I DIECI COMANDAMENTI
Introduzione
Parlare di “Legge di Dio” o di “dieci comandamenti”, nel nostro attuale contesto storico culturale desacralizzato e scristianizzato, potrebbe sembrare a più di qualcuno un’inquietante rievocazione di spettri di un tipo di vita arcaico e obsoleto, chiuso sotto la cappa oppressiva di un Dio che sembra quasi divertirsi nell’imporre gravosi gioghi agli uomini, pesi insopportabili, oppressioni e limitazioni per la sua libertà, che si vedrebbe mortificata e ristretta entro gli angusti limiti di precetti, prescrizioni, obblighi, proibizioni e divieti. Dopo la rivoluzione sessantottina, compiuta sotto l’egida del “vietato vietare”, l’uomo e la donna, finalmente emancipati (ma già due secoli prima pensavano di esserlo i fautori della rivoluzione francese…), si sarebbero finalmente gettati definitivamente alle spalle precetti e tabù, sciocche credenze e pratiche religiose, ritualità e religiosità proprie di una società ancora bambina e di uomini e di donne incapaci di affrontare come protagonisti la sfida della vita e di compiere, in piena autonomia e indipendenza, le scelte che ritengono giuste.
Per la verità questa prometeica pretesa ha origini ancora più antiche del delirio rivoluzionario e giacobino, figlio dell’illuminismo, di due secoli orsono. In tempi assai più lontani, un oscuro sibilo era stato sussurrato nell’orecchio del primo uomo e della prima donna, sollecitandoli ad emanciparsi dal giogo dell’Altissimo, con la pretesa (ridicola) di conoscere da se stessi (e quindi autonomamente scegliere) il bene e il male.
Se tutto questo fosse vero, dovremmo, oggi più che mai, vedere persone felici, sorridenti, serene, contente di vivere, realizzate, solari, pacifiche. Lo spettacolo che, tuttavia, sembra sovente presentarsi dinanzi ai nostri occhi è di ben altro tenore: persone tristi e depresse (le statistiche italiane sulla depressione riportano percentuali da capogiro), arrabbiate, sempre scontente, sempre inquiete, affette dalle terribili malattie della “lamentosi” e della “criticosi” (morbi pestiferi, cronici e molto contagiosi), insoddisfatte, sempre in cerca di una realizzazione tanto perseguita quanto mai raggiunta.
Il parere di chi scrive è che, agli uomini del nostro tempo, qualcuno (forse lo stesso che sibilò le primitive menzogne ai nostri Progenitori, chissà…) abbia fatto un colossale lavaggio di cervello, i cui effetti sono stati una sorta di inebetimento collettivo e di cumulo di idee assurde e strampalate che rendono l’uomo contemporaneo - per certi aspetti pur tanto evoluto, intelligente e progredito – stolto, cieco ed incapace, come si legge nel libro del profeta Giona (4,11), perfino di “distinguere la destra dalla sinistra” (salvo che nel campo politico, almeno fino a qualche tempo fa…).
Quando ci si pone dinanzi al tema della Legge di Dio, infatti, bisogna porsi alcune semplici domande previe: 1) Se Dio esiste o non esiste, dato che si parla di una legge attribuita a Lui; 2) Ammesso che Dio esiste (ma in Italia oltre il 90% dichiara ancora di credere in Dio…), se questo Dio è buono o cattivo; 3) Ammesso che Dio sia buono (di un dio cattivo nessuno saprebbe cosa farsene), quale “interesse” ne verrebbe a Lui personalmente dal fatto che la sua Legge sia osservata o no. In altre parole: cosa può cambiare nella vita di Dio se tu, caro lettore, osservi o non osservi la sua legge? Pensi forse che la grandezza, l’eterna felicità e la potenza infinita di Dio possano essere toccate, alterate, inficiate dal gesto di una povera creatura mortale e limitata? 4) Ammesso che l’inosservanza della Legge di Dio non cambi nulla a Lui e alla sua vita, bisogna chiedersi se forse fa cambiare qualcosa alla nostra vita. 5) Ammesso quest’ultimo punto, bisogna concludere che Dio ha dato una Legge buona per farci buoni e che in questa bontà consiste il segreto della nostra felicità. Allontanarsi dalla legge di Dio non è recare del male a lui, ma farlo a noi e intorno a noi.
La Sacra Scrittura è piena di riferimenti in questo senso. Si meditino, a titolo esemplificativo, anzitutto queste parole del libro del Deuteronomio (30,15ss): “ Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male; poiché io oggi ti comando di amare il Signore tuo Dio, di camminare per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue norme, perché tu viva e ti moltiplichi e il Signore tuo Dio ti benedica nel paese che tu stai per entrare a prendere in possesso. Prendo oggi a testimoni contro di voi il cielo e la terra: io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza, amando il Signore tuo Dio, obbedendo alla sua voce e tenendoti unito a lui, poiché è lui la tua vita e la tua longevità”.
Si pensi alla seconda parte dello splendido Salmo 18: “La legge del Signore è perfetta, rinfranca l’anima…Gli ordini del Signore sono giusti, fanno gioire il cuore…Per chi li osserva è grande il profitto”. Si pensi infine alle parole che Gesù in persona rivolge al giovane ricco, rispondendo alla sua “domanda delle domande” circa cosa avrebbe dovuto fare per avere la vita eterna (ovvero quale è il segreto, la via per ottenere la felicità): “Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti” (Mt 19,17).
In realtà, dunque, la legge del Signore, lungi dall’essere una mortificazione o un’oppressione per l’uomo e la sua libertà, lungi dall’essere un impedimento alla sua realizzazione o alla sua felicità, è in realtà il cammino obbligato per trovarla. Dio, nella sua Legge, ha dunque rivelato all’uomo il segreto della felicità; è un segreto “ri-velato”, nel senso che viene svelato e poi di nuovo coperto, onde non è evidente che essa sia un cammino di vita; è una sorta di tesoro nascosto, perché, apparentemente, molti dei precetti di Dio sembrerebbero gravosi e onerosi, ma appena li si cominciano a gustare e praticare, dai frutti di gioia, pace e serenità che producono, si capisce ben presto che costituiscono l’unico sentiero da percorrere per trovare ciò che ogni uomo (insegnava già il buon Aristotele) cerca (la felicità) ma ben pochi trovano.
