La
rivoluzione
ricerche
storiche
sopra
l'origine e la propagazione del male in Europa
di
Monsignor Gaume
VOLUME
QUARTO
Traduzione
italiana di Gaetano Buttafuoco
MILANO
Tipografia
Pirotta e C.
1857
____________________
INDICE
DELLE MATERIE
PARTE
QUINTA
Proemio
CAPITOLO
I
APOTEOSI
DI VOLTAIRE
La
rivoluzione riconosce Voltaire per uno dei suoi padri. - Petizione
della municipalità di Parigi per ottenere la translazione degli
avanzi di Voltaire. - Parole di Regnault di Saint-Jean d'Angély; di
Treilhard - Domanda d'una festa in onor di Voltaire. - Parole di
Gossin, di Regnault. - Arrivo di Voltaire a Parigi. - Stazione alla
Bastiglia. - Descrizione dell'apoteosi - Carattere pagano di quella
festa
CAPITOLO
II.
APOTEOSI
DI ROUSSEAU.
La
rivoluzione lo riconosce ira proprio padre. - Pensione alla sua
vedova. - Domanda degli onori del Panteon. - Parole di Eymard.
Descrizione dell'apoteosi
CAPITOLO
III.
MABLY
E GLI ALTRI FILOSOFI.
La
rivoluzione è distruzione e ricostruzione. - Voltaire la personifica
nella sua opera di distruzione religiosa - Rousseau, nella sua opera
di distruzione sociale: ambedue, nella loro opera di ricostruzione
religiosa e sociale. - Mably; altro preparatore della rivoluzione. -
Suo epitaffio. Domanda, in suo favore, di una statua; degli
onori del Panteon.- Parole di Arnoux e di Dussaulx. - La rivoluzione
riconosce tutti gli altri filosofi per suoi avi. - Parole di Landine,
di Chabroud, di Prud'homme, di Baudin; di Robespierre; di Riouffe. -
La testimonianza della rivoluzione giustificata dalla filosofia
stessa. - Genesi del Volterianesimo.
CAPITOLO
IV.
VOLTAIRE.
Figlio
del Risorgimento, e degli studii di collegio perde la fede e la
costumatezza.- Suoi primi versi. - Testimonianza dell'educazione
classica ricevuta. - Ignoranza e disprezzo del cristianesimo. -
Entusiasmo pel paganesimo. -Testimonianza di Condorcet - Di La Harpe.
– Di Lefranc di Pompignano. - Analisi della Filosofia della
storia. -Tutte le teoriche, tutte le favole dell'antichità
classica, ammirate e riprodotte da Voltaire. - Disprezzo costante dei
cristianesimo, della sua lingua, delle sue arti, dei suoi uomini. -
Elogio del Risorgimento.
CAPITOLO
V.
VOLTAIRE
(Continuazione).
Analisi
del Saggio sui costumi.- Elogio costante dell'antichità pagana,
delle sue arti, della sua letteratura, della sua libertà del
discorso e dei culti. Profondo disprezzo del cristianesimo e
del medioevo, del suo linguaggio, delle sue arti, delle sue leggi e
del suo sapere. - Ammirazione pel Risorgimento. - Genealogia del
libero pensiero. - Apoteosi dell'uomo»
CAPITOLO
VI.
VOLTAIRE
(Continuazione).
Il
secolo di Luigi XIV.- Continua diffamazione del
cristianesimo.-Continue lodi dell'antichità pagana. - Voltaire
spinge al cesarismo, al libero pensare degli antichi filosofi.-
Effetti del libero pensare. - Costumi del secolo di Luigi XIV. -
Camera dei veleni. - Voltaire giudica l'eloquenza, la filosofia, la
religione sul regolo dei modelli classici. - Esorta di ritornare alla
religione dei grandi uomini dell'antichità. - La mette in pratica. -
Le procura molti proseliti. - Progetto di Maupertuis.
CAPITOLO
VII.
VOLTAIRE
(Continuazione).
Sue
opere teatrali.- Deprimono il cristianesimo ed esaltano il
paganesimo. Tragedia di Bruto Primo. - Tragedia di Bruto
Secondo, o la Morte di Cesare. - Glorificazione dello spirito
repubblicano e dell'assassinio politico. - Tragedia di Maometto;
violento assalto contro il cristianesimo. - Lettera di Voltaire a
Federico
CAPITOLO
VIII.
VOLTAIRE
(Continuazione e fine).
Tragedia
di Merope. - Massime pericolose.- Lettera del P. Tournemine,
gesuita. - Tragedia d'Olimpia. - Essa rende popolare
l'antichità nell'aspetto religioso. - Tragedia di Catilina o
Roma. salvata. - Esaltazione dei sentimenti repubblicani. -
Voltaire vuole che anche le giovani conoscano Cicerone. - Elogio. -
Si lamenta che non si vada a veder quant'è d'uopo gli spettacoli per
studiarvi i Greci e i Romani. -Elogio completo dei Greci e dei
Romani. – Voltaire si palesa qual esso è. – Muore come ha
vissuto.
CAPITOLO
IX.
ROUSSEAU.
Parte
che ha nella filosofia del sec. XVIII. - Assalisce l'ordine sociale
esistente per surrogarvi le instituzioni dell'antichità. - Rousseau
discepolo di Plutarco. - Sue parole. - Elogio del Risorgimento -
Necessità per le nazioni di attingere alle fonti antiche. - Mezzi. -
Stato di natura e governo di Lacedemone. - Analisi del Contratto
sociale. - Sistema della più mostruosa schiavitù. - Comunismo e
socialismo di Licurgo riprodotto da Rousseau
CAPITOLO
X.
ROUSSEAU
(Continuazione).
Fa
l'apoteosi dell'uomo e del popolo nell'ordine sociale. - Gli
attribuisce l'infallibilità, la sovranità. - Questi attributi,
essendo divini, non sono comunicabili. - Il governo del popolo
governo degli dei. - Applicazione di questi principi. – Il popolo
solo proprietario dei beni - Solo proprietario delle persone. - I
figli di proprietà dello Stato.- Educazione comune ed uguale come
presso gli Spartani: - Autorità sovrana del popolo sulla religione.
- Modello fornito dall'antichità. - Il cristianesimo che ricusa di
riconoscere questa autorità, debba essere sbandito dalla società. -
Esso rompe l'unità politica. - Predica la schiavitù. - Non può far
che vili e renderci inferiori ai Greci e ai Romani
CAPITOLO
XI.
ROUSSEAU
(Fine).
Attuazione
del sistema sociale sul modello dell’antichità. Il popolo debbe
trattare i propri affari da sé stesso. - E non con rappresentanti. -
Questa dottrina giudicata impraticabile dagli stessi rivoluzionari.-
Parole di Vergniaud e di Robert. - Disprezzo dell'ordine sociale
cristiano e del monarcato.-Ammissione di tutti i cittadini a tutti
gl'impieghi civili. - Obbligazione per tutti d'essere soldati, come
nelle antiche repubbliche. - Fine delle società rigenerate sul
modello di Sparta e di Roma. – Conclusione.
CAPITOLO
XII.
MONTESQUIEU
Precursore
di Rousseau. - Formato alla stessa scuola. - Assalisce il
cristianesimo. – Lettere persiane. Tempio di Guido. - Esalta
l'antichità pagana. - Grandezza e decadenza dei Romani. -
Spirito delle leggi, inspirato principalmente da Tacito e da
Plutarco. - Morte di Montesqieu. - Analisi dello Spirito delle
leggi.- Diffamazione del monarcato. - Elogio continuo del governo
repubblicano di Sparta, d'Atene e di Roma
CAPITOLO
XIII.
MONTESQUIEU
(Continuazione e fine).
Ammirazione
per l'antichità.- Diritto di ribellione. - Regicidio.- Purezza dei
costumi. - Bella usanza matrimoniale. - Buona polizia dei Romani
sull'esposizione dei figli. - Lodi delle greche istituzioni. -
Disprezzo delle arti e del commercio. - Elogio dei Romani. - Parole
di Senofonte, di Plutarco, di Diodoro Siculo. - Indebolimento della
ragione cristiana in Montesquieu. – Ignoranza, errori, pregiudizi.
- La punizione del Sacrilegio.- La potenza e i beni del clero.
-Fatalismo. - Il protestantesimo e il suicidio. - Conclusioni
CAPITOLO
XIV.
MABLY.
Mably,
uno dei principali autori della rivoluzione. - Sua nascita. - Sua
educazione presso i Gesuiti. - Entra nel seminario di S. Sulpizio ed
è ordinato suddiacono. - Lascia il seminario e la teologia per darsi
allo studio degli autori pagani. - Vi passa sessant'anni. - Suo culto
per l'antichità. - Sua morte. - Elogio che ne fa l'abate Brizard. -
Mably, anima vuota di cristianesimo e briaca di paganesimo. - Analisi
del Focione. - Voto in favore della rivoluzione
CAPITOLO
XV.
MABLY
(Continuazione).
Mably
non vede che l'antichità classica.- È Spartano.- Parole di Brizard.
– Di Mably. - Analisi delle Osservazioni sui Greci. - Stato
di natura. - Contratto sociale. - Espulsione dei re, principio della
gloria e della libertà della Grecia. - Predicazione dell'eguaglianza
e del comunismo. - Pittura menzognera di Sparta. - Disprezzo per le
società formate dal cristianesimo. - Elogio dei Greci. - Analisi
delle Osservazioni sui Romani. - Disprezzo della Francia
CAPITOLO
XVI.
MABLY
(Continuazione e fine).
Sempre
fuori del cristianesimo.-Analisi dei Principii di morale.-Mably
opposto al Vangelo. - Disprezzo delle virtù cristiane. - Mably non
conosce che le virtù pagane. - La sua morale è quella
dell'interesse. Approva un passo scandaloso di
Cicerone.-Analisi dei Diritti del cittadino. -Mably sospinge
allo sconvolgimento dell'ordine sociale.- Predica la repubblica. -
Mably tratto a perdizione dalla sua educazione di collegio. - Parole
di Brizard
CAPITOLO
XVII.
CONDORCET.
Sua
nascita. - Sua educazione presso i Gesuiti. - Anima vuota di
cristianesimo ed ebbra di paganesimo. - Sua professione di fede.
– Sua Memoria sull'ordinamento delle accademie. - Suoi
discorsi pieni di memorie classiche. - Suo disprezzo dei suoi maestri
e suo odio del Cristianesimo. - Lettere a Voltaire, a Turgot. - Suo
odio dell'ordine sociale. - Suo fanatismo repubblicano. - Fa ardere
tutti i titoli di nobiltà. - È proscritto coi Girondini. -
Repubblicano e pagano sino alla morte. - Ei muore come Socrate.
CAPITOLO
XVIII
D'ALEMBERT.
Sua
nascita. - Sua educazione S'innamora dell'antichità. - Suo discorso
all'Accademia. - Suo elogio ai Mani di madamigella di Lespinasse.
Suoi omaggi al Risorgimento. - Gli attribuisce la rigenerazione
del mondo, le lettere, le arti, la filosofia. - Riflessioni sulle
lettere e sulle arti.
CAPITOLO
XIX.
D'ALEMBERT
(Continuazione e fine).
Nuovo
beneficio del Risorgimento, lo spirito filosofico. - Opposizione che
trova. - Lodi di coloro che lo propagano. - Ritratto morale di
Bacone. - Giudizio sopra Cartesio. - Elementi di filosofia di
d'Alembert. - Il sensualismo sua base. - La morale dell'egoismo. - Il
comunismo n'è la conseguenza. - Ultimi momenti di d'Alembert. -
Muore leggendo Tacito.
CAPITOLO
XX.
ELVEZIO.
La
filosofia attuale tende al paganesimo. - Parole di monsignor vescovo
di Poitiers. - Questa filosofia viene dal XVIII secolo. - Parole di
Guizot. - La filosofia del XVIII secolo viene dal Risorgimento. -
Elvezio. Sua educazione presso i gesuiti. - Suo entusiasmo per
Quinto Curzio. - Per Locke. - Anima vuota di cristianesimo ed ebbra
di paganesimo. - Esordisce con versi. - Analisi dello Spirito.
- È razionalista e sensualista. - Analisi dell'Uomo. -
Disprezzo del Medio Evo. - Elogio dell'antichità classica. - Odio
del clero, e soprattutto dei gesuiti. - Una quistione.
CAPITOLO
XXI.
ELVEZIO
(Continuazione e fine).
Stabilimento
d'una religione filosofica. - Suo programma. - Suoi caratteri. -
Intanto s'ha da distruggere il cristianesimo. - Far rifiorire la
religione pagana. - Migliore del cristianesimo. - Il mezzo di farla
rifiorire è l'educazione classica. - Morte d’Elvezio.
CAPITOLO
XXII.
D'HOLBACH.
Sua
nascita. - Sua educazione. - La comunanza d'idee lo ravvicina agli
altri filosofi. - Sue cene.-Analisi del suo Sistema della natura.
- È in tutta la sua estensione il naturalismo pagano.- Eternità
della materia. - Lo prova con gli autori classici. - Fatalità;
stesse prove. - La natura Dio; stesse prove. - Negazione di Dio e
della Provvidenza; stesse prove. - Dell'immortalità dell'anima;
stesse prove. - Movente della virtù, la gloria umana; stesse prove.
- Legittimità del suicidio; stesse prove. - Morte pagana di
d'Holbach.
CAPITOLO
XXIII.
GENEALOGIA
DEL VOLTERIANESIMO.
Tutti
i filosofi del XVIII secolo si definiscono in due parole: anime vuole
di cristianesimo ed ebbre di paganesimo - Particolareggiato confronto
delle loro dottrine con quelle degli autori classici. - Sul mondo. -
Su Dio. - Sull'anima - Sulla morale.- Sulla virtù. - Sulle pene
eterne. - Sulla società. - Sulla forma di governo. - Sui mezzi di
governare i popoli e di renderli buoni e felici.- Il dispotismo
cesariano, gli onori, il carnefice, il divorzio, le cortigiane,
l’abolizione della proprietà e il comunismo. - Tutte queste
dottrine tratte letteralmente dagli autori insegnati in collegio
CAPITOLO
XXIV.
SECOLO
DECIMO OTTAVO.
Quadro
generale e definizione. - Memorie di Bachaumount. - Predizione
dell'avv. generale Séguier. - Il paganesimo generale nel secolo
XVIII. - Nelle arti, sale di Diderot. - Nelle lettere, traduzioni
continue degli autori classici. - Nelle scienze, soggetti di premio
proposti dall'Accademia delle iscrizioni. - Al teatro, titoli
d'opere, tragedie e componimenti drammatici. - Nei costumi, Memorie
di Bachaumont. - Nell'educazione, parole del P. Grou. - Cagione del
male. - Passo dell'Apologia dell'Instituto dei gesuiti.
-Manifestazione dello spirito pagano, espulsione dei gesuiti,
scacciati dai propri loro discepoli. - Lista dei filosofi educati da
essi e dagli altri ordini religiosi. – Conclusione.
______________
PARTE
SESTA
PROEMIO
CAPITOLO
I.
IDEA
DEL CESARISMO.
Importanza
della questione.-Definizione del Cesarismo. - Sua origine. Sua
storia nell'antichità - Esso fonda l'ordine religioso e sociale
sulla sovranità dell'uomo. - Questa sovranità dal popolo passa a
Cesare. La legge Regia. - Diritti e prerogative di
Cesare. - Parole di Gravina, di Terrasson. - Articolo della legge
Regia. - Risultamenti del Cesarismo nell'antichità.
CAPITOLO
II.
IDEA
DELLA POLITICA CRISTIANA
Abolizione
della legge Regia. - Divisione del potere.- Parole del papa
San Gelasio all'imperatore Anastasio. - La politica cristiana seguita
da Costantino, da Carlomagno, dai re cristiani. - Esposizione che ne
fa San Bernardo. - San Tommaso. - Sorgente del potere - Origine e
scopo delle società. - Magnifico quadro della politica e della
società cristiana che ne fa San Tommaso
CAPITOLO
III.
STORIA
DELLA POLITICA CRISTIANA
Base
della politica cristiana. - Potere sociale del Papato. - Parole degli
scrittori protestanti. I re di Francia e d'Inghilterra giudicati dal
Papa. - Compromesso dei re di Francia e d'Aragona. - Appello al
giudizio del Papa. - Affare di Lodovico Pio, di Lotario, re
d'Austrasia.- Deposizione dell'imperatore Arrigo IV. - Bolla di San
Gregorio VII. Deposizione dell'imperatore Federico. - Bolla
d'Innocenzo IV.
CAPITOLO
IV.
STORIA
DELLA POLITICA CRISTIANA (Continuazione).
Permanenza
del diritto pontificale. - Deposizione d'Enrico VIII. - Bolla di
Paolo III. - Deposizione d'Elisabetta. - Bolla di San Pio V.
Riflessioni. - Parole del sig. Coqueret. - Di Luigi Blanc. - Dilemma.
- Risultato sociale della politica cristiana e del Cesarismo.
CAPITOLO
V.
STORIA
DEL CESARISMO PRIMA DEL RISORGIMENTO. - DIRITTO POLITICO.
Gl'imperatori
d'Alemagna. - Il diritto romano, politico e civile. - Parole di
Schlegel. - D'un autore francese. - Pandette trovate in Amalfi
Università di Bologna. - Irnerio. - Il Risorgimento del diritto
pagano venuto dall'Italia. - Giuristi di Francia, d'Inghilterra e di
Spagna. - Dottrine che insegnano. - Baldo. - Giovanni di Parigi.
CAPITOLO
VI.
STORIA
DEL CESARISMO PRIMA DEL RISORGIMENTO.
(Continuazione).
Dante
e la sua opera De Monarchia. - Principii del Cesarismo. -
Argomenti di Dante, filosofici, politici e teologici. - Sostiene la
monarchia universale e l'onnipotenza di Cesare. - Sua dottrina
contraria all'insegnamento cattolico. -Conseguenze che ne fluiscono.
CAPITOLO
VII.
STORIA
DEL CESARISMO PRIMA DEL RISORGIMENTO.
(Continuazione
e fine).
Filippo
il Bello, suoi atti arbitrari; - Ammonito dal papa - Stati generali.
- Loro insensate risposte. - Parole di Luigi Blanc di Sismondi. -
Bolla del papa. - La Santa Sede continua ad essere la chiave della
vòlta dell'edificio sociale dell'Europa. - Omaggi resi al primato
pontificio. - L'imperatore Alberto. - La Bolla d'Oro. Luigi XI.
- Arrigo VII. - Alessandro VI e i re di Spagna e di Portogallo
CAPITOLO
VIII.
STORIA
DEL CESARISMO PRIMA DEL RISORGIMENTO.
DIRITTO
CIVILE.
Diritto
civile cristiano. - Sue origini. - Suoi caratteri - Varietà.
Semplicità. - Assicuratore di tutte le franchigie e conservatore del
carattere nazionale. - Amministrazione patriarcale della giustizia. -
Passo del cancelliere dell'Hospital. - Carlomagno. - San Luigi.
Sconvolgimento dell'antico ordine per l'introduzione del diritto
romano. - Le liti. - La giustizia venale. - Il parlamento permanente.
- La creazione degli avvocati. - Nuovo passo dell'Hospital
CAPITOLO
IX.
STORIA
DEL CESARISMO PRIMA DEL RISORGIMENTO.
(Continuazione
e fine).
Foga
pel diritto civile dei Romani. - Pericolo di questo studio. - Bolla
di Onorio III. - Divieto d'insegnare il diritto romano a Parigi. -
Bolla d'Innocenzo IV, sullo stesso soggetto, indirizzata a tutta
l'Europa. Preghiera ai re di far cessare l'insegnamento del
diritto romano. Luogo notevole di Rogero Bacone. - l legisti
continuano questo studio. Loro carattere. - Stato politico e
civile dell'Europa prima del 1455
CAPITOLO
X.
STORIA
DEL CESARISMO PRIMA DEL RISORGIMENTO.
MACCHIAVELLI
Mutamento
radicale nella politica, dovuto al Risorgimento: testimonianza non
sospetta di Matter. - Macchiavelli padre del Cesarismo moderno. - Sua
vita. - Sua politica pagana.-Testimonianza di Gentillet, d'Enrico
Stefano. - Macchiavelli, ceppo della generazione dei politici
rivoluzionari. Testimonianza della rivoluzione. - Prove della
sua influenza. - Edizione delle sue opere. - Confutazione che si
crede necessario di fare delle sue dottrine. - Federico II re di
Prussia.
__________________
LA
RIVOLUZIONE
PARTE
QUINTA
________________
PROEMIO
L'aver
dimostrato in modo irrepugnabile che la rivoluzione Francese del 1789
fu l'attuazione degli studii di collegio, basterebbe, a nostro
avviso, a giustificare le instanti preghiere che, da quattro anni ci
facciam lecito di rivolgere ai governi, alle famiglie, ai maestri
della gioventù, per indurli alla riformazione d'un sistema
d'insegnamento dal quale, scaturì quella grande catastrofe.
Tuttavia,
per non lasciar nelle menti verun'ombra di dubbio, dobbiamo far
risposta ad un'obbiezione. V'ha di quelli che, riguardando il
Volterianesimo, o la filosofia del secolo XVIII, siccome una fra le
principali cagioni della rivoluzione francese, dicono: Gli studii
classici, per fermo, contribuirono potentemente alla rivoluzione: ma
Voltaire, Rousseau, Mably e gli altri filosofi del passato secolo non
sono forse stati gli autori principali di quel grande avvenimento?
Tutte le dottrine religiose, sociali, politiche della rivoluzione non
le troviamo forse nelle loro opere? E quei loro libri non erano, in
sullo scorcio del secolo XVIII, gli oracoli dell'opinione?
Il
fatto è vero, e noi vogliamo far qualche cosa di meglio che di
semplicemente riconoscerlo. E per aiutare il trionfo dell'obbiezione,
fedeli al nostro metodo storico, stabiliremo con documenti
irrefragabili la parte che ricade sul Volterianesimo nello
scompigliamento del 1789. Dopo di che ci sarà lecito di dimostrare
quello che ricade sugli studii classici e sul Risorgimento nel
Volterianesimo stesso.
Tale:
è l'obbietto di questa parte, che dividiamo così:
Rivolgendoci
alla rivoluzione medesima, le domandiamo:
È
egli vero che annoveri Voltaire, Rousseau, Mably e gli altri filosofi
del XVIII secolo fra tuoi antenati?
Poscia,
rivolgendoci a Voltaire, a Rousseau, a Mably ed agli altri filosofi,
domanderemo loro:
Chi
siete? come siete apparsi nel mondo? qual è la vostra genealogia? di
chi siete figli?
E
nella guisa che abbiamo provato la discendenza della rivoluzione non
già con ragionamenti, ma con fatti, seguiremo lo stesso cammino per
provare la genesi del Volterianesimo. Importa ripetere che l'opera
nostra non è punto polemica, ma puramente storica.
IL
VOLTERIANESIMO
____________________
CAPITOLO
I
APOTEOSI
DI VOLTAIRE
La
rivoluzione riconosce Voltaire per uno dei suoi padri. - Petizione
della municipalità di Parigi per ottenere la traslazione degli
avanzi di Voltaire. - Parole di Regnault di Saint-Jean d'Angély; di
Treilhard - Domanda d'una festa in onor di Voltaire. - Parole di
Gossin, di Regnault. - Arrivo di Voltaire a Parigi. - Stazione alla
Bastiglia. - Descrizione dell'apoteosi - Carattere pagano di quella
festa.
_________________
Alla
rivoluzione non è mai stato fatto questo rimprovero, perché essa in
realtà non lo merita, d'ignorare, cioè, la propria genealogia e di
sconoscere i suoi antenati. Ora i primi suoi sorrisi furono ad un
tempo per Bruto, Scevola, Temistocle, Licurgo, Voltaire, Rousseau,
Mably. Uscita appena dalle fasce manifesta la propria pietà
figliale, onorando simultaneamente i suoi padri e i suoi avi. La
storia ci ha detto quello che essa ha fatto pei primi capi del suo
stipite; rimane ora che ne faccia vedere quello che ha fatto pei suoi
ascendenti immediati.
La
domenica 8-5-1791, la municipalità di Parigi chiede all’assemblea
nazionale che gli avanzi di Voltaire, siano condotti trionfalmente
nella capitale. Regnault (1) sostiene la domanda «attesochè,
dic'egli, Voltaire è il solo uomo che abbia sconfitto il
fanatismo ed illuminato l'ignoranza (2)».
A
Regnault succede Treilhard. «Voltaire, dice costui, nell'anno 1764,
incominciava la rivoluzione di cui siamo testimoni; e l'annunciava
tal quale noi la vediamo. A lui ne siamo debitori; ed è,
forse uno dei primi ai quali dobbiamo rendere gli onori che destinate
ai grandi uomini che hanno bene meritato della patria. Non
parlo qui della condotta privata di Voltaire: Basta soltanto ch'egli
abbia onorato il genere umano; che sia l'autore d'una
rivoluzione così bella, così grande come la nostra, perché noi
tutti ci affrettiamo di fargli rendere senza indugio gli onori che
gli sono dovuti (3)».
Chiamar
uomo grande colui che per tutta la sua vita è stato schiavo
delle più ignobili passioni; benefattore della patria, colui
che dal primo giorno in cui seppe tenere in mano una penna, non cessò
di oltraggiare le più pure glorie del suo paese e di corromperlo coi
mezzi più diabolici; l’onore del genere umano, colui la cui
vita letteraria fu una continua prostituzione dell'ingegno ed
un'insensata ostilità contro l'edifizio religioso e sociale, la cui
caduta doveva tirare sull'universo mondo mali incalcolabili, oh quale
oltraggio alla verità, oh quale sconvolgimento d'ogni sentimento
cristiano! Ma Voltaire ha fatto la rivoluzione, Voltaire ne è il
padre: Treilhard dunque è logico.
Il
30 maggio, Gossin chiede gli onori del Panteon per Voltaire, e
l'assegnamento del giorno dell'apoteosi. «Voltaire, egli dice, ha
creato un monumento che poggia sopra i più grandi benefizii,
come sopra le più sublimi produzioni dell'ingegno. Voltaire che
ha abbattuto il fanatismo, denunziato gli errori fino allora
idolatrati delle nostre antiche instituzioni: egli ha squarciato
il velo che copriva tutte le tirannidi. I Francesi, divenuti
liberi decreteranno al liberatore del pensiero l’onore che
da essi ha ricevuto uno dei fondatori della libertà (4)».
Regnault,
sostenendo la proposta di Gossin, ascende di nuovo la tribuna e
ripiglia: «Domando gli onori del Panteon pel filosofo che fra i
primi osò parlare ai popoli dei loro diritti, della loro dignità,
della loro potenza in mezzo ad una corte corrotta.
Lo
sguardo suo penetrante ha letto nel futuro, e vi ha veduto l’aurora
della libertà, della rigenerazione francese, di cui spandeva
le sementi con sollecitudine non minore del coraggio … Voltaire
col suo esempio ha fatto una rivoluzione nella storia; or bene!
Quella rivoluzione ha preparato la nostra (5)».
La
domanda è convertita in decreto. La domenica 10 luglio 1971 una
deputazione del corpo municipale si trasferisce alla barriera di
Charenton per ricevervi il corpo di Voltaire che da Romilly giungeva
a Parigi.
Il
tragitto, di quaranta leghe, non era stato che una serie, non
interrotta di onori funebri. Il carro che portava la bara era sempre
stato scortato dagli officiali municipali e dalle guardie nazionali
di ciascuno dei comuni pei quali transitava. Di tratto in tratto,
drappelli di fanciulle biancovestite, erano venute a deporvi corone
di fiori. Rami d’alloro e di quercia intrecciati di rose, di mirto
e di fiori campestri ombreggiavano quel carro di forma antica, sul
quale, per epigrafe si leggevano due versi di Voltaire:
«Se
libero è creato l’uomo, ei debba da sé stesso governarsi; e se
l’uomo ha tiranni, dee sbalzarli trono».
Era
notte quando il corteggio venne a Parigi. Ogni cosa era stata
apparecchiata per riceverlo. Fiaccole, luminarie d'ogni maniera
rischiaravano il cammino; e la moltitudine che l'accompagnava fa del
suo ingresso nella capitale un vero trionfo. In mezzo alle
acclamazioni del popolo, il corpo è condotto sulle ruine della
Bastiglia: una piattaforma ergesi sull'area della torre che servì di
prigione a Voltaire. La bara, prima di esservi collocata, è mostrata
al popolo, che ai più vivi applausi fa succedere un religioso
silenzio. Ivi riposano sino al giorno seguente le reliquie del
liberatore del pensiero, in mezzo a fiori e ad arbusti d'ogni
specie sotto un pergolato di rose, di mirti e di allori.
Surge,
a lato, a guisa di colonna trionfale una roccia formata con le pietre
provenute dai ruderi della Bastiglia. La sommità e i contorni di
questa roccia sono ornate di diverse figure simboliche con
l'iscrizione seguente: In questi luoghi dove t’incatenò il
dispotismo, Voltaire, ricevi gli omaggi che ti rende la Patria.
Il
giorno seguente, 11 luglio, ha luogo la traslazione degli avanzi di
Voltaire al Panteon: nulla si è pretermesso per dar risalto alla
magnificenza di quella cerimonia.
Il
corteggio mettesi in cammino a due ore, nell'ordine seguente:
Parecchi
squadroni di cavalleria, i zappatori, i tamburi, i cannonieri ed i
giovani allievi della guardia nazionale;
Una
deputazione dei collegi, le conventicole e le società patriottiche,
recando ciascuna le proprie insegne e le proprie divise, fra le quali
sono notevoli le seguenti, tratte dalle opere di Voltaire:
«Gli
uomini sono eguali, non la stirpe, ma la sola virtù ne costituisce
la differenza».
«Sterminate,
- gran Dio, dalla terra in cui siamo chiunque con diletto spande il
sangue degli uomini».
Molti
distaccamenti della guardia nazionale ed una moltitudine d'uomini in
armi marciano in ordine di battaglia; ed in mezzo a loro compariscono
in abito da cerimonia tutti i bastaggi del mercato, formando un corpo
separato, seguono i cittadini di Varennes e di Nancy portando i
medaglioni incoronati d'alloro di Rousseau, di Mirabeau e di
Franklin;
Dopo,
di essi i vincitori ed i demolitori della Bastiglia portano i ferri,
le palle, le catene, le corazze trovate in quella fortezza, e
preceduti da Palloy, loro capo;
Un
palanchino sul quale sono posti parecchi volumi intitolati:
Processo
verbale degli elettori;
e Sollevazione
parigina
di Dussablx;
Gli
abitanti del sobborgo Sant'Antonio, portando la bandiera e la pianta
di quella fortezza. Fra essi vedesi una donna all'amazzone,
vestita dell'assisa di guardia nazionale, la qual distinzione le è
stata concessa per la sua cooperazione alla presa di quella fortezza.
Essa è armata d'un bastone, la cui estremità, terminata in una
punta di ferro, reca queste parole: L'ultima ragione del popolo.
Un
drappello di cittadini armati di picche, sull'una delle quali è
posto il berretto della libertà con questa leggenda: Da
questo ferro nacque la libertà.
Le
guardie francesi portando un modello della Bastiglia, scolpito in
pietra proveniente dalla demolizione di quella fortezza (6);
Dopo
essi, la conventicola dei Giacobini, i quali, per un sentimento
d’orgoglio, ben degno di quella troppo celebre congrega, tiensi
appartata dalle altre società patriottiche;
Gli
antichi elettori del 1789 e 1790;
I
cento svizzeri e le guardie svizzere in armi;
Una
deputazione dei diversi teatri della capitale, che precedeva
immediatamente la statua di Voltaire. Questa statua d'oro,
incoronata d’alloro, è portata dai giovani allievi delle arti, in
abito antico: alcuni sollevano in alto, fra ghirlande di quercia e
diversi emblemi delle Muse, medaglioni in cui leggesi il
titolo delle principali opere del semidio. Gli altri portano un
cofanetto d’orato che contiene un esemplare delle opere in settanta
volumi, dono di Beaumarchais.
Dietro,
seguivano in folla gli accademici, i dotti, i letterati e gli
artisti.
Cori
di musicanti, cantando inni ed accompagnandosi col suono di strumenti
antichi, precedono il carro che porta il sarcofago in cui è chiusa
la bara di Voltaire. Questo carro, le cui ruote e le forme tutte
hanno somiglianza coi carri dei trionfatori romani, era stato
costruito sopra disegno del celebre David. Dodici cavalli
bianco-grigi, attellati a quattro di fronte e condotti a mano da
guardie
vestite alla romana,
traggono quel capo-lavoro, immagine
fedele della e della maestà dei concetti antichi.
