Quando Giovanni Paolo II portò agli altari l’arcivescovo di Zagabria
Alojzije Stepinac, si levarono parecchie proteste dagli
ambienti anticlericali che accusarono il papa d’aver beatificato un criminale di
guerra. Alcuna pubblicistica accusa infatti il prelato d’esser stato un fiero
sostenitore della politica degli ustascia e di aver taciuto o
persino benedetto la loro pulizia etnica (si veda a tal proposito il libro di
Marco Aurelio Rivelli “L’arcivescovo del genocidio”). Qui, come in altri
casi, una mezza verità viene mischiata ad un cumulo di menzogne.
Quando nel 1941 le forze
dell’Asse invasero il regno di Jugoslavia, Hitler decise che per aumentare
l’instabilità della regione si sarebbero dovute dare garanzie politiche
ai croati. Non appena terminata la conquista si costituì difatti uno
stato croato sotto “protezione” dei tedeschi e degli italiani. A capo di questa
struttura s’impose il leader degli ustascia Ante Pavelic,
rifugiatosi fino a quel momento in Italia. L’arcivescovo di Zagabria
accolse con favore la separazione dal regno di Jugoslavia, come
fecero anche molti suoi concittadini. I croati infatti mal sopportavano quella
che nei fatti era un’egemonia serba che li aveva esclusi dalle
alte cariche e che discriminava i cattolici in favore degli ortodossi.
Gli ustascia iniziarono tuttavia un
vero e proprio genocidio nei confronti degli ebrei e
degli zingari e anche dei serbi ortodossi. Informato dei massacri, il Vaticano
decise d’agire tramite pressioni diplomatiche piuttosto che con
una denuncia pubblica, la scelta fu dovuta alle esigenze di equilibrio e
imparzialità che la guerra imponeva, evitando prese di posizione e
pronunciamenti che avrebbero potuto essere sfruttati dagli avversari, si lasciò
ai vescovi locali la responsabilità di intervenire nelle
questioni interne del Paese. La Santa Sede era anche cosciente del fatto che il
partito ustascia era diviso fra i favorevoli all’influenza tedesca e quanti
preferivano un’influenza italiana, dunque ogni intervento esplicito nelle
vicende croate avrebbe rischiato di rafforzare le tendenze
filonaziste, pregiudicando così la posizione della Chiesa all’interno
del paese (G. Miccoli, I dilemmi e i silenzi di Pio XII, Milano 2000 pp.
82-83, lo storico pur critico verso la Chiesa e Stepinac non condivide il
giudizio di Rivelli al punto da giudicare la sua opera “non priva di
forzature, palesi fin dal titolo scandalistico” ).
L’arcivescovo di Zagabria, Alojzije Stepinac,
dovette constatare che, nonostante fosse stato scelto dalla Santa Sede per
guidare la Chiesa in Croazia, alcuni vescovi e sacerdoti non
rispettavano la sua autorità. L’atteggiamento dell’episcopato fu vario:
ci fu chi approvò le persecuzioni etniche, come il vescovo Ivan
Saric (e anche chi vi partecipò come il frate Miroslav
Flipovic, sospeso a divinis dalla Chiesa ed espulso dall’ordine dei
francescani) e chi invece condannò decisamente i massacri come ad esempio il
vescovo di Mostar, Alojizie Misic. Lo stesso Stepinac è
stato accusato da taluni d’essere un antisemita favorevole all’Olocausto. Pur
avendo espresso in alcune occasioni delle frasi antigiudaiche (pare che una
volta abbia sostenuto che gli ebrei erano “i più grandi difensori e i
più frequenti esecutori” del crimine dell’aborto), bisogna aggiungere che
fu un tenace oppositore delle persecuzioni commesse dai
nazisti.