Cominciamo dunque il nostro itinerario alla riscoperta della Legge di Dio sotto la bandiera e l’accompagnamento delle parole di un altro meraviglioso salmo, che, rivolgendosi a Dio, recita come auspicio fiducioso e sicuro: “mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena alla tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra” (Sal 18,5). Colei che è stata la Perfetta Obbediente e che, Sola, ha compiuto perfettamente tutti i voleri dell’Altissimo (e per questo poteva giubilare nel Magnificat cantando: “il mio spirito esulta in Dio mio Salvatore e tutte le generazioni mi chiameranno beata”), ci prenda per mano e, superate le nostre titubanze e cecità, figlie di questo brutto e stolto mondo contemporaneo, ci renda persuasi che solo nella conoscenza ed osservanza dei voleri dell’Altissimo è depositato il segreto della nostra felicità non solo eterna (“Dio poi ci ricompenserà”…) ma anche terrena, grazie alla gioia e nella pace che tutti i figli fedeli dell’Altissimo già fin d’ora pregustano.
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Primo comandamento: NON AVRAI ALTRO DIO ALL'INFUORI DI ME
A. Il gravissimo peccato della comunione sacrilega
Il senso del primo comandamento è l’affermazione chiara, netta e decisa dell’esistenza e dell’assoluta sovranità di Dio, che vuole e deve essere riconosciuto come unico e vero Dio, essere adorato come a Lui conviene, ricevere il culto ed i sacrifici che gli sono dovuti. L’esame sul primo comandamento dovrebbe essere condotto in materia molto seria e coscienziosa, perché i peccati contro di esso sono commessi da molti ma confessati da molto pochi. I principali peccati gravi contro il primo comandamento sono: uso sacrilego dei sacramenti (eucaristia e confessione); rifiuto di rendere a Dio l’adorazione, anche esterna, che gli è dovuta; rifiuto di rendere a Dio il doveroso ossequio della preghiera; ateismo; agnosticismo; incredulità e contestazione delle verità di fede, disperazione, odio di Dio, idolatria, pratiche occulte e superstizione. Analizzeremo ora nel dettaglio ciascuna di queste singole condotte gravemente peccaminose.
L’uso sacrilego dei sacramenti della penitenza e dell’eucaristia è purtroppo un fenomeno oggi diffusissimo. Volendo mutuare un’espressione del beato Antonio Rosmini, si tratta di una vera e propria piaga della Chiesa, che indebolisce enormemente il vigore dei suoi figli e, per contro, accresce il potere del Nemico dell’umana salvezza. Oggi, nelle nostre chiese, assistiamo a vere e proprie interminabili processioni di gente che si accosta alla santa comunione, in un clima che spesso indulge a un malinteso senso di gioia e di festa, nella più piena inconsapevolezza di ciò che si va a ricevere e, talora, con una leggerezza che lascia a dir poco sconcertati. Le nostre nonne ci raccontavano che, quando erano giovani, ben pochi osavano accostarsi alla santa comunione, pur essendo vastissima la percentuale di cattolici che regolarmente frequentavano la santa Messa domenicale (oltre l’80%). Questo non perché, come qualcuno tuttora insinua, si aveva un’idea di Dio terribile e inadeguata, ma perché era chiaro quanto veniva insegnato, in modo semplice e chiaro, dall’immortale catechismo di san Pio X, secondo cui per accostarsi alla santa comunione, oltre che aver osservato il digiuno eucaristico, occorre essere in grazia di Dio e pensare e considerare Chi è Colui che si va a ricevere. Oggi, purtroppo, abbiamo una frequenza regolare alla santa Messa domenicale che in Italia oscilla tra l’8 e il 15 (massimo 20%), una scarsissima frequentazione del sacramento della confessione e un vero e proprio “arrembaggio” all’altare quando si tratta di ricevere la comunione. Molte persone si accostano alla comunione ridendo e scherzando, qualcuno “porta a spasso” la sacra particola, che viene masticata e deglutita quasi come fosse una caramella e terminata la santa Messa si affretta a scappare fuori immediatamente, anche perché, purtroppo, qualora si volesse soffermare (come doveroso) nel ringraziamento a Gesù eucaristico, si imbatterebbe nella triste realtà di Chiese trasformate in una specie di foro, dove si chiacchiera, si ride e si scherza senza alcuna considerazione della sacralità del luogo, della presenza di Colui che abita nel Tabernacolo e della giusta esigenza di coloro che desiderano, nel silenzio e nel raccoglimento, ringraziarlo, adorarlo, lodarlo, benedirlo e supplicarlo. Sono parole crude e tristi, ma amaramente costatabili da chiunque si limiti semplicemente ad osservare. Ed è ancora più triste considerare che quasi nessuno si renda conto dell’enormità e della gravità di tali peccati.
Si pensi ancora al tristissimo e quanto mai diffuso fenomeno di fedeli che, in occasione di funerali di qualche persona cara, osano accostarsi alla santa comunione, pensando di fare cosa buona o addirittura doverosa per il defunto, quando magari si tratta di persone che non mettono piede in Chiesa da anni e sono lontane dal confessionale da più anni ancora. Non è senz’altro un caso che nel lontano 1916, in previsione dell’attuale stato di grave e continua profanazione del più grande e del più santo dei sacramenti, l’Angelo del Portogallo, apparendo in visione ai tre pastorelli di Fatima, li invitò a guardare un’Ostia consacrata di nostro Signore “orribilmente oltraggiato” nel santissimo sacramento ed a prostrarsi in atto di riparazione verso così grave crimine, che a detta di una schiera innumerevole di santi, è in assoluto il più grave dei peccati che si possa commettere, il meno perdonabile e quello che produce le peggiori conseguenze sia nella singola persona che nella Chiesa intera, dando un potere enorme al Nemico dell’umana salvezza, che riesce in questo modo a trasformare il sacramento che è “farmaco di immortalità” (per chi vi si accosta degnamente) in veleno mortale, come ci avverte con monito severo l’Apostolo delle genti, secondo cui chi si accosta indegnamente alla mensa del Signore mangia e beve la sua condanna (cf 1Cor 11,27-29).