Su
quel carro s’innalza una tronca piramide, ornata d'un ricco drappo
di velluto verde chiazzato di stelle d'oro e sorreggente un letto
funereo su cui riposa l'immagine plastica, di Voltaire. Quella figura
rappresenta il filosofo semi-giacente su un letto di riposo. I drappi
che lo circondano ne lasciano vedere le forme della persona: nude
sono le braccia, ed il volto non è improntato della larva della
morte. Disopra alla testa la Fama,
sotto l’emblema di una giovinetta alata,
tien sospesa una corona di stelle. Entro
vasi collocati ai quattro angoli del carro ardono i più soavi
profumi, che diffondono per l’aere un olezzo il più squisito.
Il
sarcofago è ornato di parecchie epigrafi:
Dalla
parte anteriore:
AI
MANI DI VOLTAIRE.
Sull’una
delle facciate laterali:
COMBATTÈ
GLI ATEI ED I FANATICI; INSPIRÒ LA TOLLERANZA;
RECLAMÒ
I DIRITTTI DELL'UOMO CONTRO LA SCHIAVITÙ E LA FEUDALITÀ.
Sull’altra
delle facciate laterali:
POETA,
FILOSOFO, STORICO, HA DATO UN GRANDE IMPULSO ALLO SPIRITO UMANO, E CI
HA PREPARATI A DIVENTAR LIBERI
Dalla
parte posteriore:
EI
DIFESE CALAS, SIRVEN, LABARRE E MONBAILLY.
Questo
pomposo sarcofago sollevato a quaranta piedi d'altezza, si avanza
lentamente, e nel suo cammino scuote le contrade che attraversa.
È
seguito dal procuratore generale sindaco, dai ministri, dagli
ambasciatori delle diverse potenze estere; dalle deputazioni
dell’assemblea nazionale, del dipartimento, del distretto, della
municipalità, della sezione, della Corte di cassazione, dei giudici
dei tribunali di Parigi e dei giudici di pace. Il corteggio è chiuso
dai veterani e da un corpo di cavalleria.
Il
corteggio segue tutti i baluardi dall'area della Bastiglia e si ferma
davanti all’Opera, che occupava allora il teatro della Porta S.
Martino. La facciata di quell'edifizio è ornata di ghirlande di
foglie e di drappi intrecciati a fiori. Il busto di Voltaire è
collocato su un altare all’antica, e sotto si leggono queste
iscrizioni:
PANDORA,
IL TEMPIO DELLA GLORIA, SANSONE,
opere
di cui Voltaire era autore. Alcuni attori in abito da scena vengono a
porre corone su quel busto ed a sua gloria intonano un inno allusivo
alla cerimonia.
Poscia
il corteggio riprende il suo cammino, continua i baluardi sino alla
piazza di Luigi XV, e segue il lungo senna della Conferenza, il ponte
Reale e il lungo senna dei Teatini, conosciuto di già allora sotto
il nome di lungo senna Voltaire.
Si
ferma rimpetto al palazzo Villette, posto all’angolo della contrada
di Beanne. Ivi Voltaire aveva passato gli ultimi suoi giorni.
Quattro
altissimi pioppi, congiunti da ghirlande di fiori e di alloro formano
una vòlta di verzura, in mezzo alla quale è una corona di rose che
discende sul carro nell’atto che vi passa sotto. La facciata
dell'edifizio reca questa leggenda:
Il
suo spirito è in ogni luogo, ma il suo cuore è qui.
Sul
davanti è un rialto a forma d'anfiteatro sul quale, sono schierate
cinquanta fanciulle bianco-vestite, con cinture azzurre,
inghirlandate di rose, e con una corona civica in mano. Due di
esse si distinguono fra le altre per lunghe vesti di lutto: sono le
figlie di Calas.
Madama
di Villette, che aveva adottato la tenerezza paterna di
Voltaire, si avanza allora per posare una corona sul capo della
statua di suo zio; e, mossa dai più vivi sentimenti di tenerezza e
di dolore, cinge con le braccia e copre di baci, il marmo inanimato
che ne fa rivivere, le care sembianze. A questa scena commovente,
tutti gli spettatori sono compresi della più sentita tenerezza, ed i
lugubri concenti d'una musica flebile raddoppiano la commozione
generale. Si cantano poscia a coro strofe d'un'ode di Chénier messe
in musica da Gossec. Finita la stazione, il corteggio a cui si
aggiunge madama di Villette, circondata dalla famiglia Calas, da La
Harpe, che era anch'esso un figlio adottivo di Voltaire, e da
un numeroso drappello di dame vestite di bianco ed ornate di cinture
e di nastri tricolorati, riprende il cammino e piega verso il teatro
della Nazione, oggidì dell'Odeone.
Davanti
all'antica area della commedia francese, posta nella contrada dei
Fossi di San Germano de' Prati, che è lungo il passaggio del carro
trionfale, è un busto di Voltaire incoronato da due Genii; e nella
base si legge quest'epigrafe:
Compose
Edipo a diciassette anni.
All'Odeone
un nuovo omaggio è riservato ai mani del patriarca di Ferney.
I più, magnifici drappi, ghirlande artatamente disposte fregiano
tutta la facciata di quell'edifizio: festoni la spira ciugono le
colonne, e su ciascuna è un titolo delle teatrali composizioni di
Voltaire, scritte in trentadue medaglioni. Sul frontone dell'edifizio
è questa leggenda: Compose Irene di ottantatrè anni.
Giungendo
il corteggio, apresi il vestibolo che era stato chiuso da un drappo,
e vedesi nel fondo l'immagine marmorea di Voltaire tutta raggiante di
lumi. Tosto si veggono i principali personaggi drammatici da lui
messi in scena, vestiti alla foggia dei diversi tempi e coi loro
attributi, venire a prestare omaggio al Genio Creatore che sì
degnamente li ha rappresentati. Bruto gli offre un fascio di
allori; Orosmane, i profumi dell'Arabia; Alzira i tesori del
nuovo mondo;Nanina, un mazzolino di rose; e, durante questa scena di
riconoscenza, una musica deliziosa eseguiva a piena orchestra
i cori dell'opera il Sansone.
Era
la notte quando il corteggio si rimise in cammino al chiarore delle
fiaccole e delle luminarie, e non giunse che a dieci ore al Panteon,
dove la spoglia mortale di Voltaire fu deposta con tutta la pompa
degna di quella festa trionfale. (7).
«Questa
cerimonia aggiunge il Monitore, è stata una vera festa
nazionale. Da per tutto si vedevano busti di Voltaire incoronati,
leggevansi le massime più divulgate delle opere sue immortali: tutte
le lingue le ripetevano. In tutta la lunghezza della via percorsa da
quel superbo corteggio, una moltitudine immensa di cittadini era
affollata nelle contrade, alle finestre e sui tetti delle case» (8).
Corone,
carro trionfale, luminarie, plausi, processione, mostra di reliquie,
inni, incensi, quietorio, nulla la rivoluzione dimentica nel culto
che rende a Voltaire. Può egli dirsi in modo più esplicito: Egli è
il mio santo, ei fu mio padre?
____________
CAPITOLO
II.
APOTEOSI
DI ROUSSEAU.
La
rivoluzione lo riconosce in proprio padre. - Pensione alla sua
vedova. - Domanda degli onori del Panteon. - Parole di Eymard.
Descrizione dell'apoteosi,
***
Quello
che la rivoluzione aveva fatto in onore di Voltaire, lo fece anche
per Rousseau.
Il
martedì 21 dicembre 1790, Barère ed Eymard ascendono, alla tribuna
e chiedono una pensione a carico dello Stato per la vedova (9) di
Gian Giacomo Rousseau, ed una statua per Rousseau medesimo. «Atene,
dice Barère, alimentò la famiglia di Aristide: che non farà la
nazione francese, per la vedova di Gian Giacomo Rousseau?» Fra
gli applausi di tutta l'assemblea Teresa Levasseur riceve una
pensione vitalizia di 1200 lire (10). Perorando per Rousseau: «Nel
momento, dice Eymard, in cui la più stupenda e la più completa
delle rivoluzioni si effettua in Francia, quanta riconoscenza non
dovete a colui che vi ha dato in mano le armi vittoriose con cui
avete combattuto il dispotismo ed assicurati per sempre i nostri
diritti alla libertà! Chiedo che dopo aver dato un grande
esempio al mondo, sia riservata anche alla Francia questa gloria
d'aver onorato, ad esempio dei popoli antichi, in modo degno
di lei e degno di lui l'uomo immortale che, fu suo benefattore,
o più veramente il benefattore del genere umano (11)». La
sala rintronò d'unanimi applausi, e Rousseau avrà una statua.
Ciò
non basta: Rousseau deve partecipare con Voltaire agli onori
dell'apoteosi.
Il
sabato 27 agosto 1791 presentasi all'assemblea una deputazione di
letterati di Parigi, presieduta dal signor Vittore Broglio.
L’oratore parla in questi termini:
«Avete
collocato nel Panteon quel versatile ingegno a cui si è fatto
rimprovero d'aver abbracciato tutti i generi; il quale per altro non
vi pose mano che per ischiacciare sotto i piedi della filosofia il
mostro del fanatismo e della superstizione. Voltaire fu il
precursore necessario delle opere vostre; abbatté dinanzi a
voi tutto ciò che poteva esservi d'ostacolo: spianò per così dire
l’area su cui avete innalzato l'edifizio della nostra libertà.
«Gli
avete concessi gli onori che gli erano dovuti: avete saldato il
vostro debito alla sua memoria: ma lo avete forse saldato anche alla
memoria dell’autore del Contratto sociale? L’eguaglianza
dei diritti tra gli uomini e la sovranità del popolo furono
stabiliti in sistema da Rousseau pel primo sotto gli occhi stessi del
dispotismo. Quelle due idee madri hanno germogliato nelle anime
francesi e nelle vostre mediante la meditazione dei suoi scritti: e
se, come non si può negare, tutta la nostra costituzione non ne è
che lo svolgimento, io sostengo che Rousseau è il primo fondatore
della costituzione francese... Per la memoria dunque di questo
grand’uomo domandiamo onori che ne vendicheranno il cenere, che
sdebiteranno la Francia e che daranno maggior lustro alla vostra
gloria (12).
Il
presidente risponde: «L'assemblea nazionale, col distruggere tutti i
titoli d’orgoglio ha dato maggior lustro ai veri titoli di
gloria. Essa ha voluto che d’ora innanzi l’ingegno, la virtù, i
talenti fossero i soli segni di distinzione fra i cittadini
dell'impero. Ciò era nel collocare nel primo ordine colui che li
riunì tutti; era un mettere Gian Giacomo Rousseau in un posto
dove non potesse avere chi lo superasse. L'assemblea prenderà
in considerazione la vostra domanda, e v'invita ad assistere alla
sessione » (13).
Eymard
richiede che l'assemblea decida immediatamente. «Presentateci, dice
egli, ad imitazione degli antichi, oggetti di emulazione;
presentateci quelle ricompense che sopravvivono a coloro che le hanno
ottenute » (14). Una sola difficoltà si oppone al voto
dell’assemblea. Il signor Girardin d'Ermenonville sostiene di
essere proprietario degli avanzi di Rousseau; ma la difficoltà viene
rimossa dal signor Matteo Montmorency: «I fatti, egli dice, di cui
si sono intertenuti preopinanti dovevano essere estranei ad una
questione che è tutta propria dell'ammirazione e della
riconoscenza nazionale. Credo impossibile che il signor Girardin
voglia opporsi agli onori che si vogliono rendere a Rousseau, e che
voglia contendere alla nazione le ceneri d'un uomo che le appartiene
per tanti titoli. L'assemblea, impaziente di rendere in
atto il sentimento onde è animata, soddisfarebbe ai sacri
diritti della proprietà, e al voto nazionale, se volesse decretare
che gli onori destinati ai grandi uomini saranno resi a Rousseau, e
rimandare per l’eseguimento al comitato di costituzione» (15).
Questa
proposta viene accettata, ed il 21 settembre si promulga il decreto
che innalza Rousseau agli onori del Panteon (16). Per meglio
accalorare l'entusiasmo, Palloy, al 6 ottobre, viene a fare omaggio
all'assemblea del busto di Rousseau, scolpito in rilievo su una
pietra della Bastiglia (17). L'assemblea manifesta la viva sua
riconoscenza e decreta che il busto di Rousseau sarà collocato nella
sala delle sue adunanze. Giuseppe Chénier poi pel giorno della festa
compone un inno in cui tutte le condizioni e tutte le età celebrano
le lodi del futuro semidio.
Giunge
finalmente il 20 vendemmiatore anno III (11 ottobre 1794), giorno
stabilito; come dicevasi, per la cerimonia più bella, più greca
che mai siasi veduta. Il giorno 18, l’urna funerea che
rinchiude le ceneri di Rousseau è tolta via dall'isola dei
Pioppi e portata in trionfo dai cittadini d'Ermenonville sino al
comune d'Emilio, già Montmorency: e vi stette sino al dì
seguente.
Il
19 il corteggiò si mette in cammino per Parigi. Verso le sei ore
della sera giunge alla piazza della rivoluzione, e si ferma al ponte
Tournant, ai piedi della Fama, che sembra annunziare
all'universo l'apoteosi d'un grand'uomo (18). Ivi una
deputazione della Convenzione viene a ricevere i resti di Rousseau.
L'urna
ceneraria, condotta rispettosamente su un carro ornato di ghirlande,
è deposta in mezzo al gran bacino del palazzo nazionale (le
Tuileries), in un'isola artificiale, circondata di salici piangenti e
di pioppi che ricordano agli spettatori i laghetti d'Ermenonville.
lvi, in un tempietto di forma antica riposa l'urna di Gian
Giacomo Rousseau. Durante tutta la notte vi riceve gli omaggi del
popolo; sino al momento di sua traslazione al Panteon.
Il
20 alle ore nove della mattina tutti i cittadini traggono in folla al
giardino nazionale: tutto annunzia la festa d'un popolo libero.
Allorché si sono riuniti tutti coloro che debbono comporre il
corteggio, la Convenzione nazionale, togliendosi dal luogo delle sue
sedute, I comparisce sulla vasta tribuna posta davanti il peristilio
del palazzo. In quel momento l'istituto di musica esegue una marcia,
seguita dall'aria composta da Rousseau: Ho perduto ogni mia
felicità. Poscia, dall'alto di quella tribuna, il presidente
legge ad alta voce i decreti resi per onorare la memoria di Rousseau.
Questa lettura, spesso interrotta da grandi acclamazioni, viene
seguita dall'aria di Rousseau: Nell'oscura mia capanna.
Finalmente
il corteggio si mette in cammino così composto:
Primo
gruppo.
Musici che eseguono i teneri concenti dell’Indovino
del villaggio e
di altre arie, di composizione di Gian Giacomo Rousseau.
Secondo
gruppo.
Botanici con piante, fiori e frutti e con questa iscrizione:
Lo
studio della natura lo consolava dell'ingiustizia degli uomini.
Terzo
gruppo.
Artisti ed artigiani di ogni specie, con gli strumenti della loro
arte e del loro mestiere, e con l'epigrafe seguente:
Riabilitò
le arti utili.
Quarto
gruppo.
Deputati delle sezioni di Parigi, portanti le tavole dei diritti
dell'uomo, con questa leggenda:
Reclamò
il primo questi diritti imperscrittibili.
Quinto
gruppo.
Madri, vestite
all’antica,
delle quali alcune tenevano per mano i loro figli, e portandoli altre
fra le braccia, con quest'iscrizione:
Restituì
le madri ai loro doveri ed i figli alla felicità.
E
per verità propriamente a Rousseau ed alla sua eloquenza le madri
sono debitrici della felicità che fino allora, avevano
sconosciuta, la felicità cioè di allattare esse medesime i loro
figli e di allevarli sott'esso i loro occhi.
La
statua di G. G. Rousseau incoronata dalla libertà. Sul piedistallo
leggesi la sua prediletta divisa:
Vitam
impendere vero.
Tutta
la vita consacrare al vero.
E'
sotto questa leggenda:
In
nome del popolo francese
La
Convenzione Nazionale a G. G. Rousseau Anno Secondo della Repubblica.
Sesto
gruppo.
Abitanti di Franciade, d'Emilio e di Groslay, con questa iscrizione:
In
mezzo a noi compose
Eloisa,
Emilio e il Contratto Sociale.
Settimo
gruppo.
Abitanti d'Ermenonville circondando il carro che porta l’urna
cineraria, sulla quale sono scolpite queste parole:
Qui
riposa l'amico della natura e della verità.
Ottavo
gruppo.
Ginevrini con l'inviato della loro repubblica: essi portano questa
iscrizione:
Ginevra
aristocratica l’aveva a proscritto; Ginevra rigenerata ha vendicato
la sua memoria.
Nono
gruppo:
La Convenzione nazionale circondata da un nastro tricolorato e
preceduta dal Contratto
sociale,
chiamato il Faro
dei legislatori.
Tutti
questi gruppi camminano a dieci persone di fronte, fra le
acclamazioni della folla accalcata sulla via del corteggio.
Nella
guisa che Voltaire aveva fatto una stazione al palazzo Villette,
Rousseau ne fa una nella contrada. Onorato, rimpetto alla
conventicola dei Giacobini. Ivi una corona civica è deposta sul
sarcofago del liberatore.
Giunti
al Panteon, il sarcofago contenente la bara di Rousseau è portato
trionfalmente nell'interno del tempio, e collocato sopra un catafalco
eretto sotto la cupola. Intanto l’instituto di musica esegue l'aria
composta da Gian Giacomo Rousseau:
Io
l'ho piantato, l'ho vista nascere.
Il
presidente della Convenzione nazionale (Cambacérès), in un'orazione
funebre, in onore di Rousseau passa in rassegna le opere e gli
scritti che lo rendono immortale:
«Cittadini:
egli dice, gli onori del Panteon decretati ai mani di Rousseau,
sono un omaggio che la nazione rende alla virtù, ai talenti
ed all'ingegno... Egli profondo filosofo morale, egli apostolo
della libertà e dell'eguaglianza, egli il precursore che ha
chiamato la nazione nelle vie della gloria e della felicità; e se
una grande scoperta spetta in proprio al primo che l'ha segnalata,
noi siamo debitori a Rousseau di questa rigenerazione salutare
che ha operato cangiamenti tanto avventurati nei nostri costumi,
nelle nostre usanze, nelle nostre leggi, nei nostri intelletti, nelle
consuetudini nostre...
«Alla
sua voce l'uomo è stato libero dalla culla alla tomba. Cittadini,
l'eroe di tante virtù doveva pur esserne il martire.... La
sua vita segnerà un'epoca nei fasti della virtù; questo
giorno, questi onori, quest'apoteosi, tutto ci annunzia che la
Convenzione, nazionale vuole saldare ad un tempo verso il filosofo
della natura è il debito dei Francesi e la riconoscenza
dell'umanità (19)».
Dopo
il panegirico, Cambacérès, in abito di cerimonia, s'avvicina al
sarcofago, e, a nome dell'intera Francia, spande fiori sulla
tomba di quell'uomo celebre.
La
cerimonia finisce con l'inno di Chénier, musicato da Gossec, la cui
prima strofa è cantata dai vecchi e dalle madri di famiglia: la
seconda, dai deputati della Convenzione: la terza, dai fanciulli e
dalle donzelle; la quarta, dagli abitanti di Ginevra; e la quinta dai
giovani: il coro è ripetuto dal popolo, e da tutti gli spettatori:
I
vecchi e le madri di famiglia.
O
tu che ritraesti le sembianze ingenue d'Emilio e di Sofia: tu che
ristabilisti i diritti sconosciuti della natura avvilita, illumina i
nostri figli e le figlie nostre; educa alla virtù i giovani loro
cuori, e rendi felici le nostre famiglie per l'onore delle leggi e
dei costumi.
Coro
Oh
Rousseau! modello de' savi, benefattore dell'umanità. Accetta gli
omaggi d’un popolo altero e libero; e dal fondo del tuo sepolcro
sostieni l'eguaglianza.
I
rappresentanti del popolo.
La
tua mano, spezzando i ferri da lungo tempo ribaditi della terra
inschiavita, ritrovò gli smarriti titoli della primitiva sua
libertà. Il popolo, armandosi della folgore e di quel patto solenne
ha posto l'eterno suo trono sulle ruine dei re esinaniti.
Coro
Oh
Rousseau,
ecc.
I
fanciulli
e le donzelle.
Tu
emancipasti tutti gli schiavi: copristi d'infamia tutti gli
oppressori; per opera tua, senza afflizioni e senza impacci i nostri
primi giorni scorrono fra le dolcezze. Accogli i voti riconoscenti di
coloro cui togliesti a difendere. Rousseau fu l'amico dell'infanzia:
Rousseau è caro ai fanciulli.
Coro
Oh
Rousseau,
ecc.
I
ginevrini.
Vedi
presso l’augusto tuo cenere i tuoi amici, i tuoi concittadini;
filosofo tenero e giusto, i nostri oppressori furono pure i tuoi; e
nella seconda tua patria Ginevra agitando la sua bandiera, Ginevra,
tua madre diletta, canta il proprio figlio, il buon Rousseau.
Coro
Oh
Rousseau,
ecc.
Combatti
sempre la tirannide, che alla sola tua rimembranza si sgomenta: la
morte non spegne il tuo genio; questa face risplende pel futuro. Il
limpido e fecondo suo splendore ha rianimato la terra in pianto; e la
Francia, in nome dei due mondi, spande fiori sulla tua tomba.
Coro
Oh
Rousseau! modello de' savi, benefattore dell’umanità, accetta gli
omaggi d’un popolo altero e libero; e dal fondo del tuo sepolcro
sostieni l'eguaglianza (20).
Nel
giorno appresso, nella seduta della conventicola dei Giacobini,
Boissel, vice-presidente, ascende alla tribuna, e parla in questi
termini: «Cittadini, vengo a ragguagliarvi dell'eseguimento della
vostra ordinanza che decreta una corona civica ai mani di G.
G. Rousseau: Allorché il carro che portava il busto di questo
filosofo si è fermato all'ingresso di questo edifizio, ed intanto
che un giovane cittadino posava la corona sul capo di Gian Giacomo,
il vostro vice-presidente, rivolgendosi al popolo, diceva:
«Cittadini, la società degli amici della libertà e
dell'eguaglianza, seguaci, professori e continuatori invariabili
dei principii e della dottrina dell’immortale Gian Giacomo,
manifesta, mediante l'offerta d'una corona civica ai mani di
quest'ardente amico dell'umanità, la propria determinazione di
prenderlo incessantemente per modello e per guida nelle sue opere...»
«Questo
discorso, cittadini, è stato accolto con vivi applausi. Il vostro
vice-presidente è stato invitato di salire sul carro per
rappresentare le quattro età. Egli si è assiso ai piedi
della vedova di Gian Giacomo; ed in tal modo è stato condotto
sino al Panteon (21)».
L'apoteosi
di Rousseau, come si vede, rivaleggia con quella di Voltaire. Parigi
non rese mai più solenni omaggi a Gesù Cristo: non fece mai
processione più splendida e più pomposa per onorare il Figliuolo di
Dio di quella in cui, traendo in trionfo i cadaveri di Voltaire e di
Rousseau, li presentò alla pubblica venerazione, e li condusse
solennemente in una chiesa cattolica, divenuta loro santuario.
Voltaire e Rousseau onorati nella metropoli della Franchi come il
Santo de' santi; e dopo sessant'anni la rivoluzione dare all'Europa e
al mondo lo scandalo inaudito dei corifei del libertinaggio e della
libertà collocati nella chiesa stessa di Gesù Cristo! La
rivoluzione non è morta.
Ma
lasciamo stare il lato sacrilego di quell’apoteosi. Col dare al
patriarca di Ferney ed al filosofo di Ginevra simili testimonianze di
pietà figliale, la rivoluzione non dice forse, in un linguaggio che
non ammette più dubbio, che non abbisogna più di chiosa: Sì, io
sono figlia di Voltaire e di Rousseau?
___________________
CAPITOLO
III.
MABLY
E GLI ALTRI FILOSOFI.
La
rivoluzione è distruzione e ricostruzione. - Voltaire la personifica
nella sua opera di distruzione religiosa - Rousseau, nella sua opera
di distruzione sociale: ambedue, nella loro opera di ricostruzione
religiosa e sociale. - Mably; altro preparatore della rivoluzione. -
Suo epitaffio. Domanda, in suo favore, di una statua; degli
onori del Panteon.- Parole di Arnoux e di Dussaulx. - La rivoluzione
riconosce tutti gli altri filosofi per suoi avi. - Parole di Landine,
di Chabroud, di Prud'homme, di Baudin; di Robespierre; di Riouffe. -
La testimonianza della rivoluzione giustificata dalla filosofia
stessa. - Genesi del Volterianesimo.
***
La
rivoluzione francese fu distruzione e ricostruzione. Distruzione
dell'ordine religioso e dell'ordine sociale stabilito; ricostruzione
d'un ordine religioso e d'un ordine sociale fabbricato dall'uomo, da
lui diretto e da lui congegnato per assicurarsi la propria sovranità
universale. Di che ne conseguita che niente vi è di più conforme
alla logica della duplice apoteosi che abbiamo descritta. Voltaire in
più special modo personifica la rivoluzione, nella sua opera di
distruzione religiosa: Rousseau la personifica in particolar maniera
nella sua opera di distruzione sociale: e l'uno e l'altro insieme la
personificano egualmente nei suoi principi di ricostruzione,
religiosa e sociale. Così, nella guisa stessa che la quercia è
tutta intera nella ghianda sepolta sotterra, non altrimenti nel
secolo XVIII la rivoluzione è tutta intera in Voltaire e in
Rousseau.
Animati
dallo spirito medesimo dei loro maestri, gli altri filosofi, sebbene
in gradi inferiori, sono essi pure i precursori della rivoluzione.
Questa, qual debbe una figlia riconoscente, non dimentica nessuno dei
suoi avi, e retribuisce ciascuno secondo le sue opere. Ora, vi è un
uomo che per i suoi principi politici, e per la sua ammirazione delle
istituzioni repubblicane dell’antichità, cammina a lato di
Voltaire e di Rousseau, cui va innanzi con le sue teoriche
socialistiche; e quest'uomo è Mably; e se avesse avuto la veste
talare di meno ed un po' più di eloquenza, sarebbe entrato nel
Panteon come loro.
Fin
dal suo nascere, la rivoluzione lo riconosce per uno dei suoi
antenati; ed il suo ritratto, copiosamente diffuso, vien presentato
alla riconoscenza, pubblica con quest'epigrafe:
«Ecco
le sembianze di questo grand'uomo, condotto dalle sue opere
all'immortalità; nato degno di Sparla e di Roma; morto ahi! Troppo
presto per la Francia e per la libertà» (22)
Poco
appresso si chiede per lui una statua (23); poscia se ne ristampano
le opere, dicendo: «Ero debitore verso la patria della pubblicazione
delle sue opere, in un tempo principalmente in cui si ha bisogno di
tante cognizioni sociali e politiche e di tante virtù! Quali
opere vi ha delle sue più proprie a fornir le une e ad infondere
l'amore delle altre»? (24) Finalmente si domandano per lui gli onori
del Panteon. «Mably, dice il deputato Arnoux, ha scritto pei popoli:
ho insegnato loro i propri diritti che ignoravano o che
avevano dimenticato. Vi è una ricompensa degna di lui e degna di
voi: e veniamo a domandarvela. Questa ricompensa è che la sua
immagine sia collocata nel monumento che avete eretto ai grandi
uomini i quali hanno ben meritato della patria.
«I
titoli di Mably a questa gloria si contengono nelle sue opere. Esse
hanno servito di fiaccola nella carriera della rivoluzione...
«Voi
non sarete gli ultimi, o legislatori, a pagare questo sacro debito,
se debbo prestar fede al modo onde poc'anzi accogliete la proposta di
uno di noi che in un momento di entusiasmo designava Mably al
Panteon. O uomo grande, tutto lo dice al mio cuore, quanto prima
suonerà per te l'ora dell'immortalità (25)». L'assemblea
applaude e rinvia la proposta ai tre comitati riuniti di salute
pubblica, di legislazione e d'istruzione pubblica. I comitati
trascurano di fare il loro rapporto, e per Mably non suona l'ora
dell'immortalità.
Riguardo
poi agli altri filosofi del XVIII secolo, la rivoluzione non lascia
sfuggire nessun'occasione di dichiararsene figlia e di pagar loro il
tributo della sua pietà figliale. Il 1° agosto 1791, per voce del
signor di Landine, essa dice: «Gli autori delle dichiarazioni dei
diritti naturali hanno egregiamente stabilito che l'uomo è nato
libero ... Io mi compiaccio di adottare e di professare i medesimi
principii. Locke, Cumberland, Hume, Rousseau e molti altri li
hanno svolti: le loro opere li hanno fatti germogliare fra noi»
(26).
Poscia:
«Usciti appena dalle foreste, i nostri padri non
avevano che il buon senso della natura ... e questi filosofi
che pei primi ci hanno insegnato la via della felicità e della
libertà, questi filosofi screditati da tutte le tirannidi non
debbono finalmente ricevere il premio del loro zelo, vedendoci
profittare dei loro lumi»? (27).
Ed
altrove: «Se Montesquieu, Rousseau, Mably, Voltaire non avessero
rivolte liberamente le proprie riflessioni sopra lo stato di miseria,
a cui era ridotta la povera specie umana; se non avessero avuto il
nobile ardimento di pubblicare i loro pensieri, a loro gran rischio e
pericolo, il popolo non avrebbe mai pensato ai propri diritti, né
mai sarebbe insorto. Siate riconoscenti verso coloro fra i nostri
contemporanei che coraggiosi alimentano questo fuoco sacro, acceso
dai nostri predecessori. Un buon libro é una leva capace di
smuovere l'universo intero» (28).
Guidata
sempre dalla riconoscenza, aggiunge: «La presa della Bastiglia è il
primo degli avvenimenti che aiutarono il conquisto della libertà...
La ragione raccoglie questa volta i frutti d'una vittoria che
da lungo tempo aveva preparata. Montesquieu, Rousseau, Mably,
voi avevate fabbricate le armi dalle quali fu colpita la tirannide,
che annoverava fra le chimere i principi che avete rivelati e che noi
ci gloriamo di professare» (29).
Ed
altrove per voce di Robespierre: «Il mio Dio è quegli che protegge
gli oppressi, e che stermina i tiranni: il mio culto è quello della
giustizia e dell’umanità... Già la face della filosofia,
penetrando fino nelle condizioni più da essa remote, ha dissipato
tutti gli spaventevoli o ridicoli fantasmi che l'ambizione dei preti
o la politica dei re ci avevano ordinato di adorare in nome del cielo
.... Quanto prima, non vi è dubbio, il Vangelo della ragione
e della libertà sarà il vangelo del mondo» (30).
«La
filosofia, dice Riouffe, è stata la nostra forza
motrice...
Che
cosa fanno gli scrittori controrivoluzionari? Osteggiano
gagliardamente questa filosofia. Se riesce loro di distruggere lo
spirito filosofico faranno infallibilmente la
controrivoluzione. Si può dunque dire con certezza che un
antifilosofo è un antirepubblicano (31)».
Cento
altri passi non meno espliciti leggiamo nel Monitore; libro
inalterato ed inalterabile, dove la rivoluzione stessa ha fatto
deposito liberamente dei suoi più intimi pensieri. Egli è dunque
evidente che la rivoluzione si è proclamata figlia di Voltaire e di
Rousseau, o della filosofia del XVIII secolo.
Cotal
discendenza è poi fondata?
Si
può senza timore rispondere affermativamente sulla parola della
rivoluzione: perocchè, giova il ripeterlo, la rivoluzione, meglio
d'ogni altro conosce la propria genealogia. Tuttavia non vogliamo
attenerci soltanto alla sua testimonianza: svolgiamo profondamente il
subietto, e non dimentichiamo che ogni rivoluzione si riepiloga in
queste due parole: distruggere e ricostruire.
Distruggere l'ordine religioso e l'ordine sociale stabilito dal
cristianesimo; ricostruire un ordine religioso ed un ordine sociale
sul modello della classica antichità, ecco, tutta la rivoluzione
nella duplice forma di sua esistenza, se abbiamo fede nella storia.
Ora, distruggere e ricostruire non è forse l'essenza
del Volterianesimo, e di tutta la filosofia del secolo passato?
Risguardata nel suo complesso, nei suoi antesignani, in Francia e in
Inghilterra, nelle principali sue elucubrazioni, nei suoi sforzi
costanti, la gran lega dei letterati del secolo XVIII è forse altra
cosa che un assalto continuo contro il cristianesimo e contro
l'ordine sociale stabilito dal cristianesimo? Qual principio
cristiano in filosofia, in morale, in politica, in letteratura ha
essa rispettato? Quale istituzione nata dal cristianesimo, dal papato
sino agli ordini religiosi, alle corporazioni laicali, alla società
domestica, alla stessa proprietà non ha essa balestrato di fronte?
In una parola, quale persona, qual cosa cristiana ha potuto scamparne
i sarcasmi ed i sofismi?
