Cardinali Ottaviani e Bacci - Breve Esame Critico del Novus Ordo Missae
Lettera a Paolo VI dei Cardinali Ottaviani e Bacci.
Beatissimo Padre,
esaminato e fatto esaminare il Novus Ordo preparato
dagli esperti del Consilium ad exequendam Constitutionem de Sacra Liturgia,
dopo una lunga riflessione e preghiera sentiamo il dovere, dinanzi a Dio ed
alla Santità Vostra, di esprimere le considerazioni seguenti:
1) Come dimostra sufficientemente il pur breve esame critico
allegato - opera di uno scelto gruppo di teologi, liturgisti e pastori di anime
- il Novus Ordo Missae, considerati gli elementi nuovi, suscettibili di
pur diversa valutazione, che vi appaiono sottesi ed implicati, rappresenta, sia
nel suo insieme come nei particolari, un impressionante allontanamento dalla
teologia cattolica della Santa Messa, quale fu formulata nella Sessione XXII del
Concilio Tridentino, il quale, fissando definitivamente i «canoni» del rito,
eresse una barriera invalicabile contro qualunque eresia che intaccasse
l'integrità del Mistero.
2) Le ragioni pastorali addotte a sostegno di tale gravissima
frattura, anche se di fronte alle ragioni dottrinali avessero diritto di
sussistere, non appaiono sufficienti. Quanto di nuovo appare nel Novus Ordo
Missae e, per contro, quanto di perenne vi trova soltanto un posto minore o
diverso, se pure ancor ve lo trova, potrebbe dar forza di certezza al dubbio -
già serpeggiante purtroppo in numerosi ambienti - che verità sempre credute dal
popolo cristiano possano mutarsi o tacersi senza infedeltà al sacro deposito
dottrinale cui la fede cattolica è vincolata in eterno. Le recenti riforme hanno
dimostrato a sufficienza che nuovi mutamenti nella liturgia non porterebbero se
non al totale disorientamento dei fedeli che già danno segni di insofferenza e
di inequivocabile diminuzione di Fede. Nella parte migliore del Clero ciò si
concreta in una torturante crisi di coscienza di cui abbiamo innumerevoli e
quotidiane testimonianze.
3) Siamo certi che queste considerazioni, che possono giungere
soltanto dalla viva voce dei pastori e del gregge, non potranno non trovare
un'eco nel cuore paterno di Vostra Santità, sempre così profondamente sollecito
dei bisogni spirituali dei figli della Chiesa. Sempre i sudditi, al cui bene è
intesa una legge, laddove questa si dimostri viceversa nociva, hanno avuto, più
che il diritto, il dovere di chiedere con filiale fiducia al legislatore
l’abrogazione della legge stessa.
Supplichiamo perciò istantemente la Santità Vostra di non
volerci togliere - in un momento di così dolorose lacerazioni e di sempre
maggiori pericoli per la purezza della Fede e l'unità della Chiesa, che trovano
eco quotidiana e dolente nella voce del Padre comune - la possibilità di
continuare a ricorrere alla integrità feconda di quel Missale romanum
di San Pio V dalla Santità Vostra così altamente lodato e dall'intero mondo
cattolico così profondamente venerato ed amato.
+ A. Card. Ottaviani
+ A. Card. Bacci
+ A. Card. Bacci
Breve esame critico del «Novus Ordo Missæ»
I
Nell'ottobre del 1967, al Sinodo Episcopale, convocato a Roma,
fu chiesto un giudizio sulla celebrazione sperimentale di una cosiddetta «messa
normativa», ideata dal Consilium ad exequendam Constitutionem de Sacra
Liturgia*.
Tale messa suscitò le più gravi perplessità tra i presenti al Sinodo, con una
forte opposizione (43 non placet), moltissime e sostanziali riserve (62
juxta modum) e 4 astensioni su 187 votanti. La stampa internazionale di
informazione parlò di «rifiuto», da parte del Sinodo, della messa proposta.
Quella di tendenze innovatrici ne tacque. e un noto periodico, destinato ai
vescovi ed espressione del loro insegnamento, così sintetizzò il nuovo
rito:«[vi] si vuol fare tabula rasa di tutta la teologia della Messa.
In sostanza ci si avvicina alla teologia protestante che ha distrutto il
sacrificio della Messa».
Nel Novus Ordo Missæ (Nuovo Ordinario della Messa),
testé promulgato dalla Costituzione Apostolica Missale romanum**,
ritroviamo purtroppo, identica nella sua sostanza, la stessa «messa normativa».
Né sembra che le Conferenze Episcopali, almeno in quanto tali, siano mai state
nel frattempo interpellate al riguardo.
Nella Costituzione Apostolica si afferma che l'antico messale,
promulgato da San Pio V il 13 luglio 1570 ma risalente in gran parte a Gregorio
Magno ed ancor più remota antichità[1],
fu per quattro secoli la norma della celebrazione del Sacrificio per i sacerdoti
di rito latino e, portato in ogni terra, «innumerevoli santi hanno
abbondantemente nutrito la loro pietà verso Dio attingendo da quel messale le
letture della Sacra Scrittura o le preghiere». E tuttavia questa riforma, che lo
pone definitivamente fuori uso, si sarebbe resa necessaria «da quando si è
sviluppato e diffuso nel popolo cristiano il movimento liturgico».