Già prima della guerra Stepinac si occupò
della sorte dei rifugiati ebrei in Jugoslavia, favorendo
la nascita di un comitato per la loro assistenza. Iniziative che non piacquero
ad alcuni cattolici croati estremisti, che si lamentarono dell’aiuto dato agli
ebrei (si sparse persino la voce che Stepinac indossasse sotto l’abito talare un
distintivo ebraico), e allo stesso governo jugoslavo, che non vide di buon
occhio queste iniziative (cfr. Matteo Luigi Napolitano, “Pio XII tra
guerra e pace”, Roma 2002 pp. 317-330). Già nel maggio del
1941 l’arcivescovo attaccò le leggi razziali deplorando il fatto che i
convertiti fossero costretti a indossare la stella di David ed estese le sue
preoccupazioni anche agli altri ebrei. Dopo che ebbero inizio le prime
deportazioni di ebrei e serbi, si batté invece affinché ai deportati fosse
concessa un’adeguata assistenza medica e potessero tenere i
contatti con i famigliari. Vedendo inoltre che la conversione poteva significare
per molti serbi ed ebrei la salvezza, diede disposizioni al clero di battezzare
chiunque su richiesta senza il consueto periodo di prova e di preparazione:
«Quando persone di confessione ebraica o ortodossa in pericolo di vita,
desiderosi di convertirsi al cattolicesimo, si presentano davanti a voi,
accoglietele allo scopo di salvare loro la vita (…) Quando
questi tempi barbari e tristi saranno passati coloro che si sono convertiti per
fede resteranno nella nostra Chiesa, mentre gli altri ritorneranno alla loro
quando sarà passato il pericolo».
Lo stesso Stepinac
sospese a divinis alcuni preti della sua diocesi che si
macchiarono di atrocità e si attivò non appena ebbe sentore delle voci che gli
ebrei sarebbero stati deportati dai tedeschi: scrisse una lettera al ministro
dell’interno Andrija Artuković per dire che: «Se
effettivamente questa iniziativa è stata concepita mi prendo la libertà di
rivolgermi a te per prevenire, grazie alla tua autorità, un attacco illegale a
cittadini che non sono responsabili di nulla». Stepinac non si limitò solo a
proteste e reclami privati, ma agì a più riprese in loro
favore: prese sotto la sua protezione degli ebrei nascondendoli nella
tenuta vescovile di Brezovica, organizzò il trasporto di decine di bambini verso
la Turchia, procurò cibo, vestiario, passaporti ad altri e tentò di convincere
il ministro d’Italia in Croazia, Raffaele Casertano, ad
accogliere dei giovani ebrei. Stepinac giunse persino a denunciare pubblicamente
l’Olocausto: «Tutte le razze e tutte le nazioni sono state create a immagine
di Dio (…) Non è lecito sterminare zingari ed ebrei perché apparterebbero a
razze inferiori. Se si accettassero i principi nazisti, che sono senza
fondamento, ci sarebbe ancora qualche sicurezza per un qualche popolo della
terra?» come dichiarò il 25 ottobre 1942 nella cattedrale di Zagabria. Gli
interventi della Chiesa per salvare gli ebrei croati ottennero però infine pochi
risultati, ma furono più che sufficienti per fare infuriare i nazisti
(“Se un vescovo parlasse così in Germania non scenderebbe vivo
dall’altare” dichiarò il generale Edmond Glaise Von
Hosternau> riferendosi a Stepinac). I tedeschi non esitarono anche a
compiere delle rappresaglie nei confronti dell’arcivescovo per le sue
dichiarazioni a favore degli ebrei come nel 1943, dove in seguito a dei sermoni
contro il razzismo e l’uccisione di ostaggi, i nazisti arrestarono più di trenta
sacerdoti.