E
nel tempo stesso: quali continue tendenze verso la bella antichità!
quali lodi della, sua libertà, del suo incivilimento, delle sue
virtù, delle sue leggi, delle sue arti, delle sue istituzioni, delle
sue usanze, dei suoi filosofi, dei suoi oratori, dei suoi poeti e dei
suoi eroi? quali sforzi perseveranti per ricondurre le moderne
nazioni verso quel tipo ammirato!
Da
questi fatti generali e pubblicamente noti, risulta che la
rivoluzione era nella filosofia, come il bambino nel seno della
madre: che era già formata, già viva nell'ordine delle idee prima
di diventare visibile, e, per così dire, palpabile nell'ordine dei
fatti.
Ha
dunque buon fondamento l'obiezione che ne si oppone, dicendo: «La
rivoluzione francese non è soltanto figlia degli studii di collegio,
ma anche del volterianesimo». Ben alieni dal negare il fatto,
l'abbiamo anzi confermato.
Ma,
e il volterianesimo di chi é figlio? poiché, al postutto esso non è
nato appiè d'un albero come un fungo: anch'esso dunque dee avere una
genealogia: e quale?
I
volteriani ci rispondono anche oggidì: Siamo filosofi e
rivoluzionari e ne siamo alteri, ma siamo figli del risorgimento e
della filosofia, prima di essere figli della rivoluzione (32).
Nel
nostro studio dell'origine del male, quest'asserzione, come, ben si
comprende, é di un'estrema importanza: ora rimane a sapere se sia
vera e sino a qual punto. Per formare l’opinion nostra, vuolsi
interrogare la storia, e domandarle se realmente Voltaire, Rousseau,
Mably, Hume, Cumberland, gli enciclopedisti e gli altri filosofi,
strascinati nella loro orbita, sono figli del Risorgimento e degli
studii di collegio. Lo sapremo con certezza se, da una parte, sino
dalla loro tenera età sono stati educati dal Risorgimento, nutriti
del suo latte, animati dal suo spirito; e sé dall'altra, le loro
opere ed i loro atti per tutto il corso della vita loro, non sono che
il riflesso dei loro classici studii.
______________
CAPITOLO
IV.
VOLTAIRE.
Figlio
del Risorgimento, e degli studii di collegio perde la fede e la
costumatezza.- Suoi primi versi. - Testimonianza dell'educazione
classica ricevuta. - Ignoranza e disprezzo del cristianesimo. -
Entusiasmo pel paganesimo. -Testimonianza di Condorcet - Di La Harpe.
– Di Lefranc di Pompignano. - Analisi della Filosofia della
storia. -Tutte le teoriche, tutte le favole dell'antichità
classica, ammirate e riprodotte da Voltaire. - Disprezzo costante dei
cristianesimo, della sua lingua, delle sue arti, dei suoi uomini. -
Elogio del Risorgimento.
***
Voltaire
è uno dei più terribili esempi dell'influenza degli studii di
collegio nello spirito e nel cuore della gioventù. «Studiando
Virgilio, diceva Sant'Agostino, ancor giovanetto, perdetti la mia
innocenza (33)». «Vivendo in mezzo ai Greci ed ai Romani ed alle
loro miriadi di deità ho perduto la fede, diceva Napoleone, e questo
mi accadde assai di buon'ora, nell'età di tredici anni (34)».
Voltaire ancor più sciagurato, vi perdette l'una e l'altra. Udiamone
i biografi.
Voltaire
(Francesco Maria Arouet) nacque a Chatenay, presso Parigi, il 20
febbraio 1694. Di dieci anni fu messo nel collegio di Luigi il
Grande, diretto dai gesuiti. - «Ho passato sette anni nel collegio
di Luigi il Grande… il marchese di Chàteauneuf, ambasciatore
all’Aja mi condusse seco in qualità di paggio nel 1713 (35). Molti
uomini celebri di quell'ordine, il padre Charlevoix, il padre
Tournemine, il padre Lejay e il padre Porée, furono successivamente
i maestri di Voltaire, il quale in collegio si distinse fra tutti gli
altri. Nel 1710 ottenne il premio di versificazione latina (strictae
orationis). Alcuni componimenti in versi francesi ch'ei fece in
collegio fanno conoscere di qual alimento si nutriva il giovane suo
intelletto. Un epigramma dell'Antologia veniva così da lui
tradotto:
«Leandro
guidato a nuoto dall'Amore, diceva alle procelle: Lasciatemi
toccar riva, e non mi sommergete che al mio ritorno».
Gli
veniva dato per compito una composizione in versi sulla statua di
Pigmalione: ed ei presentò i seguenti:
«Se
Piginalione la plasmò, se il cielo l'animò del suo soffio, Amore
fece di più, l’infiammò: senza di lui che varrebbe il nascere?»
Volgarizzava
anche Odi di Anacreonte: poi gli, si dava a comporre versi
sopra la morte di Nerone, che si uccise da sé stesso; e così
esprimendosi:
«Complice
della morte d'una madre esecrabile, se muoio di mia mano ben l'ho
meritato: e non avendo in mia vita commesso che atti di crudeltà, ho
voluto, uccidendomi, commetter un atto di giustizia (36)».
Si
vede in qual paese viveva Voltaire, essendo in collegio. L'antichità
classica diventa il suo cielo. Togliere dai Greci e dai Romani i loro
sentimenti, le loro immagini, lo stesso loro linguaggio fu per esso
l'unica fonte del bello e la condizione di sua riuscita: e ne avremo
una prova da tutta la sua vita poetica. Intanto alleghiamo un solo
componimento che scrisse in età di appena quindici anni. Un dì il
professore di Voltaire fu pregato da un vecchio invalido di fargli un
memoriale in versi pel Delfino. Il professore rinvia
l'invalido al proprio discepolo, e ne ottenne la seguente
composizione:
«Nobile
sangue del più grande dei re, amor suo e nostra speranza; oh, voi
che senza regnare sulla Francia, regnate però nel cuore dei
Francesi; potete tollerare che il mio estro, mediante uno sforzo
ambizioso, osi presentare una strenna a voi che non ne ricevete che
dalla mano degli Dei? La Natura, facendovi nascere, vi
fornì delle più belle sue attrattive; e fece vedere nei primi
vostri alti che il figlio di Luigi era degno del padre. Tutti gli
Dei gareggiarono in farvi i loro doni: Marte vi diè la
forza ed il coraggio; Minerva, fin dagli anni vostri
giovanili, all’ardente fuoco dell'età aggiunse la saggezza;
Apollo, vi diè la bellezza; ma un Dio più potente,
cui imploro nelle mie angustie, volle dare a me pure le strenne,
dando a voi la generosità.
E
questo non è altro che il frasario mitologico come si insegna nei
collegi: queste sono le fonti poetiche dischiuse dal Risorgimento
all'estro cristiano. Parlando di sé medesimo, Voltaire il quale,
come i suoi compagni, prendeva in sul serio quelle leggi del Parnaso,
dice che Apolline ha presieduto al nascer suo: che quel Dio
potente gli ha aperto il suo santuario, ed altre simili cose non meno
classiche (37).
Nell'ode
che compose alcuni anni dopo sopra santa Genoveffa, ei parla degli
dei ribellati contro i re; di Marte che guida il suo
carro attaccato dall'Odio. Ma non essendo stata fatta buona
accoglienza alla sua poesia, se ne vendicò con una satira tutta
formicolante di nomi poetici del Parnaso, di Febo, di Catullo, di
Mecenate, d'Anacreonte, di Virgilio, d'Orazio, d'Omero, di Roma e
della Grecia (38).
Intanto
l'assidua frequenza della bella antichità non pone indugio ad
infondere nel giovane Arouet, di mente più svegliata degli altri
suoi coetanei, un profondo aborrimento pel cristianesimo. Il padre
Porée ed il padre Lejay s’avvedono di questa mala tendenza, «e si
danno ogni maniera di sollecitudini per far gustare al loro discepolo
le grandi verità della religione» (39). Inutili sforzi! La fortezza
era già conquistata e per sempre!
«Nell'età
di dodici anni, il giovine Arouet manifestava i principii; e
vomitava i sarcasmi che poscia ha introdotto in moltissime sue opere.
È verissimo che il padre Lejay gli predisse fino d'allora
ch'ei sarebbe il portinsegna dell'incredulità (40)» Al
pervertimento della mente s'aggiunge la corruzione del cuore. Appena
uscito di collegio Voltaire ha una amante, figlia di buona famiglia
che tenta di rapire. Ciò accadeva nel 1713 ed egli aveva diciannove
anni (41).
Se
Voltaire, in collegio, ha perduto l'innocenza e la fede, vi trovò
un'invincibile passione per l'antichità pagana. Tutta la sua mente è
nelle belle lettere, intese al modo che s'intendevano in collegio,
modellate cioè sugli antichi, inspirate dal loro spirito, foggiate
sulle loro forme, e per quanto era possibile, esprimenti anche i loro
sentimenti religiosi e politici: «a tal segno, dicono le Memorie di
Servières, che non volle mai arrendersi alle vedute di suo padre che
lo destinava al foro» (42).
Anima
vuota di cristianesimo e briaca di paganesimo: ecco, Voltaire anche
prima che uscisse dal collegio di Luigi il Grande. Come mai quel
fanciullo entrato in collegio di dieci anni, col duplice tesoro della
fede e dell'innocenza di quell'età, affidato ai maestri virtuosi e
dotti, circondato da cure speciali, come mai così presto, è
miscredente e libertino, dispregiatore pubblico del cristianesimo, ed
appassionato ammiratore del paganesimo? Se Voltaire in collegio non
avesse perduto che la fede e la costumatezza, si potrebbe ciò
attribuire ai cattivi compagni e ai cattivi libri; la qual cosa per
altro saria poco verisimile in un collegio di gesuiti e in un tempo
in cui non esisteva per anco la libertà della stampa. Non sarebbe
più natural cosa il dire che Voltaire ha trovato lo scoglio di sua
innocenza e della sua fede; dove e Sant'Agostino e Napoleone e tanti
altri lo trovarono?
Ma
come si spiega questo mistero dell'essersi perdutamente invaghito
dell'antichità pagana? In aspettativa della risposta, lo stesso
Voltaire ci dice con tutta la sua vita intera: «Io sono figlio della
mia educazione letteraria: fui educato non a Parigi nel collegio di
Luigi il Grande da gesuiti, ma a Roma e in Atene, da Sallustio, da
Cicerone, da Tacito; da Virgilio, da Ovidio, da Orazio, da
Anacreonte; i padri Porée, Lejay, Tournemine non furono che i miei
ripetitori; i veri miei professori furono gli autori
pagani».
Ed
ei lo proverà sovrabbondantemente deridendo gl'insegnamenti degli
uni, e fedelmente praticando quelli degli altri: perseguitando senza
posa i suoi ripetitori coll'odio suo, col suo disprezzo e coi suoi
sarcasmi, mentre che magnificherà i propri professori, i loro
scritti, le loro idee e le azioni loro.
In
fatti, quale si mostra Voltaire all'uscir di collegio, tale ei sarà
sino alla fine della lunga sua carriera. L'analisi delle sue opere
non offre tre idee ma soltanto due: l'ignoranza o l'odio del
cristianesimo e l'ammirazione del paganesimo. Ora se si riflette
all'impero sovrano che l'alunno del collegio di Luigi il Grande
esercitò per più di sessanta anni sopra l'intera Europa, potrà
aversi la misura dell'influenza del Risorgimento e degli studi
classici sulle idee e sui costumi, in una parola, sulla filosofia del
secolo passato, e per conseguenza sulla rivoluzione francese che ne
scaturì.
Le
opere di Voltaire possono dividersi in due classi: le opere
antireligiose e le opere antisociali.
Caratterizzando
le antireligiose, Condorcet, uno degli ammiratori di Voltaire, si
esprime con queste parole:
«Voltaire
nascondendo il proprio nome, ed usando riguardi ai governi, dirige
tutti i suoi colpi contro la religione: e induce persino la
potestà civile a indebolirne l'impero. Una moltitudine d'opere
uscite dalla sua penna si sparsero per l'Europa. Il suo zelo contro
la religione ch’ei riguardava come cagione del fanatismo che aveva
desolato l’Europa fino dal suo nascere, della sua superstizione che
l’aveva imbestialita, e come la fonte dei mali che quei nemici
dell'umanità non si ristavano dal fare ancora, pareva che
raddoppiasse la sua operosità e le sue forze. «Sono stanco, diceva
un giorno, di udirli a ripetere che bastarono dodici uomini a
stabilire il cristianesimo: ed ho voglia di provar loro che uno solo
basta a distruggerlo (43).
Ogni
maniera di disprezzo riversato sui secoli cristiani, sulle glorie e
sulle istituzioni cristiane da Macchiavelli, da Ulrico di Hutten, da
Erasmo e dagli altri del Risorgimento, abbagliati dalle bellezze
dell'antichità pagana; le loro calunnie odiose, i loro sacrileghi
motteggi riappariscono in Voltaire condite d'un nuovo sale. Quello
che era avvenuto nel secolo XVI, SI rinnova, ma in più vaste
proporzioni nel XVIII. La zizzania del paganesimo, seminata a piene
mani nel campo dell'Europa, produce una copiosa messe: «I liberi
pensatori, aggiunge Condorcet, i quali non esistevano dapprima
che in alcune città, dove erano coltivate le scienze e fra i
letterati, i dotti, i grandi e i pubblici ufficiali, si
moltiplicarono in tutti gli ordini della società e in tutti i paesi
(44)».
«Cartesio,
continua a dire La Harpe, aveva fatto una rivoluzione nella
filosofia: Voltaire ne fece un’altra assai più estesa, nella
morale delle nazioni e nelle idee sociali. L'uno ha scosso il
giogo della scuola che non si aggravava che sui dotti: l'altro ha
infranto lo scettro del fanatismo che opprimeva l'universo»
(45).
Settant'anni
d'una guerra ad oltranza contro Gesù Cristo che osa chiamare
l'infame, contro l'adorabile sua persona, contro i suoi dommi,
contro la sua morale, contro i suoi misteri; ecco Voltaire nelle
opere sue filosofiche, nel suo epistolario, nelle sue poesie, nelle
sue satire, più oscene e più empie le une delle altre. Ei fu poeta,
scriveva nel 1781 l'eloquente, arcivescovo di Vienna, per cantare in
tutti i metri le dottrine dell'empietà: oratore, per declamare
contro la religione e contro i suoi ministri; storico, per adulterare
i fatti a danno della rivelazione, della Chiesa e dei santi; filosofo
o ambizioso di sembrarlo, per oscurare le verità più preziose con
le tenebre dello scetticismo. Per questo titolo più che per i suoi
talenti letterari egli è salito, in fama, nel mondo. A tanti eccessi
aggiungeremo lo sfrenato amore della libertà popolare, l'avversione
di ogni autorità sovrana, lo spirito d'indipendenza, ecco che cosa è
cotesta edizione promessa con tanta enfasi: un cumulo di sarcasmi,
di massime anarchiche; di sozzure e di empietà (46)».
Questi
giudizi generici vogliono però essere giustificati dalle opere
medesime di Voltaire per modo che si possa chiaramente stabilire che
l’alunno del collegio di Luigi il Grande fu per tutta la sua vita,
come abbiamo detto, il figlio della sua educazione letteraria, cioè
un'anima vuota di cristianesimo e briaca di paganesimo. Ora nei suoi
diversi scritti in prosa e in verso Voltaire, discepolo fedele del
Risorgimento, riscalda tutte le favole, e tutte le teoriche
dell'antichità pagana; stabilisce l’apoteosi dell'uomo nel duplice
aspetto dell'orgoglio e della carne, e balestra tutto quello che
nell’ordine religioso e sociale non è l'opera dell’uomo
emancipato.
Così
nella Filosofia della Storia, nega l'unità del genere umano;
insegna che il linguaggio è una invenzione dell’uomo; che
conformemente alla credenza dei poeti classici, gli uomini vissero
lungo tempo nelle selve nello stato di bruti (47). «I primi uomini,
egli dice, con tutta, gravità, non potevano totalmente provvedere ai
loro bisogni; e, non intendendosi, non potevano soccorrersi:
non potevano difendersi contro gli animali feroci se non lanciando
pietre, ed armandosi di grossi tronchi d'alberi; di che é forse
derivata quella confusa nozione dell'antichità; che i primi eroi
combattevano i lioni ed i cignali con clave» (48).
Se
invece d'avere studiato in collegio per parecchi armi; di aver
imparato a memoria le Metamorfosi d’Ovidio, le Georgiche
di Virgilio, le Epistole d'Orazio le fatiche d'Ercole,
Voltaire avesse con la medesima premura studiato la Bibbia e gli
autori cristiani, avrebbe avuto di siffatte idee?
Secondo
gli autori pagani e secondo Voltaire loro discepolo, l'uomo non ha
solamente inventato la società, ma anche la religione. «Primos
in orbe deos fecit timor: - Allorché dopo molti secoli
alcune società si furono costituite, egli è credibile che vi
avesse qualche religione, qualche specie di rozzo culto. Gli
uomini allora unicamente intesi alla cura di sostentar la propria
vita, non potevano sollevarsi all'Autore della vita. La
conoscenza d'un Dio creatore, rimuneratore e vendicatore è frutto
della ragione. Tutti i popoli adunque, per secoli, furono quello
che sono oggidì gli abitanti di molte coste meridionali dell'Africa;
quelli di molte isole e una metà degli Americani (49)».
Seguita
poscia in Voltaire, come negli altri classici autori, l’elogio di
quell'età dell'oro. Lo storico filosofo dice: «Quelle tribù
d'America e dell'Africa sono libere ed i nostri selvaggi d'Europa
non hanno neppur l'idea della libertà (50)». I selvaggi sono
liberi! liberi cioè di andar nudi, di vivere di caccia e di pesca,
d'adorare i loro feticci, d'uccidersi, e di mangiarsi a vicenda! Tale
è la libertà dell'età dell'oro! Allorché la rivoluzione,
celebrando la festa della dea Natura, canterà: Felici Lapponi!
si conoscerà non esser ciò che un eco di Voltaire, il quale non è
poi, la a sua volta, che l'eco d'Ovidio e degli antichi.
Per
inventare una società, una religione è d'uopo intendersi: ora,
secondo Voltaire, gli uomini primitivi non s'intendevano.
La
difficoltà è grave, ma non lo sgomenta. «Prima di riuscire a
formare una società, egli dice, ci vuole un linguaggio, ed è la
cosa più difficile. Si sarà incominciato certamente con le grida
che avranno significato i primi bisogni: poscia gli uomini più
ingegnosi, nati con organi più flessibili, avranno formate alcune
articolazioni, cui i loro figli avranno ripetuto. Ogni linguaggio
primitivo sarà stato composto di monosillabi. Con questa
brevità si parlava nelle foreste delle Gallie e della Germania. I
Greci ed i Romani non ebbero parole più composte se non molto tempo
dopo di essersi riuniti in corpo di nazione (51)».
Mediante
l'invenzione del linguaggio, il cui segreto ci viene rivelato da
Voltaire sull'autorità dei Greci e dei Romani, gli uomini potranno
costituire una società. Ma ci vuole, inoltre, una religione.
Voltaire, consultatone sulla scelta, non indugerebbe a dire la
migliore essere il politeismo fondato sulla metempsicosi, e sul
panteismo di Virgilio, di Platone e di Pitagora. E qui pure, quando
poi queste teoriche insensate passano nell'ordine dei fatti, la
rivoluzione contenderà di ricondurre gli uomini al politeismo, non
altro facendo che imitare Voltaire, interprete dei suoi studii di
collegio.
«I
cristiani primitivi, egli dice, i quacqueri sono tanto
pacifici quanto gl’Indiani. La religione cristiana cui
letteralmente seguono quei soli primitivi, è anch’essa
nemica del sangue, quanto la pitagorica. Ma i popoli cristiani non
hanno mai osservata la loro religione, e le antiche coste
dell’India hanno praticato sempre la propria. La ragione è che la
dottrina pitagorica è l'unica religione al mondo che abbia saputo
fare dell'orrore del sangue una pietà figliale ed un sentimento
religioso. Tutti quelli che questa religione adottarono
credettero di vedere le anime dei loro parenti in tutti gli uomini
che li circondavano; si credettero tutti fratelli, padri, madri,
figli gli uni degli altri. Quest'idea infondeva necessariamente una
carità universale: temevasi di ferire un essere che fosse della
famiglia. In una parola, l'antica religione dell'India e quella
dei letterati della China sono le sole in cui gli uomini non siano
stati barbari (52)»
Popoli
dell’Europa, fatevi pitagorici, Indiani o Chinesi, ma soprattutto
non rimanete cristiani: tale è la conclusione: parvente di questa
pagina di classica filosofia.
Negli
autori di collegio tanto ammirati da Voltaire, il paganesimo è a
vicenda metempsicosi e panteismo: il loro discepolo non si resta dal
preconizzarlo sotto questo duplice aspetto.
Nell'antichità,
il giovane esclamava: Io
pure sono und porzione della divinità.
Quest’opinione è stata quella dei più rispettabili filosofi della
Grecia, di quegli stoici che hanno innalzato l’umana natura sopra
di se medesima, quella dei divini Antonini:
e si deve confessare che nulla era più acconcio ad inspirare grandi
virtù (53). Il credersi una porzione della divinità è un farsi una
legge di nulla operare, che non sia degno di Dio» (54). Facciamoci
adunque panteisti.
Se
voi chiedete in qual tempo tutti codesti sistemi di pagana filosofia,
sconosciuti o disprezzati in Europa dopo la promulgazione del
Vangelo, si sono nuovamente riprodotti, o con clamore ed hanno
ripigliato nelle classi letterate il funesto loro impero, la storia
vi farà vedere non l’arianesimo, non il medio evo, non il
protestantesimo, ma il Risorgimento.
________________
CAPITOLO
V.
VOLTAIRE
(Continuazione).
Analisi
del Saggio sui costumi.- Elogio costante dell'antichità
pagana, delle sue arti, della sua letteratura, della sua libertà del
discorso e dei culti. Profondo disprezzo del cristianesimo e
del medioevo, del suo linguaggio, delle sue arti, delle sue leggi e
del suo sapere. - Ammirazione pel Risorgimento. - Genealogia del
libero pensiero. - Apoteosi dell'uomo»
***
Il
costante disprezzo del cristianesimo, la non meno costante
ammirazione del paganesimo, di cui ci ha dato qualche testimonianza
la Filosofia della storia, è l'Egeria che continua ad
ispirare Voltaire nel suo Saggio sui costumi delle nazioni.
Incominciando dalle arti, ei dice: «La bella architettura, la
scultura perfezionata, la pittura, la buona musica, la vera poesia,
la vera eloquenza, la maniera di scriver bene la storia, finalmente
la stessa filosofia, tutto questo non pervenne alle nazioni che
dai Greci (55)».
Oh
come Voltaire è l'eco fedele della sua classica educazione! Questi
errori, divenuti assiomi, non sono ancora le odierne dottrine dei
collegi? Che erano, or ha pochi anni, per le classi letterate le
glorie dell'Europa cristiana, l’arte cristiana, la musica
cristiana? La maggior parte dei collegiali odierni conoscono forse
alcuna cosa comparabile a Cicerone per l'eloquenza, a Virgilio per la
poesia, a Platone per la filosofia? Appresso a quei giganti, che sono
mai, ai loro occhi, san Giovanni Crisostomo, san Basilio,
sant'Agostino, san Tomaso, la Bibbia stessa ed i profeti?
Quello
che Voltaire ama principalmente nei Greci è il libero pensare.
«I Greci, egli dice, avevano tanto ingegno che ne abusarono; ma ciò
che torna ad essi in grande onore si è che niuno dei loro governi
inceppò i pensieri degli uomini. Atene lasciò una intera
libertà non solo alla filosofia, ma a tutte le religioni.
Ammetteva tutti gli dèi stranieri; aveva anche un altare dedicato
agli dei sconosciuti. Roma fece come Atene. I romani
adottarono permisero i culti di tutti gli altri popoli, ad esempio
dei Greci. Questa associazione di tutte le divinità del mondo,
questa specie di ospitalità divina, fu il diritto delle genti di
tutta l'antichità» (56).
Libertà
della parola! libertà dei culti! oh le deliziose città che erano
Roma ed Atene! Oh dilettevole soggiorno! Rendiamoci dunque Greci e
Romani! E tanto maggior ragione abbiamo di determinarvici in quanto
che il cristianesimo con la sua intolleranza è stato un flagello pel
mondo. «Stantechè in quella saggia antichità non vi aveva dommi,
continua Voltaire, non vi ebbe guerre religiose. E anche di troppo
che l'ambizione e la rapina versino sangue umano, senza che la
religione finisca di esterminare il mondo (57)».
Come
Robespierre, altro alunno del collegio di Luigi il Grande, lo volle
più tardi, anche Voltaire vuole che, conformemente al modello antico
si riconosca un Ente Supremo, e che i letterati moderni, come i
Ciceroni e i Cesari d'un tempo, si ridano della religione o se ne
servano, come d'un mezzo di governare. I Romani, egli dice, adoravano
un Ente, Supremo: Deus optimus maximus. A questa conoscenza
d'un Dio, a quest'indulgenza universale, che sono il frutto della
ragione colta si aggiunge una folla di superstizioni che sono il
frutto della ragione incolta. Perché mai i vincitori e i legislatori
di tante nazioni non abolirono queste stolidezze? La ragione è che
essendo antiche, erano care al popolo e non nuocevano al governo. Gli
Scipioni, i Paoli Emilii, i Ciceroni, i Catoni, i Cesari avevano ben
altro da fare che a combattere le superstizioni della marmaglia.
Quando un vecchio errore è radicato, la politica se ne giova come
d'un morso che il volgo si è messo da sé medesimo in bocca finché
non venga un'altra superstizione a distruggerlo, e che la politica
faccia di suo pro di questo secondo errore come fece del primo
(58)». Tali erano, conclude Voltaire, quelle due nazioni, le più
intelligenti della terra, i greci ed i romani, nostri maestri
(59)»
A
quest'ingenua ammirazione della classica antichità, si aggiunge il
più profondo disprezzo del cristianesimo. Uno dei maestri della
gioventù del XVII secolo, aveva definito il medio evo: il tempo
in cui gli uomini erano mezze bestie: Voltaire è perfettamente
dello stesso parere e tutti gli alunni del Risorgimento, lo
condividono. «Tutti questi secoli di barbarie, egli dice,
sono secoli d'orrori e di miracoli. Le particolarità storiche
di quei tempi sono altrettante favole, e quel che è peggio,
favole noiose (60). «Tante frodi, tanti errori, tante
ributtanti sciocchezze, onde siamo da diciassette secoli
inondati non hanno potuto recar offesa alla nostra religione. Essa è
senza dubbio divina, poiché diciassette secoli di giunterie e
d'imbecillità non hanno potuto distruggerla (61)»
Nel
numero di tale giunterie annovera, fra l'altre, il viaggio di san
Pietro a Roma, la sua crocifissione sotto Nerone, ed altri fatti
capitali della storia del cristianesimo, non omettendo di dire che
letterati di collegio non vi credono neppur una parola.
«Queste
goffaggini, dice egli, sono in oggi derise da tutti i cristiani
istruiti» (62).
Di
quelle sciempiaggini e di quelle giunterie Voltaire prende il suo
partito; ma quello ch'ei non può perdonare al cristianesimo si è
d'avere distrutto quella bella antichità, quel magnifico impero
romano, la più grande delle glorie dell’umanità. Con quell'ironia
che gli è propria ei dice: «Il cristianesimo apriva i il cielo,
ruinava l'impero; perché tutte le sette nate nel suo seno
combattevano l'antica religione dell'impero; religione falsa,
religione ridicola, non vi è dubbio, ma sotto cui Roma
aveva camminato di vittoria in vittoria per dieci secoli (63)».
A
queste parole come non si riconoscerà il terribile effetto
dell'educazione classica, che, dimostrando sotto una falsa religione
la più splendida civiltà fa dire al giovane: Che giova il
cristianesimo alla societa?
Voltaire
continua: «Quando dalla storia dell'impero romano si passa a quella
dei popoli che l'hanno straziato, sembra di essere un viaggiatore che
uscendo da una superba città, si trova in deserti coperti di rovi.
L'umano intelletto abbrutisce nelle più vili e nelle più stolte
superstizioni. L'Europa intera giace nella, dappocaggine sino al XVI
secolo (64)»
Quante
le parole, altrettante le menzogne. Magnifico era veramente quel
romano impero, dove, sovranamente regnava il diritto brutale della
forza, e dove tre quarti del genere umano era schiavo! Non erano né
vili, né stolte le superstizioni romane; i misteri della dea Bona,
le feste di Priapo, i combattimenti dei gladiatori! Non era imbrutito
l'umano intelletto che nei sapienti stessi, riusciva al nulla del
pensiero! Per verità Voltaire aveva veduto l'antichità sotto le
splendide esteriori apparenze che si fanno ammirare in collegio; e
non aveva avuto agio o non si era curato punto di rifare la propria
educazione.
Continuando
il suo viaggio attraverso i secoli, aggiunge: «Nel XIII secolo
dall’ignoranza selvaggia si passa all'ignoranza scolastica,
peggiore della più vergognosa ignoranza (65)». S. Bernardo, un
selvaggio! San Luigi, san Tomaso peggiori dei selvaggi! La cattedrale
di Chartrés, la Santa Cappella opere di selvaggi! «montagne di
edifizii del medioevo che una curiosità rozza e priva di buon
gusto avidamente ricerca! (66)
A
giudizio dell'alunno della bella antichità, il linguaggio non è
meno barbaro delle opere. Voltaire ne giudica come se ne giudica nei
collegi e dice: San Bernardo ed Abelardo nel dodicesimo secolo,
avrebbero potuto essere tenuti in conto di alti intelletti; ma
il loro linguaggio era un gergo barbaro e pagarono in latino
il tributo al cattivo gusto del loro tempo. La rima a cui si
contorcevano, quegl'inni latini del XII e del XIII secolo, è il
suggello della barbarie» (67).
Il
Verbum supernum prodiens, e il Lauda Sion sono il tipo
della barbarie? perché? Perché non sono in versi del secolo di
Augusto. «Non era in tal modo, esclama Voltaire, che Orazio
cantava i giuochi secolari (68)».
Il
che vuol dire: l'antichità non versificava in questa maniera:
l'antichità sola sapeva verseggiare: e chiunque non verseggia come
lei è un barbaro, corre mi hanno insegnato in collegio. La stessa
erronea, opinione ha fatto riguardare per tre secoli la Santa
Cappella come un monumento barbaro.
Dopo
aver giudicato col regolo pagano la lingua, gli uomini, le
istituzioni del medioevo, non resta a Voltaire per compiere l'opera,
che di giudicare la scienza che dominava quella grande età. Ei se ne
sbriga in due parole: «La teologia scolastica, egli
dice, offese maggiormente la ragione ed i buoni studi, di quello
che non avessero fatto gli Unni ed i Vandali (69)».
Quando
dunque ed in qual modo il mondo cristiano uscirà dalla barbarie?
Allorché il sole dell’antichità pagana sorgerà sull'Occidente,
ed allorché alla gioventù si faranno studiare i buoni autori romani
(70). Voltaire saluta con entusiasmo quel giorno di rigenerazione ed
esclama: «Che cosa si sapeva in Germania, in Francia, in
Inghilterra, in Ispagna e nella Lombardia settentrionale? Le
costumanze barbare
e feudali,
tanto incerte quanto tumultuose, i duelli, i tornei, la teologia
scolastica e i sortilegi. Migliaia di scolari si rimpinzavano il capo
di chimere e frequentavano sino all'età di quarant'anni le scuole
dove venivano insegnate. Coloro, che, nati con prepotente ingegno,
coltivato dalla
lettura dei buoni autori romani,
avevano sfuggito le tenebre di quell'erudizione, dopo Dante e
Petrarca, erano in piccolissimo
numero.
«Fu
veramente mirabil cosa il vedere Lorenzo de' Medici, il padre
delle muse, il padre della patria, resistere al papa,
coltivare le belle lettere, dar al popolo spettacoli e accogliere
tutti i dotti greci di Costantinopoli. Allora Firenze fu veramente
comparabile all'antica Atene» (71).
Da
quel glorioso tempo, il mondo rinasce, rifioriscono le arti, il
libero pensare di Atene e di Roma ripiglia il suo impero; le
pregiudicate opinioni spariscono con le tenebre della superstizione:
direbbesi che un Dio è disceso nuovamente sulla terra per
rigenerarla. «La musica, dice Voltaire, non fu coltivata per bene se
non dopo il secolo XVI... La vera filosofia non cominciò a
risplendere agli uomini che nello stesso periodo di tempo … I
Sofocli, i Demosteni, i Ciceroni ed i Virgilii (rimessi in onore)
sono i precettori di tutte le età... Per le belle arti non ci ha che
quattro secoli: conviene esser pazzo per dire che cotali arti
hanno danneggiato i costumi (72)». Il teatro in cui trionfano
tutte le passioni, la musica voluttuosa, la pittura del nudo, la
scultura del nudo; nulla di tutto ciò, secondo Voltaire, ha
danneggiato i costumi!