Ci sembra evidente, in questa affermazione, un grave equivoco.
Perché il desiderio del popolo, se fu espresso, lo fu quando - soprattutto per
merito del grande San Pio X - esso cominciò a scoprire gli autentici ed eterni
tesori della sua liturgia. Il popolo non chiese assolutamente mai, onde meglio
comprenderla, una liturgia mutata o mutilata. Chiese di meglio comprendere una
liturgia immutabile e che mai avrebbe voluto si mutasse.
Il Messale Romano di San Pio V era religiosamente venerato e
carissimo al cuore dei cattolici, sacerdoti e laici. Non si vede in che cosa
l'uso di esso, con l'opportuna catechesi, potesse impedire una più piena
partecipazione e una maggiore conoscenza della sacra liturgia e perché, con
tanti eccelsi pregi che gli sono riconosciuti, non lo si sia stimato degno di
continuare a nutrire la pietà liturgica del popolo cristiano.
Sostanzialmente rifiutata dal Sinodo Episcopale quella stessa
«messa normativa» che oggi si ripresenta e si impone come Novus Ordo
Missæ; mai sottoposto quest'ultimo al giudizio collegiale delle Conferenze;
mai voluta dal popolo (e men che meno nelle missioni) una qualsiasi riforma
della Santa Messa, non si riesce a comprendere i motivi della nuova
legislazione, che sovverte una tradizione immutata nella chiesa dal IV-V secolo,
come la Costituzione stessa riconosce. Non sussistendo dunque i motivi per
appoggiare questa riforma, la riforma stessa appare priva di un fondamento
razionale, che, giustificandola, la renda accettabile al popolo cattolico.
Il Concilio aveva espresso bensì, con il par. 50 della
Costituzione Sacrosantum Concilium, il desiderio che le varie parti
della Messa fossero riordinate, «in modo che apparisca più chiaramente la natura
specifica delle singole parti e la loro mutua connessione». Vedremo subito come
l'Ordo testé promulgato risponda a questi auspici, dei quali possiamo
dire non resti, nel risultato, neppure la memoria.
Un esame particolareggiato del Novus Ordo rivela
mutamenti di portata tale da giustificare per esso lo stesso giudizio dato per
la «messa normativa». Quello come questa è tale da contentare, in molti punti, i
protestanti più modernisti.
II
Cominciamo dalla definizione di Messa che si presenta al par.
7, vale a dire in apertura al secondo capitolo del Novus Ordo: «De
structura Missæ - Sulla struttura della Messa»: «La Cena del Signore o Messa
è la sacra sinassi*
o adunanza del popolo di Dio che si riunisce insieme, sotto la
presidenza del sacerdote, per celebrare il memoriale del Signore[2].
Perciò riguardo l’adunanza locale della santa Chiesa vale in modo eminente la
promessa di Cristo “Dove sono due o tre riuniti in mio nome, là sono io in mezzo
a loro” (Mt. 18,20)».
La definizione di Messa è dunque limitata a quella di «cena»,
il che è poi continuamente ripetuto (n.8, 48, 55d, 56); tale «cena» è inoltre
caratterizzata dalla assemblea, presieduta dal sacerdote, e dal compiersi il
memoriale del Signore, ricordando quel che egli fece il Giovedì Santo. Tutto ciò
non implica: né la Presenza Reale, né la realtà del Sacrificio,
né la sacramentalità del sacerdote consacrante, né il valore
intrinseco del Sacrificio eucaristico indipendentemente dalla presenza
dell'assemblea[3].
Non implica, in una parola, nessuno dei valori dogmatici essenziali
della Messa e che ne costituiscono pertanto la vera definizione. Qui l'omissione
volontaria equivale al loro «superamento», quindi, almeno in pratica, alla loro
negazione[4].
Nella seconda parte dello stesso paragrafo si afferma -
aggravando il già gravissimo equivoco - che vale «in modo eminente» per questa
assemblea la promessa del Cristo: «dove sono due o tre riuniti in mio nome, là
sono io in mezzo a loro» (Mt. 18, 20). Tale promessa, che riguarda soltanto la
presenza spirituale del Cristo con la sua grazia, viene posta sullo
stesso piano qualitativo, salvo la maggiore intensità, di quello sostanziale
e fisico della presenza sacramentale eucaristica.
Segue immediatamente (n.8) una suddivisione della Messa in
liturgia della parola e liturgia eucaristica, con l'affermazione che nella Messa
è preparata «tanto la mensa della parola di Dio quanto la mensa del
Corpo di Cristo, e i fedeli ne ricevono istruzione e ristoro»:
assimilazione paritetica del tutto illegittima delle due parti della liturgia,
quasi tra due segni di eguale valore simbolico, sulla quale torneremo più tardi.
Di denominazioni della Messa ve ne sono innumerevoli: tutte
accettabili relativamente, tutte da respingere se usate, come lo sono,
separatamente e in assoluto. Ne citiamo alcune: Azione di Cristo e del
popolo di Dio, Cena del Signore o Messa, Convivio Pasquale, Comune
partecipazione alla mensa del Signore, Memoriale del Signore, Preghiera
Eucaristica, Liturgia della parola e Liturgia eucaristica, ecc.
