmaro – Docente di filosofia del diritto, Presidente del Comitato Verità e Vita
Il rapporto fra diritto e morale ha appassionato generazioni di teologi e filosofi, che si sono confrontati con uno degli snodi più problematici del pensiero umano. Secondo alcuni, questo punto nevralgico del dibattito intellettuale sarebbe – con immagine colorita e invero molto efficace – il Capo Horn della filosofia del diritto. Un luogo concettuale dove, in altre parole, è necessario passare se si vuole navigare fino alla meta; ma allo stesso tempo, un posto dove molti se non tutti alla fine farebbero, inesorabilmente, naufragio.
In questa immagine vi è indubbiamente molta verità. Tuttavia, la consapevolezza della difficoltà non può indurre a imboccare facili scorciatoie. E per un motivo molto semplice: l’uomo deve necessariamente risolvere il problema del rapporto diritto-morale, perché altrimenti non è in grado di scrivere alcuna norma giuridica. E senza norma giuridica, è impossibile la convivenza umana, il sorgere della società, lo sviluppo delle aspirazioni più profonde ed elevate della persona. Soltanto un sistema straordinariamente efficace come l’ordinamento giuridico romano poteva permettere la nascita e lo sviluppo di una delle più grandi civiltà della storia umana. Soltanto in quel sistema – governato da regole e disciplina - poteva prosperare la ricchezza culturale della arti classiche, documentata dalla poesia, alla letteratura, all’architettura latina. E, aggiungiamo noi, soltanto dentro questo stupendo prodotto del genio umano poteva nascere e svilupparsi in quel modo straordinario l’avventura bimillenaria della Chiesa cattolica. Che è universale, ma insieme, indissolubilmente, “romana”.
Ricapitolando: l’uomo ha bisogno del diritto; il diritto ha bisogno di un criterio, di un metro di giudizio “metagiuridico” che consenta al legislatore di stabilire che cosa è lecito e che cosa è vietato; questo metro di giudizio è sempre il prodotto della risposta a una sola e unica domanda: quale rapporto esiste fra diritto e morale.
In questo breve studio cercheremo di toccare alcuni aspetti di questa enorme questione, mettendo in luce soprattutto i punti che legano il problema in oggetto alle più dibattute tematiche della bioetica, con particolare riferimento alle tecniche di fecondazione artificiale.

La scomparsa della morale e della legge naturale
E’ necessaria una premessa metodologica che ha anche una valenza storica. Nel nostro ragionamento terremo per valido un assunto, che ha la valenza di un assioma ragionevole: esiste una morale universale, cioè esiste un sistema di riferimento che è in grado di orientare l’azione umana, definendo in maniera assoluta – cioè non passibile di eccezioni – comportamenti che sono sempre e comunque non conformi alla natura dell’uomo e al suo bene. Questa premessa non sarebbe stata necessaria fino a qualche decennio fa, quando era pacificamente accettata l’idea che esistano degli “assoluti morali”, cioè dei principi validi sempre, inderogabili e immutabili, veri in ogni luogo e a ogni latitudine. Oggi lo scenario è stato sconvolto dalla diffusione di un pensiero debole, di forte impronta relativista e nichilista, che nega la possibilità di affermare in maniera assoluta che “uccidere l’innocente” è sempre e comunque un male morale grave. Questa premessa rende ragione di un fatto: e cioè che la società post moderna non solo fa fatica a definire il rapporto fra diritto e morale, ma si mette nelle condizioni di abolire, di fatto, uno dei due termini del confronto: la morale è morta.
Con la morale muore anche e soprattutto l’idea di una verità oggettiva, razionalmente conoscibili, che guida non solo le coscienze individuali, ma anche le scelte collettive, le decisioni assunte nell’ambito del bene comune. E’ il declino della dottrina del diritto naturale, che curiosamente sta evaporando soprattutto nell’ambito di una parte importante del mondo cattolico.
Il Novecento ha fatto registrare nell’ambito della teologia cattolica la diffusione di un pensiero impregnato di protestantesimo, nel quale l’attenzione alla “Parola”, cioè al libro sacro, ha spazzato via il legame tipicamente cattolico fra fede e ragione, immortalato dal genio di Tommaso d’Aquino e sviluppato pazientemente dalla Tradizione. Ne è scaturita una deriva fideistica, che ha cominciato a pensare e a insegnare che le verità morali non sono comprensibili al di fuori dell’ottica della fede in Cristo. Di conseguenza, muore una volta per tutte la speranza di riconoscere alcuni principi morali capaci di informare la struttura del sistema politico e giuridico. La morale diventa un fatto “di coscienza” e solo di coscienza, per cui niente e nessuno può pretendere di stabilire che una certa condotta è sempre e comunque reato. Tanto per essere chiari: abortire sarà anche una brutta cosa in termini morali “per chi è cattolico”; ma ciò non significa che la società civile debba vietare quel comportamento.
A pensarci bene, si tratta di un’eresia terribile. Che, da un lato, nega incredibilmente il valore oggettivo dei fatti e riduce la realtà a ciò che l’uomo percepisce. Così, il concepito diventa “uomo secondo me”, ma anche “grumo di cellule secondo un altro”. Dall’altro lato, questo fideismo offende profondamente l’uomo non credente, perché afferma che la sua è – razionalmente parlando – la condizione di un minus habens, che non è capace di riconoscere la verità morale che invece è concessa al credente. In realtà, la Chiesa fu sempre fieramente legata alla dottrina della legge naturale, alla ragionevolezza dei precetti morali, e alla possibilità di riconoscere il bene e il male usando la ragione. Da ultimo, è una malattia del pensiero che pecca contro la Provvidenza, perché presuppone che Dio non possa aiutare anche chi non possiede il dono della fede a ricercare con sincerità la verità di fronte, ad esempio, alle questioni scottanti dell’aborto o dell’eutanasia.
Come vedremo, in realtà non c’è Stato che non sia costretto, anche solo implicitamente, a stabilire delle verità inconfutabili come fondamento del proprio ordinamento. Pensiamo ai principi che di solito aprono le carte costituzionali. Proprio questo fatto – la inevitabilità di un confronto fra potere civile e legge morale – riporta continuamente al centro dell’attenzione il tema della legge naturale. E curiosamente, in questi anni, proprio a causa di quella crisi attraversata dal pensiero cattolico (non però dal Magistero) di cui abbiamo appena parlato, sono proprio i pensatori laici, i non credenti onesti, i cosiddetti “atei devoti” a pretendere la riapertura di un caso che sembrava chiuso. Il caso serio del rapporto fra morale e diritto.