Questo
sì casto Risorgimento, Voltaire lo contempla con amore, come un
figlio la propria madre; con orgoglio lo confronta coi secoli barbari
che lo hanno preceduto; e dice: «La Francia, sotto Francesco I,
cominciava ad uscire dalla barbarie. Vuolsi confessare che non
ostante la favorevole inclinazione di questo principe verso le arti,
tutto era barbaro in Francia, come tutto era piccolo a paragone
dei Romani. Prima di quel tempo non ci aveva un uomo in Francia, che
sapesse leggere i caratteri greci (73)».
Nel
XVI secolo i teisti o deicoli, più ligi a Platone che a Gesù
Cristo, più filosofi che cristiani, rigettarono
temerariamente (74) la divina rivelazione, di cui gli uomini
avevano abusato troppo, e l'autorità ecclesiastica di cui si era
abusato ancor più. Erano essi sparsi per tutta Europa, e si sono
moltiplicati in numero prodigioso. Questa è la sola religione sulla
terra che sia stata più plausibile. Composta originariamente dai
filosofi che hanno tutti forviato in modo uniforme (75),
passando poscia nella classe media di coloro che vivono:in modica ma
agiata fortuna, è salita in appresso ai grandi di tutti i paesi,
e rare volte è discesa al popolo» (76).
Ecco
la vera genealogia del razionalismo o del libero pensare: nato da
Platone, rimesso in onore dal Risorgimento, apprendendosi dapprima ai
filosofi, poi alle classi mediane, finalmente alle classi alte,
diventò finalmente la religione delle generazioni di collegio in
tutta Europa.
Intanto
il libero pensare non tarda a produrre, nei tempi moderni, gli stessi
effetti che produsse nell'antichità pagana. Al tempo medesimo,
continua Voltaire, un funesto ateismo che è il contrario del teismo,
nacque in quasi tutta l’Europa dalle scissure teologiche. Si
vuole che allora ci avesse più atei in Italia che non
altrove. Questa specie di ateismo osò mostrarsi quasi apertamente
in Italia verso il XVI secolo». (77)
Voltaire,
da figlio amoroso ben si guarda dall’accusare il Risorgimento
d'avere generato l'ateismo. Al suo solito ne dà carico alla teologia
scolastica; come se non vi fossero state scissure teologiche prima
del Risorgimento senza che abbiano prodotto atei! come se l'Italia
del sedicesimo secolo, dove vi aveva il maggior numero d'atei, non
fosse stata più che il rimanente d'Europa scevra di scissure
teologiche! Ma alcune linee più giù, Voltaire dà una mentita a sé
stesso, e ci fa sapere che l'usare con gli autori pagani, maestri di
deismo e di ateismo, ha fatto nascere i deisti e gli atei: ciò non
ostante ei non biasima la cosa.
«Quanto
ai filosofi, egli dice, che negano l’esistenza d’un Ente
supremo o non ammettono che un Dio indifferente alle azioni
degli uomini il quale non punisce il delitto che mediante le sue
naturali conseguenze, il timore ed il rimorso; quanto agli scettici
che, lasciando in disparte queste inestricabili questioni e
perciò indifferenti, si sono limitati ad insegnare una morale
naturale, essi sono stati assai comuni nella Grecia, in Roma, e
cominciano a divenirlo fra noi, ma questi filosofi non sono
pericolosi» (78).
Aggiungiamo
che il carattere dominante del Saggio sui costumi è, come
nell'antichità pagana, l'apoteosi dell’uomo. Per Voltaire, la
Provvidenza non è nulla negli avvenimenti di questo mondo: l'uomo fa
tutto, con le sue buone o cattive qualità decide di tutto. Signore
assoluto ed indipendente, tra Dio e lui non ci ha che un vincolo così
debole che Condorcet apertamente diceva: «La storia di Voltaire, ha
quest'altro vantaggio che può essere insegnata in Inghilterra, come
in Russia, nella Virginia come a Berna e a Venezia. Ei non vi ha
posto che quelle verità nelle quali tutti i governi possono
convenire: Si lasci all'umana ragione il diritto d'illuminarsi: il
cittadino goda della sua naturale libertà, e la religione sia
tollerante» (79).
Quello
che Voltaire trova inesplicabile nella storia, lo spiega non mediante
la Provvidenza, ma mediante il destino; come appunto facevano
gli antichi.
Parlando
della grandezza e del decadimento dei Romani, dice: «Non vi è
visibilmente un destino per cui gli Stati augumentano e
ruinano? Chi avesse predetto ad Augusto che un giorno il campidoglio
sarebbe occupato da un sacerdote tratto dalla religione giudaica, lo
avrebbe reso attonito. E perché cotesto sacerdote si è impossessato
finalmente della città degli Scipioni e dei Cesari? Perché la
trovò nell'anarchia: ed egli se ne insignorì quasi senza uno sforzo
(80)».
Questa
maniera di scrivere la storia, divenuta sì comune dopo il
Risorgimento, a quale scuola Voltaire l'ha imparata? Forse studiando
la Scrittura, i Padri della Chiesa, Vincenzo di Beauvais, o la Città
di Dio di Sant'Agostino?
____________
CAPITOLO
VI.
VOLTAIRE
(Continuazione).
Il
secolo di Luigi XIV. - Continua diffamazione del cristianesimo. -
Continue lodi dell'antichità pagana. - Voltaire spinge al cesarismo,
al libero pensare degli antichi filosofi. - Effetti del libero
pensare. - Costumi del secolo di Luigi XIV. - Camera dei veleni. -
Voltaire giudica l'eloquenza, la filosofia, la religione sul regolo
dei modelli classici. - Esorta di ritornare alla religione dei grandi
uomini dell'antichità. - La mette in pratica. - Le procura molti
proseliti. - Progetto di Maupertuis.
***
Non
altrimenti del Saggio sui costumi, il Secolo di Luigi XIV
può riepilogarsi in due parole: diffamazione continua del
cristianesimo e dei secoli di fede; lodi continue della, classica
antichità riprodotta splendidamente nel secolo di Luigi XIV, il
quale, per questo titolo, viene da Voltaire encomiato.
L'autore,
eco fedele, della propria educazione, non vede nulla di grande in
eloquenza, in poesia, in arte, in sociali istituzioni, in civiltà,
in filosofia se non i secoli in cui regnò il paganesimo: secoli
antichi in cui regnava da assoluto sovrano: secoli moderni in cui ha
regnato pel suo spirito e per l'imitazione delle sue opere. Tutti gli
altri secoli con le loro arti, con la loro eloquenza, con la loro
filosofia, con le loro istituzioni, con i loro grandi uomini non
contano nulla, o non contano che fra le vergogne del genere umano.
Chiunque
pensa, egli dice, e, ciò che è ancora più raro, chiunque ha
buon gusto non annovera che quattro secoli nella storia del
mondo.
Queste
quattro felici età sono quelle in cui sono state perfezionate
le arti, e che servendo d'epoca alla grandezza dello spirito umano
sono d'esempio alla posterità.
«Il
primo di questi secoli veramente gloriosi è quello di Filippo e
d'Alessandro, o quello di Pericle, di Demostene, di Platone,
d'Aristotele, di Apelle, di Fidia, di Prassitele: e quest’onore è
stato rinchiuso nei confini della Grecia. Il resto della terra allora
conosciuta era barbaro (81).
«La
seconda età è quella di Cesare e d'Augusto, designata, ancora dai
nomi di Lucrezio, di Cicerone, di Tito Livio, di Virgilio, d’Orazio,
di Varrone e di Vitruvio.
«La
terza età è quella che seguì la conquista di Costantinopoli fatta
da Maometto II. Fu veduta allora in Italia una famiglia di semplici
cittadini far quello che far dovevano i re dell’Europa. I Medici
chiamarono a Firenze i dotti che i Turchi scacciavano dalla Grecia:
era il tempo della gloria dell'Italia. Le arti, trasferite sempre
dalla Grecia in Italia, si trovavano in un terreno favorevole, dove
subitamente producevano frutto.
«La
quarta è quella che nomasi secolo di Luigi il Grande. Tutte le arti,
per vero, non sono state portate, più oltre che al tempo dei Medici,
di Augusto, di Alessandro; ma l’umana ragione in generale si è
perfezionata. La sana filosofia non è stata conosciuta che in
questo tempo. Così, per novecento anni, il genio dei
Francesi è stato sempre angustiato sotto un gotico governo
(82)».
Ora,
il più prezioso vantaggio della sana filosofia, nata dal
Risorgimento e sviluppata nel secolo di Luigi XIV è di sospingere i
re al Cesarismo in maniera da riprodurre il tipo immortale degli
Augusti di Roma. Voltaire si chiarì altamente seguace di questa
filosofia, la quale abbassando qualunque autorità anche spirituale
davanti la regia autorità, e attraendo tutte le libertà al profitto
del dispotismo, conduce le moderne società nella via delle
rivoluzioni e delle catastrofi ognor rinascenti.
Parlando
della religione e del clero, ei dice: «Dar giuramento ad un altro
che non sia il proprio sovrano è un delitto di lesa maestà in un
laico; e, nel prete è atto di religione. La difficoltà di sapere
sino a qual punto si deve obbedire a questo sovrano straniero,
la facilità di lasciarsi sedurre, hanno troppo spesso condotto
interi ordini di religiosi a servir Roma contro la loro patria.
Lo spirito illuminato che regna in Francia da un secolo, e che
si è diffuso in quasi tutte le condizioni, è il migliore rimedio a
tale abuso. I buoni libri scritti su questo subietto sono veri
servigi resi ai re ed ai popoli; ed uno dei più
grandi mutamenti che si siano fatti nei nostri costumi sotto Luigi
XIV, è la persuasione in cui sembrano esser venuti i religiosi
stessi ch'ei sono sudditi del re prima di essere i servitori
del papa. Non si credesse che i sovrani ne avessero obbligazione ai
filosofi. È vero per altro che questo spirito filosofico, che
si è insinuato in tutte le condizioni, ad eccezione del basso
popolo, ha giovato assai a far valere i diritti dei sovrani.
Se si dice che i popoli sarebbero felici quando avessero filosofi per
re, è però verissimo che i re sono più felici quando vi ha molti
filosofi tra i loro sudditi (83)». Insistendo poi sulla necessità
di ritornare al Cesarismo antico, ei dice in moltissimi luoghi del
suo epistolario: «Non si era punto sospettato che la causa dei re
fosse quella dei filosofi: è evidente però che quei saggi i
quali non ammettono due potestà sono i primi sostegni
dell’autorità regia».
Voltaire
in altro luogo si lagna degli scarsi avanzamenti fatti dalla
filosofia. La pittura ch'ei fa dei costumi delle classi letterate del
secolo di Luigi XIV (84) prova però che il figlio primogenito del
Risorgimento, il libero pensare, esercitava già un impero atto ad
appagare i più difficili. Ei dice: «Intanto che madama della
Vallière e madama di Montespan si contendevano il primo posto nel
cuore del re, tutta la corte era occupata d'intrighi amorosi. Lo
stesso Louvois faceva il sentimentale». (85)
E
noi diremo: Intanto che il libero pensierp indeboliva negli
intelletti le verità della fede, i cuori si abbandonavano senza
ritegno alle loro prave inclinazioni. Sui teatri della corte e dei
principi si rappresentavano di continuo gli amori degli dèi
dell’Olimpo e degli eroi dell'antichità: nella condotta della vita
si praticavano gl'insegnamenti del teatro. Così si faceva a Roma, ad
Atene, a Firenze, nei bei secoli di Augusto, di Pericle e dei Medici.
Quegli intrighi di cui parla Voltaire produssero i vergognosi e
funesti effetti che in tutti i tempi produsse la più violenta e la
più crudele delle passioni. «Allora, egli dice, incominciò ad
essere comune in Francia l'avvelenamento. Questo delitto, per
singolare fatalità (86) infestò la Francia nei tempi della
gloria e dei diletti che raddolciscono i costumi, come s’insinuò
nell’antica Roma, nei più bei tempi della Repubblica (87).
Dopo
aver citato una lunga nota di grandi e di letterati inquisiti per
questo delitto, aggiunge: «Prima fonte di quelle orribili avventure
fu l’amore (88). Questo delitto diventò tanto comune, che fu
d'uopo istituire un tribunale speciale per giudicarne, il quale si
chiamò la camera dei veleni» (89).
In
Voltaire, il gusto, il giudizio, il modo d'estimare le cose più
semplici e più importanti non hanno altra regola che i principi
della sua classica educazione: rechiamone qualche altro esempio. A
proposito dell'eloquenza del pulpito, egli dice: «Sarebbe forse
desiderabile che si sbandisse l’usanza di predicare sopra un testo.
Infatti, parlare lungamente sopra una citazione d’una o di due
linee, affaticarsi a misurare tutto il discorso sopra quella linea
sembra un giuoco poco degno della gravità di quel ministero. Il
testo diventa una specie di divisa o piuttosto di enigma cui il
discorso svolge (90)».
L'usanza
moderna di predicare sopra un testo isolato è sconosciuta dai santi
Padri. Venuto il Risorgimento, si prese per modello del discorso
cristiano l’orazione ciceroniana. L’omelia fu disdegnata dai
solenni oratori. Troppo spesso il pulpito è diventato una
tribuna, e la parola di Dio la parola dell'uomo. Tuttavia per
conservare al discorso un’impronta religiosa si è ritenuto il
testo, il quale, secondo l'osservazione di Voltaire non è più altro
che una specie di divisa o d'enimma. Tale osservazione ci sembra
giusta; ma è strana la ragione che Voltaire adduce del suo biasimo.
Invece di dire: I Padri della Chiesa non facevano in tal modo, ei
dice: «I Greci ed i Romani non conobbero mai tale usanza
(91)! È probabile adunque che se Greci e Romani l'avessero
conosciuta, Voltaire l'avrebbe approvata.
Se
gli antichi sono i maestri - dell'eloquenza, lo sono anche della
filosofia. Per Voltaire, i filosofi cristiani non sono mai esistiti.
Sant'Agostino, sant'Anselmo, lo stesso san Tomaso non esistono. Da
Platone, dice egli, sino a Locke non ci ha nulla: niuno in
questo intervallo di tempo ha spiegato le operazioni dell'anima
nostra. (92)
Per
l'eloquenza adunque e per la filosofia aneliamo a cercare i nostri
modelli nella classica antichità. Non basta: essa debbe esserci
regola anche in materia di religione: «È orribile, dice Voltaire,
che la Chiesa cristiana sia sempre stata straziata da contese, e che
per mano di coloro che portavano il Dio della pace si sia per tanti
secoli fatto sgorgare il sangue umano: questo furore fu
sconosciuto al paganesimo. La religione dei pagani non consisteva
che nella morale e nelle feste. La morale che è comune agli uomini
di tutti i tempi e di tutti i luoghi, e le feste che si risolvevano
in tripudi, non potevano turbare il genere umano. Lo spirito
dommatico portò negli uomini il furore delle guerre di
religione» (93). La conclusione è evidente: il paganesimo é più
favorevole alla felicità del genere umano ed alla pace delle nazioni
che non il cristianesimo. La rivoluzione, figlia di Voltaire,
contenderà di mettere in pratica gli oracoli del proprio padre.
Infrattanto Voltaire che non osa, come Quinto Nauzio, di predicare
apertamente il ritorno al politeismo, invita le nazioni a scuotere il
giogo del Vangelo e ad abbracciare la religione della natura.
Tale è lo scopo del poema sulla legge naturale. Quest'opera
altro non è che la professione d'un deismo vago, senza positiva
autorità, senza reale influenza sulla condotta, e tutto somigliante
a quello dei filosofi pagani, di Cicerone, di Virgilio, d'Orazio,
maestri tutti, ammirati da Voltaire. Oltre a ciò essa è un editto
di persecuzione contro ogni religione positiva, «stantechè, dice
Condorcet, non vi si parla di religione che per combattere
l'intolleranza. Quest'opera the trent'anni dappoi parve un libro
quasi religioso, fu fatta bruciare per ordine del Parlamento di
Parigi, il quale incominciava a spaventarsi dei progressi della
ragione» (94).
Ora
la religione della natura, o più veramente il paganesimo filosofico
cantato da Voltaire, non consiste soltanto nell'apoteosi della
ragione, ma anche nell'apoteosi della carne. Voltaire, discepolo
fedele dei suoi maestri, dopo avere deificato l'orgoglio, deifica i
sensi cantando la voluttà. Le sue poesie leggere, i suoi
Racconti, Candido, la Pulcella, resteranno come
svergognati monumenti del culto reso da questo capo dei letterati al
più abbietto sensualismo.
Per
dar poi maggior autorità alle sue parole, Voltaire mette in pratica
quanto insegna. La sua vita non è che una lunga adorazione di
Venere. Non vogliamo contaminare la nostra penna narrando quella
serie non interrotta d'infamie, le quali incominciano al suo uscir di
collegio e si prolungano sino alla sua decrepitezza (95). Basti
l'indicare soltanto in qual maniera Voltaire ed i suoi amici
praticavano la legge naturale. Dopo di aver detto che, ad
imitazione d'Orazio, si cenava dal re di Prussia in una sala
in cui erano dipinte le più abominevoli impudicizie pagane, Voltaire
aggiunge: «Un sopravvenuto che ci avesse ascoltato, vedendo quelle
pitture, avrebbe creduto di udire i sette savi della Grecia in
bordello. In nessun luogo del mondo si parlò mai con tanta
libertà di tutte le superstizioni degli uomini, e mai non
furono esse trattate con maggiori motteggi e disprezzo. Iddio era
rispettato; ma non andavano perdonati coloro tutti che in nome
suo avevano gabbato gli uomini.... Nel palazzo non entrarono
mai né donne né preti; Federico viveva senza corte, senza
consiglio e senza culto». (96)
Voltaire
non usciva dal tempio di Priapo che per entrare in quello di Guido o
di Lesbo. Una delle molte sue amanti, la famosa marchesa del
Chàtelet, praticava con lui la religione della natura, a cui
i suoi studi i classici l'avevano mirabilmente disposta. «Conosceva
il latino, dice Voltaire, come Dacier: sapeva a memoria i più bei
brani d'Orazio, di Virgilio e di Lucrezio: a lei erano famigliari
tutte le opere filosofiche di Cicerone. Non era contenta della storia
universale di Bossuet; ed era indignata ch’essa quasi interamente
vertesse sopra una nazione, così spregevole come quella dei Giudei
(97)». Meno male se quella storia non avesse riguardato che i Greci
i Romani!
Dopo
di aver cantato i due dommi fondamentali del politeismo, Voltaire si
dichiara apertamente discepolo di questa religione. Alla fine di un
dialogo della più ributtante empietà, fa la sua professione di fede
in queste parole: Io sono della religione di tutti gli uomini,
di quella di Socrate, di Platone, d'Aristotele, di Cicerone, di
Catone, di Tito, di Traiano, d’Antonino, di Marco Aurelio, di Gesù
… Detesto l'infame superstizione, e aderirò alla vera
religione sino all'ultimo sospiro di mia vita». (98)
La
religione della bella antichità, cantata, professata., praticata la
Voltaire non stette guari a far numerosi proseliti nelle classi
letterate. «Voltaire dice la Harpe; vide succedere a coloro che,
nudriti nei pregiudizi, avevano reietto la verità, una
nuova generazione la quale non chiedeva che di riceverla, che
cresceva istruendosi negli scritti di lui. Non vide, è vero,
sparire interamente gli avanzi vergognosi della barbarie che
tanto ci ha rinfacciato, ma almeno vide assalirli da tutte parti,
e dovette sperarne con noi l'annichilamento». (99)
L’entusiasmo
di quei giovani filosofi di collegio per l'antichità pagana andava
sino alla follia. Uno dei più conosciuti, il presidente
dell’Accademia di Berlino, Maupertuis, aveva il progetto di fondare
una città latina (100).
____________
CAPITOLO
VII.
VOLTAIRE
(Continuazione).
Sue
opere teatrali.- Deprimono il cristianesimo ed esaltano il
paganesimo. Tragedia di Bruto Primo. - Tragedia di Bruto
Secondo, o la Morte di Cesare. - Glorificazione dello spirito
repubblicano e dell'assassinio politico. - Tragedia di Maometto;
violento assalto contro il cristianesimo. - Lettera di Voltaire a
Federico.
***
Demolire
il cristianesimo e sostituire ai suoi dommi ed ai suoi precetti le
utopie pagane della religione naturale, della morale filosofica, ecco
quello che ha fatto Voltaire nelle sue opere in prosa. Demolire il
monarcato col dichiarar la guerra al dispotismo, col preconizzare le
istituzioni della Grecia e di Roma, per esaltare i sentimenti
repubblicani, ecco quello che fa soprattutto nelle principali sue
produzioni teatrali. Egli, svolgendo questi funesti principi tanto
accarezzati dal Risorgimento, sì frequentemente preconizzati nei
collegi, ha dato l'urto al suo secolo ed ha guidato il trionfo della
libertà rivoluzionaria. Più ardito dei risorgenti del
sedicesimo secolo, meno inoltrato dei demagoghi del 1793 ha
egregiamente continuato l'opera di quelli e preparato l'opera di
questi. «Se Voltaire, dice Condorcet nelle prime sue opere
filosofiche avesse posto i principi del vecchio Bruto, né
Montesquieu, né Rousseau avrebbero potuto scrivere le opere loro
(101)».
Abbiamo
detto che Voltaire ebbe continuato l'opera dei risorgenti.
Infatti aveva avuto sulla scena illustri d predecessori, i quali
presentando all'ammirazione dei Francesi i Greci ed i Romani, avevano
potentemente sviluppato negli animi il disprezzo dell'ordine sociale
esistente e l'ammirazione per gli uomini per le istituzioni della
classica antichità. «Quale relazione, chiede la Harpe, ci ha mai
tra la nazione francese, anche del tempo di Corneille e il genio di
questo scrittore? Non si è forse detto, con molta aggiustatezza che
pareva che Corneille fosse nato romano e che avesse scritto a
Roma? ... E più verisimile che Racine non abbia scritto che per
la corte di Luigi XIV, Racine, nutrito della lettura degli
antichi, idolatra dei Greci, educato evidentemente da essi,
innamorato di Euripide e di Sofocle, come Corneille lo era di Lucano
e di Seneca»? (102)
Entrando
nella via aperta da Racine e da Corneille, Voltaire, nel 1730 produce
la tragedia Bruto Primo. «Dopo Cinna, dice Condorcet,
il nostro teatro non aveva più ripercorso i fieri accenti della
libertà. I diritti d'un popolo oppresso non erano mai stati
esposti con più di forza, di eloquenza e di precisione che nella
seconda scena del Bruto» (103). Palissot aggiunge:
«Nonostante le stupende bellezze della tragedia di Bruto, non
ottenne, nella sua novità, tutto quel buon successo che meritava; la
nazione non era ancora matura per un'opera siffatta. Conveniva
che la Francia diventasse libera per sollevarsi al pari di quella
tragedia: laonde fu accolta con entusiasmo quando fu rimessa in
teatro lo scorso anno» (1791) (104).
La
tragedia di Bruto è piena di massime tutte atte le une più delle
altre a rinfocolare l'odio contro i re ed il fanatismo del pugnale; i
quali sentimenti la rivoluzione professava di adorare, e la cui
espressione dava segno d'intendere sempre con fragorosi applausi.
Sterminatori
dei tiranni: in regi
Voi
non avete che gli
dèi
di Numa,
Le
patrie leggi e le virtudi vostre.
…
Dei
re s’avvezzi l'assoluto orgoglio
Trattar
da uguale il popolare governo.
…
E
poich’egli (Tarquinio) osa infrangere di Roma
Le
sacre leggi, obbedienza a lui
Più
non dee Roma, éd ei solo è ribelle.
…
Nulla
ai tiranni omai qui resti, tranne
L'odio
di Roma e de' celesti l'ira!
Pei
letterati di collegio, Luigi XVI era inevitabilmente Tarquinio: e
poiché l'ebbero scoperto infedele alla nazione, lo mandano al
patibolo. «Tarquinio ribelle a Roma, dice Palissot, un re ribelle
alla nazione, era una espressione di alto intelletto nel soggetto. di
Bruto; ma la Francia era allora ben lontana dal sentirne la bellezza
e la convenevolezza ». (105) Voltaire però ve la apparecchiava come
anch'egli eravi stato preparato dai suoi studi di collegio.
Dopo
aver glorificato Bruto Primo che uccide i suoi propri figli,
glorifica Bruto Secondo, che uccide il proprio padre per amore della
libertà: a Bruto succede la Morte di Cesare (106).
Nella Prefazione, indirizzata a Bolingbroke, lo stesso Voltaire
rivela i sentimenti demagogici che l’hanno animato nel comporre
quella tragedia. Parlando d'una rappresentazione della tragedia
inglese di Shakspeare, il Bruto, si esprime in queste parole: «Con
qual estasi non vedeva io Bruto, stringere il pugnale ancor
tinto del sangue di Cesare, assembrare il popolo Romano; e parlargli
così qall'alto dei rostri: «Romani, se v'ha alcuno di voi che abbia
amato Cesare, sappia che Bruto non lo amava meno! Sì, lo amava, o
Romani; e se mi chiedete perché io ne abbia sparso il sangue, vi
risponderò che amavo Roma assai più. (107)»
Ecco
quello che Voltaire vede, quello che ode con estasi. E dove aveva
egli preso quel fanatismo repubblicano che, sotto colore di libertà,
non inorridisce a nessun misfatto? Per comunicarlo agli altri,
Voltaire fa ammirare, nella Morte di Cesare, un figlio che per
amore della libertà trucida di sua mano, in pieno senato; il proprio
benefattore; il proprio padre. E Saint-Just, grande ammiratore di
Bruto e di Voltaire, nel processo di Luigi XVI, dirà: «Il miglior
modo di giudicare un tiranno ed il più sbrigativo è quello di Bruto
che uccise Cesare senz'altra formalità che di ventitrè colpi di
coltello».
Di
fronte a questa breve analisi; i versi più repubblicani sono pure la
sbiadita cosa! Alleghiamone però alcuni:
Siete
Romani; e un re chiedete? oh quale Romano avvi sì vil che voglia un
rege? Bruto, tu dormi, e Roma è in ceppi ...
…
No,
non sei Bruto! Oh la crudel rampogna!
Cesare
trema; ecco, tiranno, il colpo
Che
ti dà morte …
…
No
non se' Bruto! - Il sono ed esser voglio.
…
La
vita abbiamo a vil: in abominio
Cesare
abbiamo, e amiam la patria: tutti
Vendicarla
giuriamo: e Bruto e Cassio
D'ogni
Romano infiamman le virtudi.
…
… Repubblica
verace
Padre
non ha, né figli altri che i Numi,
La
virtude, le leggi e il Patria suolo.
…
Bello
è 'l morir in tanto alto disegno!
Bello
il veder sgorgare il proprio sangue
A
quel commisto de' tiranni!
…
Roma,
il senato e voi, tutti mia fede
Avete:
contro ai re l’util mi parla
Dell'universo.
Orror mi prende al duro
Dover,
ma pur lo seguo: al vostro sguardo
Abbrividisco,
ma in mia fe' rimango.
…
Cesar
fu un prode; ma virtude niuna,
Poiché
si fe' tiranno, in lui non era.
Sì,
Bruto e Cassio approviam tutti ...
…
E
poi si stupisce dei regicidi commessi in nome di Bruto e, degli
orribili giuramenti pronunciati col pugnale in mano dagli affiliati
delle società segrete!
La
Morte di Cesare, che i rivoluzionari dovevano rappresentare
sulla piazza di Luigi XV, dopo averla rappresentata in collegio ed
applaudita nei teatri pubblici, è il complemento della tragedia di
Bruto Primo. All’orribile pittura d'un popolo oppresso dai tiranni,
alla splendida pittura di libertà, era nell'ordine della ragione,
per condurre alla ribellione, il far succedere la pittura del
dispotismo; e per glorificare il regicidio, il mostrare, giusta il
detto di Condorcet, «la forza e la grandezza dei caratteri;
il senso profondo che domina nei discorsi degli assassini di Cesare.
Questi ultimi Romani occupano ed investono gli spettatori,
principalmente i giovani ancora pieni di quegli oggetti che
l'educazione ha posto sotto i loro occhi (108).
In
questa tragedia tutti i personaggi si danno del tu come eguali, e
Bruto tratta Cesare in simile maniera, nonostante che lo riconosca
per proprio padre. «Per gustare la sublime eloquenza di questa
tragedia, diceva nel 1785 il marchese di Luchet, ci vorrebbero
spettatori romani e non bellimbusti effeminati » (109). Abbiate un
po’ di pazienza, e coll’aiuto dell'educazione e del teatro,
avrete quanto prima spettatori romani che applaudiranno il Bruto,
che ne gusteranno la sublime eloquenza; che, uccideranno Cesare, e
che repubblicanamente ghigliottineranno i bellimbusti effeminati, tra
i quali figurerete anche voi, signor marchese, che scrivete simili
cose.
Nel
Bruto Voltaire ha esaltato il fanatismo della libertà: nella
Morte di Cesare ha glorificato l’odio della tirannide e l'uccisione
dei tiranni. Per mostrare poi che, scalzando il monarcato, ei non
perde di veduta il cristianesimo la cui ruina ha giurato, lo
accaneggia con inaudita violenza nel Maometto, ovvero il
Fanatismo. Questa tragedia rinfocola l'odio contro la religione,
contro i pregiudizi, contro le astuzie sacerdotali, contro i
preti, contro tutto ciò che vi è di sacro. «La forsennata rabbia
del fanatismo, gli eccessi dell'ambizione e della vendetta non sono
forse mai stati dipinti con maggior vigoria » (110). Come la Morte
di Cesare, questa tragedia fu per la prima volta rappresentata
nell’anno 1742.
«Maometto,
aggiunge Palissot, uno dei più importanti lavori di Voltaire, è una
tragedia diretta contro il fanatismo, pericolosissima fra le malattie
dello spirito umano, e principalissima fra le cagioni delle umane
sventure. E questa malattia ha prodotto i maggiori guasti
principalmente negli Stati dove domina una religione esclusiva ed
intollerante. Il Maometto si deve dunque riguardare come
un vero servigio reso alle nazioni, come un benefizio fatto al
genere umano.
«Se
l'autore lo avesse osato,
avrebbe scelto un argomento nella nostra
propria storia
che sventuratamente gliene avrebbe offerto in
gran numero.
Ma nella schiavitù in cui il dispotismo teneva incatenate tutte le
arti, l'autore fu costretto a
sviarsi apparentemente dal suo scopo per poter appunto raggiungerlo.
«Non
ostante tutte queste precauzioni, e per quanto sia stata grande la
cura adoperata dall'autore per velare il proprio intendimento, non
evitò la persecuzione. Appena rappresentata, la sua tragedia fu
denunciata come opera scandalosa ed empia» (111).
Voltaire,
usando di un'astuzia degna di lui, per evitare la persecuzione manda
la propria tragedia al pontefice Benedetto XIV, con una lettera
rispettosamente filiale. Il sommo pontefice che, alla distanza di 400
leghe, non poteva conoscere le perfide intenzioni di Voltaire, come
si conoscevano in Francia, non vede nel Maometto che una
censura dell'islamismo, e fa rispondere a Voltaire una lettera piena
di cortesia. Questi, come ben si può pensare, non manca di
prevalersene. Nel tempo medesimo scrive al re di Prussia, per
rivelargli l'intimo suo pensiero. Nella sua lettera, scritta da
Rotterdam il 20 gennaio 1742, dice a Federico, cui dedica il
Maometto: «Vostra Maestà sa quale era lo spirito che mi animava
nel comporre quest'opera. L'amore del genere umano e l’orrore dal
fanatismo, le quali virtù fatte per rimanersi sempre a lato, del
vostro trono; hanno guidato la mia penna.
«Mi
crederei bene rimunerato della mia fatica, se alcuna di quelle anime
deboli, sempre pronte a ricevere le impressioni di un furore
straniero, può ravvalorarsi contro quelle funeste seduzioni mediante
la lettura di quest'opera, e se dice a sé medesima: Perché obbedirò
io da cieco a ciechi che mi gridano: Odiate, perseguitate, ruinate
chi è tanto temerario da non essere del nostro parere nelle cose
anche indifferenti e che non intendiamo?»
Il
pubblico in Francia non s'ingannò; e la polizia proibì di
rappresentare il Maometto, il quale non ricomparve sulla scena che
dieci anni dopo.
Del
resto nel Maometto vi sono versi, dirò così, trasparenti,
che i letterati sapevano scernere meravigliosamente, e di cui
facevano altrettanti assiomi: richiamo soltanto questo, in cui il
fanatismo fa la sua professione di fede:
Sull’error
poggia il mio trionfo ognora!