Come è fin troppo evidente, l'accento è posto ossessivamente
sulla cena e sul memoriale anziché sulla rinnovazione incruenta del Sacrificio
del Calvario. Anche la formula «Memoriale Passionis et Resurrectionis
Domini» è inesatta, essendo la Messa il memoriale del solo Sacrificio, che è
redentivo in se stesso, mentre la Resurrezione ne è il frutto conseguente[5].
Vedremo più avanti con quale coerenza, nella stessa formula consacratoria e in
generale in tutto il Novus Ordo, tali equivoci siano rinnovati e
ribaditi.
III
E veniamo alle finalità della Messa.
1) Finalità ultima. Il fine ultimo del Sacrificio
della Messa è di rendere lode alla Santissima Trinità, secondo l'esplicita
dichiarazione di Cristo nella intenzione primordiale della sua stessa
Incarnazione: «Entrando nel mondo dice: “non hai voluto vittima e oblazione, ma
a me hai formato un corpo” (Ps. XL, 7-9, in Hebr. 10,5)».
Questa finalità è scomparsa:
- dall'Offertorio, infatti la preghiera Suscipe, Sancta
Trinitas è abolita;
- dalla conclusione della Messa, perché la preghiera
Placeat tibi, Sancta Trinitas non si dice più;
- dal Prefazio, che nel ciclo domenicale non sarà più quello
della Santissima Trinità, riservato ora alla sola festa e che quindi sarà
pronunziato una sola volta l'anno.
2) Finalità ordinaria. Il fine ordinario del
Sacrificio è propiziatorio*.
Anche questa finalità è deviata, perché anziché mettere l'accento sulla
remissione dei peccati dei vivi e dei morti lo si mette sulla
nutrizione e santificazione dei presenti (n.54). Certo Cristo istituì il
Sacramento nell'ultima Cena e si pose in istato di vittima per unirci al suo
stato vittimale; il fine propiziatorio però precede la manducazione e ha un
antecedente e pieno valore redentivo, che deriva dalla immolazione cruenta di
Cristo, tanto è vero che il popolo assistendo alla Messa non è tenuto a
comunicarsi sacramentalmente[6].
3) Finalità immanente. Qualunque sia la natura del
sacrificio è essenziale che sia gradito a Dio e da lui accettabile ed accetto.
Nello stato di peccato originale nessun sacrificio avrebbe diritto di essere
accettabile. Il solo sacrificio che ha diritto di essere accettato è quello di
Cristo. Ma nel Novus Ordo si snatura l'offerta in una specie di scambio
di doni tra l'uomo e Dio; l'uomo porta il pane e Dio lo cambia in «pane di
vita»; l’uomo porta il vino e Dio lo cambia in «bevanda spirituale»: «Benedetto
sei Tu, Signore, Dio dell’universo: dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane
(o: questo vino) frutto della terra (o: della vite) e del lavoro dell’uomo; lo
presentiamo a te, perché diventi per noi cibo di vita eterna (o: bevanda di
salvezza [in latino: potus spiritualis])»[7].
Superfluo notare l'assoluta indeterminatezza delle due formule
«pane di vita» e «bevanda di salvezza», che possono significare qualunque cosa.
Ritroviamo qui l'identico e capitale equivoco della definizione della Messa: là
il Cristo presente solo spiritualmente tra i suoi; qui pane e vino
«spiritualmente» (e non sostanzialmente) mutati[8].
Nella preparazione dell'offerta, un consimile gioco di equivoci
è attuato con la soppressione delle due stupende preghiere.
Il «Deus, qui humanae substantiae dignitatem mirabiliter
condidisti et mirabilius reformasti - O Dio che in modo meraviglioso
creasti la nobile natura dell’uomo, e più meravigliosamente ancora l’hai
riformata», era un richiamo all'antica condizione di innocenza dell'uomo e alla
sua attuale condizione di riscattato dal sangue di Cristo: ricapitolazione
discreta e rapida di tutta l'economia*
del Sacrificio, da Adamo all'attimo presente.
L’altra preghiera soppressa, la finale offerta propiziatoria
del calice affinché ascendesse «cum odore suavitatis - come soave
profumo» al cospetto della maestà divina, di cui si implorava la clemenza,
ribadiva mirabilmente questa economia di salvezza. Sopprimendo il continuo
riferimento a Dio dalla prece eucaristica, non vi è più distinzione alcuna
tra sacrificio divino e umano.
Eliminando la chiave di volta bisogna costruire delle
impalcature; sopprimendo le finalità reali se ne devono inventare di fittizie.
Ed ecco questi gesti che, nella Nuova Messa, dovrebbero esprimere
l’unione tra sacerdote e fedeli, o tra i fedeli stessi; ecco le offerte per
i poveri e per la Chiesa che vengono a prendere il posto dell’Ostia da
immolare. Tutto questo finirà presto nel ridicolo, mentre il senso originale
dell’offerta dell’Unica Ostia verrà gradualmente cancellato: la partecipazione
all'immolazione della Vittima diverrà una riunione di filantropi e un banchetto
di beneficenza.
IV
Passiamo a considerare l’essenza del Sacrificio.
Il mistero della Croce non vi è più espresso esplicitamente, ma
in modo oscuro, velato, impercepibile dal popolo[9].
Eccone le ragioni:
1) Significato della «Preghiera eucaristica».
Il senso dato nel Novus Ordo alla cosiddetta «Prex
eucaristica - Preghiera eucaristica» è: «che tutta l’assemblea [dei fedeli]
si unisca insieme con Cristo nel magnificare le grandi opere di Dio e
nell’offrire il sacrificio». (n. 54, fine).