Non minore è la trascuratezza dell’altra condizione per una comunione degna e fruttuosa, ovvero pensare e considerare Chi è Colui che si va a ricevere. Il raccoglimento orante, la rinnovazione del proprio pentimento con un atto di dolore, la cura di infervorare e accendere i desideri del cuore con qualche breve e fervente giaculatoria e comunione spirituale, unitamente ad una grande compostezza e dignità del portamento e dei gesti soprattutto nell’atto di ricevere nostro Signore, dovrebbero essere la norma in tutti i fedeli. Quello che invece ordinariamente accade nelle “processioni” per la comunione e nel modo di ricevere le Sacre Specie è sotto gli occhi di tutti. Ringraziamo il Pontefice emerito Benedetto XVI, per aver avuto il coraggio di rompere un muro di silenzio dinanzi ad “abusi al limite del sopportabile” e di aver inaugurato, con l’esempio e con la parola, un modo di accostarsi a nostro Signore che esprima l’adorazione che gli è dovuta e che ricordi a tutti che altro è ricevere un pezzo di pane, altro è ricevere Gesù Cristo nostro Dio vivo e vero, in Corpo, Sangue, Anima e Divinità. Esempio che appare condiviso e seguito dal suo successore e che si spera faccia sempre più breccia nel cuore di tutti i pastori.
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A.1 LA CONFESSIONE SACRILEGA
Iniziando l’analisi dei peccati contro il primo comandamento abbiamo visto che l’uso sacrilego dei sacramenti rappresenta, in assoluto, la forma più grave di offesa diretta a Dio e alla sua divina Maestà. Oltre che le comunioni sacrileghe, purtroppo, oggi è quanto mai diffuso un altro gravissimo peccato: quello dell’uso sacrilego del sacramento della confessione. Prima di addentrarci in questa nuova cancrena che affligge dal profondo i figli della Chiesa, è bene osservare che uno dei precetti generali della Chiesa obbliga i fedeli all’uso minimo di questi due importantissimi sacramenti: la confessione almeno una volta l’anno e la comunione almeno a Pasqua. Per la verità il santo Curato d’Ars piangeva quando doveva rammentare ai suoi fedeli questo precetto, parendogli assurdo che la Chiesa dovesse imporre sub gravi una cosa tanto bella come la santa comunione, che dovrebbe essere ricevuta (secondo le intenzioni di Chi l’ha istituita) preferibilmente ogni giorno. Tuttavia il santo Parroco doveva amaramente costatare che è tale e tanta la stoltezza dell’uomo, che la Chiesa, come madre premurosa di un figlio discolo, ha dovuto imporre quel minimo assolutamente indispensabile per evitare di lasciare i suoi figli in stato di dannazione. Conseguentemente non solo chi profana ma anche chi omette almeno questa frequenza minima a questi sacramenti non è scusabile da colpa grave. Ecco perché la prima cosa da dire quando si entra in confessionale è “da quanto tempo non ci si confessa” e, qualora il penitente non lo faccia, il sacerdote è tenuto a interrogarlo in merito. Qualora infatti non ci si confessasse da dieci, quindici, trent’anni il confessore capirebbe subito che sul povero fedele gravano dieci, quindici, trenta peccati mortali.
Ora, la santa Chiesa, nel Concilio tridentino (di cui è eco fedelissimo il grande dottore sant’Alfonso Maria de’ Liguori, patrono dei confessori e dei moralisti, a cui faremo ampio riferimento) ha insegnato che per ottenere il perdono di Dio dei peccati commessi dopo il Battesimo occorrono alcune condizioni, in mancanza delle quali la confessione o è invalida o, peggio, è sacrilega. Anzitutto oggetto obbligatorio della confessione sono tutti e singoli i peccati mortali di cui il penitente abbia coscienza, che siano stati commessi da quando si ha l’uso della ragione al momento in cui ci si sta confessando. Tali peccati vanno confessati per numero, specie e circostanze e si otterrà la misericordia di Dio solo se di essi si è realmente pentiti ovvero: 1) si prova dolore per il peccato commesso (perfetto se originato dal fatto di aver offeso Dio o imperfetto se scaturisce dal timore dell’Inferno e dei castighi dovuti per i peccati); 2) lo si detesta con tutto il cuore; 3) si ha il fermo, risoluto e deciso proposito di non commetterlo più. Il confessore, durante l’amministrazione di questo sacramento, svolge, come insegna sant’Alfonso, quattro funzioni; quella di padre, in quanto interprete della bontà e della misericordia di Dio; quella di maestro, in quanto deve aiutare il penitente nell’esaminare e nel formare la sua coscienza, formulando alcune domande qualora abbia motivo di ritenere che il penitente non sia in grado di discernere le colpe gravi (cosa che oggi accade spessissimo); quella di giudice, in quanto deve verificare se la confessione è sincera e se il penitente sia pentito, cercando, in caso negativo, di stimolarne o provocarne il pentimento durante la confessione. In quanto giudice il sacerdote deve verificare se può o meno assolvere il penitente; ed in caso positivo impartire una soddisfazione sacramentale (o penitenza) che sia proporzionata al numero e alla gravità dei peccati; quella infine di medico, in quanto deve, con le opportune esortazioni, indicare al penitente le vie di futura preservazione dal male. Anche nel decidere il tipo di penitenza da imporre, il confessore deve ricordare che sta agendo come un medico dinanzi ad un malato che ha bisogno di terapie per guarire e per ristabilirsi in perfetta forma fisica.
Dinanzi a tale disciplina, vediamo ora quando la confessione è sacrilega. Anzitutto quando il penitente non è pentito, cioè non prova dolore per quello che ha fatto, ma, soprattutto, non ha intenzione di smettere. È inutile, in questi casi, andarsi a cercare confessori dalla “manica larga” (oggi, purtroppo, molto diffusi), perché se anche il sacerdote osasse assolvere un fedele non pentito, commetterebbe peccato mortale e sarebbe responsabile di tutte le comunioni sacrileghe fatte dal penitente erroneamente illuso di essere stato assolto. Seguono le confessioni incomplete per colpa del penitente, o perché si vergogna o ha paura di rivelare qualche peccato, oppure perché (cosa peggiore) rifiuta di riconoscere qualche peccato come mortale (pochissimi, per esempio, oggi accettano che mancare alla Messa domenicale o commettere atti impuri sia peccato mortale). La confessione viene invalidata in via successiva se il penitente omette di fare la penitenza sacramentale che gli è stata imposta dal confessore, che va adempiuta seriamente e scrupolosamente. Essa, infatti, è requisito essenziale della confessione, tant’è vero che per larga parte del primo millennio l’assoluzione veniva concessa solo dopo aver adempiuto alla penitenza imposta.