______________
CAPITOLO
VIII.
VOLTAIRE
(Continuazione e fine).
Tragedia
di Merope. - Massime pericolose.- Lettera del P. Tournemine,
gesuita. - Tragedia d'Olimpia. - Essa rende popolare
l'antichità nell'aspetto religioso. - Tragedia di Catilina o Roma.
salvata. - Esaltazione dei sentimenti repubblicani. - Voltaire vuole
che anche le giovani conoscano Cicerone. - Elogio. - Si lamenta che
non si vada a veder quant'è d'uopo gli spettacoli per studiarvi i
Greci e i Romani. -Elogio completo dei Greci e dei Romani. –
Voltaire si palesa qual esso è. – Muore come ha vissuto.
***
L’alunno
del collegio di Luigi il Grande che aveva imparato dal P. Porée
l'arte di far versi (112), nel 1743 mette fuori la sua tragedia la
Merope. Preludio di questa fu l'Edippo (1724), nella
quale insegna il fatalismo, e fa dei preti e dei fedeli
altrettanti ipocriti, o bricconi:
Qual
li figura il popol vano, i preti
Nostri
non sono; lor saver consiste
Nell'ignoranza
altrui
…
Col
Bruto (1730), con la Morte di Cesare (1730), col
Maometto (1742) le cui tendenze anticristiane ed antisociali
abbiamo fatto, conoscere; per molte condanne vuoi all'esilio, vuoi
alla Bastiglia, e per una vita notoriamente scorretta, ei si palesò
quale fosse.
Nella
Merope, che si ritiene una delle sue migliori tragedie,
Voltaire spande massime con le quali scava sotto i fondamenti della
religione e del monarcato. Ora, preludendo all'eguaglianza
repubblicana della rivoluzione, assonna la nobiltà e si fa
piaggiatore dell'orgoglio plebeo: ora balestra di fronte il regio
diritto d'eredità; in altro luogo predica il suicidio; e, dopo avere
in tal modo squassato l’ordine religioso e l'ordine sociale nella
riverenza del popolo, fa un appello alla ribellione. Rechiamo alcuni
di quegli assiomi:
Fu
primo re un soldato cui la sorte
Propizia
arrise. Chi alla patria giova,
D’uopo
non ha di lungo ordine d’avi.
…
Quando
ogni cosa si è perduta, e quando
Neppur
rimane la speranza, l’obbrobrio
È
allor la vita, ed è dover la morte.
…
D'Alcide
io prole, e di catene io stretto!
…
Ben,
sè t’è in grado, d'impostura colpa
Dar
mi puoi tu; ma di natura il grido
I
tiranni sentir unqua non ponno.
…
Nel
1792 Palissot non dimentica di aggiungere: «Non vi ha alcuno che
non abbia saputo ritenere a memoria questi versi (113)».
Continuando
l'opera sua, Voltaire, ad esempio di tutti i poeti del risorgimento,
pone ogni cura in rendere popolare sul teatro l'antichità classica
nell'aspetto religioso. Dopo gli eroi e le eroine, compariscono sulla
scena francese i sacerdoti e le sacerdotesse del paganesimo:
«Olimpia, dicono le Memorie di Servières, inspirò una pietà
ed un terrore commovente. Ma di tutti i colpi di pugnale che si
danno sulla scena, niuno intenerì maggiormente della fine di
Olimpia. Magnifico era l'apparato; il rogo, disposto con arte, faceva
fremere; erano fiamme vere. L'altare su cui era Olimpia faceva
vedere tutto lo spettacolo. I sacerdoti e le sacerdotesse,
schierati discosto da lei in semicircolo, lasciavano alla principessa
tutta la libertà di precipitarvisi. Questa tragedia produsse grande
effetto.
«I
letterati accolsero con favore una produzione che rappresentava
quanto l'antichità aveva di più augusto e di più grave (114).
Non era dato che al signor di Voltaire d'introdurre sulla scena
francese alcuni riti degli antichi misteri del paganesimo con
sacerdoti e sacerdotesse nei propri loro vestimenti, e con
l'apparato del rogo che costituiva lo scioglimento del dramma»
(115).
Persuaso
dalla sua educazione che la classica antichità è tutto ciò che di
più bello c’è al mondo, Voltaire trapassa tutta la propria vita
nel paese dove è stato allevato. Da Atene si reca a Roma; poi
ritorna ad Atene per ricondursi quanto prima a Roma. Nel 1752, la
metropoli dello spirito repubblicano gli fornì un altro soggetto di
tragedia. Ciò è Catilina, ovvero Roma salvata. Lo
scopo di Voltaire in questa tragedia è di rendere popolare Cicerone,
che ha tanto ammirato in collegio come oratore, e di farne il più
grand'uomo fra i politici, il più virtuoso fra i cittadini. I
giovani non hanno bisogno dei suoi ammaestramenti, ei ben lo sa, ma
teme che le loro sorelle non conoscano abbastanza il liberatore della
Repubblica, e nella loro stima non lo collochino sopra tutto ciò che
al mondo vi è di più grande. Nella prefazione Voltaire medesimo
discorre così: «Si è avuto specialmente in mira di far
conoscere Cicerone alle giovani che frequentano gli spettacoli.
Le passate grandezze dei Romani tengono ancora attenta tutta la terra
(116); e l'Italia moderna ripone una parte della sua gloria in
discoprire alcune ruine dell'antica. Si fa vedere con riverenza la
casa già abitata da Cicerone. Il suo nome è nelle bocche, i suoi
scritti sono nelle mani di tutti. Coloro che nella loro patria
ignorano chi era alla testa dei tribunali cinquant'anni addietro,
sanno in qual tempo Cicerone era al governo di Roma» (117)
Quest'è
la più sanguinosa censura che si possa fare del sistema di studi
introdotto dal Risorgimento. Noi cristiani saremmo imbarazzati a
nominare gli apostoli, i dottori della Chiesa, i padri della moderna
società; noi, Francesi, ignoriamo persino le nostre glorie
nazionali; e sappiamo a memoria i nomi e i fatti dei pagani di Atene
e di Roma! Invece però di combattete questo mostruoso controsenso,
Voltaire vi fa plauso, e vuole renderlo eterno, compiendo, mediante
il teatro, l’opera dei collegi.
«Le
opere di questo grand'uomo, soggiunge, servivano alla nostra
educazione; ma non si sapeva sino a qual punto ne fosse
rispettabile la persona. Le cognizioni che abbiamo acquistate,
(118) ci hanno insegnato a non paragonare con lui alcuno degli
uomini che si sono occupati di governo e che hanno aspirato al vanto
di eloquenti ... Cesare era un grand'uomo; ma Cicerone era un
uomo virtuoso … Quello che in questa tragedia si è voluto
rappresentare non è tanto l’anima feroce di Catilina, quanto
l’anima generosa e nobile di Cicerone».
Ecco
in qual modo Voltaire parla dei suoi maestri: riguardo ai suoi
ripetitori ne ha egli mai parlato che per farne argomento dei
suoi sarcasmi?
Perciò
insiste che si vada a teatro dove si veggono gli antichi Greci,
l'antica Roma, l'antica Atene: e si lagna della poca assiduità con
cui si frequenta la loro scuola. «Coloro, dice egli, i quali sono
pieni dello studio di Cicerone e della Repubblica romana non sono
quelli che frequentano il teatro. Essi non imitano Cicerone che vi
era assiduo (119). È cosa strana che pretendano di essere
più gravi di lui. Gli uomini distinti che hanno coltivato le arti
non hanno ancora comunicato questo vero gusto a tutta la nazione; ed
il motivo è che siamo nati in condizioni meno felici dei Greci e
dei Romani .... Se quest'opera fa conoscere alquanto l'antica,
Roma, è tutto quello a cui si è mirato, è tutto il premio che si
aspetta (120)».
Ora,
per Voltaire, il far conoscere l'antica Roma è il glorificare i
sentimenti e gli atti d'un selvaggio spirito repubblicano, che
investendo le menti, prepareranno alla Francia i Catoni e i Bruti
della rivoluzione. Alleghiamo alcuni dei suoi versi:
Virtù
sparisce, libertà vacilla,
ma
avvi Catoni in Roma, e io spero, ancora.
…
Per
questa spada, che del sangue intrisa;
Sarà
ben tosto de' tiranni, il giuro,
Degni
Quiriti, profferite or meco
Di
perir tutti o conseguir vittoria.
…
63
La
patria è un nome senza forza: ancora
Ripeter
s'ode; ma di senso vuoto.
Oh
splendor de' Quiriti! oh conculcata
Maestade
di Roma! oh ti riscuoti
O
patria già sull’orlo della tomba!
…
Cesare
è ognor di dubbia fè. Mertate
Voi
di Cato l’amore l’alta stima.
Figlio
della sua classica educazione, e simile sempre a sé stesso Voltaire,
alla fine della sua carriera, manifestò la medesima ammirazione per
l’antichità pagana; per, le sue istituzioni, per le sue idee, per
suoi grandi uomini di cui dava saggio nell’età di dodici anni.
Tanto è vero quel detto divino: che il giovane, anche
invecchiando, camminerà per quella via nella quale si sarà messo da
principio.
«Perciò
Voltaire mandando la sua tragedia di Oreste alla duchessa del
Maine, le dice: «Il signor di Malezieu nella sua declamazione
metteva tutta l'anima dei grandi uomini di Atene. Permettetemi,
madama, che richiami qui quanto egli pensava di quel popolo
inventore, ingegnoso e sensitivo, che ha servito a cavare l'Europa
moderna dalla supina sua ignoranza... Ben egli era lontano dal
pensare come quegli uomini ridicolosamente austeri, e quei falsi
politici che biasimano ancora gli Ateniesi di essero stati troppo
sontuosi nei loro pubblici giuochi».
Loda
poscia la duchessa d'aver fatto tradurre e rappresentare l'Ifigenia
in
Tauride
d'Euripide; poscia aggiunge: «Io fui testimonio di quello spettacolo
.... E
mi abbandonai ai costumi ed alle usanze della Grecia con tanto
maggior facilità in quanto che appena non ne conosceva d'altri.
«Non
ho copiato l'Elettra di Sofocle, ma poco meno; e vi ho preso
per quanto ho potuto tutto lo spirito e tutta la sostanza. Le
feste che celebravano Egisto e Clitennestra, l'arrivo d'Oreste e di
Pilade, l’urna in cui si finge siano chiuse le ceneri di Oreste,
l'anello di Agamennone, il carattere di Elettra, quelle d'Ifisa, che
è precisamente la Crisotemi di Sofocle, e principalmente i rimorsi
di Clitennestra, tutto, è attinto dalla tragedia greca».
«Spetta
a voi, madama, di conservare le scintille che ancora rimangono fra
noi di quella luce preziosa che gli antichi ci hanno trasmessa. Di
tutto ciò siamo debitori ad essi. Niun’arte è nata fra noi,
ma la terra che produce i suoi frutti stranieri esaurisce per
stanchezza la propria fecondità; e l'antica barbarie spunterebbe
ancora non ostante la coltura. I discepoli di Atene e di Roma
diventerebbero Goti e Vandali, senza questo luminoso patrocinio delle
persone del vostro grado» (121).
Questo
brano di epistola, in cui si chiarisce tutta l'anima di Voltaire; non
è forse il più esatto riepilogo del Risorgimento e dell'educazione
di collegio che n'è scaturita? Il cristianesimo come non avvenuto
nella civiltà del mondo; l’Europa senz'arti, senza letteratura,
senza luce, sprofondata nella più rozza barbarie, sino al
Risorgimento del paganesimo letterario: le moderne nazioni esser
debitrici di tutto non agli apostoli, ai padri della Chiesa, ai
grandi intelletti del medioevo, ma ai Greci e ai Romani: la necessita
di rimanere alla loro scuola, di prenderli costantemente per modelli
di coltivarli con amore, sotto pena di ritornar Goti o vandali.
Voltaire non vedere nulla di bello e di buono che in Atene e in Roma;
sprezzare dispettosamente tutto quello che non veniva di là;
Voltaire confessare che egli, nato cristiano, in paese cristiano,
educato da gesuiti, non conoscere altri costumi ed altre usanze che
quelle della Grecia! Questa strana, questa deplorabile, questa lunga
aberrazione di un bell'intelletto ha una causa. E se questa causa non
è l'educazione di collegio, quale sarà?
Fino
all’ultimo sospiro, Voltaire rimase quale l'abbiamo veduto durante
tutta la sua carriera, dall'età di dodici anni: un'anima vuota di
cristianesimo ed ebbra di paganesimo. Al momento di comparire davanti
a Dio, risponde al parroco di San Sulpizio, che gli domanda s'ei
crede alla divinità di Gesù Cristo: Io credo che si debbano
lasciar morire le persone in pace. Nel tempo stesso si tuffa
nell'antichità pagana; ciò che restagli di forze, le impiega a
comporre la sua tragedia Irene, ben felice se, come Sofocle,
ei può, in età di ottant'anni, sollazzare ancora Atene (122).
Qual
esempio per tutti! quale avviso ai padri di famiglia! Quale lezione
per i maestri della gioventù!
_____________
CAPITOLO
IX.
ROUSSEAU.
Parte
che ha nella filosofia del sec. XVIII. - Assalisce l'ordine sociale
esistente per surrogarvi le istituzioni dell'antichità. - Rousseau
discepolo di Plutarco. - Sue parole. - Elogio del Risorgimento -
Necessità per le nazioni di attingere alle fonti antiche. - Mezzi. -
Stato di natura e governo di Lacedemone. - Analisi del Contratto
sociale. - Sistema della più mostruosa schiavitù. - Comunismo e
socialismo di Licurgo riprodotto da Rousseau
***
I
due patriarchi della filosofia del XVIII secolo sono Voltaire e
Rousseau. Distruggere l'ordine religioso e l'ordine sociale esistenti
è lo scopo comune dei loro sforzi: ma la storia o ci fa vedere che
in questa guerra insensata ciascun di loro ha la parte sua speciale.
A Voltaire, il carico di scalzare il cristianesimo; a Rousseau quello
di squassare la società. Abbiamo veduto che Voltaire era uscito di
collegio, armato di tutto punto per quest'empia lotta; l'abbiamo
veduto, figlio della sua educazione, perseguitare senza posa, nella
lunga sua carriera, il cristianesimo, in nome dei Greci e dei Romani,
dal cui spirito è animato, i cui esempi e le cui massime invoca di
continuo, e per cui professa un’ammirazione esclusiva che dura sino
alla morte.
Riguardo
a Rousseau chi l'ha formato? In quale età ha ricevuto i principi
repubblicani, di cui è apostolo instancabile? a quale scuola ha
attinto le utopie sociali, ch'egli cerca costantemente di far
prevalere per tutta la sua vita; che, lui morto, finiscono per
trionfare mediante la rivoluzione, ed anche in oggi sono il punto
d'appoggio di tutti i nemici della società? Tali sono le questioni
che ci facciamo ad esaminare.
Gian
Giacomo Rousseau, figlio di un oruiolaio di Ginevra, nacque in quella
città il 28 giugno 1721. Orbato della madre al suo nascere passò i
primi suoi anni in compagnia del padre che, col latte della nutrice,
gli lasciò suggere il latte del paganesimo. (123)
Ascoltiamo
lo stesso Rousseau: «All'età di otto anni dice egli,
Plutarco diventò la mia lettura prediletta. Il diletto che io
gustava in rileggerlo continuamente mi guarì alquanto dei
romanzi, e ben presto preferii Agesilao, Bruto, Aristide, ad
Orondate, Artamene e Giuba. Per quelle attraenti letture, e
pei colloqui che esse davano luogo tra mio padre e me si formò
quello spirito libero e repubblicano, quell'indomabile e fiera
indole, impaziente di giogo e di servitù, che mi ha tormentato per
tutto il tempo di mia vita anche nelle condizioni meno acconce a
darle carriera.
Immerso
continuamente nel pensiero di Roma e di Atene, vivendo, per così
dire, coi loro grandi uomini... mi credeva greco o romano.
Io diventava quel personaggio la cui vita leggeva. La narrazione
degli atti di fermezza o intrepidezza che mi avevano fatto
impressione, mi rendeva scintillanti gli occhi, e più forte la voce.
Un dì che raccontavo a tavola il fatto di Scevola, tutti furono
spaventati al vedermi sporgere innanzi e tener la mano sopra uno
scaldavivande per rappresentare l'azione di lui (124)»
Che,
mai si può aggiungere a questa testimonianza? Rousseau è un
discepolo di Plutarco. In età di otto anni ha ricevuto dal proprio
maestro i sentimenti repubblicani che lo hanno animato per tutta la
vita. Madama Roland si gloria essa pure di aver attinto, nell'età di
nove anni, alla medesima scuola i principi medesimi. E poi si vorrà
negare l'influenza degli autori pagani sopra la gioventù! Né
l'educazione in monastero, né le calamità pubbliche, né le private
sventure, né la prigionia, né il patibolo possono fare di madama
Roland una cristiana, né sanarla delle sue utopie repubblicane.
Similmente anche in Rousseau la prima piega resta immutabile. Nella
guisa che la quercia esce dalla ghianda, tutta la vita di Rousseau
non sarà che lo svolgimento della prima sua educazione. Sarà
religioso, senza cristianesimo, come i grandi uomini di Plutarco;
filosofo come Platone; politico come Solone; legislatore come
Licurgo, e si potrà dire di lui, essere egli uno Spartano nato
nei tempi moderni. Consultiamone gli scritti.
Ad
esempio di Voltaire, anche Rousseau comincia col fare l'elogio del
Risorgimento che è padre suo, padre dei lumi, del libero pensare, e
della moderna civiltà. «Gli è un bello e grande spettacolo,
esclama, il veder l'uomo uscire in certa guisa dal nulla mediante i
propri sforzi, dissipare, mediante i lumi della propria
ragione, le tenebre in cui la natura lo aveva inviluppato. Tutte
queste meraviglie si sono rinnovate da poche generazioni in qua.
«L’Europa
era ricaduta nella barbarie delle prime età. I popoli di questa
parte del mondo, oggidì tanto illuminata, vivevano, or fa alcuni
secoli, in uno stato peggiore che d'ignoranza … Ci voleva
una rivoluzione per ricondurre gli uomini al senso comune. Ed essa ci
venne dalla parte donde meno si sarebbe aspettata.
«Lo
stupido musulmano, il flagello perpetuo delle lettere, le fece
rinascere fra noi: La caduta del trono di Costantino portò in
Italia gli avanzi dell'antica Grecia: la Francia si arricchì, poi a
sua volta di quelle preziose spoglie. Ben presto lo scienze tennero
dietro alle lettere: all'arte di scrivere si aggiunse l'arte di
pensare: la qual gradazione sembra strana, ma pur naturalissima;
e si cominciò a sentire il principale vantaggio del commercio delle
muse, quello cioè di rendere più socievoli gli uomini (125).
Non
è forse questi, in tutta la sua schiettezza, l'alunno, della
classica antichità? Per lui il cristianesimo non è avvenuto; esso
ha lasciato cadere il mondo nella barbarie: è stato necessario il
ritorno del paganesimo per cavarnelo fuori: la moderna Europa, coi
suoi lumi, con la sua arte di scrivere, e con la sua libertà di
pensare è nata dai Greci, espulsa da Costantinopoli ed accolta in
Italia.
Per
conseguenza, Rousseau sostiene che le moderne società non hanno
altro mezzo per ringiovanire che di bere continuamente alle fonti
antiche, poiché la virtù, vitale condizione delle nazioni, è
patrimonio esclusivo dei Greci e dei Romani. «Allorché si legge la
storia antica, egli dice, si crede di essere trasportato in un altro
mondo, e fra esseri diversi da noi. Che mai hanno di comune i
Françesi, gl'Inglesi, i Russi coi Greci e coi Romani? Nulla
se non le sembianze. Le anime forti di questi sembrano agli
altri esagerazioni della storia. Come mai essi che sentono di essere
così piccoli potrebbero pensare che vi siano stati uomini
così grandi? Eppure esistettero ed erano uomini come noi. Che è
dunque che ci toglie d'essere uomini come loro? I nostri
pregiudizi, la nostra bassa filosofia, e le
passioni meschine ed interessate concentrate con l'egoismo in tutti i
cuori da istituzioni inette che il genio non dettò giammai
(126)».
Popoli
moderni, da piccoli che siete volete divenire grandi? Fatevi Greci e
Romani. Ai vostri pregiudizi, alla bassa vostra filosofia, sostituite
le loro pure credenze, la loro nobile filosofia; e le loro sagge
istituzioni prendano il luogo delle inette istituzioni vostre.
Rousseau
si affretta di giustificare quest'audace provocazione alla
distruzione dell'ordine sociale fondato dal cristianesimo.
Magnificando con lodi Licurgo e Numa, fondatori di Sparta e di Roma,
ei dice: «Tutti gli antichi legislatori cercarono vincoli che
legassero i cittadini sì alla patria e sì vicendevolmente gli uni
agli altri, e li trovarono in usanze particolari, in cerimonie
religiose, le quali di loro natura erano sempre ed esclusivamente
nazionali: nei giuochi che tenevano assai tempo radunati i cittadini;
negli esercizi che aumentavano col vigore e le forze la loro fierezza
e la stima di sé medesimi; negli spettacoli che, richiamando la
storia dei loro antenati, le loro sventure, le loro virtù, le loro
vittorie, parlavano al cuore, l'infiammavano di viva emulazione, e
fortemente li vincolavano a quella patria, di cui si tenevano
continuamente occupati.
«Cotali
vincoli trovarono anche nelle poesie d'Omero recitate ai Greci
solennemente adunati, non in un luogo chiuso, sopra tavole, e
mediante pagamento, ma all'aperto cielo, e alla nazione in corpo:
nelle tragedie di Eschilo, di Sofocle e d'Euripide alla loro presenza
rappresentate; nei premii di cui, con plauso di tutta la Grecia
s'incoronavano i vincitori, nei giuochi, i quali accendendoli
continuamente d'emulazione e di gloria, recarono il loro coraggio e
le loro virtù a quell’alto grado d'energia di cui niuna cosa
oggidì ci dà l'idea, e che i moderni non possono neppur credere
(127)».
Tutto
ciò prova vittoriosamente la nostra tesi: perché tutto ciò prova
che gli antichi legislatori avevano bene inteso che per formare dei
Greci e dei Romani devoti alla loro patria occorrevano istituzioni
greche e romane: spettacoli greci e romani per ricordare
continuamente alle giovani generazioni la storia dei loro antenati,
le loro sventure, le loro virtù, le loro vittorie: poesie greche e
romane per mantenere negli animi lo spirito nazionale, in una parola
un'educazione veramente greca e veramente romana. La conclusione è
evidente: volete formare cristiani e francesi? abbiate istituzioni,
spettacoli, poesie, educazione non già greca o romana, ma
istituzioni, spettacoli, poesie, educazione cristiana e francese.
Domandiamo noi forse altra cosa?
Come
Ovidio, Virgilio, Orazio, Cicerone e gli altri autori pagani, suoi
maestri e suoi modelli, Rousseau pone per principio delle sue
teoriche sociali l'esistenza di uno stato di natura. Questo
stato, in cui gli uomini, dispersi nei boschi, vivevano senza leggi,
senza città, senza governo; sembra a lui la perfezione dell’umanità
(128). Ivi è d’uopo risalire, secondo lui, per trovare i diritti
primitivi dell'uomo e per spiegare l'origine delle società. Per
Rousseau come per gli altri pubblicisti alunni della bella antichità,
Dio non ha a far nulla nella formazione delle società umane: esse
sono il risultamento d'un patto o d'un contratto sinallagmatico:
circolo vizioso in cui l'uomo si dà autorità sovra sé medesimo.
«Il Contratto sociale, dice Rousseau, consiste in questo, che
ciascuno di noi mette in comunione la propria persona e tutta la
propria potenza sotto la suprema direzione della volontà generale, e
riceviamo ciascun membro, come parte indivisibile del tutto (129)».
Movendo
sempre dalla sua ipotesi, o più veramente dalla sua vagheggiata
chimera, Rousseau continua a dire gravemente: «Questo passaggio
dallo stato di natura allo stato civile produce nell'uomo un
mutamento notevolissimo, sostituendo, nella sua condotta, la
giustizia all'istinto, e dando alle sue azioni la moralità che prima
vi mancava. Allora solamente succedendo all'impulso fisico la voce
del dovere, all'appetito il diritto, l'uomo che fino allora non aveva
riguardato che sé stesso, si vede costretto ad operare sopra altri
principi ed a consultare la propria ragione prima di obbedire alle
proprie inclinazioni (130)».
Dal
Contratto sociale Rousseau logicamente deduce la più
formidabile teorica della nostra età, il comunismo spartano di
Licurgo. «Ciascun membro della comunanza (dice egli), dà ad
essa, al momento che si forma sé stesso e tutte le sue forze, di
cui fanno parte i beni ch'ei possiede ... lo Stato, riguardo a questi
membri, è padrone di tutti i loro beni, in virtù del contratto
sociale... Le terre dei privati riunite e contigue diventano il
territorio pubblico, e questo diritto di sovranità, estendendosi dai
sudditi al terreno che occupano, diventa ad un tempo reale e
personale: il che mette i possessori nella massima dipendenza,
e rende le loro forze garanti di loro fedeltà: il qual vantaggio non
pare sia stato conosciuto per bene dagli antichi monarchi i quali,
non chiamandosi che re dei Persiani, degli Sciti, dei Macedoni,
pareva si riguardassero come i capi degli uomini piuttosto che come i
padroni del paese. Quelli d’oggidì più avvedutamente si chiamano
re di Francia, di Spagna, d'Inghilterra, ecc., tenendo così il
terreno sono ben certi di tenerne gli abitanti» (131).
Con
gli occhi fissi in Lacedemone, il discepolo di Plutarco continua:
«Il
diritto che ciascun privato ha sul proprio suo fondo è sempre
subordinato al diritto che la comunanza ha sopra tutti... Invece
di distruggere l'eguaglianza naturale, il patto fondamentale
sostituisce per lo contrario un'eguaglianza morale e legittima
(132), a quanto la natura aveva potuto mettere d'ineguaglianza
fisica fra gli uomini; e potendo essere ineguali o nelle forze del
corpo e dell'ingegno, diventano tutti eguali per convenzione e di
diritto. Sotto i cattivi governi quest'eguaglianza non è che
apparente ed illusoria; non serve che a mantenere il povero nella sua
miseria, ed il ricco nella sua usurpazione. Nel fatto, le
leggi sono sempre utili a coloro che possiedono e nocevoli a coloro
che non hanno nulla. Di che conseguita che lo stato sociale non è
vantaggioso agli uomini se non in quanto sono tutti qualche cosa, e
che nessuno d'essi non ha nulla di soperchio (133)».
E
stanteché non è possibile verun governo con questa eguaglianza
chimerica, ne seguita che tutti sono cattivi; che si debbono
modificare o distruggere, dando qualche cosa a quelli che non hanno
nulla, e togliendone a coloro. che n'hanno di troppo; finalmente che
la proprietà è un'usurpazione. «Il primo, dice Rousseau che,
avendo assiepato un terreno, si avvisò di dire: Questo è mio! e
trovò persone così semplici da crederlo, fu il vero fondatore della
società civile. Quanti delitti, e guerre, e uccisioni, e miserie e
orrori non avrebbe risparmiato al genere umano colui che schiantando
i termini e colmando il fosso, avesse gridato ai suoi simili:
Guardatevi dall'ascoltare quest'impostura; siete tratti a perdizione
se dimenticate che i frutti sono di tutti e che la terra non è di
nessuno! (134)
Con
queste massime spartane, che distruggono il diritto di proprietà,
che consacrano tutte le spoliazioni, e conducono difilato alla legge
agraria, mettete il mondo in combustione. Ora cotali massime di
Licurgo, interpretate da Rousseau, sono anche oggidì la spada di
Damocle spspesa sull’Europa:nuovo beneficio della nostra
ammirazione per gli antichi!
_____________________
CAPITOLO
X.
ROUSSEAU
(Continuazione).
Fa
l'apoteosi dell'uomo o del popolo nell'ordine sociale. - Gli
attribuisce l'infallibilità, la sovranità. - Questi attributi,
essendo divini, non sono comunicabili. - Il governo del popolo
governo degli dei. - Applicazione di questi principi. – Il popolo
solo proprietario dei beni - Solo proprietario delle persone. - I
figli di proprietà dello Stato.- Educazione comune ed uguale come
presso gli Spartani: - Autorità sovrana del popolo sulla religione.
- Modello fornito dall'antichità. - Il cristianesimo che ricusa di
riconoscere questa autorità, debba essere sbandito dalla società. -
Esso rompe l'unità politica. - Predica la schiavitù. - Non può far
che vili e renderci inferiori ai Greci e ai Romani
***
La
classica antichità era l'apoteosi dell'uomo nell'ordine religioso e
nell'ordine sociale. Voltaire, ammiratore di quell'antichità, fa
l’apoteosi dell'uomo nell’ordine religioso; Rousseau, nell’ordine
sociale. All'uomo e al popolo questi attribuisce l'infallibilità, la
sovranità assoluta, indivisibile ed inalienabile.
«Il
corpo politico dice egli, è un ente morale che ha una sua volontà,
e questa volontà generale è la fonte delle leggi.
Essa è per tutti i membri dello Stato la regola del giusto, e
dell’ingiusto; la qual verità, per dirlo di passaggio, mostra
con quanto buon senso tanti scrittori hanno tacciato di furto la
industria prescritta ai fanciulli di Sparta per guadagnarsi il loro
pasto frugale, come se tutto quello che ordina la legge potesse
non essere legittimo » (135)
Tutti
i timori che cotali massime sociali o più veramente antisociali
possono suscitare, vengono da Rousseau dissipati dicendo a nome del
gran Licurgo che il popolo, distruggendo qualunque superiorità
gerarchica, concilia infallibilmente la giustizia con l'eguaglianza.
La volontà generale, scrive egli, é sempre retta, e
mira sempre all'utilità pubblica: per conoscere poi perfettamente la
manifestazione della volontà generale, importa che nello stato non
vi sia società parziale, e che ciascun cittadino non opini che per
sé medesimo: tale fu l’unica e sublime istituzione del gran
Licurgo (136)».
Quando
la rivoluzione francese, figlia di Rousseau, distruggerà tutti gli
ordini dello Stato, tutte le corporazioni, tutte le franchigie
provinciali, tutte le libertà municipali per non lasciare che
individualità senza forza davanti ad un potere centrale, ci
ricorderemo allora ch'essa altro non fa che applicare alla Francia
l’unica e sublime istituzione del grande Licurgo, e benediremo
di nuovo il Risorgimento e gli studi di collegio.
Dall'infallibilità
dell’uomo rampolla, con l'inalienabilità del potere e con la
facoltà esclusiva di fare leggi, il diritto sacro di ribellione. «La
Sovranità, continua Rousseau, è inalienabile, indivisibile (137)»
Non è più necessario il domandare a chi appartenga il far leggi,
poiché esse sono atti della volontà generale, né se il
principio sia superiore alla legge, poiché egli è membro dello
Stato; né se la legge può essere ingiusta, poiché niuno è
ingiusto verso sé medesimo, né come si è libero e sottoposto alle
leggi, poiché esse non sono che registri delle nostre volontà»
(138)
Da
questi stupendi principi, la cui splendida applicazione gli occhi
suoi, abbagliati hanno veduto nella pagana antichità, Rousseau
conclude con un'esclamazione d'entusiasmo, e con una provocazione
diretta a distruggere l'ordine sociale esistente: «Se vi avesse
(così egli) un popolo di dèi, esso si governerebbe
democraticamente. Avvi tali malaugurate condizioni nelle quali non si
può conservare la propria libertà che a danno dell'altrui, ed in
cui il cittadino non può essene perfettamente libero senza che lo
schiavo estremamente schiavo: tale era la condizione di Sparta. Per
voi, popoli moderni, non avete schiavi, ma lo siete voi stessi:
con la vostra pagate la loro libertà. Avete un bel vantare quella
preferenza, nella quale io veggo più viltà che umanità
(139)».
In
altro luogo, chiaramente spiegandosi, aggilunge: «Ogni società che
non poggia sopra un patto sociale è una tirannide. Se considerassi
che la forza e il diritto che ne deriva, direi: Finché un popolo è
costretto ad obbedire ed obbedisce, fa bene: ma tosto che può
scuotere il giogo, e lo scuote, fa ancor meglio (140)».
All'esposizione dei principi succede l'applicazione.
Abbiamo
di già veduto che, nell'ordine sociale rigenerato, il cui tipo gli
ha fatto vedere Plutarco, Rousseau vuole che la proprietà del suolo
appartenga, come a Sparta, esclusivamente allo Stato. Alla proprietà
dei beni, imitando sempre Lacedemone, aggiungerà la proprietà delle
persone. Non altrimenti della società, anche la famiglia non è un
fatto divino ed indipendente; ma è lo Stato che la costituisce: i
parenti sono produttori; ed i figli, prodotti a vantaggio dello Stato
cui appartengono fino dal nascere e che solo ha il diritto
d'improntarli della sua effigie (141).