Di quale sacrificio si tratta? Chi è l'offerente? Nessuna
risposta a questi interrogativi. La definizione introduttiva della
«Preghiera eucaristica» è questa: «A questo punto inizia il momento centrale e
culminante dell’intera celebrazione, vale a dire la Preghiera eucaristica, cioè
la preghiera di azione di grazie e di santificazione» (n.54, pr.). Gli
effetti sono dunque sostituiti alle cause, di cui non si dice
una sola parola. La menzione esplicita del fine dell'offerta, che era
nel Suscipe Sancte Pater*
, non è sostituita da nulla. Il mutamento di formulazione rivela
il mutamento di dottrina.
2) Il sacrificio eucaristico e la presenza di Cristo.
La causa di questa non-esplicitazione del Sacrificio è, né più
né meno, la soppressione del ruolo centrale della Presenza Reale, prima così
lampante nella liturgia eucaristica. Ve ne è una sola menzione - unica
citazione, in nota, dal Concilio di Trento - ed è quella che si riferisce alla
Presenza Reale come nutrimento (n.241, nota 69). Alla Presenza Reale e
permanente di Cristo in Corpo, Sangue, Anima e Divinità nelle Specie
transustanziate non si allude mai. La stessa parola «transustanziazione» è
totalmente ignorata.
La soppressione della invocazione alla terza Persona della
SS.ma Trinità (Veni sanctificator), onde scendesse sopra le oblate come
già discese nel grembo della Vergine a compiervi il miracolo della Divina
Presenza, si inserisce in questo sistema di silenzi e di tacite negazioni,
ancor più, di negazioni a catena della Presenza Reale.
L'eliminazione poi:
– delle genuflessioni (non ne restano che tre del sacerdote e
una, con eccezioni, del popolo, alla Consacrazione);
– della purificazione delle dita del sacerdote nel calice;
– della preservazione delle stesse dita da ogni contatto
profano dopo la Consacrazione;
– della purificazione dei vasi, che può essere non immediata, e
non fatta sul corporale;
– della palla a protezione del Preziosissimo Sangue nel calice;
– della doratura interna dei vasi sacri;
– della consacrazione dell'altare mobile;
– della pietra sacra e delle reliquie nell'altare mobile e
sulla «mensa», quando la celebrazione non avvenga in luogo sacro (la distinzione
ci porta diritti alle «cene eucaristiche» in case private);
– delle tre tovaglie d'altare, ridotte a una sola;
– del ringraziamento in ginocchio (sostituito da un grottesco
ringraziamento del sacerdote e dei fedeli seduti, aberrante compimento
della irriverente Comunione in piedi);
– di tutte le antiche prescrizioni nel caso di caduta
dell'Ostia consacrata, ridotte a un quasi sarcastico «si raccolga con rispetto»
(n.239);
tutto ciò non fa che ribadire in modo oltraggioso l'implicito
ripudio della fede nel dogma della Presenza Reale.
3) La funzione assegnata all'altare (n.262).
L'altare è quasi costantemente chiamato mensa[10].
«L’altare, o mensa del Signore, che è il centro di tutta la Liturgia
eucaristica» (n. 49; cfr. anche n. 262). Si specifica che l'altare deve essere
staccato dalle parete perché vi si possa girare intorno e la celebrazione possa
farsi verso il popolo (n.262); si precisa che esso deve essere il centro della
congregazione dei fedeli così che l'attenzione si volga spontaneamente ad esso
(ibid.). Ma il confronto fra i nn. 262 e 276 sembra escludere nettamente che il
SS.mo Sacramento possa essere conservato su questo altare. Ciò segnerà una
dicotomia*
irreparabile tra la presenza, nel celebrante, del Sommo ed Eterno Sacerdote e
quella stessa Presenza realizzata sacramentalmente. Prima esse erano
un'unica presenza[11].
Ora si raccomanda di conservare il SS.mo in un luogo appartato,
ove possa esplicarsi la devozione privata dei fedeli, quasi si trattasse di una
qualsiasi reliquia, sicché entrando in chiesa non sarà più il Tabernacolo ad
attirare immediatamente gli sguardi, ma una mensa spoglia e nuda. Si oppone
ancora una volta pietà privata a pietà liturgica, si drizza
altare contro altare.
Nella raccomandazione insistente di distribuire nella comunione
le Specie Consacrate nella stessa Messa, anzi di consacrare un pane di grandi
dimensioni[12],
così che il sacerdote possa dividerlo con una parte almeno dei fedeli, è
ribadito lo sprezzante atteggiamento verso il Tabernacolo come verso tutta la
pietà eucaristica fuori della Messa: altro strappo violento alla Fede nella
Presenza Reale sinché durino le Specie consacrate[13].
4) Le formule consacratorie.
