LA “TESI DI CASSICÌACUM” È ANCORA ASSOLUTAMENTE CERTA ? Avvertenza
Avendo abbandonato - pubblicamente – le conclusioni giuridiche della “Tesi di Cassicìacum” (7-8 dicembre 2006) per approdare a “sì sì no no” presso Velletri (7 gennaio 2007), mi sentivo, sin da allora, in dovere di spiegare le ragioni di questo mio mutamento. Avevo lavorato a questo piccolo scritto da molto tempo e lo porgo qui in “riassunto” come “un’ipotesi di Velletri” ([1]). Vi ho riflettuto – informalmente già a partire dalla fine del 2003, (e sin verso la fine del 1990, le conseguenze pratiche e giuridiche che alcuni “guerardiani” tiravano dalla “Tesi di Cassicìacum”, mi preoccupavano e mi ponevano dei dubbi). Solo nell’agosto 2007 (dopo lunga – forse troppo lunga - ponderazione) ho lasciato, anche formalmente, la ‘Tesi di Cassiacìacum’, alla quale ho aderito per molti anni. Non avrei voluto pubblicare queste pagine, per non turbare ulteriormente i fedeli, parlando di questioni “tremende” (paragonabili al dogma della “Predestinazione”) e che superano le capacità dei non ‘specialisti’ in teologia, (tali argomenti possono essere affrontati “in scuola” e non predicati ai semplici fedeli) ([2]), ma più fedeli mi hanno consigliato di rendere ragione delle mie decisioni pubblicamente, essendo io un sacerdote e quindi una persona “pubblica”, onde evitare ogni equivoco. Solo con questo intento mi accingo a rendere noto tale scritto, senza nessuna pretesa, né minaccia di apostasia, per chi non è d’accordo, memore (soprattutto per me ed anche per gli altri) delle parole di Dante:
«Or tu chi sei, che vuoi sedere a scranno,
per giudicar da lungi mille miglia
con la veduta corta d’una spanna?»
(Paradiso, XIX, 79-81).
Introduzione: Tre citazioni di p. Guérard
1) «La portata oggettiva della domanda: “L’occupante della Sede apostolica è, sì o no, papa materialmente?”, è talmente fuori della nostra portata che concretamente e realmente, la risposta a questa domanda non ha quasi impatto sul comportamento effettivamente possibile del fedele legato alla Tradizione» (Guérard des Lauriers, Sodalitium, n° 13, in, “Il problema dell’autorità”, Verrua Savoia, CLS, 2005, p. 37).
►Se è “fuori la nostra portata”, (specialmente quella di p. Guérard des Laurier) non è evidente. Se “non ha impatto sul comportamento del fedele”, non se ne possono trarre conclusioni pratiche e giuridiche. Cosa che i “guerardiani”, invece fanno ‘in pratica’, reputandola evidente ‘in teoria’ e così oltrepassano e contraddicono p. Guérard stesso.
2) «Una tale perpetuazione [della gerarchia puramente materiale] non è, ex se, impossibile. Essa richiede tuttavia delle consacrazioni episcopali certamente valide. E poiché il nuovo rito è dubbio, gli occupanti (della Sede Apostolica) ben presto non saranno più che delle ‘COMPARSE» (Il problema dell’Autorità e dell’episcopato nella Chiesa, Verrua Savoia, CLS, 2005, p. 37).
►Se Benedetto XVI è una “pura comparsa” non è neppure “papa materialmente o in potenza”, onde la “Tesi di Cassicìacum” crolla a favore della “sede totalmente vacante”. Infatti oggi (2008) con Benedetto XVI, il quale non sarebbe validamente vescovo, poiché consacrato con il “sacramentario della Chiesa conciliare”, ci troviamo di fronte al “nulla” o alla privazione totale del Papato.
3) «Chi dichiara attualmente: “mons. Wojtyla non è per nulla papa [neanche materialmente]”, deve: o convocare il conclave [!], o mostrare le credenziali che lo costituiscono direttamente e immediatamente Legato di Nostro Signor Gesù Cristo [!]» (Il problema dell’Autorità…, Verrua Savoia, CLS, 2005, p. 37).
►Ora, per p. Guérard Benedetto XVI non sarebbe papa neppure materialmente, non essendo neanche vescovo, quindi i “tesisti”, per essere coerenti con la “Tesi”, dovrebbero o eleggere un altro papa, o dimostrare di essere i vicari o “legati diretti” di Cristo. Secondo loro tertium non datur….
Onde solo queste tre citazioni di p. Guérad autore della “Tesi” (su cui mi baso sostanzialmente in questo articolo), basterebbero a far capire che ‘oggi’ (2004-2008) sussiste, almeno un “legittimo dubbio” sulla assoluta certezza teorica della “Tesi” per non parlare della pratica giuridico-morale dei “tesisti”. Se mi sbaglio, chiedo lumi ai “tesisti” su questi tre punti che mi pongono dei problemi. Ed infine Benedetto XVI è ancora “papa” materialiter o non è più nulla?