«Siccome,
dice Rousseau, non si lascia la ragione individuale di ciascun uomo
arbitra unica dei suoi doveri; tanto meno si dee abbandonare ai
lumi ed ai pregiudizi dei padri l'educazione dei loro figli, in
quanto che essa importa ancor più allo Stato che non ai padri. Che
se l’autorità pubblica, prendendo il posto dei padri, ne
acquista i diritti, adempiendone i doveri, essi hanno minor motivo di
lamentarsi, in quanto che su questo argomento non fanno che mutar
nome, poiché avranno in comune, sotto il nome cittadini, la stessa
autorità sui loro figli che esercitavano divisamente sotto il nome
di padri. L'educazione pubblica, sotto regole prescritte dal
governo, e sotto magistrati stabiliti dal sovrano è dunque una delle
massime fondamentali del governo popolare, o legittimo. Se i
figli sono educati in comune in seno dell’eguaglianza, se essi sono
imbevuti delle leggi dello Stato e delle massime della volontà
generale, punto non dubitiamo che imparino ad amarsi scambievolmente
come fratelli, a non volere mai se non quello che vuole la
società e a diventare un giorno i difensori e i padri della patria
della quale sì debitamente saranno stati figli (142)».
Oh
qual solenne mentita l'esperienza, ha dato, a queste utopie
dell'alunno di Plutarco! Quanto vi è di più deplorabile si è che
cotali massime funeste non sono disusate: da Rousseau sono passate
nei rivoluzionari, da questi si sono incarnate nelle leggi: e
ravvivate sempre dall'educazione, si mantengono in vigore in tutta
Europa, da Napoli a Lisbona. Se lo Stato ha diritto sulle proprietà
e sulle persone, a maggior ragione ha un potere sovrano sopra la
religione, la quale, nel concetto di Rousseau, non dee né può
essere, come nell'antichità, che uno strumento di regno: Presso i
Greci, il senato o l'areopago; presso i Romani, gli Imperatori
s'erano fatti sommi pontefici: erano per così dire, i zar d'allora.
Capi supremi della società e della religione: cerimonie, feste,
sacerdoti, gli stessi Iddii dipendevano dalla loro volontà. Il culto
si amministrava come ogni altra parte del pubblico servigio. Dopo
Machiavelli ed Hobbes, dei quali parleremo altrove, niuno, prima
della rivoluzione francese ha formulato questo principio pagano così
recisamente quanto il filosofo ginevrino.
«I
Romani, dice egli, col loro impero avevano esteso il loro culto ed i
loro iddii: avevano anche alcune volte adottato i numi dei popoli
vinti, concedendo agli uni e agli altri il diritto di cittadinanza:
perciò i popoli di quel vasto impero si trovarono insensibilmente
nella condizione di avere moltitudini di dèi e di culti, presso a
poco (143) eguali da per tutto: ed ecco come il paganesimo non fu
alla fine in questo che una sola e medesima religione.
«Erano
in cotale condizione le cose, allorché, Gesù venne a stabilire
sulla terra un regno spirituale: il che separando il sistema
teologico dal sistema politico, fece che lo Stato cessò d'essere uno
e cagionò le scissure intestine che non hanno mai cessato
d'agitare i popoli cristiani. Ora quest'idea nuova d'un
regno spirituale non poté mai entrare nelle teste dei pagani; e
perciò riguardarono sempre i cristiani come veri ribelli che, sotto
l'ipocrita sembianza di sommissione, non cercavano che il momento di
rendersi indipendenti e signori è di usurpare destramente l’autorità
che fingevano di rispettare nella loro debolezza. Tale fu la cagione
delle persecuzioni (144)».
La
conclusione è che il paganesimo, il quale mantiene l'unità nello
Stato, è preferibile al cristianesimo che dà motivo a continue
scissure. In nome di questo principio un discepolo di Licurgo e di
Rousseau, Quinto Auclero, chiederà formalmente il ritorno sociale al
politeismo.
«Quello
che i pagani avevano patentato, continua Rousseau, è avvenuto:
allora ogni cosa ha mutato d'aspetto: gli umili cristiani hanno
cangiato, linguaggio, e si è ben presto veduto quel preteso regno
dell'altro mondo, divenire sotto un capo visibile il più violento
dispotismo in questo. Però siccome vi è sempre stato un principe e
leggi civili, risultò da questa duplice potestà un perpetuo
conflitto di giurisdizione che ha reso impossibile ogni buona
politica negli stati cristiani: e non si è mai potuto venir al punto
di sapere a chi, se al principe o al prete si fosse in obbligo di
obbedire (145)».
Nazioni
moderne, volete spezzar il giogo del più violento dispotismo? volete
rendere possibile il regno della buona politica? Sbandite il
cristianesimo! La difficoltà consiste nel riuscirvi: Rousseau se ne
affligge e aggiunge: «Molti popoli però, anche in Europa o nelle
sue vicinanze, hanno voluto conservare o ristabilire l’antico
sistema, ma senza buon successo: lo spirito del cristianesimo ha
invaso tutto. Maometto ebbe vedute sanissime, e collegò bene
il suo sistema politico, e finché la forma del suo governo
sussistette sotto i Califfi, suoi successori, questo governo fu
costantemente uno e buono in ciò.
«Fra
noi, i re d'Inghilterra si sono eretti in capi della Chiesa;
altrettanto hanno fatto i zar; ma con questo titolo se ne sono resi
meno i padroni che i ministri. Dovunque il clero fa un corpo,
esso è padrone e legislatore nella sua patria.
«Fra
tutti gli autori cristiani, il filosofo Hobbes è il solo che abbia
veduto il male e il rimedio, che abbia osato proporre di riunire le
due teste dell'aquila, e di rimenar tutto all’unità politica,
senza la quale nessuno stato o governo non sarà mai bene costituito.
Ma ha dovuto accorgersi che lo spirito dominatore del cristianesimo
era incompatibile col suo sistema. Non è tanto quello che di
orribile e di falso vi è nella sua politica, quanto quello che vi è
di giusto e di vero che l’ha resa odiosa.
«Ci
ha una religione la quale, dando agli uomini due legislazioni, due
capi, due patrie, li sottomette a doveri contradditori ed
impedisce loro di essere ad un tempo e devoti e cittadini. Tale è la
religione dei Lama; tale quella dei giapponesi, tale il
cristianesimo romano. Esso è sì evidentemente cattivo,
che gli è un perdere tempo a dimostrarlo: tutto ciò che rompe
l'unità sociale non vale nulla (146)».
Il
cattolicismo rompe la beata unità che regnava nelle nazioni pagane,
primo motivo di escluderla dalla società. Un nuovo sguardo sul mondo
d'un tempo, tipo della perfezione, fa scoprire a Rousseau un secondo
motivo di sbandeggiare il cristianesimo dall’ordine sociale; perché
è una religione di schiavi.
«Il
cristianesimo, egli dice, è una religione tutta spirituale,
unicamente intesa alle cose del cielo: la patria del cristiano non è
di questo mondo. Purché non abbia nulla che lo rimorda, poco a lui
importa che tutto vada bene o male quaggiù. Se fra i cristiani si
trova un solo ambizioso, un Catilina, per esempio, un Cromvello,
questi se la farà assai bene coi suoi compaesani. Dal momento che
esso avrà trovato con qualche astuzia l'arte di recare a sé
l'autorità pubblica, eccolo un uomo costituito in dignità: Iddio
vuole che sia rispettato. Eccolo una potenza: Iddio vuole che sia
obbedito. Il depositario di questa potenza ne fa abuso: è la verga
con cui Dio punisce i suoi figli; e ben si guarderebbero dal cacciar
l'usurpatore (147).
In
qual teologo veramente ortodosso Rousseau ha mai trovato la
consacrazione della tirannide? Il cattolicismo è la religione della
libertà. In quella bella antichità, oggetto dell'ammirazione di
Rousseau, tre quarti parti del genere umano erano schiave: chi ne ha
infranto i ferri? Nella persona degli arconti, degli èfori, dei
cesari il più duro dispotismo pesava sul mondo: chi lo ha distrutto,
intimando ai sovrani questo nuovo dogma: che il loro potere non è
che un deposito; di cui renderanno severa ragione al Giudice comune
dei re e dei popoli? Quando poteva farlo, il paganesimo uccideva i
despoti, e camminava d'una in altra rivoluzione; il cattolicismo fa
assai meglio: impedisce che nascano; e quando la sua voce era
ascoltata, terminava i conflitti senza effusione di sangue. Anche
oggidì, se qualche despota perviene ad impossessarsi del supremo
potere, i principi di libertà deposti nel fondo delle società
cristiane lo obbligano a regnare con equità, o il suo regno non è
che passeggero. Ecco per qual motivo, dice Montesquieu il dispotismo
non ha mai potuto stabilirsi permanentemente nelle nazioni cristiane.
Ma Rousseau non s'intende punto delle dottrine sociali del
cattolicismo; Infatuato del sistema antico, vuole che i popoli
oppressi si ribellino; e, giudici e parti, che ricorrano ai soli
mezzi conosciuti a Roma e nella Grecia, alla sollevazione e al
tirannicidio: Il mondo moderno, educato come Rousseau alla scuola del
Risorgimento, da molti secoli mette in pratica le dottrine sociali
del paganesimo: e per avere risarcimento dei torti veri o supposti,
che pretende essergli fatti, impiega il pugnale degli assassini, o il
cannone delle barricate. E’ più libero con ciò?
Rousseau
trova un altro motivo di sbandire il cattolicismo dalla società,
perché, secondo lui, ci rende in ordine alla milizia, inferiori ai
Greci e ai Romani. E al cospetto degli splendidi annali militari
dell'Europa cristiana, e principalmente della Francia, il filosofo di
Ginevra osa scagliare una simile ingiuria in fronte al cristianesimo!
Ecco le sue parole: «Se sopraggiunge qualche guerra straniera, i
cristiani marciano senza difficoltà alla battaglia; fanno il proprio
dovere, ma senza passione per la vittoria: essi sanno piuttosto
morire che vincere. Pensate voi qual partito può trarre per sé un
nemico feroce, impetuoso, appassionato dal loro stoicismo! Supponete
la vostra repubblica cristiana a fronte di Sparta o di Roma; i pii
vostri cristiani, saranno rotti, sconfitti, schiacciati, sperperati
prima d'aver il tempo di riconoscersi. Era, a mio avviso, un bel
giuramento quello dei soldati di Fabio; i quali non giurarono di
morire o di vincere, ma giurarono di ritornar vincitori e mantennero
il giuramento. I cristiani non ne avrebbero mai fatto uno simile,
perché avrebbero creduto di tentar Dio.
«Ma
io mi inganno dicendo una repubblica cristiana: ciascuna di
queste parole espelle l'altra. Il cristianesimo non predica che
schiavitù e dipendenza; i veri cristiani sono fatti per essere
schiavi.
Sotto
gli imperatori pagani, i soldati cristiani erano prodi. Tutti gli
autori, cristiani l'affermano, ed io lo credo: ciò era una
emulazione d'onore. contro le soldatesche pagane. Dal momento che gli
imperatori furono cristiani, quest’emulazione più non sussistette;
e quando la croce ebbe scacciato l'aquila, tutto il valore romano
disparve (148)
Si
può egli dire in più chiare parole: Cessiamo di essere cristiani:
facciamoci, Greci o Romani, per essere prodi e liberi, com’essi?
Quali studi, quale educazione, quali autori hanno condotto Rousseau
ad una simile aberrazione?
____________________
CAPITOLO
XI.
ROUSSEAU
(Fine).
Attuazione
del sistema sociale sul modello dell’antichità. Il popolo debbe
trattare i propri affari da sé stesso. - E non con rappresentanti. -
Questa dottrina giudicata impraticabile dagli stessi rivoluzionari.-
Parole di Vergniaud e di Robert. - Disprezzo dell'ordine sociale
cristiano e del monarcato.-Ammissione di tutti i cittadini a tutti
gl'impieghi civili. - Obbligazione per tutti d'essere soldati, come
nelle antiche repubbliche. - Fine delle società rigenerate sul
modello di Sparta e di Roma. – Conclusione.
***
Escludere
il cristianesimo dalla società, e per conseguenza rovesciare,
l'ordine sociale che gli è debitore della propria esistenza, far
rivivere le politiche istituzioni delle repubbliche antiche, ecco in
brevi parole il sistema governativo di Rousseau, ed il principio
rigeneratore delle nazioni moderne. Tutte le ruote di questa
meravigliosa macchina sono congegnate e disposte nel loro ordine
rispettivo: non altro rimane che di metterle in movimento.
L'antichità classica che ha dato a Rousseau l'idea dell'opera, gli
fornisce anche i mezzi di esecuzione.
Il
popolo è sovrano, ma in qual modo eserciterà esso la propria
sovranità? Con l'occhio fisso sopra Sparta, sopra Atene e sopra
Roma, Rousseau risponde: Da sé medesimo. «Non essendo le leggi,
dice egli, che atti autentici della volontà generale, il sovrano non
può agire che quando il popolo (il sovrano) è assembrato. Il popolo
assembrato? si dirà: che chimera! È una chimera in oggi: ma non
era, or ha duemila anni. Gli uomini hanno forse mutato natura?
«I
limiti del possibile nelle cose morali sono meno ristretti di quello
che pensiamo: le nostre debolezze, i nostri vizi, i
nostri pregiudizi li ristringono Le anime basse non credono ai
grandi uomini: schiavi vili sorridono di un ghigno beffardo a quella
parola di libertà.
«Da
quello che si è fatto facciamo ragione di quello che si può
fare. Non parlerò delle antiche repubbliche della Grecia; ma
la repubblica romana era, a quanto parmi, un grande Stato, e la
città di Roma una grande città. Ciò nonostante poche settimane
passavano, che il popolo romano non fosse assembrato ed anche
più volte. Non solamente, esso esercitava diritti della sovranità;
ma una parte anche di quelli del governo, e tutto quel popolo, sulla
piazza pubblica, era così spesso magistrato come cittadino.
Dall'esistente al possibile la conseguenza mi pare legittima »
(149).
La
conseguenza è eccellente! s'affrettò a rispondere il popolo
sovrano, il popolo dei collegi formato, come Rousseau, alla scuola
dei Greci e dei Romani. La prima sua fantasia fu di assembrarsi in
comizi, in assemblee primarie, in assemblee elettorali. L'esperienza
non tardò a dimostrare che il sistema di Rousseau era impraticabile:
stantechè era impossibile di applicare ad una nazione di venticinque
milioni di uomini liberi un ordinamento fatto per alcune piccole
repubbliche come Atene o Sparta, ed anche per Roma, dove quello che
chiamavasi popolo era poco numeroso e possedeva, schiavi incaricati
delle cure e delle faccende domestiche, intanto che i cittadini
adempivano sulla piazza pubblica le funzioni di elettore o di
magistrato.
I
più grandi ammiratori di Rousseau e dell'antichità resero a
quest'utopia, soltanto ammirabile in collegio, la giustizia che
meritava: «Credete voi, diceva Vergniaud alla tribuna della
Convenzione, che quelle massime applicate soltanto dai loro autori a
Stati circoscritti in limiti angusti, come le greche repubbliche,
debbano essere rigorosamente e senza modificazione applicate alla
Repubblica francese? In tal caso, siate consentanei come Licurgo:
come lui, spartite le terre fra tutti i cittadini... Gli uomini a cui
avrete concesso titolo di cittadino non paghino più imposte. Gli
altri a cui negherete questo titolo siano tributari e sopperiscano
alle vostre spese. Facciano gli stranieri il vostro commercio;
gl'iloti coltivino le vostre terre, e fate dipendere la vostra
sussistenza dal lavoro dei vostri schiavi (150)».
Questo
per la Francia in generale .. Per parte sua poi il convenzionale
Robert, parlando in nome di Parigi di cui era deputato, si esprimeva
in questi termini: «I Romani avevano i loro schiavi: i Lacedemoni i
loro iloti. La qualità di cittadino di Roma e di Sparta era una vera
e reale aristocrazia: Oggi tutto è cangiato: il gran libro
dell'eguaglianza è aperto, e non ci ha più schiavi da quelli, in
fuori del vizio e del delitto. Se, come a Roma, non vi avesse in
Francia che alcune migliaia di cittadini, vi direi: Ordinate
frequenti adunanze dei corpi aristocratici, dei cittadini
privilegiati e avrete, fatto tutto.
«Io
non so che vogliano dire le continue declamazioni di
alcuni oratori i quali, in un territorio di ventisettemila leghe
quadrate, in uno Stato popolato da ventisei milioni di uomini
chiamano incessantemente quest'immensa moltitudine di cittadini
all'esercizio quasi quotidiano dei loro diritti.
«Ah!
per fermo era cosa agevole nelle antiche repubbliche di convocare
perpetuamente il popolo. Se fossimo cittadini romani, se avessimo
schiavi, se tutte le proprietà della Repubblica appartenessero ad
una sola classe d'uomini; se esistesse un'altra classe che facesse
tutte le bisogne domestiche, tutte le operazioni del commercio, tutte
le opere dell'agricoltura, tutti i lavori delle arti e dei mestieri,
io pure direi essere d'uopo consultare il popolo sopra tutti i negozi
pubblici; proporrei lo stabilimento del Foro in tutte le
città, in tutte le borgate, e fino nei più piccoli casali. Ma la
nostra condizione politica è poi veramente tale? Ed allorché si
propongono codeste troppo frequenti adunanze del popolo non è lo
stesso che il proporre l'abbandono del commercio e dell'agricoltura e
per conseguenza la ruina dello Stato (151)?»
Ma
Rousseau, il quale altro non vede che Sparta, e che traccia il
disegno della sua società chiuso fra le pareti del suo gabinetto,
sostiene intrepidamente il proprio sistema. Principio ed eseguimento,
tutto egli vuole nella classica sua perfezione. Non più industria,
non più commercio incompatibili con le funzioni di cittadino. Per sé
stesso, e non per mezzo dei suoi mandatari il popolo eserciterà il
proprio potere: la salute della Repubblica, si può ottenere soltanto
a questo prezzo. Se veramente è degno della libertà, il cittadino
non tituberà punto a trasandare i suoi personali interessi per
intendere alla cosa pubblica. «Tostoché, dice egli, il servigio
pubblico cessa di essere l'affare principale dei cittadini, e che
essi amano meglio di servire col loro scrigno, che non colla loro
persona, lo Stato è già vicino alla propria ruina. S'ha da andare
in battaglia? essi pagano truppe e rimangono a casa. S'ha da andare
in consiglio? nominano deputati e rimangono a casa. A forza di
pigrizia e di danaro hanno finalmente soldati per inschiavire la
patria e rappresentanti per venderla.
«La
farragine della mercatura e delle arti, l'avido interesse del lucro;
la mollezza e l'amore degli agi mutano in danaro i pubblici servigi.
Si cede una parte di lucro per aumentarlo comodamente. Date pur
danaro e ben presto avrete ferri. Questa parola finanza è una
parola da schiavo; ed è sconosciuta, nella città. In uno
stato veramente libero, i cittadini fanno tutto con le loro
braccia e nulla col danaro. Ben alieni dal pagare per esimersi
dai loro doveri, pagherebbero anzi per adempirli essi medesimi.
«L'idea dei rappresentanti è moderna: essa ci viene dal governo
feudale, da quell'iniquo ed assurdo governo nel quale la specie umana
è digradata, ed in cui il nome d’uomo è un disonore (152)».
Tale
è la lusinghiera definizione che i discepoli del Risorgimento non
mancano mai di dare del sistema governativo dei popoli cristiani del
medio evo. Con quale superbo disdegno lo paragonano allo Stato
sociale dell’antichità! Come sono mai insistenti per distaccare il
mondo da quello e ricondurlo a questo! «Nelle antiche
repubbliche, così Rousseau, il popolo non ebbe mai
rappresentanti: questa parola non si conosceva neppure (153)».
Non
solamente cittadini erano ammissibili a tutti gl'impieghi che
occupavano per sé stessi: ma tutti avevano anche l'onore e il dovere
d'essere soldati. Perciò, il discepolo di Plutarco che a qualunque
costo vuole rigenerare l'Europa rendendola greca e romana, aggiunge:
«Ogni cittadino debba essere soldato per dovere; niuno debba esserlo
per mestiere. Tale fu il sistema militare dei Romani: tale
debba essere quello di qualunque Stato libero» (154).
L'Europa
adunque avrà la coscrizione.
Da
tutto questo risulterà infallibilmente l'amore della patria: questo
amor patrio, riscuotendo lo spirito repubblicano di Roma e di Atene,
salverà il mondo degradato dal cristianesimo e dal monarcato. «È
certo, dice gravemente Rousseau, che i più grandi prodigi di
virtù (155) sono stati prodotti dall'amore della patria. Egli
produsse tante azioni immortali il cui splendore abbaglia i deboli
nostri occhi, e tanti grandi uomini, le cui antiche virtù
si hanno in conto di favole, dappoichè l'amore della patria è volto
in derisione.
«Osiamo
opporre lo stesso Socrate a Catone; l'uno era più filosofo, l'altro
più cittadino. La virtù di Socrate è quella del più saggio fra
gli uomini; ma tra Cesare e Pompeo, Catone sembra un semidio fra i
mortali. Un degno discepolo di Socrate sarebbe il più virtuoso dei
suoi contemporanei; un degno emulo di Catone ne sarebbe il più
grande. La virtù del primo renderebbe felice lui; il secondo
cercherebbe la propria nella felicità di tutti. Vogliamo che i
popoli siano virtuosi? Cominciamo col far loro amare la patria »!
(156) Quale sarà il fine delle società moderne così rigenerate? Lo
stesso che delle società antiche: la prosperità materiale. A qual
segno si riconoscerà cotale prosperità che il cristianesimo non ha
saputo procurare al mondo? Fedele discepolo di Platone e di Licurgo,
Rousseau risponde: Alla propagazione della specie. Il governo che
maggiormente la favorisce é il migliore; quello che la consegue, il
più felice. A questi conti, la Cina è il paese più perfetto e più
felice del mondo! «Qual è, dice Rousseau, il fine dell’associazione
politica? La conservazione e la prosperità dei suoi membri. E qual è
il segno più sicuro che si conservano e prosperano? Il loro numero e
la loro popolazione. Il governo sotto cui i cittadini popolano e
moltiplicano di più è infallibilmente il migliore. Un tempo la
Grecia fioriva in seno alle guerre più crudeli; il sangue vi
scorreva a rivi, e tutto il paese era coperto di uomini. Un po'
d'agitazione, dice Machiavelli, dà impulso agli animi; e la cosa che
fa veramente prosperare la specie è non tanto la pace quanto la
libertà (157)».
La
conclusione diretta di questo passo ò che si dee sbandire il
celibato: la conclusione indiretta e più estesa si è che si dee
escludere il cattolicismo, poiché esso, consacra il celibato e
costituisce le società sopra basi sconosciute dagli antichi
legislatori: finalmente, che il vero mezzo di rigenerazione pei
popoli moderni è di ridivenire repubblicani alla foggia dei Romani e
dei Greci.
Laonde,
considerata nel suo complesso, la dottrina politica di Rousseau viene
formulata negli articoli seguenti:
Iddio
non ha parte veruna nella fondazione delle società, le quali sono un
fatto puramente umano: lo stato di natura è lo stato primitivo
dell'uomo: sentendo il bisogno d'associarsi gli uomini, isolati nelle
foreste, hanno stretto tra loro un contratto sociale; questo
contratto è la base di tutti i diritti e di tutti i doveri. Le
società sono giunte, all'apogeo di loro gloria nell'antichità
classica a Sparta, in Atene e in Roma; il cristianesimo ed il
monarcato le hanno fatte degenerare; il ritorno del paganesimo nel XV
secolo ha cominciato, a trarle dalla barbarie in cui il cristianesimo
ed il governo monarchico le aveva sprofondate; per compierne la
guarigione si dee continuare questo movimento salutare e rivivere in
Europa l'antichità classica, il suo spirito, le sue usanze, le sue
istituzioni sociali, le sole che siano capaci di produrre ancora
grandi uomini e grandi virtù.
Come
ben si vede due cose sole si trovano nello spirito di questo sistema:
l'ignoranza e l'odio del cristianesimo nelle sue relazioni con la
società, e l'ammirazione fanatica delle istituzioni sociali del
paganesimo. Predicando il più assoluto naturalismo, Emilio
ripete sott'altra forma la medesima dottrina. E così si dica delle
altre opere di Rousseau.
Rousseau
quindi, non altrimenti di Voltaire, si può definire un'anima
vuota di cristianesimo ed ebbra di paganesimo.
Ad
esempio di Cicerone, di Licurgo, di Plutarco e degli altri grandi
uomini dell’antichità, suoi maestri e suoi modelli, Rousseau,
visse da libero pensatore. Di che i suoi ragionamenti favorevoli e
contrari al duello, l'apologia e la riprovazione del suicidio; la
facilità di palliare l'adulterio, e le ragioni proprie a farne
sentire l'orrore; la negazione e l'affermazione dell’esistenza di
Dio.
Passando
con eguale facilità dal Protestantesimo al cattolicismo, e dal
cattolicismo al protestantesimo, osteggia e difende successivamente
il cristianesimo, volendo una religione pel popolo. Riguardo a lui,
il suo culto è il culto antico, il culto dell'orgoglio e dei sensi.
La sua vita è uno scandalo pubblico di cui si fa gloria nelle sue
Confessioni; e la sua morte, quella d'un eroe di Plutarco.
Essa
avvenne cinque settimane incirca dopo quella di Voltaire, il 3 luglio
1778 ad Ermenonville, nella terra del marchese di Girardin.
___________________
CAPITOLO
XII.
MONTESQUIEU
Precursore
di Rousseau. - Formato alla stessa scuola. -Assalisce il
cristianesimo. – Lettere persiane. Tempio di Guido. - Esalta
l'antichità pagana. - Grandezza e decadenza dei Romani. - Spirito
delle leggi, inspirato principalmente da Tacito e da Plutarco. -
Morte di Montesquieu. - Analisi dello Spirito delle leggi.-
Diffamazione del monarcato. - Elogio continuo del governo
repubblicano di Sparta, d'Atene e di Roma
***
«Quello
che Montesquieu aveva fatto leggere ai padroni, Rousseau lo fece
leggere ai servi». In questo detto, divenuto celebre, si trova il
vincolo di affinità che unisce i due pubblicisti del passato secolo.
Essendo usciti dalla medesima famiglia, sono animati dal medesimo
spirito. Ma Montesquieu, più timido, ovvero, come si direbbe oggidì,
meno spinto di Rousseau, copre con molto artificio il proprio
pensiero, sia che osteggi il cristianesimo, sia che esalti
l'antichità. Può anche darsi che egli non abbia veduto le
conseguenze remote, né le finali applicazioni dei suoi principi.
Checché ne sia ciò ch'ègli non dice che a mezzo, Rousseau lo
dichiara apertamente. Sì l'uno come l'altro essendo figli del
risorgimento giudicano la società sopra gli insegnamenti del loro
padre. Tanto per Montesquieu come per Rousseau, il tipo delle
istituzioni sociali è nella classica antichità, e il miglior
governo è il governo repubblicano di Sparta, d'Atene e di Roma.
Come
mai Carlo di Secondat, barone della Brede e di Montequieu, nato di
nobil casato, nutrito d'un latte cristiano, educato in una monarchia,
nella quale occupa un posto eminente, come mai, dico, diventa
ammiratore costante delle repubbliche dell'antichità pagana,
nonostante tanti motivi per non esserlo? Ogni effetto ha una cagione.
Ora, in Montesquieu, la cagione dell’anomalia da noi segnalata, non
è già sopravvenuta con gli anni, ma esisteva, sin dall'entrante
giovinezza. Nato nel castello della Brède nel 1689, Montesquieu
esordisce nel mondo letterario con le sue Lettere persiane,
pubblicate nel 1721. Quest'opera, ispirata dallo spirito del
Risorgimento, è un continuo assalto, sebbene più o meno coperto,
contro il cristianesimo. L’eroe del romanzo, Usbek, è un libero
pensatore nel duplice aspetto della morale e della fede. Non ostante
le rimostranze del cardinale di Fleury, le Lettere persiane
aprirono a Montesquieu le porte dell’Accademia. Il carattere
anticristiano di questa produzione è il subbietto principale degli
encomi che ne fa d'Alembert. Allegheremo le parole di
quest'accademico, il quale ben si conosceva di queste materie,
aggiungendo che per essere nel vero, si vuole dar loro doppia forza
di quella che non hanno alla lettura.
«Montesquieu,
dice il suo encomiatore, parla qualche volta con molta libertà,
non sulla sostanza del cristianesimo, ma sopra materie che assai
persone si studiano di confondere col cristianesimo stesso: sullo
spirito di persecuzione onde tanti cristiani sono stati
animati; sulle usurpazioni temporali della Potestà
ecclesiastica; sulla moltiplicazione eccessiva dei monasteri
che rapisce sudditi allo Stato senza dare adoratori a Dio; sopra
alcune opinioni che si è tentato di erigere in dommi; sopra
le nostre dispute di religione, sempre violente e spesso
funeste» (158).
Quello
che vi è nel senso occulto di queste frasi, artificiosamente
indecise, si è che Montesquieu, come tutti i figli del risorgimento,
adora il libero pensare in fatto di religione, ammira il dispotismo
cesariano, e consiglia di star in pace con l’errore.
Il
primo idolo del paganesimo era l’orgoglio: il secondo, la carne.
Dall'altare dell'uno Montesquieu passa a quello dell'altra.
Il
Tempio di Guido è un licenzioso ditirambo in onore della
voluttà.
Nella
Storia della Grandezza e della Decadenza dei Romani,
Montesquieu attrae gli sguardi verso la bella antichità. Il romano
impero è presentato nazioni cristiane e monarchiche, come il
capolavoro dell'uomo e il modello della perfezione. «Il signor di
Montesquieu, continua a dire d’Alembert, trova le cagioni della
grandezza dei romani nell’amore della libertà, della fatica e
della patria che si instillava in essi sino dall'infanzia: in
quelle dissensioni intestine che concitavano gli spiriti, e
che cessavano d’un tratto alla vista dei nemici: ... nell'onore del
trionfo, subbietto di emulazione per i duci supremi; nel patrocinio
che accordavano ai popoli ribellati contro i loro re; nell’eccellente
politica di lasciare ai vinti i loro dèi, e le loro usanze. (159)»
Senza
tema di cader in errore, tutto ciò è come un dire alle nazioni
moderne: «Volete prosperare e ingrandire? rivolgete gli occhi sopra
il magnifico impero romano: amate la libertà, la fatica e la patria
come le amarono i Romani; fate di avere intestine dissensioni che
valgono a concitare i vostri spiriti ed incoraggiate principalmente
la ribellione dei popoli contro i re.
«Ora,
le nazioni dell'Europa potevano rispondere a Montesquieu col rettore
Dumouchel, nel 1790: Noi non abbiamo né libertà né patria, come
possiamo dunque amarle? Non abbiamo né rostri, né foro per
esercitarci in quelle intestine dissensioni che fortificano gli
animi. Proteggere i popoli contro i re, sarebbe un contraddirci:
perché siamo sudditi d'una monarchia e non repubblicani».
La
conclusione è evidente; e se Montesquieu avesse vissuto, l'avrebbe
vista messa in pratica dalla rivoluzione. Avrebbe visto la Francia
inebriata dell’amore della libertà e della patria, ricca
d'intestine dissensioni, dar il segnale della ribellione universale
dei popoli contro i re, e, per rigenerarsi, volere a tutto prezzo
risuscitare la repubblica romana.
Nello
Spirito delle Leggi in particolare modo, sua opera principale
Montesquieu si mostra figlio del risorgimento e della sua educazione
di collegio. Qui le espressioni diventano più chiare, i
ravvicinamenti più numerosi, le preferenze più spiccate le tendenze
più manifeste e meglio caratterizzate. «Ciò che sarebbe oscuro per
i lettori volgari, dice il suo encomiatore, non lo è per coloro
che l'autore ha avuto in mira. Il signor di Montesquieu dovendo
talvolta presentare verità importanti, la cui enunciazione
assoluta e diretta avrebbe potuto offendere senza frutto, ha avuto la
prudenza d'invilupparle, e, mediante quest’innocente
artificio le ha velate a coloro a cui sarebbero nocive, senza che
andassero perdute pei saggi (160).
Montesquieu,
come tutti i suoi predecessori dopo il risorgimento va ad attingere
nell'antichità pagana le sue teoriche politiche e sociali. Per lui
il Vangelo, come elemento politico, è non avvenuto; la missione
sociale della Chiesa non esiste.