L'antica formula della Consacrazione era una formula
propriamente sacramentale, e non narrativa, indicata
soprattutto da tre cose:
a) il testo della Scrittura, non ripreso dalla
lettera; l'inserto paolino «mysterium fidei - mistero della fede» era una
confessione immediata di fede del sacerdote nel mistero realizzato dalla Chiesa
per mezzo del suo sacerdozio gerarchico;
b) la punteggiatura e il carattere tipografico; vale a dire il
punto fermo e daccapo, che segnava il passaggio dal modo narrativo al modo
sacramentale e affermativo, e le parole sacramentali in carattere più
grande, al centro della pagina e spesso di diverso colore, nettamente staccate
dal contesto storico. Il tutto dava sapientemente alla formula un valore
proprio, un valore autonomo;
c) l'anamnesi*
(«Haec quotiescumque feceritis in mei memoriam facietis - Ogni qualvolta farete
questo lo farete in memoria di me», che in greco suona: «eis tén emòu anàmnesin»
- «volti alla mia memoria»). Essa si riferiva al Cristo
operante e non alla semplice memoria di lui o dell'evento: un invito a
ricordare ciò che egli fece («haec... in mei memoriam
facietis») e come egli lo fece, e non soltanto la sua persona
o la cena. La formula paolina oggi sostituita all'antica («hoc facite in meam
commemorationem - fate questo in memoria di me»), proclamata come sarà
quotidianamente nelle lingue volgari, sposterà irrimediabilmente, nella mente
degli ascoltatori, l'accento sulla memoria del Cristo come termine
dell’azione eucaristica, mentre essa ne è il principio. L'idea
finale di commemorazione prenderà ben presto il posto dell'idea di
azione sacramentale [14].
Il modo narrativo è ora sottolineato dalla formula «narratio
institutionis - racconto dell’istituzione» (n.55d), e ribadito dalla definizione
della anamnesi, dove si dice che «la Chiesa celebra la memoria di Cristo»
(n.55e).
In breve: la teoria proposta per l'epiclesi*,
la modificazione delle parole della Consacrazione e dell'anamnesi, hanno come
effetto di modificare il modus significandi delle parole della
Consacrazione. Le formule consacratorie sono ora pronunciate dal sacerdote come
costituenti una narrazione storica e non più enunciate come esprimenti un
giudizio categorico e affermativo proferito da Colui nella cui persona egli
agisce: «Hoc est Corpus meum - Questo è il mio corpo» (e non «Hoc est
Corpus Christi - Questo è il corpo di Cristo»)[15].
L'acclamazione, poi, assegnata al popolo subito dopo la
Consacrazione: («Annunciamo la tua morte, Signore… nell’attesa della tua
venuta») introduce, travestita di escatologismo**,
l'ennesima ambiguità sulla Presenza Reale. Si proclama, dopo le parole
della consacrazione, senza soluzione di continuità, l'attesa della venuta
seconda del Cristo alla fine dei tempi proprio nel momento in cui egli è
veramnete, realmente e sostanzialmente presente sull'altare: quasi che
quella, e non questa, fosse la vera venuta.
Ciò è ancor più accentuato nella formula di acclamazione
facoltativa n.2 (Appendix): «Ogni volta che mangiamo di questo pane e beviamo a
questo calice annunziamo la tua morte, Signore, nell’attesa della tua venuta»,
dove le diverse realtà di immolazione e manducazione, e quelle di Presenza Reale
e secondo avvento del Cristo, raggiungono il massimo dell’ambiguità[16].
V
Veniamo ora ai singoli elementi concreti del Sacrificio.
Erano quattro gli elementi del sacrificio, nell'ordine: 1) il
Cristo; 2) il sacerdote; 3) la Chiesa; 4) i fedeli.
1. I fedeli. Nel Novus Ordo la posizione
attribuita ai fedeli è autonoma (ab-soluta), quindi totalmente falsa: dalla
definizione iniziale: «La Messa è la sacra sinassi o la riunione del
Popolo di Dio», al saluto del sacerdote al popolo, che esprimerebbe alla
comunità riunita la «presenza» del Signore (n.28): «Il saluto sacerdotale e la
risposta del popolo manifestano il mistero della Chiesa radunata». Si tratta
dunque di vera presenza di Cristo, ma solo spirituale, e del mistero della
Chiesa, ma come pura assemblea che manifesta e sollecita tale presenza.
Ciò si ripete ovunque: il carattere comunitario della Messa
ossessivamente ribadito (nn. 74-152); l'inaudita distinzione tra «Messa con il
popolo» e «Messa senza popolo» (nn. 77 e 209); la definizione della «preghiera
universale o dei fedeli» (n.45), ove si sottolinea ancora una volta l'«ufficio
sacerdotale» del popolo («popolo che esercita la sua funzione sacerdotale»)
presentato in modo equivoco perché ne viene taciuta la subordinazione a quello
del sacerdote; tanto più che, nella vecchia Messa, questi si fa interprete,
nella sua qualità di mediatore consacrato, di tutte le intenzioni del popolo nel
Te igitur e nei due Memento.
Nella «Prex eucharistica III» («Vere sanctus») è addirittura
detto al Signore:«continui a radunare intorno a te un popolo, che [in
latino: ut = affinché] da un confine all’altro della terra offra al tuo
nome il sacrificio perfetto»: ove il che fa pensare che l'elemento
indispensabile alla celebrazione sia il popolo anziché il
sacerdote; e poiché non è precisato neppur qui chi sia
l'offerente[17],
il popolo stesso appare investito di poteri sacerdotali autonomi.
Di questo passo non stupirebbe l'autorizzazione al popolo, tra
qualche tempo, di congiungersi al sacerdote nella pronuncia della formule
consacratorie (ciò che del resto sembra già accada, qua e là)!