Una domanda fondamentale
Quali sono le condotte che costituiscono reato? Potremmo rispondere: quelle che sono vietate e punite dal codice penale? La risposta è formalmente ineccepibile. Ma porta con sé una serie di questioni molto serie. Ad esempio: che cosa accade se il codice penale è quello voluto da un dittatore sanguinario? E ancora: che cosa accade se la scienza rende possibile un comportamento prima mai verificatosi – ad esempio la produzione dell’uomo in provetta – e il codice tace sulla materia, perché è stato scritto molti anni prima? E di più: se il codice penale ancora non esiste, perché stiamo parlando di uno Stato di nuova fondazione, che deve darsi le sue leggi, come accadde ad esempio quando nacquero gli Stati Uniti d’America; ecco, in simile caso, con quale criterio il legislatore compilerà la lista delle “cose proibite”?
Queste domande fanno comprendere a ogni uomo che non sia accecato dall’ideologia come la questione giuridica sia legata a filo doppio con la questione morale. Cioè con il patrimonio di valori e di verità che un popolo vuole porre a fondamento della sua convivenza ordinata.
A questo problema possono essere opposte soluzioni fra loro diversissime. Proviamo a riassumerle senza pretendere di esaurire l’elenco. Il legislatore può scegliere sostanzialmente fra questi criteri di giudizio:

a) La legge naturale
b) La legge positiva
c) Il consenso dell’opinione pubblica
d) L’utilità (efficienza)
e) L’autodeterminazione
f) L’efficacia (effettività)


a. la legge naturale
E’ la soluzione più antica e collaudata. Si parte dal presupposto che la legge eterna, formulata da Dio, indica la strada maestra all’uomo legislatore. Il quale riceve in sé l’inclinazione innata a ricercare la legge naturale, ma deve inoltre compiere un atto della sua volontà per orientare la ragione verso questa ricerca. Questo modello pone il legislatore umano in una condizione di limite: se la legge scritta dagli uomini contraddice la legge naturale, siamo di fronte a una legge ingiusta (non “imperfetta”, non “inadeguata”…), che non è nemmeno una legge in senso proprio, ma una sua corruzione (San Tommaso d’Aquino). E, dunque, questa legge ingiusta cessa di vincolare in coscienza l’uomo retto, che ha il dovere di fare obiezione all’ingiustizia legalizzata e a non darsi pace finchè questa ingiustizia sia tolta di mezzo. Questa dottrina presenta anche elementi problematici (ad esempio la conoscenza della legge naturale, in che cosa essa consista, quali siano i suoi contenuti) che vanno riconosciuti e approfonditi, ma che non scalfiscono l’idea originaria, forte e affascinante, che sta alla base dell’idea di diritto naturale. Il pensiero contemporaneo si è ribellato violentemente a questa dottrina, ma continua a farne ampio uso di contrabbando, come ad esempio quando definisce una lista di diritti inviolabili – i diritti dell’uomo – la cui fondazione non può che essere, appunto, nella legge naturale.

b. La legge positiva
E’ la dottrina del positivismo giuridico, che ha avuto molti padri, fra i quali spicca certamente il filosofo del diritto di origine boema Hans Kelsen. Per il positivismo, tutto esiste nel diritto positivo, e nulla esiste al di fuori del diritto positivo. La legge è solo la norma scritta, e al di fuori di essa per il giurista non vi è nulla di rilevante. La norma è vincolante in virtù del fatto che è stata posta formalmente in modo corretto nell’ordinamento giuridico. Se possiede tali requisiti, esiste e obbliga. E’ del tutto irrilevante quale sia il suo contenuto. Si può ben capire perché questa dottrina sia nata e si sia diffusa nel Novecento, il secolo che ha visto scatenarsi la più imponente mattanza di uomini innocenti sotto l’ombrello formale dei sistemi giuridici dittatoriali del socialismo reale e del nazionalsocialismo.

c. il consenso dell’opinione pubblica
Questa soluzione è oggi la più gettonata, e riscuote un successo enorme all’interno della diffusione che il sistema democratico sta conoscendo nel mondo. L’idea è semplice, perfino banale: è giusto per legge ciò che la maggioranza pensa sia giusto. E, di converso, anche l’ingiusto viene definito di volta in volta dal numero delle teste che scelgono di schierarsi dall’una piuttosto che dall’altra parte. Dunque, se ne ricava che non esistono comportamenti in sé stessi criminosi, sempre e comunque; ma esistono soltanto condotte che qui e adesso, secondo il sentimento comune, sono criminose. La società dei cannibali scriverà leggi che magari vietano di mangiare con la forchetta, ma consentono di cucinare un nostro simile. Allo stesso modo, la società occidentale del terzo millennio magari vieta di prendere a bastonate un mulo che non vuole muoversi; ma considera lecito uccidere un essere umano innocente, purchè non sia ancora nato. In questo scenario, non esiste alcuna relazione fra diritto e morale, poiché la morale non esiste più, se non come arredamento interiore delle singole coscienze. Per la verità, nemmeno il diritto esiste più. Esiste solo la forza, cioè la capacità di coercizione esercitata dalla maggioranza attraverso i canali formalmente puliti e rispettabili del sistema democratico.

d. l’utilità (efficienza) La legge sarà qui il prodotto di ciò che è ritenuto più utile per la maggior parte delle persone che vivono all’interno di una comunità. Qui il diritto cessa di essere al servizio della persona, scompare il “primato del singolo” - per usare l’espressione del grande Soren Kierkegaard – in relazione con altri da sé, in vista di un bene comune. E sulla scena irrompe l’idea del primato non del bene comune, ma del bene della maggior parte dei consociati. In tale visione, la legge potrà ammettere la liceità di comportamenti che ledano i diritti fondamentali individuali. Potrà perfino legittimare atti di disposizione della vita altrui, quando si ritenga che questa scelta sia la migliore per la maggior parte dei consociati. Se un cittadino è ad esempio gravemente ammalato, è possibile che sia la cosa migliore per la maggior parte della società “eliminarlo”, quando la sua vita appaia ormai solo un peso insopportabile per la felicità e l’utilità dei suoi concittadini (eutanasia per motivi sociali ed economici). Concittadini che potranno così usare meglio i soldi risparmiati con le inutili cure nei confronti del malato nullafacente, godendo meglio la loro vita sana, almeno fino al giorno in cui, cadendo essi stessi malati, non verranno tolti di mezzo da altri sani. In una spirale non propriamente improntata alla solidarietà.