«Fra
le opere, aggiunge d'Alembert, che gli hanno fornito per la sua o
sussidi o talvolta anche vedute, si scorge aver egli in
principal modo profittato dei due storici che hanno maggiormente
pensato: Tacito e Plutarco (161)».
D'Alembert
continua con l'elogio del Tempio di Guido e termina
raccontando così la morte del suo eroe «Dopo aver decorosamente
soddisfatto tutti i suoi doveri, pieno di fiducia nell'Ente eterno al
quale andava a congiungersi, morì con la tranquillità di un
uomo dabbene che non aveva mai consacrato il proprio ingegno che a
vantaggio della virtù e dell'umanità. (162)»
Attaccate
finché vorrete il cristianesimo nei suoi dommi e nella sua morale,
scalzate l'ordine religioso e sociale da esso stabilito, purché
abbiate, esaltato l'antichità classica predicate l’onore e della
libertà e della patria, sarete agli occhi di tutti i figli del
Risorgimento, uomo dabbene, e potrete morire tranquillo con la
speranza d'andare, secondo il pensiero di Virgilio, a ricongiungervi
all'Ente eterno!
Non
parliamo né delle Lettere Persiane, né del Tempio di
Guido, occupiamoci solamente dello Spirito delle leggi, e
vediamo sino a qual punto questa opera è giovevole alla virtù ed
all'umanità.
In
quest’opera si cercano invano le grandi idee cattoliche
sull'origine e sull’ufficio del potere. Iddio non interviene in
nessuna maniera nella formazione delle società. L'uomo le ha fatte
come si edifica una casa: con sovrana autorità esso crea, dispone,
regola tutto secondo il proprio interesse, i suoi bisogni o i suoi
piaceri.
Rimossi
Dio e il cristianesimo, non rimane più per spiegare l'origine delle
società che la favola pagana dello stato di natura e del contratto
sociale. Moutesquieu, come tutti i politici del Risorgimento, muove
da cotal favola. Ei pretende che in quel felice, stato, gli uomini
dispersi nei boschi, e non sentendo che la propria debolezza, non
cercavano di assalirsi scambievolmente, talché la pace è la
prima legge naturale. Quest'è l'età dell'oro di Virgilio e di
Ovidio. Montesquieu dimentica la caduta originale. Hobbes, dal canto
suo, ha veduto l'uomo naturalmente cattivo, appassionato, despota;
per conseguenza nemico del suo simile, e per lui la guerra è la
prima legge naturale.
Questa
dottrina non piace a Montesquieu, il quale così ragiona: «Il
desiderio che Hobbes, attribuisce dapprima agli uomini di soggiogarsi
scambievolmente, non é ragionevole. Egli chiede perché, se
gli uomini non sono naturalmente in stato di guerra, sono
sempre armati, perché hanno chiavi per chiudere le loro case. Ma non
sentesi che si attribuisce agli uomini prima dello
stabilimento delle società ciò che non può accader loro che dopo
tale stabilimento, che fa loro trovare motivi per assalirsi e
per difendersi». (163)
Altrove
aggiunge: «Nello stato di natura gli uomini nascono bensì
nell'eguaglianza, ma non vi possono rimanere. La società gliela fa
perdere, e non ritornano eguali che per le leggi. (164)»
Questa
teorica dello stato di natura e del contratto sociale che ne è la
conseguenza non si trova né nel Genesi, né nei Padri, né
nella tradizione cattolica: essa è falsa cristianamente,
storicamente, filosoficamente, ma è vera mitologicamente. Ciò
basta a Montesquieu e a tutti coloro che a suo esempio furono
abituati fino dall'infanzia a non vedere di là dall'orizzonte della
classica antichità.
Dopo
aver rivelato le basi delle società umane, Montesquieu passa alle
forme ch'esse hanno adottato. Paragona fra loro i diversi governi; e,
come ben si può credere, la sua preferenza è pel governo
repubblicano. «La virtù, egli dice, è il gran movente delle
repubbliche, dovecchè l’onore soltanto ed il timore sono
gli stimoli principali dei governi monarchici e dispotici (165).
Ben
si comprende che siffatto privilegio è idoneo a lusingare la fibra
democratica. Quello poi che Montesquieu vi aggiunge è idoneo a
lusingarla ancor più gradevolmente. «Il popolo, egli dice, è
ammirabile per eleggere coloro a cui dee commettere qualche
parte della propria autorità (166). Egli non ha a determinarsi che
sopra cose che non può ignorare e sopra fatti che cadono sotto i
sensi. Egli sa benissimo che il tal uomo è stato spesse volte alla
guerra; che ha conseguito le tali e tali altre vittorie: dunque è
capacissimo d'eleggere un generale. Sa che un giudice é è
assiduo; che molte persone: partono dal suo tribunale contente
di lui: che non è accusato di corruzione: eccone quanto basta per
eleggere un pretore. È stato abbagliato dalla magnificenza o
dalle ricchezze, di un cittadino: ciò basta perché possa
eleggere un edile». (167)
Secondo
le buone tradizioni del Risorgimento, Montesquieu conferma la propria
argomentazione con l'inevitabile esempio dei Greci e dei Romani. «Se
si potesse dubitare, così egli, della capacità naturale che ha il
popolo per discernere il merito, non sarìa a far altro che rivolgere
gli sguardi sopra quella serie continua di scelte stupende che fecero
gli Ateniesi ed i Romani (168). Come Rousseau, come Mably,
come tutti i teorici della stessa scuola, Montesquieu dimentica
sempre che Roma, Atene, Sparta annoveravano alcune migliaia appena di
elettori; e, ciò che poteva convenire ad una città vogliono
applicare a Stati che contano milioni di uomini liberi! L’esperienza
sola poteva fare giustizia di queste pericolose utopie.
Quest'esperienza
però non si era ancor fatta nel XVIII secolo. Allora, come il
desiderio di vivere in repubblica non sarebbe venuto a coloro che
udivano i regolatori dell’opinione dire con Montesquieu: «Nelle
repubbliche dove le ricchezze sono egualmente, divise, non può
esservi lusso. Quest'eguaglianza costituiva l'eccellenza di una
repubblica: ne conseguita quindi che in una repubblica quanto meno di
lusso ci ha, tanto più essa è perfetta. Non ve n'aveva presso i
primi Romani; non ve ne aveva presso i Lacedemoni. Le
leggi del nuovo spartimento dei campi, chieste con tanta istanza in
alcune repubbliche erano salutari di loro natura: esse non
sono pericolose che come azione subitanea» (169).
Questo
appello al rimpasto della proprietà non è andato perduto.
Montesquieu lo rende ancor più chiaro aggiungendo: «Le ricchezze
private non hanno aumentato se non perché hanno tolto ad una
parte dei cittadini il necessario fisico: è d'uopo dunque
che loro sia restituito. Perché si sostenga lo stato monarchico,
il lusso dee andare crescendo dall'agricoltore all'artigiano,
ai mercatanti, ai nobili, ai magistrati, ai grandi signori, agli
appaltatori principali, ai principi: senza di che, tutto sarebbe
perduto (170)».
I
ragionamenti repubblicani di Montesquieu fanno più che rendere
odioso il governo monarchico: essi lo stringono in un angiporto. Da
una parte la monarchia non può sussistere senza incoraggiare il
lusso: dall’altra, il lusso, per opinione dello stesso Montesquieu,
crea mille bisogni fittizi, concita tutte le passioni e conduce
infallibilmente lo Stato alla sua rovina per la corruzione dei
costumi. La prima conclusione che ne scaturisce è evidentemente
questa: lo Stato repubblicano, dove il lusso non è necessario, è
preferibile allo Stato monarchico. La seconda, energicamente dedotta
dalla rivoluzione, è l'abolizione del monarcato, lo stabilimento
della Repubblica con la massima spartana: Ai repubblicani non è
bisogno che di pane, di polvere e di ferro (171).
_______________
CAPITOLO
XIII.
MONTESQUIEU
(Continuazione
e fine).
Ammirazione
per l'antichità. - Diritto di ribellione. - Regicidio.- Purezza dei
costumi. - Bella usanza matrimoniale. - Buona polizia dei Romani
sull'esposizione dei figli. - Lodi delle greche istituzioni. -
Disprezzo delle arti e del commercio. - Elogio dei Romani. - Parole
di Senofonte, di Plutarco, di Diodoro Siculo. - Indebolimento della
ragione cristiana in Montesquieu. – Ignoranza, errori, pregiudizi.
- La punizione del Sacrilegio.- La potenza e i beni del clero. -
Fatalismo. - Il protestantesimo e il suicidio. - Conclusioni
***
O
Montesquieu non ha rifatto la sua educazione di collegio, il che non
si può ammettere; o, rifacendola, non ha saputo cancellare le
proprie sue impressioni; il che è più verisimile. Tanta è infatti
la sua ammirazione per l'antichità classica che non trova quasi
nulla da biasimare e che giustifica eziandio una moltitudine di
massime e d’usanze delle quali qualunque uomo imparziale scopre
alla prima occhiata i vizi ed i pericoli. Così parlando dei Cretesi,
egli dice: «I Cretesi per tenere i primi magistrati nella dipendenza
delle leggi, impiegavano un mezzo assai singolare, ed
era quello della ribellione .... L'amore della patria corregge
tutto» (172).
Alcuni
anni dopo la morte di Montesquieu, la rivoluzione, accogliendo per
amor della patria l'innocente principio di Creta, diceva in
suo linguaggio: «La ribellione è un mezzo dichiarato dal Creatore,
il quale ha dato la forza all'uomo come gli artigli all’aquila per
rintuzzare il proprio nemico. Ti ho dato le braccia, raccogli i
ciottoli. La sollevazione di un popolo è il colpo di coda della
balena che sommerge lo schifo del Fiociniere. È il primo; il più
bello, il più irrepugnabile diritto dei popoli oltraggiati. (173)»
Montesquieu
va più oltre e giustifica il regicidio: «Vi avea, dice egli, un
certo diritto delle genti, un'opinione stabilita in tutte le
repubbliche della Grecia e dell'Italia, che faceva tener conto d’uomo
virtuoso l'assassino, di chi avesse usurpato il supremo potere. A
Roma principalmente, dopo l'espulsione dei re, la legge era precisa;
gli esempi non contestati: la Repubblica armava il braccio di
ciascun cittadino, lo faceva magistrato momentaneamente e lo
aveva per sua difesa. Bruto ben osa dire ai suoi amici che
quand’anche suo padre ritornasse sulla terra, ei l'ucciderebbe
egualmente. Era questa una passione dominante per la patria,
che uscendo dalle regole ordinarie dei delitti e delle virtù, non
ascoltava che lei sola, e non vedeva né cittadino, né amico, né
benefattore, né padre: la virtù parea dimenticasse sé stessa
per superare sé stessa; e quell’azione che non poteva
approvare perché atroce, la faceva ammirare come divina». (174)
Ma
non ostante nell’ordine politico, il governo repubblicano della
Grecia e di Roma abbaglia Montesquieu; sì veramente anche in ordine
ai costumi, alle virtù ed alle civili istituzioni. «Le donne, egli
dice, hanno poco ritegno nelle monarchie … Ciascuno si serve dei
loro vezzi e delle loro passioni per sospingere innanzi la propria
fortuna ... Nelle repubbliche le donne sono libere per le leggi e
schiave pei costumi: il lusso vi è sbandito e con esso la corruzione
ed i vizi.
«Nelle
città greche, la purezza dei costumi è una parte della virtù:
nelle città greche dove un turpe vizio regnava sfrenatamente, dove
l’amore non avea che una forma che non oso dire, la virtù; la
semplicità, la castità delle donne, vi erano a tal segno che non si
è mai veduto nessun popolo che, per questo riguardo, abbia mai avuto
una polizia migliore (175)».
Checché
ne sia, come si può dubitare della purezza dei costumi in uno Stato
repubblicano dove si trovano istituzioni e costumi per cui
Montesquieu è rapito in ammirazione? «I Sanniti, dice egli, avevano
una consuetudine la quale, in una piccola repubblica, doveva produrre
mirabili effetti. Radunavansi tutti i giovani e si
giudicavano. Quegli che era dichiarato migliore di tutti prendeva in
donna la fanciulla che voleva. Sceglieva poi chi aveva più suffragi
più dopo di lui, e così di seguito …
«I
Sanniti discendevano dai Lacedemoni; e Platone, le cui istituzioni
non sono che il perfezionamento delle leggi di Licurgo, diede
pressappoco la medesima legge» (176).
Con
questa, bella consuetudine che diventa il consenso del padre e la
libertà della donna? Abbia essa o no antipatia od avversione od
altri motivi, è necessario che la fanciulla accetti per sposo colui
che le è imposto! Oh l’alta moralità veramente in questa
consuetudine! oh quali mirabili effetti produrre dovevano quei
maritaggi contratti sotto tali auspici! Dalle istituzioni
matrimoniali che gli sembrano stupende, Montesquieu passa ai doveri
della paternità, la cui polizia gli sembra egregia. «I primi
Romani, egli dice, ebbero un'egregia polizia sopra
l’esposizione dei figli. Romolo, per fede di Dionigi
d'Alicarnasso, fece obbligo a tutti i cittadini di allevare tutti i
figli maschi e le primogenite delle fanciulle. Se i figli
erano deformi o mostruosi, permetteva di esporli, dopo averli fatti
vedere a cinque dei più prossimi vicini». (177)
Il
diritto legale di esporre, cioè d'abbandonare a certa morte tutti i
figli deformi, e tutte le figlie, ad eccezione delle primogenite,
viene chiamato da Montesquieu polizia egregia! È come mai si può
spiegare in un’anima onesta una simile aberrazione, se non mediante
il cieco fanatismo che l'educazione aveva infuso nell'animo di
Montesquieu pei Romani, per quel popolo cioè, com'egli dice, il
quale seppe accordar meglio le sue leggi coi suoi disegni»?
(178)
Ed
altrove: «Sento di essere ben forte nelle mie massime, quando ho
in mio favore i Romani (179)».
Al
vedere un sì peregrino ingegno sì tristamente forviato, si
continuerà ancora a sostenere che non vi è nessun inconveniente ad
educare la gioventù nell’ammirazione della classica antichità?
Dall'Italia
Montesquieu si riconduce in Grecia, e ci spiega il segreto della
gloria e della prosperità incomparabile delle repubbliche di Atene e
di Sparta. Condotto a parlare dell'educazione e delle istituzioni
sociali così discorre: «Gli antichi Greci, penetrati della
necessità che i popoli i quali vivevano in un governo popolare
fossero educati alla virtù (180), fecero speciali istituzioni
per infonderla. Allorché vedete nella vita di Licurgo, le leggi
ch'ei diede ai Lacedemoni, credete di leggete la Storia dei
Sevarambi. Le leggi di Creta erano l'origine delle Spartane, e quelle
di Platone n'erano la correzione.
«Prego
che si ponga ben mente al vasto ingegno che fu necessario a
quei legislatori per vedere che cozzando contro tutte le consuetudini
ammesse, confondendo tutte le virtù, mostravano all'universo tutta
la sua saggezza. Licurgo mescolando il ladroneccio con lo spirito
di giustizia, la più dura schiavitù con l’estrema libertà,
i sentimenti più atroci con la più grande moderazione
rese stabile la propria città.
«Sembra
ch'ei le tolga tutti i mezzi, le arti, il commercio, il danaro, le
meraviglie. Vi è ambizione senza speranza d'esser meglio: vi sono
sentimenti naturali e non vi si né figlio, né marito, né padre:
anche il pudore è tolto alla castità. Per queste vie Sparta è
condotta alla grandezza e alla gloria .... L'isola di Creta e di
Laconia furono governate da queste leggi … I Sanniti ebbero le
medesime istituzioni». (181)
E
noi pure preghiamo che si ponga mente che questo strano encomio emana
da Montesquieu: ch'esso, con autorità del suo nome, lo indirizza a
uomini maturi, ad uomini che per la sociale loro condizione
diverranno un giorno i regolatori dell'opinione: che saranno
magistrati, giureconsulti, legislatori, e faranno la società a
propria immagine. La Francia avrà forse motivo di stupire, allorché,
in meno di 40 anni, dopo la morte di Montesquieu, vedrà sorgere una
generazione intera di letterati e di giuristi che ad ogni costo
vorranno applicarle, le ammirabili istituzioni dei Cretesi, dei
Sanniti, degli Ateniesi e degli Spartani?
Montesquieu,
il quale per fermo non prevedeva lo conseguenze delle sue dottrine,
continua a magnificare i governi repubblicani dell'antichità
classica, a danno delle monarchie moderne. «È d'uopo, aggiunge,
persuadersi che, nelle città greche, in quelle principalmente che
avevano per principale obbietto la guerra, tutte le opere e le
professioni che potevano condurre a guadagnar danaro erano riguardate
come indegne di un uomo libero. La maggior parte delle arti, dice
Senofonte, corrompono il corpo di coloro che le esercitano; obbligano
a star seduti all'ombra o presso al fuoco; non si ha tempo né per
gli amici, né per la repubblica. Nella corruzione soltanto di
alcune democrazie gli artigiani giunsero a diventare cittadini.
Aristotele sostiene che una buona repubblica non dà loro giammai il
diritto di cittadinanza.
L'agricoltura
era anch’essa una professione servile e di solito, veniva
esercitata da qualche popolo vicino; dagli Iloti presso gli Spartani,
dai Periccii presso i Cretesi; dai Penesti, presso i Tessali; e da
altri popoli schiavi presso altre repubbliche. Finalmente tutto il
basso commercio era infame appo i Greci. Sarebbe stato d’uopo
che un cittadino avesse reso servigi ad uno schiavo, ad un locatario,
ad uno straniero; e quest’idea distruggeva l'idea della greca
libertà. Perché Platone vuole nelle sue leggi che si punisca un
cittadino che si desse alla mercatura (182)».
Tutte
codeste idee sono esse in armonia col nostro stato sociale? Oggidì
il desiderio che sente ciascuno d'uscire dalla propria condizione, il
rimestarsi delle classi che ne consegue, sono divenuti un grave
imbarazzo ed anche una minaccia pei governi. Si può affermare che
questa spiacevole tendenza non proviene in alcun modo dal disprezzo
dell'agricoltura, del commercio, delle arti meccaniche, la cui
espressione i figli dei coloni, dei mercatanti e degli artigiani
trovano così spesso nei loro autori scolastici, e specialmente in
Cicerone, il più ammirato di tutti?
Finalmente
Montesquieu termina il lungo suo encomio dell'antichità con queste
parole le quali palesano tutto intero l’anima sua: «Non si può
lasciar mai i Romani. Così anche oggidì, nella loro capitale si
lasciano i nuovi palagi per andare in ricerca delle ruine! (183)».
Montesquieu avrebbe potuto aggiungere: Anche le chiese e i monumenti
cristiani.
Per
compiere quest'encomio mostrando quanto esiste di vero nel ritratto
che l'educazione di collegio ci ha fatto di quegli ammirabili Greci e
di quegli ammirabili Romani, rechiamo, poiché ne si presenta
l'opportunità, alcune testimonianze di autori non sospetti:
«Avendo
Lisandro, dice Senofonte (184), sconfitto gli Ateniesi, si
giudicarono i prigionieri. Furono accusati gli Ateniesi d'aver
precipitati in mare tutti i prigioni di due galee e risoluto in piena
assemblea di far tagliare il pugno ai prigionieri che, farebbero.
Essi
furono tutti trucidati. - «Una volta, dice Plutarco (185), gli
Argivi fecero morire 1500 dei loro concittadini».
Or
via, facciamoci dunque Greci!
I
Romani, dice Diodoro Siculo, compravano armenti di schiavi per
coltivar le terre e per aver cura delle loro mandrie: e negavano di
alimentarli. Questi disgraziati erano costretti a andare a rubare
sulle strade, armati di lance e di clave, coperti di pelli di bestie,
ed accompagnati da grossi cani. Fu questa una delle cagioni della
guerra degli schiavi (186) Facciamoci dunque Romani.
Presso
all'ammirazione per l'antichità pagana, di cui è pieno l’animo
suo, Montesquieu come tutti i figli del Risorgimento, lascia vedere
l'indebolimento del sentimento cristiano. Questo male negativo
dell’educazione di collegio nell'autore dello Spirito delle
leggi si manifesta per mezzo di errori, di ignoranze, di
pregiudizi sconosciuti agli scrittori del medioevo. Così egli ignora
completamente la missione sociale della Chiesa; ne impugna la sua
potenza coattiva e l’obbligo imposto ai principi cristiani di farne
rispettare le leggi. «La pena del delitto, egli dice, debb'essere
tratta dalla natura del delitto stesso: Perché la pena dei sacrilegi
semplici (187) sia tratta dalla natura della cosa, dee consistere
nella privazione di tutti i vantaggi che dà la religione:
l’espulsione fuori dei templi ecc., ecc:, pene puramente
ecclesiastiche.»
«Che
se il magistrato, confondendo le cose, inquisisce anche il
sacrilegio semplice, distrugge la libertà dei cittadini. Il male è
venuto da quest'idea, che si dee vendicare la Divinità; ma la
Divinità si dee onorarla e non mai vendicarla. (188)
Bel
ragionamento! E che fa il magistrato che manda alla galera o al
patibolo il ladro o l'assassino, se non per vendicare la Divinità
che, vieta il ladroneccio e l'assassinio? Il delitto non è se non
perché Iddio lo dichiara e non già l'uomo.
Altrove
chiede la separazione della società e della Chiesa, ed attribuisce
una barbarie dei popoli la potenza del clero: (189).
Facesse
il clero almeno un uso buono dei beni che gli vengono dati! ma ei se
ne serve per vivere e per far vivere il popolo nell’oziosità
(190). Nel medioevo il clero aveva riempito l'Europa di monumenti
d’ogni ragione, incoraggiato tutte le scienze, favoreggiato tutti i
legittimi progressi; alleviato magnificamente tutte le miserie. Tutto
ciò non è nulla per Montesquieu, il medioevo non esiste.
Stantechè
nella bella antichità ei non ha veduto né conventi: né ospedali,
non può comprendere il loro posto nel suo disegno di ordinamento
sociale. «Arrigo VIII, dice egli, volendo riformare, la
chiesa d'Inghilterra, distrusse i monaci, pigra generazione,
la quale manteneva anche la poltroneria altrui. Tolse anche gli
spedali, dove il basso popolo trovava la propria sussistenza, come i
gentiluomini trovavano la propria nei monasteri. Dopo quel
mutamento, in Inghilterra si stabilì lo spirito di commercio e
d'industria (191). A Roma gli spedali fanno sì che tutti siano
agiati, eccetto quelli che lavorano, eccetto quelli che
sono industriosi, eccetto quelli che coltivano le arti,
eccetto quelli che posseggono terre, eccetto quelli che
fanno il commercio» (192). Questo giudizio di Montesquieu giustifica
anticipatamente tutte le spoliazioni della Chiesa eseguitesi in
Europa da 60 anni. Ma si badi bene che se è permesso di spogliare i
preti oziosi, il popolo ben non potrà non intendere sempre che sia
vietato di spogliare i cittadini fannulloni.
L'indebolimento
della ragione cristiana manifestasi in Montesquieu in modo ancora più
grave. Alcune delle sue opinioni rasentano il fatalismo pagano.
Vogliamo parlare, fra le altre, della famosa sua teorica dei climi,
il cui influsso sembra togliere all'uomo la libertà a tal segno da
scusare gli atti più riprovevoli. Il mezzodì dell'Europa è rimasto
cattolico; il settentrione è divenuto protestante: sapete perché?
«Allorché
la religione cristiana, risponde Montesquieu, pativa or ha due
secoli, quella malaugurata scissura che la divise in cattolica ed in
protestante, i popoli del settentrione abbracciarono la protestante,
e quelli del mezzodì la cattolica. La ragione è che i popoli del
settentrione hanno ed avranno sempre uno, spirito di indipendenza e
di libertà che non hanno i popoli meridionali; ed una religione che
non ha capo visibile conviene meglio all'indipendenza del clima
di quello che ha un capo» (193). Se il clima fa che l’uomo sia
protestante o cattolico, la religione dipende dunque dai gradi di
latitudine.
Anche
il suicidio è determinato dalla stessa cagione. «Egli è chiaro,
continua Montesquieu, che le leggi civili d'alcuni paesi hanno avuto
motivi per infamare l'omicidio di sé stesso; ma in Inghilterra non
si può punirlo, come si puniscono gli effetti della demenza
(194)». Dietro questa teorica, e perché un altro moralista non
potrebbe dire: «Egli è chiaro che le leggi civili di alcuni paesi
hanno avuto motivi d'infamare il furto, l’adulterio, il veneficio;
ma in Russia, in Spagna, in Francia, in Africa non si può punirlo
come non si puniscono gli effetti, della demenza»?
Dallo
studio delle opere di Montesquieu risulta che l'ammirazione per
l'antichità e il disprezzo dei secoli cristiani, almeno sotto
l'aspetto sociale, sono i due sentimenti che dominano nell’animo di
lui; che l'autore dello Spirito delle leggi, nato in una
monarchia, è repubblicano di desiderio e di convincimento; che, sia
a motivo delle tradizioni di classe e famiglia, sia a motivo delle
persone in mezzo a cui ha vissuto, Montesquieu è meno ardito nelle
sue opinioni di Voltaire e di Rousseau, suoi, contemporanei; che nei
suoi scritti si trova la maggior parte dei desideri, delle
insinuazioni, e dei principi che vennero attuati nei fatti della
rivoluzione francese. Se dunque il Risorgimento, propugnato
dall'educazione, non fu altra cosa nel suo spirito che il disprezzo
dei secoli cristiani e la esaltazione dell'antichità pagana, non si
è forse in obbligo di concludere che Montesquieu, come gli altri
filosofi del secolo XVIII, è figlio nel Risorgimento e della sua
educazione di collegio?
_______________
CAPITOLO
XIV.
MABLY.
Mably,
uno dei principali autori della rivoluzione. - Sua nascita. - Sua
educazione presso i Gesuiti. - Entra nel seminario di S. Sulpizio ed
è ordinato suddiacono. - Lascia il seminario e la teologia per darsi
allo studio degli autori pagani. - Vi passa sessant'anni. - Suo culto
per l'antichità. - Sua morte. - Elogio che ne fa l'abate Brizard. -
Mably, anima vuota di cristianesimo e briaca di paganesimo. - Analisi
del Focione. - Voto in favore della rivoluzione
***
Si
deputarono uomini agli Stati generali: e noi letterati, vi
deputammo libri; e questi libri sono cagione che ebbevi una
assemblea nazionale e che poscia esso ha prosperato (195).
Nulla
è più vero di quest'omaggio di pietà filiale reso dalla
rivoluzione alla letteratura. Nelle loro opere tutti i letterati,
filosofi, pubblicisti, enciclopedisti furono presenti, agli Stati
generali: anzi essi stessi li presiedettero, come fecero di tutte le
altre assemblee rivoluzionarie. Fra quei deputati, la storia vuole
che dopo Voltaire, Rousseau e Montesquieu si assegni un posto
onorevole all'abate Mably. «Fra coloro cui la nostra rivoluzione dee
il suo principio, Mably è il solo che sia degno di camminare
sulle orme di Rousseau: se vivesse, ei sarebbe cittadino (196).
Gabriele
Bonnot di Mably, di nobile famiglia del Delfinato, nacque a Grenoble
nel 1709. Assai giovane ancora, fu mandato al collegio di Lione,
diretto dai gesuiti. Ne uscì appassionato pei Greci e pei Romani.
Finiti gli studi venne a Parigi, invitatovi dal cardinale di Tencin,
suo parente, che l'indusse ad abbracciare lo stato clericale.
Mably
entrò nel seminario di San Sulpizio, cominciò il corso teologico e
fu ordinato suddiacono.
L'ordinazione
però non gli fece perdere né le sue inclinazioni né le su
rimembranze di collegio. Trascinato dal suo amore per l'antichità,
lascia il seminario ed abbandona i libri di teologia per le Vite
di Plutarco.
Le
legge avidamente, come fa degli altri autori antichi, di Tucidide, di
Platone, di Cicerone che sapeva quasi a memoria; e da questa lettura
attinge quello spirito d'indipendenza, quell’entusiasmo per le
repubbliche della Grecia e dell’Italia che si riflettono da tutti i
suoi scritti e che egli professa per tutta la vita (197).
Nella
stessa guisa abbiamo veduto Voltaire, strascinato verso le belle
lettere, delle quali erasi invaghito in collegio, resistere a suo
padre:e ricusare d’intraprendere lo studio della giurisprudenza.
Nella
coltura delle lettere Mably cercava non tanto ciò che esse offrono
di gradevole e di seducente, quanto ciò che hanno di solido e di
utile. Vi cercava non solamente modelli di stile e di locuzione, ma
lezioni ed esempi di morale e di virtù. Addentrandosi nelle bellezze
morali degli antichi e dei grandi modelli, passava dalle parole alle
cose; e, secondo il detto di Montaigne, dalla corteccia al midollo, e
nutrivasi di verità più sostanziali e di quei sentimenti sublimi
che accalorano le loro opere (198). Come vedremo, ciò è alla
lettera quello che fece anche Lutero.
L’indole
sua lo inclinava all'austerezza: le severe virtù di Lacedemone lo
inebriarono … Egli si fece uno spirito, un carattere, virtù che
appartenevano a secoli remoti: ed i leggeri Parigini videro con
stupore comparire in mezzo a loro un giovane Spartano, raddolcito
alquanto dalla famigliarità con Platone (199). Il giovane
suddiacono Lacedemone ostenta un tenore di vita conforme ai suoi
principi. Ritirato in un modesto appartamento vive solo in mezzo agli
antichi. Se va in casa della sua parente madama di Tencin, se parla,
se scrive, sostiene sempre, da vero discepolo di Licurgo e di
Platone (200), che le ricchezze, inutili agli Stati, sono un
veleno pei cittadini; che le arti, figlie del lusso, non sono meno
perniciose del padre loro; ed altre simili massime della bella
antichità. Di tutti gli uomini che hanno vissuto da Adamo sino a
lui, quello che venera di più, è Catone: il governo che
ammira pienamente ed esclusivamente è quello di Lacedemone. Di che
avviene che, lodandolo una dama di spirito colto ch’egli mostrasse
carattere fermo: «In certi paesi risponde Mably, non si può aver
carattere; ma se fossi nato a Sparta, sento che sarei stato
qualche cosa» (201).
Le
sue opinioni, il suo modo di vivere diventato per lui un tema di
encomio: «Se fra noi, dice uno dei suoi panegiristi, Mably era
singolare, non ostentava però di esserlo: ciò, accadeva perché il
suo carattere, il suo spirito, il suo modo di pensare, le sue virtù
non erano del nostro secolo; poiché erasi foggiato sopra modelli
che non sono più i nostri. Nei bei giorni di Atene, ... ei
sarebbe stato confuso nella folla dei cittadini stimabili; perché
tutti avrebbero rassomigliato a lui Nei bei giorni di Sparta
sarebbe stato ancor meno notato. Ma fra noi egli era come quelle
figure antiche la cui saggia posa e la severa bellezza fanno
contrasto con le statue manierate dei moderni (202)»
Niuna
cosa modifica i sentimenti, il cui germe ha attecchito in collegio e
che ha sviluppato mediante le sue letture. «Era cosi costante nei
principi che aveva adottato e che erano divenuti una parte
inseparabile di lui stesso, che non poteva lasciarli più di quello
che sarebbesi potuto scompagnare alcune delle sue membra o mutarne le
sembianze (37)».
Dopo
aver vissuto 76 anni ed averne passato più di 60 nella famigliarità
esclusiva degli antichi, l'abate Mably, assai meno francese che
spartano e ateniese andò a render conto a Dio di quella vita
ecclesiastica, spesa a fare ed a rifare sotto tutte le forme il
paragone dei Greci e dei Romani coi popoli moderni; a stabilire la
preminenza di quelli su questi, ed a somministrare senza saperlo,
alcune delle armi più terribili che abbia la rivoluzione impiegato
per distruggere la religione e la monarchia.
Secondo
uno dei suoi biografi, la sua morte fu degna della sua vita: ei ne
racconta i particolari nel modo seguente «Negli ultimi suoi momenti
ebbe la fermezza di Socrate e non il ciarlatanismo dei nostri moderni
peregrini che innalzano ancora i loro catafalchi sul letto
mortuario. Mably cessò di vivere con la tranquillità che infonde
una vita senza rimprovero, ed una giusta fiducia in Colui che ha
promesso alla virtù ricompense incorruttibili (204).
È
vero però, e siamo ben lieti di poterlo dire, che Mably vedendosi in
pericolo di morte, chiese i sacramenti e li ricevette con
edificazione; morì a Parigi il 23 aprile 1785.