2. Il sacerdote. La posizione del sacerdote è
minimizzata, alterata, falsata. Prima in funzione del popolo di cui egli è
caratterizzato per lo più come mero presidente o fratello (non
mediatore) anziché come ministro consacrato che celebra in
persona Christi. Poi in funzione della Chiesa, in quanto e presentato come
«qualcuno del popolo». Nella definizione della epiclesi (n.55c) le invocazioni
sono attribuite anonimamente alla Chiesa: il ruolo del sacerdote è dissolto.
Nel Confiteor divenuto collettivo egli non è più
giudice, testimone e intercessore presso Dio; è logico dunque che non gli sia
più dato di impartire l'assoluzione, che è stata infatti soppressa. Egli è
«integrato» ai fratres. Persino il chierichetto lo chiama così nel
Confiteor della «Messa senza il popolo».
Già prima di quest'ultima riforma era stata soppressa la
significativa distinzione tra la Comunione del sacerdote - il momento in cui,
per così dire, il Sommo ed Eterno Sacerdote e colui che agiva in sua
persona si fondevano in intimissima unione (nella quale era il compimento
del Sacrificio) - e quella dei fedeli.
Non più una parola ormai sul suo potere di
sacrificatore, sul suo atto consacratorio, sulla realizzazione per suo
mezzo della Presenza eucaristica. Egli appare nulla più che un ministro
protestante.
La sparizione o l'uso facoltativo di molti paramenti (in certi
casi càmice e stola bastano - n. 298) vanificano ancor più l'originale
conformazione al Cristo: il sacerdote non è più rivestito di tutte le virtù di
Lui; egli è un semplice «graduato» che uno o due segni distinguono appena dalla
massa[18]:
(«un po’ più uomo degli altri» per citare la formula involontariamente
umoristica di un moderno predicatore[19]).
Di nuovo si separa ciò che Dio ha unito: come si è separato il
tabernacolo dall’altare della Messa, così si scinde il Sacerdozio unico del
Verbo di Dio dal sacerdozio dei suoi ministri consacrati.
3. La Chiesa. Infine la posizione della Chiesa di
fronte al Cristo. In un solo caso, quello della «Messa senza popolo» ci si degna
di ammettere che la Messa è «Azione di Cristo e della Chiesa» (n.4, cfr.
Presb. Ord. n.13), mentre nel caso della «Messa con il popolo» non si
accenna che allo scopo di «far memoria di Cristo» e santificare i presenti. «Il
Sacerdote celebrante (…) si associa al popolo (…) nell’offerta del sacrificio a
Dio Padre per Cristo nello Spirito Santo» (n.60), anziché associare il
popolo a Cristo che offre se stesso «a Dio Padre per mezzo
dello Spirito Santo».
S’inseriscono in questo contesto: la gravissima omissione delle
clausole «Per Christum Dominum nostrum», garanzia di esaudimento data alla
Chiesa di tutti i tempi (Giov. 14, 13-14; 15, 16; 16, 23-24); l'ossessivo
«paschalismo»: quasi che la comunicazione della grazia non presentasse altri
aspetti altrettanto importanti; l'escatologismo dubbio e maniaco, in cui la
comunicazione di una realtà, la grazia, che è permanente ed eterna, è
ricondotta alla dimensione del tempo: popolo in marcia, chiesa peregrinante -
non più militante, si badi contro il Potere delle tenebre -
verso un futuro che non è più vincolato all'eterno (quindi anche
all'eterno presente) ma a un vero e proprio avvenire temporale.
La Chiesa - Una, Santa, Cattolica, Apostolica - è umiliata come
tale nella formula che, nella «Preghiera eucaristica IV», ha sostituito la
preghiera del Canone romano «per tutti i cultori ortodossi della fede cattolica
e apostolica». Ora essi sono, né più né meno «tutti gli uomini che ti cercano
con cuore sincero»…!
Così, nel Memento dei morti, questi non sono più
trapassati «col segno della fede e dormono il sonno della pace», ma
semplicemente «sono morti nella pace del tuo Cristo»; ad essi si aggiunge, con
nuovo e patente scapito del concetto di unitarietà e visibilità, la turba di
«tutti i defunti dei quali tu solo hai conosciuto la fede».
In nessuna delle tre nuove preci, poi, vi è il minimo cenno,
come già si è detto, allo stato di sofferenza dei trapassati, in nessuna la
possibilità di un Memento particolare: il che, ancora una volta,
snerva la fede nella natura propiziatoria e redentiva del Sacrificio[20].
Omissioni dissacranti avviliscono ovunque il Mistero della
Chiesa. Esso è misconosciuto innanzi tutto come sacra gerarchia apostolica, non
essendo più menzionati Pietro e Paolo; Angeli e Santi sono ridotti all'anonimato
nella seconda parte del Confiteor collettivo; sono scomparsi come
testimoni e giudici, nella persona di Michele, dalla prima[21].
Scomparse anche le varie Gerarchie Angeliche (e ciò è senza precedenti) dal
nuovo Prefazio della «Preghiera eucaristica II». Soppressa nel Comunicantes
la memoria dei Pontefici e dei Santi Martiri su cui la Chiesa di Roma è
fondata, che furono senza dubbio i trasmettitori delle tradizioni apostoliche e
le completarono in ciò che divenne, con S. Gregorio, la Messa romana. Soppressa,
nel Libera nos, la menzione della B. Vergine, degli Apostoli e di tutti
i Santi: la sua e loro intercessione non è quindi più chiesta neppure nel
momento del pericolo.