e. l’autodeterminazione E’ il modello di maggior suggestione elaborato dalla società contemporanea. Fa leva sulla innata propensione dell’uomo a preferire modelli sociali nei quali egli possa fare di testa sua, piuttosto che modelli nei quali la volontà individuale sia costretta a confrontarsi con la categoria della responsabilità e del bene morale oggettivo. A ognuno di noi piace istintivamente di più un’autostrada nella quale non vi siano limiti di velocità, piuttosto che percorrerne una dove la polizia stradale pone delle condizioni alla circolazione e punisce i trasgressori. L’autodeterminazione si fonda sull’idea che l’uomo è il padrone della propria vita e deve poter scegliere. La scelta è già etica ed è del tutto indifferente quale sia il contenuto della scelta stessa. Questo mito della scelta è così potente da travolgere nel tempo non soltanto la propria sfera personale (ad esempio: scelgo di farmi uccidere perché non voglio più morire = eutanasia su richiesta), ma anche l’ambito dei diritti altrui (ad esempio: scelgo di non proseguire la gravidanza, cioè scelgo di sopprimere un altro-da-me = aborto procurato). Il principio di autodeterminazione si è così radicato nella società presente, da aver conquistato anche fette significative di società che in origine contestavano questa prospettiva. Capita così che la questione dell’aborto sia sempre più spesso considerata da tutti una questione di “scelta della donna”, che tutt’al più dovrà essere aiutata a “scegliere davvero”, offrendole una buona scorta di pannolini. Senza riflettere che, stando così le cose, si sta affermando che “uccidere un essere umano innocente è una questione di scelta”.

f. l’efficacia Alcuni filosofi del diritto contemporanei hanno messo l’accento sul fatto che non basta scrivere le leggi e renderle pubbliche. Bisogna poi impegnarsi affinché esse siano effettivamente rispettate dai consociati. Giusto. Il problema concettuale nasce dal fatto che questi pensatori hanno preteso di trasformare l’indice di effettività della norma – cioè la sua incidenza reale nella vita di tutti i giorni – in criterio decisivo per il legislatore. In altre parole: se una certa condotta è vietata dall’ordinamento, ma tantissimi cittadini se ne infischiano, e non rispettano la norma stessa, allora è meglio che il legislatore ne prenda atto, e riformuli i suoi codici adattandosi a ciò che i più fanno. Anche questa dottrina ha riscosso nella società democratica un successo enorme, soprattutto sul terreno della bioetica e dei temi connessi alla famiglia e al matrimonio. L’aborto è stato legalizzato sostenendo che era ampiamente praticato in barba al divieto legale; la fivet viene regolamentata perché altrimenti – si dice – verrà comunque praticata in laboratori poco sicuri; l’eutanasia dovrà essere legalizzata per sconfiggere la pratica clandestina. Non rendendosi così conto che la legge scompare, perché abdica al suo ruolo intrinseco: porre una barriera coattiva alla inclinazione indubbiamente presente nell’uomo a tenere un certo comportamento deviante.

Un criterio veramente umano
Da quanto abbiamo pur sinteticamente scritto, appare evidente che i criteri alternativi alla dottrina della legge naturale appaiono ampiamente lacunosi, insoddisfacenti nei risultati storici, contraddittori nelle premesse logiche e concettuali. Certo, dobbiamo riconoscere che il pensiero contemporaneo, la dottrina giuridica prevalente, il senso comune della gente, sposano per lo più le teorie formalistiche, cioè quelle che negano la necessità di una legge naturale e di una subordinazione dell’ordinamento giuridico ad esso. Ciò non significa che non si debba al contrario rilanciare con forza la necessità di riscoprire il diritto naturale.
In questa sana e saggia prospettiva, rimane però aperto un problema: se è vero – come è vero – che l’uomo deve dipendere dalla legge naturale, e che ad essa devono riferirsi parlamenti quando legiferano; se è vero che esistono azioni riprovevoli in sé e per sé (rubare piuttosto che tradire la propria moglie); se è vero inoltre che la morale ha una sua ripercussione sulla norma giuridica (al ladro non diremo soltanto “bricconcello”, ma lo faremo arrestare dai gendarmi); se è vero tutto questo, allora quando una condotta immorale deve essere perseguita anche dal legislatore?
Ancora una volta, proveremo a rispondere in termini molto sintetici, per favorire la chiarezza espositiva.
Un atto umano immorale dovrà essere sanzionato anche dall’ordinamento giuridico pubblico quando:
  • Appartiene alla categoria dei mala in se: è oggettivamente un male. Non “è male perché l’ha detto il legislatore”, ma al contrario “è sanzionato perché comporta un male per l’uomo”. L’omicidio è reato perché comporta un danno gravissimo per un innocente e per i suoi familiari e amici; e non, viceversa, è un male perché il codice lo vieta.
  • Minaccia il bene comune: lede un diritto altrui o un diritto indisponibile. Se nel mio cuore progetto seriamente di uccidere mia suocera, sono moralmente censurabile. Ma il diritto si disinteressa di questo mio desiderio criminoso. E giustamente, perché non nuoce all’esterno della mia coscienza (all’interno nuoce moltissimo, perchè potrebbe dannarmi per l’eternità). Soltanto se dal progetto passo alla sua realizzazione c’è un reato. Questo ragionamento permette di comprendere perché vi sono peccati che non sono delitti (ad esempio pensare male del prossimo); illeciti civili che non sono peccati (ad esempio parcheggiare in sosta vietata perché si sta consegnando un medicinale a una vecchietta che non può muoversi di casa) e condotte che sono sia peccati che reati (ad esempio l’aborto volontario, l’eutanasia, la fecondazione artificiale).
  • Educa i consociati a commettere il male: vi sono comportamenti che, se legalizzati, avrebbero l’effetto di promuovere il male come stile di vita. La legalizzazione del divorzio ha incentivato lo sfascio della famiglia; la legalizzazione dell’aborto ha aumentato la propensione all’aborto come soluzione al “problema” del figlio imprevisto; la legalizzazione dell’eutanasia – dove è già avvenuta – rende normale sopprimere un malato, anche senza il suo consenso.
La scelta della modernità Non v’è dubbio che nei tempi in cui ci è toccato di vivere, i sistemi giuridici hanno in larga parte abbandonato questi criteri ragionevoli che ci erano stati affidati dalla tradizione classica, e che abbiamo rapidamente descritto. Oggi sono ampiamente predicati e praticati altri criteri, che possiamo così riassumere:
  • “Amoralità” della norma giuridica
  • Il “giuridico” non ha a che fare con il problema del “giusto” (bonum iustitiae)
  • Laicità dello stato
  • Il riferimento alla morale configura il ritorno allo “Stato Etico”
Si tratta di una nuova “mistica delle istituzioni”, di una mitologia minimalista che sostituisce quella classica, la quale a dispetto della sua asetticità e obiettività, contiene una clamorosa componente ideologica: vuole espellere a forza la domanda più umana che la persona si porta dietro, e che riemerge continuamente. E’ la domanda che fa dire all’uomo della strada: ma quello che sto vedendo è giusto? E’ giusta questa sentenza? E’ giusta questa condanna o questa assoluzione? E’ giusta questa aliquota fiscale? E’ giusto questo sussidio per questo povero? Ecco: basta girare lo sguardo sulla realtà, e la domanda di giustizia si prende prepotentemente la scena. Solo il furore giacobino e laicista può illuderci che possa esistere un modo per scrivere le leggi che prescinda da un confronto con la morale. Solo l’ignoranza e la dabbenaggine di un certo cattolicesimo democratico può credere e farci credere che si possa affermare i diritti delle donne senza affermare prima la natura ontologica della dignità della donna e dell’uomo; o che si possa tutelare i diritti umani, senza pretendere che essi siano riconosciuti a tutti, compresi innanzitutto i nascituri, o gli embrioni disgraziatamente prodotti in provetta.