Discernimento e buon senso
S. Ignazio da Loyola negli “Esercizi Spirituali” (n°318) ([3]) scrive che in tempi di confusione non si deve cambiare proposito di agire, ma restar fermi e fare come prima senza pretendere di vederci chiaro, poiché “nel torbido pesca il demonio”. Quindi nei casi di oscurità, aridità, desolazione, ‘notti dei sensi e dello spirito’, occorre andare avanti come prima, anche senza vedere, anzi ci si deve accontentare di non aver lumi, poiché Dio permette tale oscurità per purificare l’anima dei suoi fedeli, spingendoli ad una maggior fiducia in Lui che non in se stessi e a “sperare contro la speranza”, senza vedere nell’inevidenza (quod repugnat). Anche s. Teresa d’Avila e s. Giovanni della Croce insegnano la stessa dottrina, che è comune in teologia ascetica e mistica.
Ogni eccesso è un difetto
Chi pretende di sapere tutto di tutto e di avere la certezza e l’evidenza di come stiano realmente le cose, erra; specialmente in una situazione di oscurità e di incertezza come l’attuale, che non ha avuto eguali in tutta la storia della Chiesa. Ogni risposta (anche e specialmente la mia) e “soluzione” o “tentativo” è parziale ed ha le sue ombre e chiaroscuri. Solo la Chiesa gerarchica potrà dirci la parola definitiva. Quindi “si non vis errare, noli velle scrutare” (s. Agostino). La crisi conciliare e postconciliare è un “mistero tremendo”, ora il mistero è oltre la ragione umana, la sorpassa ma non è contro essa. Dunque, “cerchiamo di rendere certa la nostra elezione, mediante le nostre buone opere” (s. Pietro). Ossia, fare ciò che la Chiesa ha sempre fatto (s. Vincenzo da Lerino, “Commonitorium”, cap. III), rifiutare le novità che ci hanno portato a tale stato di confusione dommatica, morale e liturgica.
Non bisogna voler strafare (sostituendosi alla gerarchia), pensando di “vederci chiaro a mezzanotte”. L’ipotesi o la domanda speculativa sull’Autorità è lecita [i documenti del concilio Vaticano II, l’insegnamento “pancristista” di Giovanni Paolo II, il NOM, pongono seri e reali interrogativi, non si può far finta di nulla e accusare il sedevacantismo di essere il “male assoluto”, una specie di “shoah cattolica”, mentre i responsabili di tale “catastrofe” religiosa sono stati Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II], ma la suddetta ipotesi teorica, non deve diventare una certezza pratica, mancandole (oggi) l’evidenza, come si evince dalle tre citazioni di p. Guérard su scritte (soprattutto quanto all’esercizio pratico di essa o alle conclusioni giuridico-canoniche che se ne tirano) e specialmente non deve essere predicata ai fedeli con imprudenza, faciloneria e arroganza (4), altrimenti si rischierebbe di gettarli nella disperazione o nella presunzione (s. Ignazio da Loyola, Esercizi Spirituali, “Regole per sentire con la Chiesa”, n° 362/365/366/367/368/369).
Sarebbe, invece, opportuno che il fronte cattolico antimodernista fosse sostanzialmente unito (nel rifiuto delle novità) e accidentalmente (quanto al modo di reagire) separato o distinto ma non nemico. Quel che lascia perplessi è l’eccesso di polemica (in cui si tuffano, specialmente via ‘internet’, anche persone a digiuno delle nozioni basilari del catechismo), che rasenta l’odio personale per coloro i quali non seguono strettamente la “Tesi”, compresi i “sedevacantisti totali”.
4) Per esempio, quanto al dogma della Predestinazione, la Chiesa lascia piena libertà di insegnare e di seguire la tesi tomista o quella molinista, pur essendo radicalmente diverse e contraddittorie e quindi oggettivamente una sola è quella vera, poiché in un mistero così arduo e “tremendo” non vuol pretendere di avere la certezza assoluta e di obbligare i fedeli a seguire una tesi teologica che potrebbe essere troppo dura per le loro forze. Al contrario alcuni sacerdoti “tesisti”, nella crisi misteriosa e tremenda che attraversa la Chiesa dal 1958 (anzi dal 1955), non esitano a pretendere di saper tutto e di obbligare i loro poveri fedeli a seguire in tutto e per tutto le loro “certezze” assolute, che non ammettono domande, dubbi, e problemi di coscienza. Quando qualcuno osa porre un quesito, normalmente, tranne rare eccezioni, si sente minacciato di peccato mortale, di scisma, e di dannazione, di aver cambiato irreversibilmente campo ecc…. Mentre la crisi che ha investito l’ambiente cattolico da mezzo secolo, può far perdere la testa e la fede se ci si pensa troppo, senza adeguata preparazione teologica e un’intensa vita spirituale, cercando di assicurassi l’elezione tramite le buone opere, senza le quali la fede è morta. Quindi non è bene parlarne ai semplici fedeli nei minimi dettagli e sino alle ultime conclusioni, come se fossero certezze infallibili di fede e di costumi. Se lo si fa, o si è irresponsabili, oppure manipolatori delle coscienze, per poterne disporre a proprio uso e vantaggio (non forzatamente materiale). Ho conosciuto dei fedeli (e anche dei sacerdoti, per non parlare di alcuni vescovi Thuc) che discettavano, anche per scritto su ‘internet’, sul “materialìter” (con l’accento sulla seconda “i”) e sul “formalìter” (idem ut supra), senza conoscere l’ “abc” della dottrina cattolica.