L’esperienza pastorale insegna che quei (pochi) fedeli che si confessano spesso lo fanno assai male e che purtroppo non pochi ministri, atteggiandosi a fare i buoni, causano una vera e propria rovina di innumerevoli anime. A conclusione di questo spinoso tema mi permetto di dare alcuni consigli per evitare di incorrere in spiacevoli e gravi inconvenienti: 1) Pregare Dio che ci faccia trovare un buon confessore ed avere, di norma, un confessore fisso, di sana dottrina, di vita tendenzialmente santa e animato da santo zelo. I modelli di confessori sono tre: san Pio da Pietrelcina, il santo Curato d’Ars e sant’Alfonso M. de’ Liguori, tutti pieni di misericordia ma anche di severità, di dolcezza ma anche di fermezza; 2) Far bene l’esame di coscienza e chiedere di persona al confessore di essere interrogati, qualora si pensi di non essere in grado di discernere le colpe gravi; 3) Essere sommamente sinceri e curare di confessare bene i peccati per specie (non basta dire “ho commesso atti impuri”: un conto è l’adulterio, un conto l’omosessualità, un conto la pornografia, etc.), per numero (non basta dire “ho mancato alla Messa”, ma bisogna specificare il numero e, qualora non lo si ricordi, dare un ordine di grandezza) e per circostanze (se un padre bestemmia davanti a un figlio deve specificarlo); 4) Preparare la confessione ricorrendo all’ausilio della Beata Vergine Immacolata e pregare per il confessore, perché abbia da Dio la luce e la grazia per aiutarci a troncare con il peccato, giacché, come diceva il santo Curato d’Ars, “se non c’è in noi un completo cambiamento, non abbiamo meritato l’assoluzione: e c’è da temere che il nostro sia solo un sacrilegio. Ah, se almeno ogni trenta assoluzioni ve ne fosse una valida, come si convertirebbe presto il mondo!”.
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A. 2 - OCCULTISMO, MAGIA, SATANISMO
Nel rispetto del Primo Comandamento rientra anche il rifiuto di ogni forma di
occultismo, quali sedute spiritiche, scritture e registrazioni automatiche, cartomanzia,
negromanzia, pranoterapia, il ricorso a medium e maghi, e il culto
dato al demonio attraverso il satanismo.
Tra le condotte direttamente e formalmente contrarie al Primo Comandamento, sono da annoverare tutte le forme di occultismo e di culto dato al demonio. Si tratta di peccati molto gravi perché attraverso essi, in maniera diretta o indiretta, non soltanto si nega a Dio il culto che gli è dovuto, ma ci si prostra in adorazione ai nemici di Dio e dell'umana salvezza, ovvero ai demoni.
In linea di massima il mondo dell'occulto abbraccia tutte quelle realtà la cui conoscenza, per volontà dell'Altissimo, è negata all'uomo e dinanzi a cui l'unico atteggiamento che l'uomo dovrebbe tenere, è quello dettato dall'umiltà e dalla fede, intese come assenza di curiosità, rinuncia a violare dei limiti umanamente invalicabili, accettazione serena di ciò che la fede dice su queste materie. Queste realtà, la cui conoscenza è inibita all'uomo, si riducono, fondamentalmente, alla vita oltre la morte e alla conoscenza del futuro.
Il Vangelo, nella parabola del ricco epulone, ci ricorda che tra il regno dei vivi e il regno dei morti è posto un limite invalicabile (cf Le 16,19-31); esso fa da eco all' episodio di negromanzia in cui cadde l'empio re Saul narrato nel primo libro del profeta Samuele e che Dio condannò severamente per bocca di questi (cf 1 Sam 28). Per ciò che concerne il futuro, basti quanto disse il Signore nell'imminenza della sua Ascensione, quando non volle soddisfare la domanda dei suoi Apostoli se fosse giunta l'ora della restaurazione del regno di Israele (cf At 1,4-9). Su queste realtà la Fede ci trasmette delle Verità semplici ed essenziali: coloro che muoiono si presentano immediatamente al cospetto di Dio per il Giudizio particolare, a cui segue l'immediata destinazione dell'anima in Paradiso, in Purgatorio o all'inferno, in attesa della risurrezione della carne. Per ciò che concerne il futuro, come insegna anche san Tommaso d'Aquino, Dio solo ne ha la conoscenza certa e infallibile e con Lui soltanto coloro a cui Egli partecipa questa sua propria e particolarissima proprietà (i profeti e alcuni Santi). Ora, con le pratiche occulte l'uomo, rivolgendosi a presunti "maghi" (che in realtà sono sempre strumenti di satana, a meno che non siano cialtroni o ciarlatani), cerca di violare queste porte sigillate per avere la conoscenza di tali realtà. Ecco dunque il gravissimo peccato di negromanzia ("arte di interrogare i morti"), le sedute spiritiche (in cui si evocano i morti tramite dei medium) e le recenti (e purtroppo praticatissime anche dai fedeli) tecniche occulte della scrittura automatica (un medium comincia a scrivere, in trans, messaggi dati da un presunto defunto) o della registrazione automatica (attraverso un medium lo spirito evocato parla con la stessa voce della persona defunta). Stando a ciò che insegnano gli esperti del settore, cioè gli esorcisti, i fedeli che si illudono attraverso queste pratiche di entrare in contatto con i morti, sappiano che in realtà entrano in contatto con i demoni e, oltre che offendere gravemente Dio, si espongono al pericolo grave e attuale di incorrere in mali di origine malefica (non esclusa la possessione diabolica). Solo Dio, in alcune circostanze, dà a qualche anima eletta il dono di entrare in contatto con le anime dei defunti oppure di conoscere particolari dell' altro mondo (si pensi alle esperienze mistiche di santa Faustina Kowalska o di santa Teresa d'Avila, che videro in visione l'inferno). Ma, in questo caso, sono doni liberamente dati da Dio per l'edificazione di tutti e non violenze o tentativi di "invasioni" operati dall'uomo che non si rassegna ad accontentarsi di quanto basta sapere attraverso la fede.