Il vescovo di Zagabria, come si è visto poco
sopra, intervenne spesso anche in favore dei serbi,
le principali vittime della pulizia etnica dei fascisti croati, sebbene
giudicasse che le atrocità ustascia fossero dovute alla reazione dei croati
contro le vessazioni subite dai serbi durante il regno di Jugoslavia. Per
esempio, il 14 maggio 1941 Stepinac protestò contro l’eccidio
di 260 serbi a Glina scrivendo a Pavelic: «Io so bene che i serbi
hanno commesso gravi misfatti in questi venti anni di governo. Credo però mio
dovere di vescovo di alzare la voce e dichiarare che questo non è ammissibile
secondo la morale cattolica; quindi, vi prego di prendere le misure più urgenti
in tutto il territorio dello stato croato indipendente, affinché non venga
ucciso nemmeno un serbo se non sia dimostrato il delitto per il quale merita la
morte”. L’arcivescovo si batté anche contro le
intromissioni del governo ustascia circa le conversioni cattoliche
forzate dei serbi, ciò fu evidente nel Sinodo che Stepinac convocò dal 17 al 20
novembre 1941. In esso i vescovi espressero la propria disapprovazione a Pavelic
nella quale, pur dissociando la sua responsabilità dai suoi sottoposti
“irresponsabili”, condannarono le conversioni forzate dei serbi
e le atrocità degli ustascia chiedendo inoltre che i diritti della
Chiesa Ortodossa andassero rispettati e che gli ebrei fossero trattati
nel modo “più umanamente possibile, considerata la presenza delle truppe
tedesche”. Pio XII informato sulle decisioni del Sinodo lo
trovò soddisfacente e lodò il “coraggio e la decisione” dei vescovi nell’opporsi
agli ustascia per il trattamento contro i serbi (cfr. M. Phayer, “Il papa e
il diavolo”, Roma 2008 pp. 51-57, studioso critico verso Pio XII ma benevolo
verso Stepinac).
Innumerevoli furono gli interventi di Stepinac
a favore dei perseguitati: condannò i pogrom antiserbi,
protestò contro la distruzione delle chiese ortodosse, intervenne per liberare
il vescovo ortodosso Dositej Vasich, protestò con la
deportazione della popolazione serba di Kordun, s’interessò della sorte dei
deportati nel distretto di Sisak, riuscì a salvare nel luglio del ’41 300 donne
serbe destinate a morte, ecc. (per alcuni suoi sforzi a favore dei serbi cfr. E.
Mischia, “Il card. Stepinac, eroe della Croazia“, Studi
Cattolici n. 531 pp. 364-369). Stepinac protestò anche contro il campo
di concentramento di Jasenovac (che qualcuno ha, con molta fantasia,
definito la “Auschwitz del Vaticano”) definendolo, in una lettera di
protesta a Pavelic del 24 febbraio del ’43 contro l’uccisione di alcuni
sacerdoti cattolici, “una vergognosa macchia per lo stato croato”.
L’atteggiamento di Stepinac verso gli ustascia è
ancora oggetto di discussioni: da un lato pare che abbia posto
ingenuamente fiducia in uno stato che si rilevò invece essere
criminale, anche se confidò nel 1942 al tenente Stanislav Rapotec, emissario del
regno di Jugoslavia in esilio, che non aveva rotto pubblicamente con il regime
perché riteneva che avrebbe aiutato più facilmente i perseguitati restando al
suo posto. Gli stessi ustascia paiono avere avuto verso l’arcivescovo un
atteggiamento ambivalente tentando di mostrare ufficialmente
dei buoni rapporti per sfruttare l’ascendete del futuro cardinale sulla
popolazione, ma per contro si mostrarono talmente critici verso le continue
proteste e interventi del prelato di Zagabria al punto da richiederne alla Santa
Sede l’allontanamento. Le critiche di Stepinac si fecero a tal punto taglienti
che il regime vietò di pubblicare le sue omelie, ma queste
riuscirono ad essere ugualmente diffuse dai partigiani e da Radio
Londra. Forse è per questo motivo che gli ustascia e i tedeschi lo
accusarono d’essere un collaboratore dei comunisti anche se Stepinac, in una
protesta contro i nazionalisti, fece notare che: “Il governo croato dovrà
assumersi la piena responsabilità per la crescita dei partigiani comunisti a
causa delle misure inaccettabili nei confronti dei serbo ortodossi, degli ebrei
e degli zingari a imitazione di quanto fanno i tedeschi”.