Alcuni “rimedi” sbagliati
In un clima di diffusa confusione, e di tragica rimozione del concetto di legge naturale, non è raro constatare il ricorso a soluzioni e rimedi che si rivelano spesso - al di là delle buone intenzioni – toppe peggiori dello strappo che vorrebbero rammendare. Ecco in sintesi alcune di queste medicine sbagliate:
  • Totale sovrapposizione diritto/morale: alcuni vagheggiano una impossibile identificazione dell’ambito morale con quello giuridico, offrendo così il destro a laicisti di ogni ordine e grado di infilzare tale prospettiva, tacciandola di “ritorno allo stato etico”. In verità, nemmeno durante la cristianità – cioè in quel periodo storico in cui la civiltà era un tutt’uno con la fede in Cristo Re e Signore della storia – la Chiesa ha mai preteso di punire con il braccio secolare tutti i peccati. Anzi, se ne guardò bene. La materia morale che ricade nella sfera del giuridico è sempre limitata, e va delimitata secondo alcuni criteri ragionevoli che abbiamo sopra descritto.
  • Le leggi “cattoliche”: nel linguaggio corrente capita spesso che taluni utilizzino questa espressione, distinguendo le leggi dello stato in “cattoliche” e “non cattoliche”. Domanda: la norma che proibisce l’omicidio è cattolica o buddista? Evidentemente, è semplicemente giusta. Non è dato sapere che cosa si intenda con “legge cattolica”, espressione della quale si deve sempre diffidare e che è meglio abbandonare definitivamente.
  • Totale ignoranza della dottrina della legge naturale: su questo punto, già abbiamo detto molto. E’ un fatto che oggi una parte non marginale del clero cattolico e degli studiosi, anche di diritto, cattolici, ignorano totalmente questa categoria e il suo peso decisivo nel dibattito con il mondo laico.
  • Dottrina del male minore: è la madre di tutte le peggiori operazioni giuridico-politiche in campo bioetica. Essa si illude di compiere un bene, proponendo soluzioni legislative che tradiscono la verità e il bene comune. Con il passare del tempo, i fautori di una legge improntata al male minore si dimenticano di quale fosse il bene tutto intero, e difendono la legge (ingiusta) che hanno partorito come se si trattasse di una legge giusta e intoccabile. Esemplare di questa parabola, la vicenda italiana della legge 40/2004 sulla Fecondazione artificiale.
  • Dottrina della “legge imperfetta”: parente stretta della dottrina del male minore, questa nuova categoria serve per trasformare per magia una legge ingiusta in una legge che, tutto sommato, non è poi così male. Significativo in tal senso il dibattito sulla legge 194 in Italia: vi sono alcuni che trent’anni fa la contestarono radicalmente, e che oggi la difendono perché, dicono, “basta applicarla tutta intera”.
La “legge reale” e la “legge percepita”: dalla legge 194 alla legge 40.
Talvolta, nella società dei mass media, vi è una profonda, radicale differenza fra le cose come stanno veramente, e le cose come sono percepite dall’opinione pubblica. Possiamo prendere due casi davvero esemplari per comprendere come vi sia talvolta una diversità enorme fra i fatti reali e i fatti percepiti.
Cominciamo dalla legge 194 del 1978 che ha regolamentato l’aborto nel nostro Paese. Nel comune sentire dell’opinione pubblica, anche più colta, la legge in questione è percepita – sinteticamente - in questo modo:
  • Limita l’aborto a pochi casi drammatici
  • Impedisce l’aborto selvaggio
  • Il frutto di un compromesso
  • a ridotto l’aborto clandestino
  • Una legge ci vuole
  • Risponde al problema delle “zone grigie”
Questa errata percezione provoca clamorosi abbagli anche in alcune frange del fronte culturale che un tempo si opponevano alla legge sull’aborto. Frange che oggi arrivano a trarre le seguenti, inquietanti conclusioni:
  • La 194 impedisce l’uso della Ru486
  • Contiene parti positive
  • Un tempo la contrastavamo, oggi non più
  • Non vogliamo cancellarla, semmai modificarla
  • Va difesa
Nella realtà, le norme della legge 194 configurano un quadro completamente diverso da quello percepito, che ci inducono a formulare una valutazione di questo tenore:
  • E’ una legge gravemente ingiusta
  • Permette l’uccisione dell’innocente con molta ampiezza
  • Non riconosce mai che l’aborto è un illecito e un male in sé
  • Espunge l’uomo da ogni considerazione
  • Introduce l’eliminazione eugenetica dei difettosi
Qualche cosa di molto simile si può osservare analizzando le vicende legate al dibattito sulla Fecondazione artificiale in Italia. La legge 40 è spesso così percepita:
  • Una legge che difende il diritto alla vitaUna legge proibizionista
  • Una legge cattolica
  • Una legge che tutela la morale cattolica
  • Una legge che impedisce la fivet
  • Una legge che è buona (perché) non fa diminuire i figli della provetta
Ma la legge 40 vera, quella reale e non prodotta dai sogni degli idealisti, è un’altra cosa:
  • Una legge di regolamentazione
  • Una legge procedurale
  • Il prodotto di una mediazione politica
  • Una legge gravemente ingiusta
Per quali ragioni possiamo e dobbiamo affermare che la legge 40 è una legge gravemente ingiusta? Perché “non è una legge cattolica”? Come già detto, questo è un argomento grottesco e risibile, per la sua sgangherata insipienza concettuale. No. Qui occorre attingere a un ragionamento più rigoroso. Bisogna cioè chiedersi: le pratiche di fecondazione artificiale extracorporea appartengono alla categoria dei mala in sé? In altre parole: fare fecondazione artificiale lede qualche diritto fondamentale altrui? La risposta a questi quesiti netti è altrettanto semplice e netta: sì.
Sappiamo benissimo che le tecniche di FIV, anche nelle forme consentite dalla legge in vigore in Italia, accumulano una serie imponente di gesti che calpestano la dignità dell’essere umano. Non sapremmo da che parte cominciare, tante sono le questioni giuridicamente (e non solo moralmente!) sensibili: si producono esseri umani allo stato embrionale fuori dal luogo in cui essi si sono sempre trovati, cioé il grembo della donna; l’altissima abortività indotta dalla tecnica; l’inevitabile produzione di embrioni soprannumerari, che nemmeno la norma in vigore può scongiurare; l’aborto selettivo nel caso di impianti plurimi; l’approccio eugenetico al figlio perfetto, che si traduce nell’osservazione degli embrioni prima dell’impianto, limandone alcuni perché ritenuti non idonei (la legge lo consente); l’atteggiamento di dominio del tecnico e della coppia rispetto all’inesistente “diritto al figlio”?


