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mercoledì 21 agosto 2013

COMUNISMO: Come nasce l’esperimento Pitesti?





A proposito di Memoria
In Romania la peggior barbarie del '900
di Gregorio Schira
«In questo carcere vi faremo certe cose per cui non soltanto vostra madre non vi riconoscerà, ma voi stessi non avrete più il coraggio di guardarvi allo specchio». Così Eugen Turcanu, dapprima prigioniero e poi vero e proprio leader degli... aguzzini, accoglieva tra il 1949 e il 1952 i detenuti nel carcere rumeno di Pitesti, circa 130 km a Nord di Bucarest. Un carcere – se possibile – ancora peggiore di Auschwitz e che lo stesso Aleksandr Solgenitsin, passato per i gulag sovietici, definì «il più terribile atto di barbarie del mondo moderno».

Rompendo un tabù finora intatto nella stessa Romania, Dario Fertilio, giornalista al “Corriere della Sera” e autore di numerosi saggi e romanzi, ha recentemente scritto un libro, “Musica per lupi”, descrivendo sin nei minimi particolari la tremenda brutalità delle violenze perpetrate a Pitesti.

Come nasce l’esperimento Pitesti, e chi l’ha ordinato?

L’esperimento Pitesti fu segretamente ordinato dagli esponenti del partito comunista rumeno, guidati dal segretario generale del partito, Ana Pauker, e fu autorizzato dal ministero degli Affari interni romeno. La sua attuazione, poi, coinvolse la polizia, la direzione del carcere, le guardie carcerarie e – particolarità assoluta – gli stessi detenuti che diventavano a loro volta aguzzini e quindi strumenti di questa incredibile operazione repressiva.

Quale era l’obiettivo dell’esperimento?

Strappare dall’anima e dalla mente delle persone la loro antica personalità, e – attraverso la violenza sia fisica che psicologica – rivoltarli, creando in vitro “uomini nuovi”, cioè uomini pronti a “convertire” il resto della popolazione al comunismo.

Chi erano le vittime di Pitesti?

Gli avversari politici (gli oppositori al regime comunista, in particolare gli studenti universitari, i liberali, i conservatori,...), le minoranze religiose (soprattutto i cristiani), chiunque avesse combattuto in passato contro l’Unione sovietica e chiunque fosse compromesso con funzionari del passato regime.

Come situare l’esperimento Pitesti all’interno delle violenze del ’900?

Il fenomeno Pitesti è qualcosa di unico, che – seppur sconosciuto – caratterizza in maniera particolare un secolo che ha conosciuto vari tipi di violenza e numerosi genocidi. Volendo fare una “classifica” delle violenze, Pitesti si troverebbe nell’ultimo girone dell’inferno e avrebbe un solo paragone possibile: Auschwitz.

Visto che ieri, in Ticino, ricorreva la giornata della memoria, facciamo questa classifica.

È esistita nel ’900 una generica violenza a sfondo nazionalistico, sfociata nel caso più clamoroso del genocidio degli armeni commesso dai turchi attorno al 1917.

Vi è poi un secondo e più terribile livello di violenza, quella di tipo ideologico: l’esempio, in questo caso, sono i gulag sovietici, dove il genocidio ha riguardato alcune categorie ritenute non recuperabili – anzitutto i borghesi, poi i religiosi e i compromessi con il passato regime – e si è espresso in tutta la sua violenza nello stermino, per fame, dei kulaki in Ucraina.

A un livello ancora superiore troviamo la Germania nazista, soprattutto nell’aspetto dell’eliminazione sistematica attraverso i forni crematori. Qui si è preso di mira principalmente una categoria (gli ebrei) e si è proceduto nell’eliminare chirurgicamente tutto ciò che era ritenuto non consono al futuro della Germania.

Con Pitesti, però, si è saliti ancora di livello: non ci si è limitati a eliminare l’avversario ma si è preso di mira la sua stessa anima. È come se, anziché accanirsi sui corpi come facevano i nazisti, ci si volesse intrufolare nella stessa anima della persona per estirparla, per distruggerla. È il gradino più estremo dell’orrore, che nessun altro ha mai raggiunto.

Come si faceva, a Pitesti, ad estirpare l’anima di una persona?

Attraverso terribili torture giorno e notte, senza pausa, senza concessioni. E trasformando gli stessi detenuti in carnefici. Si spingevano i prigionieri a rinnegare non solo gli avversari politici, non solo gli amici o i famigliari, non solo i propri antenati, ma alla fine anche la propria tradizione religiosa. Ecco il significato della blasfemia e delle messe nere che venivano celebrate a Pitesti soprattutto nelle festività di Natale e Pasqua.

Quali violenze venivano praticate nel carcere di Pitesti?

In pratica i prigionieri venivano improvvisamente aggrediti dai loro stessi compagni di cella, ai quali in un primo tempo si erano ingenuamente accostati, e picchiati selvaggiamente. Loro stessi, poi, cercavano di salvarsi diventando a loro volta aggressori. Si trattava in un certo senso di un morso fatale che finiva per contagiare tutti e al quale nessuno riusciva a sfuggire.