Per ciò che concerne la conoscenza del futuro, abbiamo i gravissimi peccati di chiromanzia (lettura del futuro attraverso i segni della mano), di cartomanzia (lettura del futuro attraverso le carte e i tarocchi) e, in generale, di magia (consultare un sedicente mago al fine di conoscere il futuro). Anche in questo caso chi viene consultato non è il mago ma il demonio e non c'è da stupirsi che a volte qualche predizione si avveri, perché il demonio, pur non conoscendo con certezza i futuri contingenti (cioè gli eventi che dipendono totalmente dalla libertà dell'uomo o dai "casi fortuiti"), essendo molto intelligente, è capace di prevedere (prevalentemente e a grandilinee) molti di essi. L'occultismo è a volte usato come strumento per procurare qualche beneficio (cosiddetta magia bianca) oppure maleficio (cosiddetta magia nera). La pranoterapia, alcune forme particolari di ginnastica (quali per esempio yoga e Reiki) o altre pratiche volte a procurare qualche beneficio o togliere malefici (per esempio il malocchio) appartengono al medesimo genere.
Il ricorso a maghi per procurare malefici attraverso fatture, legature, malocchi, talismani, amuleti, ecc., configura le principali fattispecie di magia nera. Pur essendo queste ultime pratiche assai più gravi delle prime (perché mosse dall'odio verso qualche persona), gli esorcisti affermano che anche la cosiddetta magia bianca non si deve praticare, perché è sempre un ricorso alle forze demoniache, le quali concedono qualche apparente beneficio come "prezzo" dell'anima che si consegna a loro attraverso il ricorso all'occulto.
Infine, è oggi quanto mai diffuso il vero e proprio satanismo, ovvero il culto reso al demonio in odio a Dio o per ricevere da lui beni, ricchezze e piaceri della vita. Gli atti con cui si compie in modo diretto questo esecrabile delitto sono la consacrazione a satana (normalmente con un patto scritto col proprio sangue), la partecipazione agli atti di culto rivolti a satana (di cui il principale è la messa nera) e l'affiliazione ad una setta satanica. Ci si rende tuttavia soggetti ai nefasti influssi dei nemici di Dio pure approvando eventi o cerimonie di chiara origine satanica o (peggio) partecipando ad essi, anche se non se ne è a conoscenza. A questo riguardo la stolta ed esecrabile celebrazione della festa di Halloween è uno (ma purtroppo non l'unico) dei chiari e lampanti esempi del grado a cui può giungere la stoltezza dell'uomo, che rinnegando Dio, consegna se stesso (ed anche la sua intelligenza e buon senso) in balia del mondo delle tenebre.
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A.3. I peccati contro la FEDE:
ATEISMO, ERESIA, FEDE "FAI DA TE", RISPETTO UMANO, DUBBIO OSTINATO
Abbiamo visto che il primo comandamento, fondamentalmente, ci obbliga a rendere a Dio solo il culto che gli è dovuto. Ora, per poter dare a Dio ciò che gli è dovuto, bisogna anzitutto credere che egli esiste e che ricompensa coloro che lo cercano e lo amano (cf Eb 11,6). È l’ambito pertinenza delle tre virtù teologali di cui ora conviene occuparci.
L’immortale catechismo di san Pio X insegna che la fede è l’atto per mezzo del quale si crede nell’esistenza di Dio e nell’assoluta ed incontrovertibile certezza di tutte le verità da Lui rivelate ed insegnate dalla Chiesa, nella qualità di maestra del genere umano. L’adesione dell’intelletto alle verità di fede, che non sono evidenti e lo trascendono, si poggia sull’autorità di Colui che parla, il quale non sbaglia e non può sbagliare, non inganna e non può ingannare; a questa “inevidenza” sopperisce, nell’atto di fede, l’ausilio della volontà, in quanto proprio in forza dell’autorità infallibile di Dio spinge l’intelletto a sottomettersi ad esse pur rimanendo in una conoscenza “oscura”, per parafrasare san Giovanni della Croce. La speranza è l’atto per mezzo del quale si tende ai beni promessi dal Signore a coloro che lo amano e lo servono e che consistono nel dono della vita eterna e di tutte le grazie necessarie per compiere le opere meritorie (che si possono e si devono fare) necessarie per raggiungerla. È una virtù che pur partendo dalle facoltà superiori dell’uomo, ne coinvolge anche la sfera sentimentale ed affettiva, rendendolo capace di vivere con i piedi per terra ma con la mente e il cuore in cielo. Infine la carità, la terza in ordine diacronico ma la prima in ordine di grandezza ed importanza, è la virtù per mezzo della quale di ama Dio al di sopra di ogni cosa ed il prossimo come noi stessi (o meglio, come Gesù insegna, “come Lui ci ha amati”, Gv 13,34).