Le sfide per il futuro
Il quadro che abbiamo appena dipinto lascia indubbiamente l’amaro in bocca. Soprattutto pensando alla mancanza di spazi pubblici liberi – laici o cattolici – nei quali portare il fermento di queste osservazioni e di questi giudizi di valore. La verità subisce persecuzione, è osteggiata, è silenziata. Non solo dai nemici storici della vita nascente. Ma non ci è lecito disperare o gettare la spugna. Ci attende un compito arduo ma esaltante, enorme ma appassionante. In primo luogo, contrastare le “leggende” sulla legge 40, e aiutare l’opinione pubblica a scoprire gli orrori di queste tecniche, anche quando sono attuate nell’alveo del diritto positivo vigente. Denunciare i casi di “compromissione” con la FIVET, cioè quelle situazioni di clamorosa contraddizione etica che si verificano in quegli ospedali di ispirazione cristiana, che da anni producono impunemente “figli in provetta”. E che pretendono di autoassolversi come fossero in linea con la dottrina cattolica e con le esigenze della legge naturale. In questo senso, dobbiamo pure promuovere l’obiezione di coscienza prevista dall’articolo 16 della legge 40, articolo sconosciuto praticamente alla totalità dell’opinione pubblica.
E ancora: siamo chiamati continuamente e senza sosta a denunciare il delitto di aborto, reso possibile anzi alimentato dalla legge 194 in vigore. Scongiurando il processo di omologazione e di assuefazione alla legge vigente, che colpisce livelli importanti dello stesso mondo cattolico.
Se lavoreremo su questa difficile ma entusiasmante frontiera, avremo fornito un contributo decisivo alla ricostruzione della dottrina della legge naturale, alla riconciliazione del mondo della morale con il mondo del diritto, al bene comune che tanto interessa a ogni persona di buon senso.

* Mario Palmaro è Presidente nazionale del Comitato Verità e Vita. E’ docente di Filosofia del diritto, Filosofia Teoretica, Etica e Bioetica nell’Università Europea di Roma. Insegna nella Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum. E’ editorialista de il Giornale e autore di numerosi saggi di costume con il giornalista Alessandro Gnocchi

DIBATTITO SULLA FECONDAZIONE ARTIFICIALE

Le derive proporzionaliste e la sindrome del “male minore”.

Il dibattito sulla fecondazione artificiale.