Analogamente, tanto per fare tre esempi:
●La divergenza di “sfumature teologiche” tra s. Giacomo vescovo di Gerusalemme e s. Paolo Apostolo dei Gentili, nel 58 d. C., (At., XXI, 15) appare chiara quando s. Paolo si reca a Gerusalemme e s. Giacomo gli mostra le sue riserve, infatti mentre il primo poneva l’accento maggiormente sulla fede in Cristo (vivificata dalla carità) per la salvezza eterna, il secondo sottolineava piuttosto l’importanza della Legge mosaica per i cristiani venuti dal giudaismo, pur non ritenendola essenziale per la salvezza, ma tuttavia essa restava, per lui, un elemento importante di attaccamento alla storia e religione dei padri. Già al Concilio di Gerusalemme (49 d. C.) la questione era stata dibattuta, però «Le tensioni nella Chiesa primitiva rimangono gravi anche dopo il Concilio di Gerusalemme» (D. Barsotti, Meditazione sugli Atti degli Apostoli, Cinisello Balsamo, San. Paolo, rist. 2008, p. 379). L’abate Giuseppe Ricciotti (Paolo Apostolo, Roma, Coletti, V ed., 1946) spiega: «L’accoglienza che Paolo trovò presso la comunità di Gerusalemme fu un’accoglienza diplomatica (…) a Gerusalemme vivevano fianco a fianco ellenisti cristiani e giudeo cristiani, rispettivamente con le loro propensioni» (p. 459). Ora il Concilio di Gerusalemme aveva parlato chiaro, ma «se ciò in teoria era chiarissimo, in pratica la pesantezza dell’umanità non permetteva a questo gruppo o a quello di elevarsi sino a quella vetta così sublime. E allora i sovraeminenti apostoli proponevano dei compromessi, per far incontrare i due gruppi» (Ivi). Giacomo rimprovera a s. Paolo l’eccessiva libertà dal mosaismo, anzi l’abbandono. Paolo insegnava, conformemente al Concilio gerosolimitano «che i pagani divenuti cristiani non dovevano preoccuparsi delle osservanze giudaiche, ma con i giudei fatti cristiani egli (…) era più remissivo, lasciando alla loro coscienza di continuare o no le pratiche della Legge, pur affermando che essa non arrecava la salvezza» (p. 461). Don Divo Barsotti, (pur se non condivisibile in tutte le sue opere, ma molto profondo e ortodosso nella sua Meditazione sugli Atti degli Apostoli, a differenza dei tanto decantati Cristina Campo, Coomaraswamy jr. e compagnia ‘sede va-cantante’…) commenta: «Sul piano della teologia e della prassi rimangono possibili interpretazioni diverse della fede e della volontà di Dio; nessuno può pretendere di esaurire tutta la ricchezza della Chiesa, nemmeno Paolo. Egli deve vivere in comunione con Giacomo, e Giacomo deve vivere in comunione con Paolo (…). Ci unisce certo la fede unica e comune, ma come facilmente anche nella fede siamo portati ciascuno a sottolineare il nostro punto di vista, che per quanto legittimo, è sempre parziale» (Meditazione sugli Atti degli Apostoli, p. 380). Paolo farà il voto di nazireato, seguendo il consiglio di Giacomo, per non scandalizzare – col suo comportamento pratico - i semplici che dal giudaismo si erano convertiti a Cristo, ma non può mancare alla verità: Per lui la Legge è superata dalla fede in Cristo informata dalla grazia santificante.
●In secondo luogo, è un fatto storico e divinamente rivelato che s. Paolo resistette in faccia a s. Pietro (Gal. II, 11-21). Ora “contro il fatto non c’è argomento che tenga”. In realtà anche riguardo il peccato di s. Pietro vi è una seria disputa e divergenza accidentale di opinioni tra i Padri e Dottori, pur in un’unità sostanziale. Infatti, S. Girolamo sostiene che Pietro e Paolo fingessero, l’uno evitando i pagani per “non scandalizzare dei giudei” e l’altro di “riprendere” Pietro. S. Agostino è assolutamente contrario a tale opinione, per lui Pietro “era realmente reprensibile, peccò realmente per eccessiva cura di non scandalizzare i giudei”. Per s. Agostino il peccato di Pietro fu veniale di fragilità o semideliberato, non di malizia o di proposito deliberato. S. Tommaso d’Aquino (S.T., I-II, q. 103, a. 4, ad 2um) riprende la tesi di s. Agostino. Quindi è certo che Pietro non peccò mortalmente, ma solo venialmente e di fragilità, come pure è un fatto indiscutibile che s. Paolo lo abbia ripreso pubblicamente ( Gal. II, 11-21) poiché la sua eccessiva cura di non urtare i giudei, mortificava i pagani converti al cristianesimo. Tuttavia l’atto di Pietro, pur essendo in sé, pratico, avrebbe comportato (qualora non fosse stato corretto) la ‘conclusione teorica’ dell’eresia giudaizzante, ossia la necessità di rispettare le regole cerimoniali del mosaismo per salvarsi, anche dopo Cristo. Quindi Paolo dovette correggere Pietro in pubblico, Pietro accettò la ingiunzione di Paolo; il primo non dichiarò la “sede vacante”, il secondo non scomunicò chi gli resisteva in faccia e pubblicamente. Dunque è divinamente rivelato che si può riprendere eccezionalmente e pubblicamente l’Autorità del Papa.