L’unità della Chiesa è compromessa fino all'intollerabile
omissione, nell'intero Ordo, comprese le tre nuove «Preghiere» (e con
la sola eccezione del Communicantes del Canone romano), dei nomi degli
Apostoli Pietro e Paolo, fondatori della Chiesa di Roma, nonché dei nomi degli
altri Apostoli, fondamento e segno della Chiesa unica e universale.
Chiaro attentato al dogma della Comunione dei Santi è la
soppressione, quando il sacerdote celebri senza inserviente, di tutte le
salutationes e della benedizione finale; e anche dell'Ite Missa
est [22],
nella messa celebrata col solo inserviente (nn. 211 e 231).
Il confiteor, recitato dal solo sacerdote, mostrava chiaramente
che egli, in veste di ministro di Cristo, profondamente inclinato, si
riconosceva indegno di celebrare il «tremendo mistero» e persino (cfr. la
preghiera Aufer a nobis) di entrare nel Santo dei Santi; per
cui invocava (con la preghiera Oramus te Domine) i meriti e
l’intercessione dei santi martiri di cui l’altare racchiudeva le reliquie.
Entrambe le preghiere sono state soppresse! Vale qui ciò che già è stato detto
per il doppio Confiteor e per la Comunione del sacerdote distinta da
quella dei fedeli.
Sono profanate le condizioni del Sacrificio come segno di una
cosa sacra: vedi ad esempio, la celebrazione fuori del luogo sacro nel qual caso
l'altare può essere sostituito da una semplice «mensa» senza pietra
consacrata né reliquie, con una sola tovaglia (nn. 260, 265). Anche qui
vale quanto già detto a proposito della Presenza Reale: si dissocia il nudo rito
del «convivium» e sacrificio dalla stessa Presenza Reale adorabile del Corpo e
del Sangue di Cristo.
La desacralizzazione è perfezionata grazie alle nuove,
grottesche modalità dell'offerta; l'accenno al pane anziché all’azzimo, la
facoltà, data persino ai chierichetti (nonché ai laici nella comunione sotto
entrambe le specie) di toccare i vasi sacri (n.244d); la inverosimile
atmosfera che si creerà nella chiesa ove si alterneranno senza tregua sacerdote,
diacono, suddiacono, salmista, commentatore (il sacerdote stesso par divenuto
tale, continuamente incoraggiato com'è a «spiegare» ciò che sta per compiere),
lettori (uomini e donne) chierici o laici che accolgono i fedeli alla porta e li
accompagnano ai loro posti, fanno la colletta, portano e smistano offerte; e, in
tanto delirio scritturistico, la presenza antiveterotestamentaria, antipaolina
(1 Cor. 14,34; I Tim. 2,11-12) della «mulier idonea - donna ben preparata» che,
per la prima volta nella tradizione della Chiesa, sarà autorizzata a leggere le
lezioni e adempiere anche ad altri «ministeri che si compiono fuori del
presbiterio» (n.70). Infine la mania concelebratoria, che finirà di distruggere
la pietà eucaristica del sacerdote e di obnubilare la figura centrale del
Cristo, unico Sacerdote e Vittima, e dissolverla nella presenza collettiva dei
concelebranti[23].
VI
Ci siamo limitati ad un sommario esame del Novus Ordo,
nelle sue deviazioni più gravi dalla teologia della Messa cattolica. Le
osservazioni fatte sono soltanto quelle che hanno un carattere tipico. Una
valutazione completa delle insidie, dei pericoli, degli elementi
spiritualmente e psicologicamente distruttivi che il documento
contiene, sia nei testi come nelle rubriche e nelle istruzioni, richiederebbe
ben altra mole di lavoro.
Poiché furono criticati ripetutamente e autorevolmente nella
loro forma e sostanza, abbiamo sorvolato sui nuovi canoni, di cui il secondo[24]
ha immediatamente scandalizzato i fedeli per la sua brevità. Di esso si è potuto
scrivere, tra molte altre cose, che può essere celebrato in piena tranquillità
di coscienza da un prete che non creda più né alla transustanziazione né alla
natura sacrificale della Messa, e che quindi si presterebbe benissimo anche alla
celebrazione da parte di un ministro protestante.
Il nuovo Messale fu presentato a Roma come «ampio materiale
pastorale», «testo più pastorale che giuridico», su cui le Conferenze Episcopali
avrebbero potuto operare secondo le circostanze e il genio dei vari popoli. Del
resto, la I sezione della nuova Congregazione per il Culto Divino sarà
responsabile «dell'edizione e della costante revisione dei libri
liturgici».
Scrive l'ultimo bollettino ufficiale degli Istituti Liturgici
di Germania, Svizzera e Austria[25]:
«i testi latini dovranno ora esser tradotti nelle lingue dei vari popoli; lo
stile “romano” dovrà essere adattato all'individualità delle Chiese locali; ciò
che fu concepito al di fuori del tempo deve essere trasportato nel mutevole
contesto di situazioni concrete, nel flusso costante della Chiesa universale e
delle sue miriadi di congregazioni».