L’elenco delle violenze è lunghissimo. Battiture individuali e collettive; pestaggi eseguiti per mezzo di fruste, cinture e lance; sospensioni al soffitto con pesi da 40 chili per ore o giorni consecutivi; torture agli occhi dei detenuti per mezzo della esposizione prolungata alla luce elettrica; strappo dei capelli alle radici; rottura delle dita di mani e piedi; torture con il metodo della goccia cinese; nutrizioni forzate a base di sale con divieto di bere; bruciature della pianta dei piedi; costrizione a leccare il contenuto dei vasi per escrementi; partecipazione obbligatoria a torture collettive, ovvero induzione a commettere reciprocamente atti di sodomia; sospensioni al soffitto per le ascelle con zaini sulla schiena carichi di pietre; sbattimento del cranio contro le pareti delle celle; costrizione a dormire in posizioni fisse; perforazione della pianta dei piedi per mezzo di aghi; ordini di produrre masse fecali dove successivamente si depongono gli alimenti; induzione a orinare nelle bocche dei compagni; disposizioni di mangiare direttamente dalle gavette cibo bollente, a quattro zampe e senza ricorrere alle mani; percosse alla cassa toracica sino alla frattura delle costole...
Torture molto sottili e raffinate, che trasformavano il carcere in una specie di bolgia infernale.

Prima ha parlato di messe nere...

Quella era la “fase finale”: un attacco violentissimo al credo religioso e alla tradizione. In particolare durante le festività natalizie e pasquali, ma anche nel resto dell’anno, venivano celebrate messe nere in cui i versetti tradizionali del Vangelo venivano completamente pervertiti, in cui i celebranti (prigionieri costretti a recitare) maledicevano Cristo o la Madonna, oppure in cui veniva compiuta una sacra processione blasfema – durante la quale veniva distribuita “l’eucarestia” intingendo del pane nell’urina – che si concludeva con una specie di orgia forzata consumata davanti a tutti.

Molti detenuti hanno parlato di “satanismo”.

L’“esperimento Pitesti” è stato qualcosa di diabolico, una forma di satanismo che sembra essere il risultato di un’ideologia totalitaria estrema. A mio modo di vedere, il satanismo può essere considerato il grado estremo, la fase finale, di un’ideologia fuori controllo. Un sacerdote sopravvissuto ha descritto la sua esperienza in questi termini: «Penso che non ci sia nessuna mente al di fuori di quella di Lucifero capace di inventare il “Sistema Pitesti”, che teneva sospesi tra la follia e la realtà, tra l’essere e il non essere, con l’idea ossessiva di poter scomparire o, peggio ancora, di dover ricadere sotto il terrore delle torture».

L’obiettivo di Pitesti non era di uccidere, ma di portare l’uomo a desiderare la morte...

Vi furono detenuti che si suicidarono e altri che morirono a causa delle torture subite. Ma erano considerati “incidenti di percorso”. Ma in mezzo a tutto questo male vi furono anche veri e propri esempi di martirio. Alcuni detenuti finirono per identificare le proprie ferite con quelle di Cristo, la propria sofferenza con la passione di Gesù, sacrificando anche la loro vita per gli altri. Quasi tutti i sopravvissuti, a distanza di anni sono riusciti a recuperare almeno in parte la loro umanità. La “regressione darwiniana” alla rovescia – anziché da bestia a uomo, da uomo a bestia – non è quindi riuscita a provare che l’uomo è una bestia con una vernice umana, ma al contrario ha dimostrato che se un uomo viene ridotto a bestia ha sempre in sé la capacità di tornare uomo.

Come è finita la tragica avventura di Pitesti?

La storia di Pitesti, in quanto esperimento, si concluse nel 1952, quando si cominciò a capire che ciò che avveniva lì dentro stava diventando troppo ingombrante e pericoloso. Se un solo testimone fosse riuscito a parlarne ne sarebbe potuto conseguire un disonore per il regime stesso. Per prudenza, quindi, si decise di mettere fine all’esperimento. Rimase il problema di cosa fare con quella ventina di torturatori “ufficiali” (non i detenuti divenuti aguzzini) incaricati dalle autorità. Questi vennero accusati di aver fatto ciò che avevano fatto in combutta con il “nemico esterno”, ovvero con i rumeni emigrati all’estero che avevano costituito un’opposizione in esilio. Naturalmente non c’era nulla di vero, ma la montatura resse. Dopo essere stati tenuti segretamente in carcere per due anni, nel 1954 i più diretti responsabili vennero giudicati e condannati in un processo a porte chiuse, che si concluse – per tutti – con la fucilazione. Questo equivalse a mettere una pietra tombale su Pitesti. Una pietra difficile da spostare, tanto che ancora oggi quasi nessuno – nel mondo ma anche in Romania – conosce l' “esperimento Pitesti”, forse la peggiore brutalità del secolo scorso...

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