●Infine, per quanto riguarda il dovere di obbedire sempre e in ogni caso all’Autorità ecclesiastica si può rispondere che: Padre Guido Vernani da Rimini o.p.,(De protestate Summi Pontificis) afferma che Cristo ha voluto soffrire liberamente la morte, comminatagli da Pilato, dietro istigazione del Sinedrio, pur senza approvare come giusta la sentenza iniqua (“chi Mi ha consegnato a te, è più colpevole di te”. Pilato e ancor più Caifa sono colpevoli, ma sono e restano “Pretore” e “Sommo Pontefice”), ma al tempo stesso riconosce l’autorità legittima di coloro che lo hanno condannato (risponde a Caifa, chiamato dal Vangelo di Giovanni XI, 49 “Sommo Sacerdote” che proprio in quanto Sommo Sacerdote e non da sé come semplice uomo, profetizzò la morte di Cristo [Gv. XI, 52] per tutto il popolo; e al procuratore Pilato: “non avresti alcun potere se non ti fosse stato dato dall’alto” Giov. XIX, 11. Dunque Pilato ha ed esercita il potere, anche se se ne serve male, così il Sinedrio e il Sommo Sacerdote che proprio in quanto tale “profetizzò” la morte di Gesù per la salvezza di molti). Gesù non ha invocato la mancanza di esercizio di governo o di autorità in Pilato e nel Sinedrio, che pure non agivano – oggettivamente, dagli atti che hanno posti - per il bene comune. Ha risposto alle loro domande, ha riconosciuto lo stato di fatto: governano realmente, quindi esercitano l’autorità, anche se se ne servono iniquamente e colpevolmente, non ha approvato come buona la sentenza malvagia, ma neppure ha argomentato che, avendo l’intenzione oggettiva di non fare il bene comune, anzi di uccidere il Verbo Incarnato stesso, non esercitavano de facto il potere; no, essi praticamente governavano e come tali erano considerati anche da Lui: governanti de facto e de jure. Gli Atti degli Apostoli (VII, 52) sono chiari su questo punto e s. Tommaso spiega che “come una persona cara che è morta è tenuta in casa qualche tempo prima di essere sepolta definitivamente, così gli Apostoli mantennero un certo legame con la Sinagoga prima di abbandonarla formalmente” (S.T., 1a-2ae, q. 103, a.4). Soltanto con la morte di s. Giacomo Apostolo e vescovo di Gerusalemme (62 d. C.) e la distruzione del Tempio (70 d. C.), gli Apostoli e specialmente s. Paolo, prendono formalmente congedo dalla Sinagoga e non riconoscono ai Sacerdoti alcun potere. Prima di tale evento, anche dopo la morte di Cristo (per circa trenta-quaranta anni) gli Apostoli hanno continuato a frequentare le sinagoghe, per predicare il Vangelo e hanno rispettato l’Autorità del Sommo Sacerdote, anche se macchiatosi di deicidio, pur rispondendo alla sua ingiunzione di non predicare Gesù crocifisso e risorto: “È meglio obbedire a Dio che agli uomini”. Onde l’obiezione non deve essere presentata in maniera totalmente assoluta, ma sfumata e con le eccezioni che confermano la regola. S. Paolo stesso, divinamente ispirato, ci ha rivelato: «Se anche io o un angelo, vi rivelasse un altro Vangelo, sia anatema». Non ha detto di obbedire assolutamente ma neppure di considerare la “sede (paolina o angelica) vacante”. Tertium datur.
Così nella crisi che travaglia la Chiesa dal 1958 (o dal 1955) sino ad oggi, occorrerebbe il senso delle sfumature e delle distinzioni che spesso manca totalmente, ognuno pretendendo di aver ragione totalmente e assolutamente.
“Ed un Marcèl diventa
ogne villàn che parteggiando viene”.
(Purgatorio, VI, 125).
La frase che s. Ignazio da Loyola pone all’inizio degli Esercizi Spirituali «Ogni buon cristiano deve essere più pronto a salvare la proposizione del prossimo che a condannarla» (n° 22), aiuterebbe, se osservata, non poco a mantenersi nel giusto mezzo (di altezza e non di mediocrità), che sa distinguere per unire per poter giungere a una posizione il più possibilmente vicina alla realtà, pur ammettendo la possibilità di sfaccettature e accentuazioni diverse, quanto al modo d’interpretare la crisi attuale.