Per le sue attività di salvataggio il vescovo
riceverà molti e lodi e ringraziamenti al punto che il segretario del rabbino di
Zagabria, Amiel Shomrony, sopravvissuto alla guerra, giungerà a
chiedere che il suo nome fosse inserito tra i Giusti d’Israele. Dopo la guerra,
però, il maresciallo Josip Broz Tito cominciò a colpire la
Chiesa Cattolica croata sia per l’appoggio di alcuni suoi settori alle politiche
ustascia, sia per diffondere il materialismo comunista. Oltre ad una feroce
persecuzione, tentò anche di separare i contatti con Roma proponendo a Stepinac
di fondare una chiesa nazionale croata (salvo poi richiederne l’allontanamento
alla Santa Sede dopo il rifiuto dell’arcivescovo). I vescovi croati denunciarono
pubblicamente la persecuzione antireligiosa in una lettera
pastorale nel settembre 1945 dove si parlava di 243 sacerdoti uccisi, 169
imprigionati e 89 scomparsi.
Il regime comunista decise di
processare l’arcivescovo Stepinac, unico modo per
sbarazzarsene, condannandolo l’11 ottobre 1946 a sedici anni di
lavori forzati con l’accusa di complicità alla politica criminale degli
ustascia. Il processo fu una vera e propria farsa: molte
“prove” furono fabbricate e all’avvocato difensore fu proibito d’interpellare
vari testimoni e di contro-interrogare i testimoni-chiave dell’accusa. Anche
molti esponenti di primo piano del regime ammetteranno in seguito la
falsità del processo come il pubblico ministero, Jakov
Blazevic che ammise che se l’arcivescovo fosse stato “un po’ più
flessibile politicamente” non sarebbe stato processato. Pio
XII difese a spada tratta l’arcivescovo di Zagabria scomunicando tutti
quelli che erano implicati nel processo. Anche molti non cattolici presero le
difese di Stepinac, come il presidente della comunità ebraica degli USA,
Louis Breier, che dichiarò all’indomani del processo:
“Questo grande uomo di Chiesa è stato accusato d’essere un collaboratore
nazista. Noi ebrei lo neghiamo. È uno di quei rari uomini che si sono levati
contro la tirannia nazista proprio nel momento in cui era più pericoloso farlo”.
Le polemiche contro la condanna di Stepinac furono così elevate che il
presidente della Croazia, Vladimir Bakaric, cercò di
convincerlo a chiedere la grazia, ma il vescovo rifiutò pretendendo anzi una
revisione del processo di fronte ad un tribunale indipendente. Nel 1992 uno dei
primi atti del nuovo governo croato fu una dichiarazione di condanna al processo
intentato dal regime comunista al prelato cattolico (G. Mattei, “Il cardinale
Alojzije Stepinac”, Città del Vaticano 1999 pp. 46-50).
Nel 1951, sotto le pressioni americane, Tito
trasferirà l’arcivescovo dalle carceri di Lepoglava al
domicilio coatto presso la sua parrocchia di origine di di Krasich, impedendogli
comunque di riprendere possesso della sua diocesi. Quando Pio XII lo nominerà
cardinale, Tito romperà le relazioni con la Santa Sede. Stepinac morirà
nel 1960 a causa di una malattia contratta in carcere, ma esiste la
testimonianza di un carceriere che afferma d’averlo avvelenato (cfr. Giovani
Sale, “Il cardinale Stepinac, un sostenitore dei «Diritti di Dio» e
dell’uomo”, La Civiltà Cattolica 5 dicembre 1998).
L’arcivescovo Stepinac non fu un criminale di
guerra, ma una persona che si operò per salvare delle vite umane. Se di lui si
ha un’immagine diversa forse ciò è dovuto in buona parte, come ha ipotizzato lo storico Sergio
Romano, alla persistenza della vulgata comunista negli studi storici
italiani.
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