Cominciando dunque dai peccati contro la fede, il primo e il più grave, vero tarlo che ha roso l’occidente nei secoli XIX e XX è l’ateismo, ovvero il rifiuto di credere nell’esistenza di Dio e, di conseguenza, a tutto il patrimonio di verità insegnate dalla Chiesa cattolica. A dire il vero questo peccato, come afferma anche la Sacra Scrittura (cf Sal 13,1 e 52,2 dove si dice che è da stolti affermare che Dio non esiste), è l’attestazione emblematica di quanto possa essere stupido l’uomo. Le menti più luminose della scienza, infatti, sono ben felici di prendere atto dell’evidenza dell’esistenza di un Essere necessario che sia la causa di un Universo così perfetto (basti leggere, in merito, i libri del professor Antonio Zichichi o riascoltare le memorabili catechesi del grande Enrico Medi). Perfino gli atei, come raccontò un professore durante una lezione di filosofia alla Pontificia Università Gregoriana, devono piegarsi dinanzi a tale verità, dal momento che qualche scienziato si prese la briga di dimostrare che è più facile che un gatto impazzito esegua la quinta sinfonia di Beethoven saltellando su un pianoforte piuttosto che l’universo fuoriesca dal caso… Ancora più diffuso, tuttavia, in questi nostri sciagurati tempi è il peccato di eresia, ovvero la negazione di qualche verità di fede o di morale. Per comprendere questo peccato non dobbiamo pensare solo alle grandi eresie susseguitesi nel corso della storia di cui abbiamo qualche reminiscenza scolastica (Ario, Lutero, Calvino, i Catari, etc.). Oggi questo peccato è diffusissimo in tanti fedeli che hanno la pretesa di farsi la “fede fai da te”: una sorta di “pick up” ad un fantomatico “supermarket spirituale”, dove si prende quello che aggrada e si scarta ciò che non piace. Dio è misericordioso e buono va bene, Dio è giusto e severo con i peccatori impenitenti non va bene; sul quinto e settimo comandamento siamo tutti d’accordo, ma “per me non andare alla Messa domenica non fa nulla”; credo in quello che dice Gesù, però mi confesso direttamente con Lui (dimenticando che è Lui che ha detto che rimette soltanto i peccati rimessi dai suoi apostoli, cf Gv 20,23). Discorso non dissimile va fatto per l’adesione, anche solo col pensiero, a dottrine e idee condannate dalla Chiesa o comunque assolutamente incompatibili con la fede cattoliche. Chi, per esempio, tra i moltissimi fedeli che hanno votato a favore del divorzio o dell’aborto è cosciente di aver commesso un peccato mortale e se lo è confessato? Chi, andando a votare partiti o persone che presentano programmi o principi diametralmente opposti al cristianesimo (si pensi ai partiti che lottano per legalizzare la droga, le unioni di fatto, le unioni omosessuali, la fecondazione artificiale, o per diffondere la contraccezione nelle scuole), sa di aver commesso un peccato gravissimo di cui Dio gli chiederà severamente conto avendo contribuito, per quanto sta in lui, alla diffusione del male, del peccato e della morte? Oppure chi, vergognandosi di fare un segno di croce prima dei pasti solo perché era a mensa davanti ai colleghi, oppure rinunciando a dire un Rosario in pullmann per paura di essere visto e deriso, sa di aver commesso il peccato di “rispetto umano” incorrendo nelle minacce lanciate da Gesù contro i suoi rinnegatori (“chi si vergognerà di Me e delle mie parole, di lui si vergognerà il Figlio dell’uomo, quando verrà nella gloria sua e del Padre e degli angeli santi”, Lc 9,26)? Stesso discorso vale per la frequenza di sette o associazioni scomunicate dalla Chiesa perché assolutamente incompatibili con una visione cattolica della vita o perché interessate, sia pur in modo raffinato e subdolo, alla sua distruzione (prima fra tutte la Massoneria, la cui condanna rimane tutt’ora oggi assolutamente inalterata così come la scomunica di chiunque vi sia iscritto). Infine una parola sul dubbio ostinato delle verità di fede, che offende gravemente Dio perché ne mette in discussione l’assoluta verità. Ricordiamo al riguardo che la vera questione del “caso Galilei” non era se la terra si muoveva o meno o se la luna avesse o no le macchie, ma la doverosa “gerarchia delle verità” nel senso che le verità di fede, per la loro origine (Dio stesso) sono da ritenersi più certe delle verità scientifiche, che sono sì incontrovertibili ma solo a livello empirico e non in modo assoluto. Lo ha dimostrato scientificamente nel secolo scorso il grande scienziato Kurt Goedel, affermando che le verità scientifiche, per quanto evidenti, sono di carattere sempre relativo (valgono in certi casi e a certe condizioni) e mai autoreferenziali (traggono sempre fuori del proprio ambito i postulati su cui si fondano), mentre le verità di fede sono assolute e fondate su Colui che le ha stabilite ab aeterno ed usque in aeternum.
A.4. I peccati contro la SPERANZA:
Nell’articolo precedente abbiamo iniziato il discorso sui peccati contro il primo comandamento riguardanti le tre virtù teologali. Prima di passare ai peccati contro la virtù della speranza, bisogna ancora spendere qualche parola su quelli contro la fede, affrontando la tematica del “dubbio ostinato”. C’è infatti da abbattere un luogo comune molto diffuso: che è lecito, anzi possibile o addirittura inevitabile avere qualche dubbio sulle verità di fede. Infatti, si dice, come è possibile non avere qualche dubbio su ciò che è assolutamente non evidente come le verità di fede? Ebbene, dubitare circa le verità di fede (ancor più nel caso di dubbio ostinato) non solo è peccato ma è peccato gravissimo. Le verità di fede, infatti, sono tali perché rivelate da Dio e, in quanto tali, poggiate sul crisma certo ed infallibile della sua autorità indiscussa e della sua veracità assoluta e indiscutibile. Dubitare su una verità di fede, pertanto, sarebbe come ammettere che Dio possa sbagliare o indurre in inganno. Viceversa una verità di fede, quando è tale, è da ritenersi più certa e assoluta delle cosiddette “verità scientifiche”, che poggiano su evidenze incontrovertibili rispetto ai sensi. Si ricordi che la vera questione in gioco nel famoso “caso Galileo”, tanto sbandierato da certa propaganda anticristiana e laicista, era esattamente questa. Galileo affermava la superiorità delle “verità scientifiche”, che si fondano sull’osservazione empirica, sulle verità di fede, che sono del tutto inevidenti. Per dirla in termini semplici, che due più due faccia quattro non si discute, ma sull’eternità dell’Inferno forse si potrebbe esprimere qualche perplessità. In ogni caso dall’evidenza della prima affermazione contro l’inevidenza della seconda, si inferisce la superiorità della prima. Ora la Chiesa reagì e puntò i piedi proprio perché in questo, il pur meritevole e grande scienziato pisano, non aveva visto bene; infatti è più facile che due più due faccia cinque piuttosto che una verità di fede non sia vera! E l’autorità di Dio su cui poggia una verità di fede è ben superiore all’evidenza sei sensi e dell’osservazione! Pensiamo, alla luce di ciò, quanto lontana sia la “sensibilità” dell’uomo contemporaneo dal dovere di aderire “con fede divina e cattolica” (che non ammette dubbi e tentennamenti) a tutte e singole le verità rivelate da Dio che la santa Chiesa ci propone a credere!