Avendo abbandonato - pubblicamente – le conclusioni giuridiche della “Tesi di Cassicìacum” (7-8 dicembre 2006) per approdare a “sì sì no no” presso Velletri (7 gennaio 2007), mi sentivo, sin da allora, in dovere di spiegare le ragioni di questo mio mutamento. Avevo lavorato a questo piccolo scritto da molto tempo e lo porgo qui in “riassunto” come “un’ipotesi di Velletri” ([1]). Vi ho riflettuto – informalmente già a partire dalla fine del 2003, (e sin verso la fine del 1990, le conseguenze pratiche e giuridiche che alcuni “guerardiani” tiravano dalla “Tesi di Cassicìacum”, mi preoccupavano e mi ponevano dei dubbi). Solo nell’agosto 2007 (dopo lunga – forse troppo lunga - ponderazione) ho lasciato, anche formalmente, la ‘Tesi di Cassiacìacum’, alla quale ho aderito per molti anni. Non avrei voluto pubblicare queste pagine, per non turbare ulteriormente i fedeli, parlando di questioni “tremende” (paragonabili al dogma della “Predestinazione”) e che superano le capacità dei non ‘specialisti’ in teologia, (tali argomenti possono essere affrontati “in scuola” e non predicati ai semplici fedeli) ([2]), ma più fedeli mi hanno consigliato di rendere ragione delle mie decisioni pubblicamente, essendo io un sacerdote e quindi una persona “pubblica”, onde evitare ogni equivoco. Solo con questo intento mi accingo a rendere noto tale scritto, senza nessuna pretesa, né minaccia di apostasia, per chi non è d’accordo, memore (soprattutto per me ed anche per gli altri) delle parole di Dante:
«Or tu chi sei, che vuoi sedere a scranno,
per giudicar da lungi mille miglia
con la veduta corta d’una spanna?»
(Paradiso, XIX, 79-81).
Introduzione: Tre citazioni di p. Guérard
1) «La portata oggettiva della domanda: “L’occupante della Sede apostolica è, sì o no, papa materialmente?”, è talmente fuori della nostra portata che concretamente e realmente, la risposta a questa domanda non ha quasi impatto sul comportamento effettivamente possibile del fedele legato alla Tradizione» (Guérard des Lauriers, Sodalitium, n° 13, in, “Il problema dell’autorità”, Verrua Savoia, CLS, 2005, p. 37).
►Se è “fuori la nostra portata”, (specialmente quella di p. Guérard des Laurier) non è evidente. Se “non ha impatto sul comportamento del fedele”, non se ne possono trarre conclusioni pratiche e giuridiche. Cosa che i “guerardiani”, invece fanno ‘in pratica’, reputandola evidente ‘in teoria’ e così oltrepassano e contraddicono p. Guérard stesso.
2) «Una tale perpetuazione [della gerarchia puramente materiale] non è, ex se, impossibile. Essa richiede tuttavia delle consacrazioni episcopali certamente valide. E poiché il nuovo rito è dubbio, gli occupanti (della Sede Apostolica) ben presto non saranno più che delle ‘COMPARSE» (Il problema dell’Autorità e dell’episcopato nella Chiesa, Verrua Savoia, CLS, 2005, p. 37).
►Se Benedetto XVI è una “pura comparsa” non è neppure “papa materialmente o in potenza”, onde la “Tesi di Cassicìacum” crolla a favore della “sede totalmente vacante”. Infatti oggi (2008) con Benedetto XVI, il quale non sarebbe validamente vescovo, poiché consacrato con il “sacramentario della Chiesa conciliare”, ci troviamo di fronte al “nulla” o alla privazione totale del Papato.
3) «Chi dichiara attualmente: “mons. Wojtyla non è per nulla papa [neanche materialmente]”, deve: o convocare il conclave [!], o mostrare le credenziali che lo costituiscono direttamente e immediatamente Legato di Nostro Signor Gesù Cristo [!]» (Il problema dell’Autorità…, Verrua Savoia, CLS, 2005, p. 37).
►Ora, per p. Guérard Benedetto XVI non sarebbe papa neppure materialmente, non essendo neanche vescovo, quindi i “tesisti”, per essere coerenti con la “Tesi”, dovrebbero o eleggere un altro papa, o dimostrare di essere i vicari o “legati diretti” di Cristo. Secondo loro tertium non datur….
Onde solo queste tre citazioni di p. Guérad autore della “Tesi” (su cui mi baso sostanzialmente in questo articolo), basterebbero a far capire che ‘oggi’ (2004-2008) sussiste, almeno un “legittimo dubbio” sulla assoluta certezza teorica della “Tesi” per non parlare della pratica giuridico-morale dei “tesisti”. Se mi sbaglio, chiedo lumi ai “tesisti” su questi tre punti che mi pongono dei problemi. Ed infine Benedetto XVI è ancora “papa” materialiter o non è più nulla?