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di Mario Palmaro[1]
Maurizio Mori ha avuto il merito di sollevare un caso esemplare. Ha “sorpreso” il quotidiano cattolico Avvenire mentre elogiava il congelamento di ovociti, congelamento esplicitamente funzionale alla realizzazione della fecondazione artificiale extracorporea.
Un infortunio isolato? Un equivoco? Un forzatura interpretativa da parte di un filosofo del diritto? No. Si tratta piuttosto di uno dei numerosi episodi che in questi anni si sono susseguiti, all’interno del circuito informativo e formativo del mondo cattolico italiano, nell’ambito del dibattito sulla fecondazione artificiale.
Com’è noto, nel 2004 l’Italia si è dotata di una legge, la numero 40, che ha regolamentato la materia della riproduzione artificiale. Una legge di compromesso, caratterizzata da una insanabile ambivalenza giuridica e culturale: da un lato, infatti, la legge 40 aveva stabilito alcuni divieti, per altro di dubbia effettività e non del tutto chiari sotto il profilo formale, divieti che la collocavano almeno sotto il profilo quantitativo tra le normative meno permissive in Europa. Dall’altro lato, però, la legge 40 sanciva in modo ufficiale e attraverso la veste autorevole del Parlamento, organo legislativo per antonomasia, la giuridicità delle tecniche di fecondazione artificiale, le inseriva all’interno di un quadro normativo che riconosceva un valore pubblico meritevole di tutela ai problemi di infertilità, e individuava nell’uso delle tecniche extracorporee una legittima soluzione a tale “desiderio di maternità”.
Va subito ricordato che i divieti contenuti nella legge 40 subivano un primo tentativo di smantellamento nel 2005, con la promozione di alcuni referendum abrogativi, che fallivano però in modo piuttosto clamoroso il loro obiettivo, a causa della bassissima affluenza alle urne, frutto di una motivata astensione promossa dagli ambienti pro life. Ma i divieti contenuti nella legge 40 subivano comunque un significativo ridimensionamento a seguito dell’intervento della Corte Costituzionale, che con la sentenza n. 151 del 2009 aboliva la limitazione della produzione di tre embrioni per ogni ciclo di fecondazione artificiale, ed ampliava il ricorso (per altro già previsto dalla legge al c. 3 dell’art. 14) alla crioconservazione di embrioni.
Com’è noto, la legge 40 è costantemente sottoposta alle critiche serrate di quegli ambienti che sono favorevoli alla fecondazione artificiale, e che considerano la normativa italiana troppo restrittiva. Questo clima di “battaglia” ha prodotto un effetto singolare: una parte importante del mondo cattolico ufficiale ha assunto in Italia un atteggiamento fortemente apologetico della legge 40, definendola una “buona legge”, e promuovendo una costante campagna di stampa tesa a dimostrare la efficacia e la funzionalità della normativa. Con un risultato paradossale: e cioè che gli organi della comunicazione di questa “area” hanno via via eliminato ogni accenno agli aspetti negativi di carattere etico e morale che sono proprio – e intrinsecamente – della fecondazione artificiale omologa.
A riprova lampante di questa tendenza si consideri il fatto che ormai da alcuni anni lo stesso quotidiano Avvenire “celebra” con toni entusiastici i dati diffusi dal Ministero della Salute, dati che confermerebbero un significativo ricorso alle tecniche di fecondazione artificiale extracorporea in applicazione della legge 40, documentato dal fatto che il numero di bambini nati dalla provetta in Italia sarebbe in crescita. Ora, a prescindere dall’analisi nel merito di questi dati e di questa tesi, è evidente che esiste una contraddizione insanabile fra questo atteggiamento e una contrarietà di principio alla Fivet. Infatti, delle due l’una: o si è convinti che fare figli in provetta sia una conquista di civiltà, un progresso della scienza e della morale, un fatto del tutto lecito e anzi da incoraggiare; e allora è del tutto coerente che si saluti come un evento positivo un trend di crescita del ricorso alla provetta. Oppure, si è convinti che produrre esseri umani attraverso le tecniche artificiali sia un atto moralmente illecito (lasciamo qui da parte la questione della illiceità giuridica, per semplificare il concetto); e allora non si può certo esultare se i “figli della provetta” aumentano.
I cattolici di Avvenire (e con loro molti altri) si sono infilati in una strettoia davvero poco invidiabile, che li obbliga da una parte a difendere a spada tratta la legge 40, a mettere in luce le magnifiche sorti e progressive della Fivet omologa, a esaltare chi opera il congelamento di ovociti; e, dall’altra, li vincola ogni tanto, come ad esempio quando ricevono una lettera da Mori, a ribadire che comunque conoscono la dottrina cattolica e che non l’hanno mai tradita o taciuta.
Nel dibattito pubblico italiano si è in altri termini consolidata una nuova, imprevista “polarità”: da una parte, i fautori della fecondazione artificiale libera e senza limitazioni, che vorrebbero eliminare i divieti contenuti nella legge 40; dall’altro lato, i difensori della fecondazione artificiale praticata nelle forme e nei limiti stabiliti dal legislatore nel 2004. Questa polarizzazione anomala ha portata una fetta prevalente della pubblicistica cattolica a contrapporre la fivet omologa – giudicata sostanzialmente buona, lecita e accettabile – alla fivet eterologa, ritenuta al contrario illecita sia sotto il profilo etico che giuridico.
Questo conflitto dialettico ha comportato l’espulsione dal dibattito di quei pensatori che invece contestano in radice la legalizzazione della fecondazione artificiale, motivandola innanzitutto con la imponente quantità di embrioni che viene sacrificata allo scopo di ottenere il c.d. bambino in braccio[2]. Paradossalmente, chi sostiene la legalizzazione della fivet omologa e il divieto della fivet eterologa mette l’accento sulle conseguenze morali e civilistiche post-nascita, enfatizzando i problemi (che certo esistono) in merito alla relazione genitori-figli prodotti con gameti esterni alla coppia.
Viceversa, chi contesta la legalizzazione della fivet in blocco (omologa ed eterologa) mette al centro la questione del diritto alla vita del concepito, argomentando che nessuna fecondazione artificiale extracorporea rispetta tale diritto. Vi è infatti una “uccisività” intrinseca alle tecniche, che non può essere considerata involontaria e non colpevole, dato che il trasferimento plurimo di embrioni nel corpo della donna ha proprio l’obiettivo che soltanto uno sopravviva fino alla nascita, con evidente riduzione a oggetto dell’embrione. Kantianamente, diremmo che nella Fivet ogni embrione è usato come mezzo per raggiungere un fine diverso dall’embrione stesso. Consapevolmente, infatti, il tecnico di laboratorio produce e trasferisce una pluralità di embrioni per ottenere un risultato che non è la nascita di tutti gli embrioni prodotti, ma la nascita di uno solo fra essi, ben sapendo dunque che è altamente probabile e perfino auspicabile la morte degli embrioni stessi, tranne uno.[3] Questo atteggiamento non è poi così sorprendente, se si pensa che lo scopo che anima un centro per la fecondazione artificiale non è già la “tutela del diritto alla vita dell’embrione”, ma la soddisfazione del cliente che chiede un “bambino in braccio”. Lacustomer satisfaction impone in questo caso di tentare di dare alla coppia un figlio piuttosto che certificare di aver agito nell’assoluto rispetto di ogni embrione.
Le cifre diffuse dal Ministero della salute confermano, del resto, il numero esorbitante di embrione trasferiti in un anno, a fronte del modesto contingente di bambini che giungono alla nascita: nel 2009 sono stati prodotti 121.866 embrioni d’uomo; i nati vivi sono 8452. C’è un saldo negativo di 113.414 embrioni umani. Un prezzo altissimo pagato sull’altare della fecondazione artificiale, sebbene rigorosamente omologa. Riesce difficile capire come, di fronte a questi numeri, Scienza e Vita possa scrivere che la legge 40 “assicura ad ogni figlio le garanzie di una vita umana e la protezione di una vera famiglia”.[4]
Ricapitolando: se ogni essere umano ha diritto alla vita fin dal concepimento, il giudizio negativo sulla fecondazione artificiale extracorporea riguarda tanto le pratiche omologhe che le pratiche eterologhe. Infatti, i rischi cui viene esposto il nascituro in relazione alla sua sopravvivenza sono statisticamente identici sia che egli sia prodotto con gameti della coppia richiedente, sia che egli sia prodotto con gameti esterni alla coppia. Va da sé che non intendo disconoscere gli elementi negativi che rendono più grave sul piano morale il ricorso alla Fivet eterologa[5]. Ma dovrebbe essere chiaro che l’elevata abortività della fecondazione artificiale extracorporea è fenomeno trasversale alla pratica omologa ed eterologa: se lo si considera negativamente, il giudizio negativo deve colpire entrambe le modalità di Fivet.
Ora, i difensori della legge 40 sostengono che essa rappresenta il miglior compromesso possibile in materia di Fecondazione artificiale. Dunque, chi considera la 40 una legge “gravemente ingiusta” (nel senso che questa espressione ha nel linguaggio della filosofia del diritto classica di ispirazione tomistica) peccherebbe di mancanza di realismo e disconoscerebbe il valore positivo di questa norma, che comunque impedisce o limita il campo d’azione di chi fa fecondazione artificiale. Provo a rispondere a questa critica, mettendo in fila, in modo sintetico e non del tutto organico, una serie di osservazioni.