Venendo ora ai peccati contro la virtù teologale della speranza, bisogna anzitutto ricordare che grazie a questa virtù noi attendiamo da Dio la vita eterna e le grazie necessarie per meritarla con le buone opere che ogni seguace di Gesù Cristo può e deve fare. I primi due peccati contro la virtù della speranza, pertanto, sono di tipo specularmente opposto, ma entrambi gravissimi perché configurano due fattispecie concrete di peccato contro lo Spirito Santo: si tratta della “disperazione della salvezza” e della “presunzione di salvarsi senza meriti”. Il primo peccato fu commesso da due (tristemente) noti personaggi biblici: Caino e Giuda. Il primo pronunziò l’espressione blasfema “troppo grande è il mio peccato per avere perdono” (Gen 4,13), mentre il secondo, autore del più grave peccato che mai fu e sarà compiuto nella storia, pensò bene di togliersi la vita anziché andare a chiedere umilmente perdono ai piedi di quella Croce su cui stava morendo, anche per lui, Colui che egli vilmente aveva consegnato per trenta denari. Questo peccato nega l’onnipotenza della misericordia di Dio ed il fatto che Egli, per quanto sta in Lui, desidera che “tutti siano salvati ed arrivino alla conoscenza della verità”, come scrive san Paolo nella prima lettera a Timoteo (1Tim 2,4). Non esiste dunque peccato, per quanto grave e orribile, che non possa essere rimesso dall’onnipotente misericordia di Dio, alla sola condizione che chi lo ha commesso ne sia realmente pentito e sia pronto ad espiarne le conseguenze. Non meno grave e pericoloso è l’atteggiamento diametralmente opposto, oggi disgraziatamente assai diffuso ed anzi considerato da qualcuno intangibile verità di fede: la presunzione di salvarsi senza meriti. Sono in molti infatti a presumere stoltamente della bontà e misericordia, pensando che tutti andranno in Paradiso, che Dio non può tollerare che qualcuno si danni (“vogliamo scherzare??? Un’eternità interminabile di tormenti! Ma, per favore, dove sta allora la misericordia di Dio?”), che non è affatto vero che esistono premi per le virtù e castighi per i peccati. Oggi non sono pochi, anche tra i sacri ministri, a dire scempiaggini grosse quanto l’universo intero, che se non fosse per i danni immensi che producono in chi vi dà ascolto, sarebbero solamente da ignorare e commiserare pregando il Signore che faccia un po’ di luce a questi ignari (si spera…) servi del principe delle tenebre. È verissimo che Dio vuole che andiamo in Paradiso, ma per giungere a questa benedetta mèta occorre compiere opere sante, passare per la porta stretta della Croce e della rinuncia, per la via obbligata dell’osservanza dei comandamenti, addirittura arrivando ad affrontare una lotta fino al sangue contro il peccato (cf Eb 12,4). Pertanto chi presume di poter stoltamente confidare nella misericordia di Dio, senza operare i doverosi sforzi ascetici per “conseguire la mèta della nostra fede, cioè la salvezza delle anime” (1Pt 1,19), commette gravissimo peccato di abuso della divina misericordia e dimenticanza della divina giustizia e se non corregge questa visione luterana e quietistica della giustificazione, non potrà accedere alla vita eterna e non entrerà nel Regno di Dio.
Sono contro la speranza anche degli sciocchi e assurdi peccati che costituiscono la vergogna dell’uomo intelligente, quali quelli di superstizione. La superstizione consiste nel credere che le cose possono riuscire qualora si compiano alcuni gesti scaramantici o qualora gli astri esercitino certi influssi, si portino degli amuleti, si scacci la sfortuna, etc. Ecco dunque apparire cornetti e ferri di cavallo, letture di oroscopi o consultazioni di tarocchi, o sciocchezze quali non passare sotto la scala, evitare il gatto nero, toccare ferro se si vede una bara, non fare nulla il Venerdì 17, etc. Tutte queste cose offendono la virtù della speranza per un motivo semplicissimo: il buon andamento della nostra vita e delle nostre cose dipende da una sola cosa, cioè dalla benedizione di Dio e dalla sua grazia, che si ottengono mediante la preghiera, la frequentazione dei sacramenti e la richiesta di benedizioni (alla propria persona, alla casa, alla macchina, al lavoro, etc.) ai ministri di Dio. Ritenere, come insegna san Tommaso, che la nostra vita possa essere condizionata in qualche modo da queste sciocchezze, oltre che offendere gravemente Dio, svela la stupidità dell’uomo, essere intelligente che pensa che cose inanimate o sciocchezze varie (molto al di sotto di lui) possano in qualche modo influenzare il corso degli eventi.
I santi potevano permettersi di chiosare altri santi. San Pio, pertanto, si permise di completare un celebre aforisma di Sant’Alfonso M. De Liguori (“chi prega si salva, chi non prega si danna”) aggiungendo “chi prega poco è in pericolo”. Mettiamo in pratica questa esortazione del santo stigmatizzato del Gargano e tutto andrà per il meglio, facendo attenzione a svuotare la casa (oltre che il cuore) da ogni oggetto superstizioso, ricordando che alcuni di essi, oltre a non servire a nulla, attraggono anche presenze malefiche in noi e attorno a noi.
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A.5. I peccati contro la CARITA':
AMERAI IL SIGNORE DIO TUO
CON TUTTO IL CUORE, CON TUTTA LA MENTE E CON TUTTE LE FORZE
I peccati contro la carità
L’ultimo argomento che ci resta da trattare per chiudere, almeno in maniera essenziale, il lungo capitolo dei peccati contro il primo comandamento, è quello concernente i peccati contro la virtù teologale della carità. In base ad essa, ogni fedele è obbligato ad amare Dio con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutte le forze e il prossimo come se stesso. Ora, per ciò che concerne la seconda “ala” del duplice comandamento dell’amore (che qualche padre della Chiesa paragonava appunto a una colomba che per volare adopera due ali), il contenuto dell’amore fraterno è specificato dai comandamenti della seconda tavola (dal quarto al decimo). È invece materia del primo comandamento (e, vedremo, anche del secondo del terzo), la prima parte del precetto della carità, tanto sovente dimenticata o addirittura ignorata da non pochi che si onorano del nome di cristiani.