Discernimento e buon senso
S. Ignazio da Loyola negli “Esercizi Spirituali” (n°318) ([3]) scrive che in tempi di confusione non si deve cambiare proposito di agire, ma restar fermi e fare come prima senza pretendere di vederci chiaro, poiché “nel torbido pesca il demonio”. Quindi nei casi di oscurità, aridità, desolazione, ‘notti dei sensi e dello spirito’, occorre andare avanti come prima, anche senza vedere, anzi ci si deve accontentare di non aver lumi, poiché Dio permette tale oscurità per purificare l’anima dei suoi fedeli, spingendoli ad una maggior fiducia in Lui che non in se stessi e a “sperare contro la speranza”, senza vedere nell’inevidenza (quod repugnat). Anche s. Teresa d’Avila e s. Giovanni della Croce insegnano la stessa dottrina, che è comune in teologia ascetica e mistica.
Ogni eccesso è un difetto
Chi pretende di sapere tutto di tutto e di avere la certezza e l’evidenza di come stiano realmente le cose, erra; specialmente in una situazione di oscurità e di incertezza come l’attuale, che non ha avuto eguali in tutta la storia della Chiesa. Ogni risposta (anche e specialmente la mia) e “soluzione” o “tentativo” è parziale ed ha le sue ombre e chiaroscuri. Solo la Chiesa gerarchica potrà dirci la parola definitiva. Quindi “si non vis errare, noli velle scrutare” (s. Agostino). La crisi conciliare e postconciliare è un “mistero tremendo”, ora il mistero è oltre la ragione umana, la sorpassa ma non è contro essa. Dunque, “cerchiamo di rendere certa la nostra elezione, mediante le nostre buone opere” (s. Pietro). Ossia, fare ciò che la Chiesa ha sempre fatto (s. Vincenzo da Lerino, “Commonitorium”, cap. III), rifiutare le novità che ci hanno portato a tale stato di confusione dommatica, morale e liturgica.
Non bisogna voler strafare (sostituendosi alla gerarchia), pensando di “vederci chiaro a mezzanotte”. L’ipotesi o la domanda speculativa sull’Autorità è lecita [i documenti del concilio Vaticano II, l’insegnamento “pancristista” di Giovanni Paolo II, il NOM, pongono seri e reali interrogativi, non si può far finta di nulla e accusare il sedevacantismo di essere il “male assoluto”, una specie di “shoah cattolica”, mentre i responsabili di tale “catastrofe” religiosa sono stati Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II], ma la suddetta ipotesi teorica, non deve diventare una certezza pratica, mancandole (oggi) l’evidenza, come si evince dalle tre citazioni di p. Guérard su scritte (soprattutto quanto all’esercizio pratico di essa o alle conclusioni giuridico-canoniche che se ne tirano) e specialmente non deve essere predicata ai fedeli con imprudenza, faciloneria e arroganza (4), altrimenti si rischierebbe di gettarli nella disperazione o nella presunzione (s. Ignazio da Loyola, Esercizi Spirituali, “Regole per sentire con la Chiesa”, n° 362/365/366/367/368/369).
Sarebbe, invece, opportuno che il fronte cattolico antimodernista fosse sostanzialmente unito (nel rifiuto delle novità) e accidentalmente (quanto al modo di reagire) separato o distinto ma non nemico. Quel che lascia perplessi è l’eccesso di polemica (in cui si tuffano, specialmente via ‘internet’, anche persone a digiuno delle nozioni basilari del catechismo), che rasenta l’odio personale per coloro i quali non seguono strettamente la “Tesi”, compresi i “sedevacantisti totali”.
4) Per esempio, quanto al dogma della Predestinazione, la Chiesa lascia piena libertà di insegnare e di seguire la tesi tomista o quella molinista, pur essendo radicalmente diverse e contraddittorie e quindi oggettivamente una sola è quella vera, poiché in un mistero così arduo e “tremendo” non vuol pretendere di avere la certezza assoluta e di obbligare i fedeli a seguire una tesi teologica che potrebbe essere troppo dura per le loro forze. Al contrario alcuni sacerdoti “tesisti”, nella crisi misteriosa e tremenda che attraversa la Chiesa dal 1958 (anzi dal 1955), non esitano a pretendere di saper tutto e di obbligare i loro poveri fedeli a seguire in tutto e per tutto le loro “certezze” assolute, che non ammettono domande, dubbi, e problemi di coscienza. Quando qualcuno osa porre un quesito, normalmente, tranne rare eccezioni, si sente minacciato di peccato mortale, di scisma, e di dannazione, di aver cambiato irreversibilmente campo ecc…. Mentre la crisi che ha investito l’ambiente cattolico da mezzo secolo, può far perdere la testa e la fede se ci si pensa troppo, senza adeguata preparazione teologica e un’intensa vita spirituale, cercando di assicurassi l’elezione tramite le buone opere, senza le quali la fede è morta. Quindi non è bene parlarne ai semplici fedeli nei minimi dettagli e sino alle ultime conclusioni, come se fossero certezze infallibili di fede e di costumi. Se lo si fa, o si è irresponsabili, oppure manipolatori delle coscienze, per poterne disporre a proprio uso e vantaggio (non forzatamente materiale). Ho conosciuto dei fedeli (e anche dei sacerdoti, per non parlare di alcuni vescovi Thuc) che discettavano, anche per scritto su ‘internet’, sul “materialìter” (con l’accento sulla seconda “i”) e sul “formalìter” (idem ut supra), senza conoscere l’ “abc” della dottrina cattolica.