  1. Un primo nodo riguarda la genesi di questa legge. Infatti, con un’operazione indubbiamente controversa sotto il profilo morale, gli ideatori di questa iniziativa legislativa furono un gruppo importante di studiosi e di politici cattolici, che in nome del “male minore” redassero innanzitutto un Manifesto Appello, cui fece da coerente conseguenza la predisposizione di un testo legislativo basato su alcuni “paletti”, secondo una formula divenuta molto cara al mondo cattolico stesso. La legge 40 rappresenterebbe “il male minore” e garantirebbe una serie di paletti, meritevoli tutti di essere difesi dal tentativo di scardinamento. Concordo sulla opportunità di impegnarsi per “limitare i danni” e per conservare quelle porzioni di legge che limitano il ricorso alla Fivet. Ma questa linea d’azione non può giustificare l’apologia della fecondazione artificiale omologa, del congelamento di ovociti, e di ogni altro aspetto consentito dalla legge 40. Purtroppo, questo è il problema: un mondo cattolico appiattito sulla difesa della legge vigente in Italia, e sostanzialmente afono quando si tratti di prendere posizione contro ogni forma di fecondazione artificiale extracorporea.
  2. La legge 40 del 2004 prevede, all’articolo 16, il diritto all’obiezione di coscienza. Per analogia con quanto avvenuto all’indomani dell’approvazione della legge 194 del 1978, si sarebbe dovuta registrare una presa di posizione pubblica dell’episcopato che invitasse i fedeli coinvolti a esercitare tale diritto. Questo non è avvenuto, a l’obiezione di coscienza alla Fivet è rimasto sostanzialmente lettera morta.
  3. Avvenire e gli ambienti ad esso allineati scrivono e dicono spesso che “la 40 non è una legge cattolica”. Ora, questa affermazione è, in senso lato, indicativa del fatto che le norme approvate dallo Stato italiano si discostano dal Magistero della Chiesa in materia. Ma in senso stretto, tale affermazione è del tutto priva di significato in una sana prospettiva filosofico giuridica. Infatti, non consta – anche da un’attenta lettura dei testi del Magistero recente e passato – che il compito dello stato consista nel fare “leggi cattoliche”, dal momento che lo stesso Tommaso insegnava in modo molto netto che non deve esservi una totale sovrapposizione fra norma morale e norma giuridica. Le leggi positive devono casomai essere giuste, cioè conformi al diritto naturale. Ovviamente, sappiamo bene che il positivismo giuridico ha attaccato in modo radicale questa costruzione logica. Non è questa la sede per “incrociare le lame” con tali dottrine; qui si vuole solo far notare che la legge 40, come ogni altra legge, secondo il Magistero della Chiesa deve essere vagliata in relazione alla sua giustizia, cioè alla conformità al bene comune e alla legge naturale. Dire che essa “non è una legge cattolica” non ha alcun senso, non ci dice nulla di significativo. E quali sarebbero, verrebbe da dire, “le leggi cattoliche”? E quelle “non cattoliche”? E’ davvero incredibile che, in un contesto in cui da decenni si fa a tratti rovente la discussione intorno alla laicità dello stato, si possa pensare di affrontare un tema come quello della fecondazione artificiale invocando come parametro la “cattolicità” della legge. Invece che chiedersi se quella norma tuteli davvero i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il diritto alla vita del concepito.
  4. Il giudizio politico intorno a una legge non dovrebbe mai trascinare “verso il basso” il giudizio teoretico e filosofico giuridico di quella stessa legge. Può darsi che il Parlamento abbia fatto del suo meglio varando la legge 40; ma ciò non esime ciascuno di noi dal formulare un giudizio secondo retta coscienza che valuti la norma per quello che è. Altrimenti si entra in un tunnel dialettico nel quale, paradossalmente, il relativismo tanto criticato extra moeniadiventa un metodo di ragionamento da adottare per difendere il male minore. Male minore che, com’è noto, non può mai essere promosso e scelto deliberatamente, ma esclusivamente subito in mancanza di un’alternativa di bene. Il male, foss’anche “minore”, non può mai essere scelto.
  5. Questo modo di agire e di pensare tradisce una (anche inconsapevole) deriva proporzionalista. Si tende cioè a sostituire la categoria del buono e del cattivo con i nuovi paradigmi del “migliore” del “peggiore”, in un orizzonte nel quale evapora per sempre la speranza di poter definire azioni intrinsecamente malvagie e sempre inaccettabili sul piano etico, per accontentarsi di scegliere di volta in volta l’azione che promette di produrre contemporaneamente il maggior bene possibile e il minor bene possibile. Un paradigma che non può che piacere a ogni forma di utilitarismo e di relativismo, ma che nulla ha a che spartire con l’etica classica aristotelico-tomista.[6]
  6. Questa “strategia del compromesso” risulta anche perdente sotto il profilo tattico e strategico. Chi infatti preme per rendere sempre più libera la provetta non può che giovarsi di questo progressivo slittamento in senso permissivo delle posizioni cattoliche, che comportano al più un rallentamento, ma non certo un’opposizione al processo rivoluzionario in bioetica.[7] Risulta infatti del tutto evidente che questa strategia tende a “digerire” ogni cambiamento già codificato dal diritto (ad esempio il divorzio, l’aborto chirurgico, la fivet omologa) e a contrastare soltanto le condotte che non siano ancora legalizzate (come ad esempio la fivet eterologa o l’eutanasia), in un processo che appare agli avversari debole in sé stesso e in ogni caso provvisorio e negoziante. Insomma: si combatte il relativismo facendo i relativisti. Il contrappasso dantesco di questo maldestro cinismo si materializza quando le “certezze” agganciate alla c.d. “legge imperfetta” di turno vengono sbriciolate dall’intervento demolitivo degli organi giurisdizionali. C’è infatti da chiedersi che cosa direbbero gli apologeti della legge 40, all’indomani di una decisione della Corte costituzionale che dovesse spazzare via il divieto di Fivet eterologa.
  7. Spesso per giustificare la legge 40 si fa appello a quanto stabilito da Giovanni Paolo II al numero 73 della Evangelium Vitae. Snodo cruciale nel quale la Chiesa affronta il problema morale del parlamentare che si trovi di fronte a una legge gravemente ingiusta messa in votazione, ma tale da migliorare una legge peggiore già in vigore. Ad esempio: si mette ai voti una legge che restringe la “finestra” del periodo di gestazione in cui è permesso l’aborto volontario. Non sfuggirà a nessuno che, fra le condizioni indicate da Giovanni Paolo II per rendere moralmente accettabile un simile voto, spicca quella che impone al parlamentare di rendere noto a tutti la sua opposizione ferma e senza eccezioni alla legge iniqua, in modo che sia per chiunque chiaro che il voto non esprime l’assenso al male, ma l’appoggio a quello spicchio di bene che una porzione della nuova norma promette di realizzare. Ho molti dubbi circa il fatto che questa condizione sia stata soddisfatta nell’operazione-legge 40. Ma la questione è, in un certo senso, ormai di pertinenza degli storici. Qui e ora c’è da chiedersi se anche dopo l’approvazione della legge sia proseguita quella forma di opposizione culturale pubblica a ogni forma di Fivet, e anche a quella legalizzata. Non paiono in linea con questa esigenza le ambiguità, i tentennamenti, i silenzi, le censure e addirittura gli slanci apologetici che una parte importante della stampa cattolica offre all’attuazione della Fivet nella sua forma omologa.
  8. Non è estraneo a questo quadro anche il diffondersi di prassi eterodosse in ospedali cattolici o di ispirazione cattolica. Per anni ha destato scalpore il caso del San Raffaele di Milano, nel quale dal 1996 si pratica la Fivet omologa con protocolli del tutto simili a quelli poi divenuti legge dello Stato italiano. Fu lo stesso Comitato etico di quell’ospedale a produrre un parere in base al quale la Fivet omologa, compiuta con le modalità definite dai medici del San Raffaele, sarebbe stata pienamente coerente con la dottrina della Chiesa cattolica sulla procreazione umana. Tesi smentita seccamente in un parere riservato emesso della Congregazione per la dottrina della fede.
In conclusione, qualcuno potrebbe chiedersi: ma a noi bioeticisti cosiddetti laici, a noi non cattolici, questo “conflitto” che cosa interessa? Io credo interessi molto. Sono infatti convinto che l’aver obliterato dal dibattito la posizione di chi contrasta ogni forma di produzione della vita umana fuori dal corpo della donna rappresenti un ostacolo al dibattito e un impoverimento della discussione. Questa situazione rende infatti meno chiara la tesi di uno degli attori della discussione, che sembra inseguire affannosamente una posizione di mediazione in grado di allargare il consenso e di indebolire le opposizioni. Una strategia del tutto legittima (anche se eticamente discutibile) in un’aula parlamentare. Ma inaccettabile in un confronto fra studiosi e fra persone della società civile. Quando discuto di bioetica e di filosofia del diritto, anche con la persona più lontana, vorrei portarle il meglio di me, vorrei mettere nelle sue mani la vera soluzione a un problema, non il prodotto posticcio di una mediazione politica. Anche se non può pretendere di essere accolta, la verità esige di essere presentata in modo integrale e razionalmente argomentato. Se tradisco questo mandato, inganno il mio interlocutore. Non dialogo con lui, non lo rispetto come uomo.