La Costituzione Apostolica stessa dà il colpo di
grazia alla lingua universale (in contrasto con la volontà espressa nel Concilio
Vaticano II) affermando senza equivoci che «in tanta varietà di lingue,
salirà (…) una sola (?) e identica preghiera».
La morte del latino è data dunque per scontata; quella del
gregoriano, che pure il Concilio riconobbe «il canto proprio della liturgia
romana» (Sacros. Conc., n.116), ordinando che «tenga il primo posto»
(ibid.), ne consegue logicamente, con la libera scelta, tra l'altro, dei testi
dell'Introito e del Graduale.
Il nuovo rito è dato quindi in partenza come pluralistico e
sperimentale, legato al tempo e al luogo. Spezzata così per sempre
l'unità di culto, in che cosa consisterà ormai quell'unità di fede che
ne conseguiva e di cui sempre si parla come della sostanza da difendere senza
compromissioni?
È evidente che il Novus Ordo non vuole più
rappresentare la fede tridentina. A questa fede, nondimeno, la
coscienza cattolica è vincolata in eterno. Il vero cattolico, qualunque sia la
sua condizione e funzione, è dunque posto, dalla promulgazione del Novus
Ordo, in una tragica necessità di opzione.
VII
La Costituzione accenna esplicitamente a una ricchezza di pietà
e di dottrina mutuata nel Novus Ordo dalle Chiese di Oriente. Il
risultato appare tale da respingere inorridito il fedele di rito orientale,
tanto lo spirito ne è, più che remoto, addirittura opposto. A che si riducono
queste scelte ecumeniche? In sostanza, alla molteplicità delle anafore*
(non certo alla loro bellezza e complessità), alla presenza del diacono e alla
comunione sotto le due specie. Per contro, pare si sia voluto eliminare
deliberatamente tutto quanto, nella liturgia romana, era più prossimo
all'orientale[26]
e, rinnegando l'inconfondibile ed immemorabile carattere romano, abdicare a ciò
che più gli era proprio e spiritualmente prezioso. Lo si è sostituito con
elementi che soltanto a certi riti riformati (e nemmeno a quelli più prossimi al
cattolicesimo) lo avvicinano degradandolo, mentre vieppiù ne allontaneranno
l'Oriente, come l'hanno già allontanato le ultime riforme.
In compenso, esso piacerà sommamente a tutti quei gruppi,
vicini alla apostasia, che devastano la Chiesa inquinandone l’organismo,
intaccandone l'unità dottrinale, liturgica, morale e disciplinare in una crisi
spirituale senza precedenti.
VIII
S. Pio V curò l'edizione del Missale romanum affinché (come la
stessa Costituzione ricorda) fosse strumento di unità tra i cattolici. In
conformità alle prescrizioni del Concilio Tridentino esso doveva escludere ogni
pericolo, nel culto, di errori contro la fede, insidiata allora dalla Riforma
protestante. Così gravi erano i motivi del Santo Pontefice che mai come in
questo caso appare giustificata, quasi profetica, la sacra formula che chiude la
Bolla di promulgazione del suo Messale: «Se qualcuno avrà l’audacia di
attentarvi, sappia che incorrerà nell’indignazione di Dio onnipotente e dei suoi
beati Apostoli Pietro e Paolo» (Quo primum , 13 luglio 1570)[27].
Eppure si è avuto l’ardire di affermare, presentando
ufficialmente il Novus Ordo alla Sala Stampa del Vaticano, che le ragioni del
Tridentino non sussistono più.
Non solo esse sussistono ancora, ma ne esistono oggi, non
esitiamo a dirlo, di infinitamente più gravi. Proprio facendo fronte alle
insidie che minacciavano di secolo in secolo la purezza del deposito ricevuto
(«custodisci il deposito, evitando le profane novità di espressione», I Tim. 6,
20), la Chiesa dovette erigergli intorno le difese ispirate delle sue
definizioni dogmatiche e dei suoi pronunciamenti dottrinali. Essi ebbero
ripercussione immediata nel culto, che divenne il monumento più completo della
sua fede.
Volere ad ogni costo riportare questo culto all’antico,
rifacendo freddamente, in vitro, quel che in antico ebbe la grazia della
spontaneità primigena, secondo quell’«insano archeologismo» così tempestivamente
e lucidamente condannato da Pio XII[28],
significa - come purtroppo si è visto - smantellarlo di tutte le sue difese
teologiche oltre che di tutte le bellezze accumulate nei secoli[29],
e proprio in uno dei momenti più critici, forse il più critico che la storia
della Chiesa ricordi.
Oggi, non più all’esterno, ma all’interno stesso della
cattolicità l’esistenza di divisioni e scismi è ufficialmente riconosciuta[30];
l’unità della Chiesa non è più soltanto minacciata ma già tragicamente
compromessa[31]
e gli errori contro la fede non solo s’insinuano, ma s’impongono attraverso
abusi ed aberrazioni liturgiche ugualmente riconosciute[32].
L’abbandono di una tradizione liturgica che fu per quattro secoli segno e pegno
di unità di culto per sostituirla con un’altra - che non potrà non essere segno
di divisione per le licenze innumerevoli che implicitamente autorizza, e che
pullula essa stessa di insinuazioni o di errori palesi contro la purezza della
fede cattolica - appare, volendo definirlo nel modo più mite, un incalcolabile
errore.
Corpus Domini 1969
Fonte: www.sanpiox.it
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