Analogamente, tanto per fare tre esempi:
●La divergenza di “sfumature teologiche” tra s. Giacomo vescovo di Gerusalemme e s. Paolo Apostolo dei Gentili, nel 58 d. C., (At., XXI, 15) appare chiara quando s. Paolo si reca a Gerusalemme e s. Giacomo gli mostra le sue riserve, infatti mentre il primo poneva l’accento maggiormente sulla fede in Cristo (vivificata dalla carità) per la salvezza eterna, il secondo sottolineava piuttosto l’importanza della Legge mosaica per i cristiani venuti dal giudaismo, pur non ritenendola essenziale per la salvezza, ma tuttavia essa restava, per lui, un elemento importante di attaccamento alla storia e religione dei padri. Già al Concilio di Gerusalemme (49 d. C.) la questione era stata dibattuta, però «Le tensioni nella Chiesa primitiva rimangono gravi anche dopo il Concilio di Gerusalemme» (D. Barsotti, Meditazione sugli Atti degli Apostoli, Cinisello Balsamo, San. Paolo, rist. 2008, p. 379). L’abate Giuseppe Ricciotti (Paolo Apostolo, Roma, Coletti, V ed., 1946) spiega: «L’accoglienza che Paolo trovò presso la comunità di Gerusalemme fu un’accoglienza diplomatica (…) a Gerusalemme vivevano fianco a fianco ellenisti cristiani e giudeo cristiani, rispettivamente con le loro propensioni» (p. 459). Ora il Concilio di Gerusalemme aveva parlato chiaro, ma «se ciò in teoria era chiarissimo, in pratica la pesantezza dell’umanità non permetteva a questo gruppo o a quello di elevarsi sino a quella vetta così sublime. E allora i sovraeminenti apostoli proponevano dei compromessi, per far incontrare i due gruppi» (Ivi). Giacomo rimprovera a s. Paolo l’eccessiva libertà dal mosaismo, anzi l’abbandono. Paolo insegnava, conformemente al Concilio gerosolimitano «che i pagani divenuti cristiani non dovevano preoccuparsi delle osservanze giudaiche, ma con i giudei fatti cristiani egli (…) era più remissivo, lasciando alla loro coscienza di continuare o no le pratiche della Legge, pur affermando che essa non arrecava la salvezza» (p. 461). Don Divo Barsotti, (pur se non condivisibile in tutte le sue opere, ma molto profondo e ortodosso nella sua Meditazione sugli Atti degli Apostoli, a differenza dei tanto decantati Cristina Campo, Coomaraswamy jr. e compagnia ‘sede va-cantante’…) commenta: «Sul piano della teologia e della prassi rimangono possibili interpretazioni diverse della fede e della volontà di Dio; nessuno può pretendere di esaurire tutta la ricchezza della Chiesa, nemmeno Paolo. Egli deve vivere in comunione con Giacomo, e Giacomo deve vivere in comunione con Paolo (…). Ci unisce certo la fede unica e comune, ma come facilmente anche nella fede siamo portati ciascuno a sottolineare il nostro punto di vista, che per quanto legittimo, è sempre parziale» (Meditazione sugli Atti degli Apostoli, p. 380). Paolo farà il voto di nazireato, seguendo il consiglio di Giacomo, per non scandalizzare – col suo comportamento pratico - i semplici che dal giudaismo si erano convertiti a Cristo, ma non può mancare alla verità: Per lui la Legge è superata dalla fede in Cristo informata dalla grazia santificante.
●In secondo luogo, è un fatto storico e divinamente rivelato che s. Paolo resistette in faccia a s. Pietro (Gal. II, 11-21). Ora “contro il fatto non c’è argomento che tenga”. In realtà anche riguardo il peccato di s. Pietro vi è una seria disputa e divergenza accidentale di opinioni tra i Padri e Dottori, pur in un’unità sostanziale. Infatti, S. Girolamo sostiene che Pietro e Paolo fingessero, l’uno evitando i pagani per “non scandalizzare dei giudei” e l’altro di “riprendere” Pietro. S. Agostino è assolutamente contrario a tale opinione, per lui Pietro “era realmente reprensibile, peccò realmente per eccessiva cura di non scandalizzare i giudei”. Per s. Agostino il peccato di Pietro fu veniale di fragilità o semideliberato, non di malizia o di proposito deliberato. S. Tommaso d’Aquino (S.T., I-II, q. 103, a. 4, ad 2um) riprende la tesi di s. Agostino. Quindi è certo che Pietro non peccò mortalmente, ma solo venialmente e di fragilità, come pure è un fatto indiscutibile che s. Paolo lo abbia ripreso pubblicamente ( Gal. II, 11-21) poiché la sua eccessiva cura di non urtare i giudei, mortificava i pagani converti al cristianesimo. Tuttavia l’atto di Pietro, pur essendo in sé, pratico, avrebbe comportato (qualora non fosse stato corretto) la ‘conclusione teorica’ dell’eresia giudaizzante, ossia la necessità di rispettare le regole cerimoniali del mosaismo per salvarsi, anche dopo Cristo. Quindi Paolo dovette correggere Pietro in pubblico, Pietro accettò la ingiunzione di Paolo; il primo non dichiarò la “sede vacante”, il secondo non scomunicò chi gli resisteva in faccia e pubblicamente. Dunque è divinamente rivelato che si può riprendere eccezionalmente e pubblicamente l’Autorità del Papa.