[1] Docente di Filosofia del diritto, di Etica e Bioetica e di Filosofia Teoretica nell’Università Europea di Roma. Ricercatore confermato in Filosofia del diritto. Docente presso la Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum in Roma. Membro di Comitati etici per la sperimentazione del farmaco.
[2] Per una serrata critica alla legalizzazione della fecondazione artificiale, anche nella sua forma omologa, si vedano: G. ROCCHI, Il legislatore distratto, La legge sulla fecondazione artificiale: la norma smentisce i principi, ESD, Bologna 2006; G.M. CARBONE, La fecondazione extracorporea, ESD, Bologna 2005. Tra i miei scritti sull’argomento, segnalo: La fecondazione extracorporea tra diritto naturale e diritto positivo. In: AA.VV. Fecondazione extracorporea: pro o contro l’uomo?, Milano, Gribaudi 2001; La dignità dell’embrione umano, in Quaderni di San Raffaele, 2011, n. 6, pp. 20-29; Le cellule staminali. Un simbolo della post modernità in crisi, inQuaderni di San Raffaele, 2009, n. 2, pp. 52-59; La procreazione artificiale, Studi cattolici, 1998, n. 451; Ogni legalizzazione della Fivet è ingiusta, Studi cattolici, 2005, n. 530; Fivet & altro. I cattolici & la legge, Studi cattolici, 2003, n. 511.
[3] Si veda in proposito quanto affermato dalla Istruzione della Congregazione per la dottrina della fede Dignitas Personae, pubblicato nel 2008: “(…) il numero di embrioni sacrificati è altissimo. Queste perdite sono accettate dagli specialisti delle tecniche di fecondazione in vitro come prezzo da pagare per ottenere risultati positivi. (…) E’ vero che non tutte le perdite di embrioni nell’ambito della procreazione in vitro hanno lo stesso rapporto con la volontò dei soggetti interessati. Ma è anche vero che in molti casi l’abbandono, la distruzione o le perdite di embrioni sono previsti e voluti”.
[4] Manifesto del Comitato Scienza e Vita, marzo 2005.
[5] M. PALMARO, Fecondazione artificiale eterologa. Le ragioni etico giuridiche di un divieto, 2012.
[6] Si veda in proposito JOHN FINNIS, Gli assoluti morali, Edizioni Ares, Milano 1993.
[7] Uso in questo caso il concetto di rivoluzione nel suo senso teoretico e morale, cioè come processo di continuo scardinamento delle verità morali, come costante cambiamento dell’esistente a favore del nuovo per il nuovo, dentro il mito fondativo secondo il quale ciò che viene dopo è sempre migliore di ciò che vi era prima. Si veda, per una più approfondita analisi: G. SAMEK LODOVICI, Metamorfosi della gnosi, Ares, Milano 1980.

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