Il senso del primo comandamento è molto intuitivo: renderci coscienti che essendo Dio “il Tutto” e Colui dal quale tutto abbiamo ricevuto, deve avere nella nostra vita, assolutamente e sotto tutti gli aspetti, il primo posto. Deve essere il centro delle nostre energie intellettive (“la mente”), affettive (“il cuore”) e fisico-corporali (“forze”). Facciamo subito qualche esempio (non esaustivo) per comprendere a cosa questo precetto ci obbliga e ci proibisce.
Amare Dio con tutta la mente significa, anzitutto, dedicare tempo, energie e attenzione alla conoscenza di chi Dio è e di cosa pensa e vuole; in altre parole è obbligatorio curare la propria formazione cristiana. L’ignoranza crassa (grave e dipendente da negligenza colpevole), infatti, oltre che costituire un peccato grave, non scusa da tutti i peccati che si commettono a causa di essa. Quante volte si sente dire: “Padre, è peccato? Ma io non lo sapevo!”. E quante si potrebbe rispondere: “ma tu che hai fatto per saperlo?”. Altra dimensione dell’amare Dio con tutta la mente è saper adorare Dio nei suoi disegni, anche quando sono per noi dolorosi e incomprensibili. Chi dinanzi ad una croce o una prova (un lutto, una morte prematura, una disgrazia, una calamità naturale, etc.), pur senza giungere ad odiare Dio e bestemmiarlo, comincia a lamentarsi: “ma perché Dio ha permesso una cosa del genere”, pecca contro il dovere di sottomettere la nostra povera e limitata intelligenza all’infinita sapienza di Dio, che tutto dispone per il nostro bene e si rende simile al popolo di Israele che nel deserto mormorava in continuazione giudicando Dio, le sue opere e la sua pedagogia, che aveva disposto di condurre il suo popolo nella precarietà e nella prova per quarant’anni nel deserto. Esempio luminoso di questa grande opera è Abramo, che accettò l’inumana prova di offrire a Dio in sacrificio il proprio unico figlio, e proprio quello che Dio gli aveva miracolosamente concesso in età senile e da cui Egli stesso aveva giurato di far derivare una discendenza numerosa come le stelle del cielo e come la sabbia del mare. Si badi che analogo discorso vale per il rispetto dovuto alla Chiesa, al suo insegnamento e ai suoi ministri, anche indegni, che nessuno si deve permettere di giudicare ma per i quali bisogna pregare e offrire sacrifici (e, se le circostanze lo richiedono, correggerli con umiltà, dolcezza e carità).
Amare Dio con tutto il cuore significa dargli il primo posto fra i nostri affetti. Gesù ha detto chiaramente nel Vangelo: “chi ama il padre o la madre più di me, non è degno di me. Chi ama il figlio o la figlia più di me, non è degno di me” (Mt 10,37). E ha detto anche: “se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” (Lc 14,26). Qui si apre il campo a innumerevoli peccati che pur commessi per debolezza, sono comunque oggettivamente da considerare molto gravi. Amare Dio più di un figlio, per esempio, significa, tra le altre cose, lasciarlo libero di seguire la propria vocazione, specialmente quella alla vita consacrata. Quanti genitori impediscono ai propri figli di farlo? Con quali conseguenze nefaste? Più di qualche santo (e recentemente anche qualche mistico) ha affermato che per i genitori che si macchiano di questa colpa è preparato un Purgatorio durissimo e che si protrarrà fino al Giudizio universale! Stessa cosa vale per il caso contrario: un figlio, dinanzi a un genitore che gli impedisse di seguire il Signore, deve obbedire a Dio e non ai genitori. E se per debolezza cedesse, questo gli sarà imputato a colpa. Altro esempio, riguardante marito e moglie. Un marito non vuole avere più figli e usa metodi contraccettivi o chiede un uso sbagliato e immorale del matrimonio. La moglie che dovesse accondiscendere non pecca solo contro il sesto comandamento (come il marito), ma anche contro il primo, perché per amore del marito accetta di trasgredire la legge di Dio. Che differenza tra queste brutte situazioni ed alcune storie di mamme martiri che non hanno esitato nei primi secoli ad affrontare il martirio lasciando orfani bimbi ancora infanti, oppure di sante donne vergini (una per tutte: santa Cecilia), che riuscirono a far rispettare la propria verginità a mariti pagani, che invece di ucciderle si convertirono (e molti di essi morirono martiri!).
A proposito di martirio, veniamo all’amare Dio con tutte le forze. Per comprendere questo obbligo basta tener presente queste luminose e chiare parole della Lettera agli Ebrei: “non avete ancora resistito fino al sangue nella vostra lotta contro il peccato” (Eb 12,4). Non si può mai e per nessuna ragione scendere a compromesso col male, meno che mai con la scusa che “i tempi sono cambiati” (frase che sembra essere il Vangelo del terzo millennio…). Il male è male, sempre, comunque, dovunque. Non deve essere fatto, né approvato, né consentito, mai, in nessun modo e per nessun motivo. Va denunciato e combattuto con coraggio. Guai, per esempio, a quei genitori permissivi che sono la causa della rovina dei figli solo perché non vogliono affrontare le lotte e le ribellioni conseguenti a un’educazione severa: genitori che mandano i ragazzi in vacanza con la fidanzata, che permettono mode invereconde alle figlie, che non vigilano sull’osservanza dei doveri religiosi dei figli. Amare Dio con tutte le forze vuol dire anche offrire a Dio il nostro lavoro, nel senso che un cristiano non solo lavora onestamente e con impegno, ma lavora in obbedienza a Dio, curando la massima perfezione possibile nell’esecuzione del lavoro (anche umilissimo) ed offrendo parte dei propri beni per le necessità dei poveri e della Chiesa. Infine, qualora fosse necessario e Dio lo richiedesse, in virtù del primo comandamento e di questo precetto in particolare, non bisogna esitare ad affrontare il martirio in difesa della fede o per non commettere un peccato, come ci ricordano, qui in Italia, i luminosi esempi di santa Maria Goretti (morta ammazzata per non aver consentito a un tentativo di violenza) e di santa Giovanna Beretta Molla (morta di malattia subito dopo il parto per aver voluto portare avanti una gravidanza nonostante il parere contrario dei medici).
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