●Infine, per quanto riguarda il dovere di obbedire sempre e in ogni caso all’Autorità ecclesiastica si può rispondere che: Padre Guido Vernani da Rimini o.p.,(De protestate Summi Pontificis) afferma che Cristo ha voluto soffrire liberamente la morte, comminatagli da Pilato, dietro istigazione del Sinedrio, pur senza approvare come giusta la sentenza iniqua (“chi Mi ha consegnato a te, è più colpevole di te”. Pilato e ancor più Caifa sono colpevoli, ma sono e restano “Pretore” e “Sommo Pontefice”), ma al tempo stesso riconosce l’autorità legittima di coloro che lo hanno condannato (risponde a Caifa, chiamato dal Vangelo di Giovanni XI, 49 “Sommo Sacerdote” che proprio in quanto Sommo Sacerdote e non da sé come semplice uomo, profetizzò la morte di Cristo [Gv. XI, 52] per tutto il popolo; e al procuratore Pilato: “non avresti alcun potere se non ti fosse stato dato dall’alto” Giov. XIX, 11. Dunque Pilato ha ed esercita il potere, anche se se ne serve male, così il Sinedrio e il Sommo Sacerdote che proprio in quanto tale “profetizzò” la morte di Gesù per la salvezza di molti). Gesù non ha invocato la mancanza di esercizio di governo o di autorità in Pilato e nel Sinedrio, che pure non agivano – oggettivamente, dagli atti che hanno posti - per il bene comune. Ha risposto alle loro domande, ha riconosciuto lo stato di fatto: governano realmente, quindi esercitano l’autorità, anche se se ne servono iniquamente e colpevolmente, non ha approvato come buona la sentenza malvagia, ma neppure ha argomentato che, avendo l’intenzione oggettiva di non fare il bene comune, anzi di uccidere il Verbo Incarnato stesso, non esercitavano de facto il potere; no, essi praticamente governavano e come tali erano considerati anche da Lui: governanti de facto e de jure. Gli Atti degli Apostoli (VII, 52) sono chiari su questo punto e s. Tommaso spiega che “come una persona cara che è morta è tenuta in casa qualche tempo prima di essere sepolta definitivamente, così gli Apostoli mantennero un certo legame con la Sinagoga prima di abbandonarla formalmente” (S.T., 1a-2ae, q. 103, a.4). Soltanto con la morte di s. Giacomo Apostolo e vescovo di Gerusalemme (62 d. C.) e la distruzione del Tempio (70 d. C.), gli Apostoli e specialmente s. Paolo, prendono formalmente congedo dalla Sinagoga e non riconoscono ai Sacerdoti alcun potere. Prima di tale evento, anche dopo la morte di Cristo (per circa trenta-quaranta anni) gli Apostoli hanno continuato a frequentare le sinagoghe, per predicare il Vangelo e hanno rispettato l’Autorità del Sommo Sacerdote, anche se macchiatosi di deicidio, pur rispondendo alla sua ingiunzione di non predicare Gesù crocifisso e risorto: “È meglio obbedire a Dio che agli uomini”. Onde l’obiezione non deve essere presentata in maniera totalmente assoluta, ma sfumata e con le eccezioni che confermano la regola. S. Paolo stesso, divinamente ispirato, ci ha rivelato: «Se anche io o un angelo, vi rivelasse un altro Vangelo, sia anatema». Non ha detto di obbedire assolutamente ma neppure di considerare la “sede (paolina o angelica) vacante”. Tertium datur.
Così nella crisi che travaglia la Chiesa dal 1958 (o dal 1955) sino ad oggi, occorrerebbe il senso delle sfumature e delle distinzioni che spesso manca totalmente, ognuno pretendendo di aver ragione totalmente e assolutamente.
“Ed un Marcèl diventa
ogne villàn che parteggiando viene”.
(Purgatorio, VI, 125).
La frase che s. Ignazio da Loyola pone all’inizio degli Esercizi Spirituali «Ogni buon cristiano deve essere più pronto a salvare la proposizione del prossimo che a condannarla» (n° 22), aiuterebbe, se osservata, non poco a mantenersi nel giusto mezzo (di altezza e non di mediocrità), che sa distinguere per unire per poter giungere a una posizione il più possibilmente vicina alla realtà, pur ammettendo la possibilità di sfaccettature e accentuazioni diverse, quanto al modo d’interpretare la crisi attuale.
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