L’abate
Brizàrd scrisse l'elogiò del defunto: l'Accademia delle iscrizioni
lo coronò. Richiamiamo questa circostanza e citiamo l’esordio,
dell'oratore come una nuoca prova dello spirito generale della
letteratura del secolo XVIII. Brizard discorre così: Per quindici
secoli una fitta notte stese il suo velo sopra l’intera natura:
ogni lume fu spento: ogni fonte di morale, corrotta: la virtù
non fu che un nome vano, ed i buoni costumi, caduti in dimenticanza,
parvero subbietto di disprezzo e di beffa: Ma venne un uomo che,
nutrito della lettura degli antichi, trovò nei loro scritti
le tracce di quel tipo celeste, di quel bello i cui sentimenti
avevamo perduto (205)».
Dopo
la caduta dell'antico paganesimo sino al Risorgimento, una buia notte
distendere il negro suo manto sull'Europa: ogni lume spento: corrotte
le fonti della morale: il mondo, per uscire dalla barbarie, aspettare
un uomo nutrito alla scuola dei pagani: questo nuovo Messia
rigenerar le nazioni cui il Vangelo ha lasciato sprofondare
nell’abisso della corruttela e dell'errore, spiegando loro gli
scritti di Licurgo e di Platone, depositario, del bello celeste, di
cui il mondo cristiano ha perduto il sentimento!
Che
s'ha da dire di così stravagante demenza? come si può spiegare la
spaventevole buona fede con cui uomini, d’altra parte stimabili,
pronunziano siffatte bestemmie! oh educazione di collegio, quanto
male non ci hai tu fatto!
Vedendo
l'attuazione dei principi repubblicani dell'antichità, ch'egli avea
sì lungo tempo ammirati, Brizard morì di dolore il 23 gennaio 1793,
due giorni dopo la decollazione di Luigi XVI. Riguardo all'abate
Mably ei non vide quello che aveva fatto; ma quello, che vedevasi
allora, era in parte opera sua. Le sue opere, come, quelle degli
altri filosofi contemporanei si riducono a dire: «...Il
cristianesimo, come elemento sociale, non merita di occupare i
pensieri dei saggi: esso, ha lasciato cadere il mondo nella barbarie;
i veri principi sociali si trovano nell’antichità classica:
studiare Sparta, Atene, Roma, la loro legislazione e la loro politica
è un contemplare il bello, il vero nella sua fonte, è un trovare il
segreto della rigenerazione dei popoli moderni». Mably passa
cinquanta e più anni a ripetere questo ritornello, ch'egli stempera
in ventitré volumi; e noi lo mostreremo nella rapida analisi delle
principali sue opere. Cominciamo da una delle più importanti, i
Trattenimenti di Focione.
In
questo dialogo, imitato da quei di Platone, Focione detta
insegnamenti di politica pei re e specialmente pel popolo. Passa a
rassegna le glorie e le sventure della Grecia: trova la cagione di
quelle nelle virtù patriottiche e di queste nelle arti, nella
ricchezza e nell’obblivione delle leggi di Licurgo.
In
questa opera Mably, da vero figlio del Risorgimento, getta a piene
mani l’ingiuria in viso ai secoli cristiani, e depone ai piedi del
proprio padre tutta la sua ammirazione e tutta la sua figliale
riconoscenza. Udiamone le parole: «Il cristianesimo abbracciato dai
barbari, li lasciò nella loro primiera ignoranza .... Non si
avea nessuna legge politica, ne civile ... La sola forza decideva
del diritto ... Vuolsi avere un’idea della morale di quei secoli
barbari? non si dimentichi che la stessa pietà assunse
una tinta del brigantaggio, accreditato dal governo dei feudi.
Le crociate, furono avute in conto di un atto di religione,
proprio ad onorar Dio ... Si fecero leggi assurde od ingiuste;
si sospettò che la società avesse bisogno d'una potenza legislativa
… Abbrevio la vergognosa storia della nostra barbarie.
«L'Europa
non prese finalmente un nuovo aspetto che quando … le lettere
(206), riparatesi a Costantinopoli, passarono in Italia, dopo la
ruina dell'impero d'Oriente. S'incominciò a leggere gli antichi;
e con rapidi progressi si poterono coltivare le scienze che
illuminando l'intelletto prepararono il cuore ad amar l'ordine, le
leggi e la morale ... La lettura di Platone e di Cicerone dovea
mettere i padri nostri sulla via della verità; ma i pregiudizi
erano troppo antichi e troppo diffusi da poter essere in breve tempo
dissipati». (207)
Focione
esalta poscia le repubblichette della Grecia che gli sembrano
preferibili alle grandi potenze: vuole che si rimettano in vigore le
leggi di Licurgo e di Platone; che si avvezzino dall’infanzia tutti
i cittadini alla corsa, alla danza, alla frugalità, all’esercizio
delle armi: che ogni cittadino sia successivamente soldato e
magistrato, e che finalmente si sbandisca severamente il danaro ed il
commercio.
«Le
persone, dice Mably, che non parlano che di ampliare il commercio e
di arricchire lo Stato, hanno esse pesato per bene, come Focione, i
vantaggi e gli inconvenienti annessi alle ricchezze? In tal caso io
le invito a farci partecipi delle loro scoperte. Ma, prima
confutino Platone, Aristotele, Cicerone e tutti i politici
dell'antichità (208)».
Mably
è talmente convinto che il ritorno alle leggi ed alle istituzioni
sociali della classica antichità è il solo mezzo di salute per le
nazioni cristiane, ch'esso esprime un voto di cui (amiamo crederlo)
ei non aveva la coscienza; ma che dieci anni appresso i giacobini
dovevano prendere come regola di condotta ed attuare con la selvaggia
energia degli antichi Spartani.
«
Vorrei, dice Mably, che foste stati testimoni dei sentimenti che il
discorso di Focione faceva nascere nel cuore di Aristia … Ei non
parlava che per frasi interrotte: che non posso? O Licurgo! Tenterei…
oserei… La salute della patria non è ancora disperata ... Tu,
Focione, per pietà dei tuoi miseri concittadini, impedisci ch’ei
periscano. Sii
il nostro Licurgo.
Perché non farsi oggi
in Atene il
miracolo ch'egli operò un tempo in Lacedemone? ... Troverete
ancora, come Licurgo, trenta cittadini capaci di secondarvi
... Quando la legge regna, ogni cittadino dee obbedire: ma
quando per sua ruina la società è disciolta, ogni cittadino diventa
magistrato: egli è investito di tutto il potere che gli dà la
giustizia, e la salute della repubblica debba essere la sua legge
suprema.
Trasibulo
meritò una gloria immortale per averci liberato dal giogo dei
trenta tiranni
(209).
______________
CAPITOLO
XV.
MABLY
(Continuazione).
Mably
non vede che l'antichità classica.- È Spartano.- Parole di Brizard.
– Di Mably. - Analisi delle Osservazioni sui Greci. - Stato
di natura. - Contratto sociale. - Espulsione dei re, principio della
gloria e della libertà della Grecia. - Predicazione dell'eguaglianza
e del comunismo. - Pittura menzognera di Sparta. - Disprezzo per le
società formate dal cristianesimo. - Elogio dei Greci. - Analisi
delle Osservazioni sui Romani. - Disprezzo della Francia
***
Mably
non muta mai il punto di veduta in cui lo ha collocato la sua
educazione per studiare le società umane è come un astronomo il cui
cannocchiale è sempre rimasto fisso verso lo stesso punto del cielo.
Per apprezzare meglio, dice Brizard, i governi dell'Europa, ei si
trasporta agli antichi: ivi va a cercare i suoi termini di confronto,
e alla scuola d'Atene, di Sparla e di Roma studia le cagioni cui gli
Stati debbono la propria grandezza ed il proprio decadimento.
«Scorrendo
i bei secoli della Grecia e di Roma, Mably aveva veduto virtù
e uomini straordinari. Le loro istituzioni, le loro leggi, il loro
amore dell'eguaglianza, della patria, della virtù; il loro disprezzo
della morte e delle ricchezze, tutte quelle azioni di eroismo, di
disinteresse, d'amore del pubblico bene, quegli slanci della libertà
che abbelliscono ciascuna pagina della loro storia, sollevarono
l'animo suo e lo riempirono d'ammirazione per i legislatori che
sapevano formar tali uomini e ispirare tali sentimenti nei loro
cuori. Il rispetto religioso che fin d’allora concepì per le leggi
di Licurgo e pel governo di Roma nei bei giorni della Repubblica
lasciarono nel suo spirito tracce che non si cancellarono mai;
e di quelle belle istituzioni ne fece come il modello comune sul
quale misurò tutti i governi moderni». (210)
Né
le osservazioni dei suoi amici, né i loro consigli, né la
stanchezza del pubblico, nulla sgomenta Mably: egli è Greco, e
rimane Greco. Vuole che tutti lo diventino, altrimenti la società è
spacciata. «Eh, lasciate stare i vostri Greci mi è stato detto una
volta; la loro storia è rancida. Chi non conosce Lacedemone,
Licurgo, Atene, Solone, Tebe, Epaminonda, la lega degli Achei ed
Arato? Sì è stanco d'udire a parlare della battaglia di Salamina e
della guerra del Peloponneso. Potevo io arrendermi a siffatti
consigli? Sarebbe una grande sventura se si fosse stanchi di
studiare i Greci e i Romani» (211).
Tale
è la dichiarazione che Mably pone in fronte delle sue Osservazioni
sui Greci. In questa nuova opera, l’autore ad esempio degli
altri filosofi del suo secolo, prende le mosse dell’umanità dal
mitologico stato di natura. Ci rappresenta i primi Greci vivere
isolati nei boschi, non camminare che armati e non conoscere altro
diritto che quello della forza. «Tali sono stati, dice egli, tutti
i popoli al loro nascere: tali sono ancora i selvaggi
dell'America, cui l'usanza con gli Europei non li ha ancora
inciviliti (212)».
Questi
alunni di collegio non fanno conto veruno né della Bibbia, né della
storia, né del buon senso. Ovidio, Virgilio, Lucrezio, Orazio sono i
loro oracoli: lo stesso ridicolo non scrolla la loro fede, tanto è
vero che nell’educazione i libri non sono nulla!
Da
questa prima utopia ne scaturisce un'altra, quella dico, di un
contratto sociale. Avendolo i re dell'Ellenia violato, i Greci
ripigliarono i loro diritti primitivi. Così, fecero i francesi nel
1789. «Senza quella rivoluzione, (dice gravemente Mably, la Grecia
dispoticamente governata non avrebbe prodotto né le leggi, né i
talenti, né le virtù che la libertà e l’emulazione vi fecero
nascere (213).
Come
mai non si doveva crederlo, e come mai i contemporanei di Mably non
avrebbero desiderato il governo democratico di brama uguale al loro
odio all'autorità regia, quando leggevano la seguente pittura della
repubblica di Licurgo? «La sovranità che vi fruiva il popolo lo
portava senza sforzo a tutto ciò che l'amore della libertà e
della patria può produrre di grande e di magnanimo in uno
stato puramente popolare ... «Per rendere i cittadini degni di
essere veramente liberi, Licurgo stabilì una perfetta
eguaglianza nelle loro fortune... Proscrisse l'uso dell'oro e
dell'argento, e mise in corso la moneta di ferro. Stabilì i pubblici
conviti, ove ciascun cittadino fu costretto di dare un esempio
continuo di temperanza e di austerità. Volle che i mobili degli
Spartani non fossero lavorati che con la scure e con la sega: limitò,
in una parola, i loro bisogni a quelli che la natura
indispensabilmente richiede ... I figli formati da una pubblica
educazione s'avvezzavano dal loro nascere alla virtù dei loro padri.
Le donne erano fatte a Sparta per animare e sostenere la virtù degli
uomini. I più violenti esercizi formando in esse, un temperamento
robusto, le innalzavano di sopra al loro sesso, e preparavano l'animo
loro alla pazienza, al coraggio e alla fermezza degli eroi. Ogni
cittadino era soldato (214)».
Riducendo
a fatti le dottrine di Licurgo e di Mably suo interprete, la
rivoluzione decretò l'eguaglianza spartana, i conviti pubblici,
l'educazione comune: esercitò le fanciulle alla ginnastica ed al
nuoto: creò la coscrizione e la guardia nazionale: colpì il lusso
dell'imposta progressiva, e invece della moneta di ferro, mise in
corso una moneta di carta.
Quello
che principalmente dee ispirare nelle nazioni cristiane e monarchiche
il desiderio di diventare spartane e repubblicane si è che
risolutamente non vi ha coraggio militare che fra i repubblicani.
Riproducendo le idee o piuttosto le ingiurie di Rousseau, «noi non
conosciamo più, soggiunge Mably, che cosa sia il soggiogare una
nazione libera. Dappoichè la monarchia è il governo generale
dell'Europa, dappoichè tutti sono sudditi e non cittadini … la
disperazione non può più creare prodigi, e non si dee più sperare
di trovare popoli che preferiscano la propria ruina alla perdita
della loro libertà. Gli Spartani e gli Ateniesi volevano morir
liberi (215)».
Dopo
aver lodato lungamente l'arte militare dei Greci, dopo aver descritto
con compiacenza la falange macedonica e gli uffizii dei falangiari;
dopo aver esaminato sotto l'aspetto della più profonda politica, se
Alessandro operasse ragionevolmente lasciando l'abito greco per
vestire alla persiana, dopo averne giudicato le marce, le soste, le
spedizioni, Mably vuole avanti tutto che le moderne nazioni
conservino la memoria di quei Greci ai quali siamo debitori di
tutto.
Laonde,
ei compone una specie di calendario, in cui nomina fra gli altri: «I
Lacedemoni, gli Ateniesi, i cretesi, i Tebani, gli Etoli, i Tessali,
i Ftioti, i Melesi, i Dori, i Focesi, i Lecresi, gli Eniani, gli
Alissi, i Dòlopi, gli Atamanti, i Leucadi, i Molossi, gli Argivi, i
Sicioni, gli Elei, i Messeni, e gli Attei».
Prostrato
innanzi a questi Greci, la nazione più illustre dell’antichità,
Mably invita l'intero universo ad ammirarlo con lui stesso, e
soprattutto ad imitarlo: «La Grecia, dice egli, non ha avuto quasi
nessuna Repubblica che non si sia resa celebre. Non parlerò d'Atene,
di Corinto, dell'Arcadia, della Beozia. Ma qual società offrì
mai alla ragione uno spettacolo più nobile, più sublime di
Lacedemone? Qual popolo più degli Spartani fu tenace di tutte
le virtù? Leggendone la storia ci sentiamo infiammare: se
rechiamo ancora in cuore, qualche germe di virtù, l’animo nostro
s'innalza e pare voglia trascendere gli angusti confini in cui ci
ritiene la corruttela del nostro secolo (216)».
E
ciò per le istituzioni: ora per gli uomini.
«Un
encomio tutto speciale che merita la Grecia è di aver prodotto i più
grandi uomini di cui la storia debba serbar memoria: non faccio
eccezione neppure per la Repubblica romana. Chi si opporrà ad un
Licurgo, ad un Temistocle, ad un Cimone, ad un Epaminonda? (216a)»
Chi
ci renderà Greci, chi ci renderà i Spartani? Contendiamo almeno di
avvicinarci a quei non imitabili modelli. Tale è il voto di Mably,
l’alunno dei gesuiti di Lione, il suddiacono di San Sulpizio.
Nelle
sue Osservazioni sui Romani, ne forma un altro; ed è di
vedere, per la salute del mondo, le nazioni moderne ritornare alla
scuola della Repubblica di Romolo e di Numa. Mably si congratula coi
Romani di essersi avvantaggiati dei suoi ammaestramenti dei Greci. Vi
è però una istituzione che egli non tollera in nessun paese,
stantechè era sconosciuta in Lacedemone; dico la nobiltà.
Mably
la definisce: «Un corpo la cui propria qualità è, in tutti i
tempi ed in tutti i luoghi, di sprezzare il popolo» (216b). Se
essa non fece perire la repubblica romana per le contese che
suscitò, il motivo è che i Romani erano liberi e virtuosi; ma
presso le nazioni cristiane, che non sono né libere né virtuose,
tale istituzione sarebbe funesta. Se di ciò dubitate, Mably vi
arreca un'autorità a cui non c’è nulla da rispondere:
«Machiavelli, dice, ha provato, nei suoi discorsi sopra Tito
Livio, non potere la libertà lungamente sussistere in una repubblica
dove vi sono nobili: questo è un tarlo che rode insensibilmente
la libertà (216c)».
Non
terremo dietro all’abate Mably nel lungo encomio di più di 500
pagine ch'egli impiega in magnificare la saggezza, la giustizia, la
virtù dei Romani: ché già ne abbiamo conoscenza, da quello dei
Greci, essendo la stessa, mutati soltanto i nomi, la sostanza (217).
Alleghiamo soltanto un brano che mostra sino a qual grado fosse
giunta l'ammirazione di Mably pei Romani, ed il disprezzo per la
propria sua nazione. Parlando di una storia di Francia, ch'ei,
suppone fatta per bene, dice: «Non avrei forse avuto minor
diletto in conoscere come un popolo rimanga in una perpetuale
infanzia, che a svolgere i moventi della grandezza romana».
L’ingiustizia di Mably, parve così grande, che uno dei suoi
ammiratori non poté tenersi dall'esclamare: «La perpetuale infanzia
della nazione francese! E il popolo virile, il popolo dato in esempio
a tutte le nazioni è quello cui i talenti, le arti, la filosofia, il
lusso hanno ammollito senza poterlo ingentilire: i cui giuochi stessi
erano sanguinosi: che faceva plauso al gladiatore che moriva con
grazia, ed esasperava con urli atroci gli ultimi momenti di quello
che spirava contro le regole dell'arte: che trascinava in trionfo i
re vinti e le regine il cui coraggio e la cui sventura avrebbe dovuto
rispettare, che non avendo più bisogno di aumentare la propria
popolazione, vendeva all’incanto i popoli soggiogati, come i
selvaggi dell'America ricevono fra loro il vinto nemico se hanno una
capanna vuota, e lo fanno morire nei tormenti se non hanno capanne da
riempire. Quali fanciulli Carlo il Saggio, Luigi, Padre del popolo,
Arrigo IV, Luigi XIV, Sully, Colbert, Duguesclin, Condé, Turenna!
Quali fanciulli Bossuet, Fénelòn, Corneille, Racine, La Bruyére,
Pascal, giganti della letteratura, seguiti da uomini che furono loro
eguali, senza esserne imitatori, e che con un genio differente
brillarono dello stesso splendore! (218)
Il
disprezzo del proprio paese, il disprezzo delle sue leggi, delle sue,
usanze, delle sue arti, delle sue lettere, delle sue glorie, dei suoi
grandi uomini, questo è che si acquista con l'educazione di
collegio. E quando si è ripetuto: Gli autori pagani non sono
pericolosi, poiché essi non faranno rivivere il culto di Giove, di
Mercurio o di Venere; si crede d'aver detto tutto!
____________________
CAPITOLO
XVI.
MABLY
(Continuazione
e fine).
Sempre
fuori del cristianesimo.-Analisi dei Principii di morale.-
Mably opposto al Vangelo. - Disprezzo delle virtù cristiane. - Mably
non conosce che le virtù pagane. - La sua morale è quella
dell'interesse. Approva un passo scandaloso di Cicerone.-
Analisi dei Diritti del cittadino. - Mably sospinge allo
sconvolgimento dell'ordine sociale.- Predica la repubblica. - Mably
tratto a perdizione dalla sua educazione di collegio. - Parole di
Brizard.
***
Se
abbiamo letto bene nei 23 volumi del suddiacono di San Sulpizio,
l'ufficio sociale della Chiesa non vi è indicato, il nome stesso di
nostro Signore Gesù Cristo non vi è menzionato neppure una sola
volta. Quello che possiamo affermare si è che questo nome adorabile
brilla per la sua essenza in un libro di Mably dove avrebbe dovuto
tenervi il primo posto; vogliamo parlare dei Principi di morale.
A motivo della sua origine questa opera è una delle più scandalose
predicazioni del materialismo in materia di religione. L'autore,
tenendosi sempre fuori del cristianesimo, cerca i principi delle
virtù nell'uomo e gli esempi di essa non nella storia dei santi, ma
nei Romani e nei Greci. Per lui le virtù cristiane non sono nulla, e
neppur si degna di nominarle. La prudenza, la fortezza, la giustizia,
la temperanza, l'amor della patria l'amor della gloria, virtù tutte
umane, praticabili, in un certo grado, senza il lume della fede e il
sussidio della grazia; quali in una parola sono insegnate
all'infanzia nel libro intitolato: Selecta e profanis
scriptoribus, costituiscono tutta la perfezione.
A
giudizio del discepolo di Licurgo e di Catone, il cattolicismo non ha
saputo classificare le virtù e i doveri. In cima delle nostre
obbligazioni, la teologia pone quanto dobbiamo a Dio: Mably, riguarda
questo ordine come funesto. «Questo metodo, dice egli, che a prima
veduta sembra il solo ragionevole è precisamente ciò che ha
prodotto una gran parte dei nostri pregiudizi e delle nostre
sventure, perché non è proporzionato alla natura dell’uomo»
(219).
E
nostro Signore ha detto: «Amerete il Signore Iddio vostro con tutto
il vostro spirito, con tutto il vostro cuore e con tutte le vostre
forze: questo è il primo e maggior precetto: Il secondo è simile al
primo: Amerete il vostro prossimo come voi stessi».
Mably,
che forse non ha mai letto il Vangelo, non è arrestato da queste
parole; e sostiene la propria tesi, annoverando, sulla fede di
Giovenale, gli eccessi a cui la superstizione condusse gli abitanti
di Ombo e di Tentira (220). «I cristiani stessi, soggiunge poi, non
sono andati esenti da questi errori. Si è perseguitato talora il
prossimo senza piacere a Dio: si è creduto che Iddio avesse
bisogno delle nostre braccia per difendere la verità, ed i
popoli sono stati il zimbello dello zelo fanatico o dell'ambizione o
dell'avarizia dei grandi che li conducevano alla battaglia (221)».
Popoli,
lasciate oltraggiare il vostro principe: figliuoli, lasciate
oltraggiare il vostro padre: uomini, lasciate oltraggiare il vostro
Dio: ei non abbisogna di voi per difendersi. Chi altramente
adoperasse, si renderebbe zimbello del vostro fanatismo personale o
dell'ambizione e dell'avarizia altrui. All'indifferenza in materia di
religione Mably aggiunge il disprezzo delle virtù cristiane. I
popoli migliori sono quelli dove filosofi meno sottili dei teologi
hanno predicato virtù più umane: «Quei savi, dice egli
recisamente, insegnavano ai loro concittadini che le virtù che fanno
i buoni cittadini, i buoni padri di famiglia, i buoni amici, i buoni
padroni e i buoni servitori, sono le prime virtù, e che il mezzo
migliore di meritare i favori del cielo è d'esser utile agli
uomini... Questa filosofia più umana di cui parla, farà degli
Aristidi, degli Epaminonda, dei Socrati, dei Decii, dei Fabricii, dei
Camilli e degli Scipioni (222)».
Questi
sono per Mably i veri santi, cui il cristianesimo non ha nulla da
paragonare. Come mai questi bei frutti sono cresciuti nell'antichità
pagana? Il motivo è che ivi tutto portava alla virtù. Le antiche
repubbliche fondate dai filosofi erano meglio istruite delle nostre,
fondate da Gesù Cristo, dagli apostoli e dai Padri della Chiesa. Le
loro leggi, il loro governo, la loro polizia erano disposte per
maniera che ciascun cittadino non poteva rendersi felice se non in
quanto pareva dimenticasse sé stesso per non occuparsi che della
prosperità degli altri.
«Ciascuna
virtù, dice Mably, aveva una ricompensa certa, e tali erano i
pubblici costumi, che ciascun cittadino praticava pel suo
vantaggio particolare, per quanto lo permettevano le sue forze,
quelle virtù eroiche che ci levano a stupore, e che quasi ci
sembrano menzogne (223)».
E
questa è la teorica della morale dell'interesse, che, durante la
rivoluzione, prenderà nella bocca di Làvicomterie, il nome di
morale calcolata e darà alla Francia una generazione
d'Epaminonda, di Socrati e di Fabricii.
Questo
codice di morale è fondato sopra due contratti sociali: il primo,
che mette fine allo stato di natura: il secondo, che ne fu
l'immediata conseguenza e che l'uomo così formulò al suo vicino:
«Tu sei uomo, ma lo sono io pure e i nostri diritti sono uguali: se
tu mi batti, io ti batterò: veniamo dunque, a patti: io difenderò
la tua felicità, e tu difenderai la mia! Ecco il trattato d’alleanza
perpetua che la Natura ha reso necessario; perché voleva
riunirci in società ...» Da questo adunque, conclude Mably, debbo
trarre tutte le regole della morale (224)».
Le
principali virtù che scaturiscono da questo decalogo sono l’amore
della patria, l'amor del pubblico bene e l'amor della gloria; esse
non furono perfette che a Sparta (225). Ora, l'amor della patria non
impediva nei santi del paganesimo, un altro amore. Per un fanatismo
che ci dee far tremare, Mably scusa quel vizio e reputa lodevole una
delle pagine più immorali di Cicerone.
«Prego,
dice egli, i miei censori di ricordarsi come Cicerone, perorando a
favore di Celio, ne scusa le galanterie con Claudia. Quel savio
Consolare, tanto dotto nel conoscimento del cuore umano, non avea per
fermo una morale rilassata.
«Concediamo,
dice egli, qualche cosa all'età (226), purché l’errore non sia
che momentaneo».
«Ecco,
mio caro Aristo, checché possano dire i tuoi censori, i principi
d'una morale che vuole profittare in parte dei nostri figli per
correggerci. Codesti censori dalla buona apparenza avrebbero forse
l’impudenza di voler essere più saggi di Catone? Quest'uomo
cui tutti i secoli ammireranno, approvava assai un giovane
che preferiva di andare in un luogo poco onesto alla pretesa nostra
gloria di sedurre una cittadina e di turbar l'ordine e la pace di una
famiglia virtuosa. Lo sappiamo da Orazio, al quale questo giudizio di
Catone sembra il giudizio di un Dio: Dia sententia Catonis».
Al
vedere tanta perfezione nei Romani, e tanto imbrutimento nei
Francesi, Mably esclama dolorosamente: «Noi non siamo degni di
governarci come i romani (227)».
Poscia,
sollevando la corrugata sua fronte, lascia trascorrere queste parole
degne di un Romano, e che la rivoluzione ha tante volte ripetuto,
sino ai piedi del patibolo reale: la Francia parlando al re gli dice:
Chi sei tu? La nazione ti ha fatto quello che sei. La Francia
non appartiene a te, ma sì tu ad essa: tu sei il suo uomo
d'affari: il suo procuratore, il suo intendente. O per errore, o
per destrezza, o per ambizione i tuoi padri si sono impossessati
dell'autorità legislativa. Un'usurpazione fortunata è dunque un
titolo così rispettabile che i tuoi popoli non possano più
rivendicare le leggi imperscrittibili della Natura, quando non
vorrai più riconoscere altra regola delle tue azioni che il tuo
beneplacito? (228)».
Pochi
anni appena separano quest'apostrofe dalla sollevazione degli Stati
generali; e tra gli Stati generali, l'abolizione del monarcato, lo
stabilimento della repubblica, ed il 21 gennaio, quanti anni
annoverate? Tale è dunque l'effetto delle dottrine greche e romane
seminate fin dall’infanzia nell'animo di Mably e da lui sparse
nella società letterata. Senza parer di convenirne, egli stesso
confessa che la sua educazione di collegio gli ha fatto dar volta al
cervello: Nei suoi Diritti del cittadino, riconoscendo di
essersi avanzato più di quello che fa prudenza permetta, dice: «Con
più amore della patria e della libertà che non ve ne mostro, sarei
tenuto per un visionario. La testa ha dato volta a questo povero
uomo, gli è peccato, dicevano i suoi amici, ché pareva avesse
buon senso: ei s'è guastato la testa leggendo la storia dei Greci
e dei Romani cui amava e che non sono più buoni a null’altro
che a fare eroi da romanzo e da teatro» (229).
La
testimonianza seguente è ancor più diretta: «Mably, scrive l'abate
Blizard, si è nutrito in tutti i tempi della lettura degli
antichi: sapeva quasi a memoria Platone, Tucidide, Senofonte,
Plutarco e le opere filosofiche di Cicerone. Ei fu sempre loro
ammiratore appassionato. E veramente gli antichi sono ancora e
saranno sempre i nostri maestri (230)».
«A
questa scuola degli antichi e principalmente nella storia e negli
scritti dei popoli liberi si attingono, col loro genio,
ammaestramenti di morale, di grandezza d'animo, di amore della
patria, delle leggi e delle libertà. Coloro che in questo
studio non vedono che greco e latino s'ingannano grandemente: finché
si potrà attingere a questa pura sorgente, l'ignoranza e la servitù
non si impossesseranno totalmente dell'universo, e sempre vi sarà
speranza.
«Ivi
si è formato Mably, ed in quelle sante emanazioni ha
forse cercato più le tracce delle loro virtù, che il fuoco del loro
genio» (231).
Richiamando
le biografie precedenti di Voltaire, di Rousseau di Montesquieu, si
trova che fra i filosofi del XVIII secolo, Mably, è la quarta
vittima del Risorgimento e degli studi di collegio.
_________________
CAPITOLO
XVII.
CONDORCET.
Sua
nascita. - Sua educazione presso i Gesuiti. - Anima vuota di
cristianesimo ed ebbra di paganesimo. - Sua professione di fede.
– Sua Memoria sull'ordinamento delle accademie. - Suoi
discorsi pieni di memorie classiche. - Suo disprezzo dei suoi maestri
e suo odio del Cristianesimo. - Lettere a Voltaire, a Turgot. - Suo
odio dell'ordine sociale. - Suo fanatismo repubblicano. - Fa ardere
tutti i titoli di nobiltà. - È proscritto coi Girondini. -
Repubblicano e pagano sino alla morte. - Ei muore come Socrate.
***
Intanto
che, i gesuiti di Parigi vedevano uscire dalle loro mani Voltaire,
quelli di Tolosa, Cerutti; quelli di Lione, Mably; i loro confratelli
di Réims facevano l'educazione d'un nuovo filosofo che,
dall’infanzia appassionato come gli altri per l'antichità pagana,
andava a prendere posto fra i più ardenti nemici della religione e
della società: Questa nuova vittima degli studi di collegio chiamasi
Gian Antonio Caritat, marchese di Condorcet.
Condorcet,
nato il 17 settembre 1743 nella piccola città di Ribemont in
Piccardia, perdette suo padre in età di quattro anni.
Per
sottrarre l’unico suo figlio ai primi pericoli dell’infanzia, la
pia sua madre lo votò alla Vergine Santissima, e lo, mandò vestito
di bianco sino ad otto anni. Venuto l'undecimo anno e con esso il
tempo di cominciare gli studi classici, il vescovo di Lisieux, zio di
Condorcet, affidò il proprio nipote ad un gesuita. Questi lo preparò
ad entrare nel collegio di Reims, diretto dai Padri della sua
Compagnia. Nel mese d'agosto 1756, Condorcet, allora di tredici anni,
conseguì il premio d'umanità.
«Il
giovane Condorcet, appena apri gli occhi, dice Arago, videsi
circondato d'una famiglia composta dei più alti dignitari della
Chiesa, e d'uomini di spada, fra i quali regnavano esclusivamente le
idee di nobiltà: prime sue guide, primi suoi istitutori furono
gesuiti. Quale fu il frutto di un concorso di circostanze così poco
ordinarie? In materia politica, la più aperta avversione da
qualunque idea di prerogativa ereditaria: in materia religiosa lo
scetticismo spinto agli estremi confini (232)».
Strano
fenomeno! Ecco un fanciullo, uscito di nobile famiglia, nato da una
madre di profonda pietà che nulla pretermette per salvare
l'innocenza e la fede dell’unico suo figlio, che lo tiene sotto le
ali materne fino a undici anni, che ricco del duplice tesoro
dell'innocenza e della fede lo affida ai Padri della compagnia di
Gesù, e che, in età di 17 anni quando esce di collegio, è
democratico e scettico. La professione di fede ch’ei fece in quella
età e che quanto prima analizzeremo, giustifica tristemente le
parole del suo biografo.
Ora,
ogni fatto ha una cagione: come si spiega questo in Condorcet? Come
si spiega in Voltaire, in Cerutti, in Mably, in Condillac e negli
altri filosofi che avremo occasione di nominare ancora?
Partito
da Reims, Condorcet venne ad incominciare a Parigi i suoi studi
matematici nel collegio di Navarra. Era già molto lontano dalle idee
cristiane, alle quali per mala sorte non doveva mai ritornare.
«Uscendo di collegio, continua Arago, Condorcet era già un
pensatore profondo. Trovo in una lettera del 1773, scritta a
Turgot, e intitolata Mia professione di fede, che in età di
17 anni il giovane scolaro aveva, rivolte le sue riflessioni
sulle idee di giustizia a di virtù, e cerca (lasciando stare
considerazioni d'un altro ordine), come il nostro proprio
interesse ci ordina di essere giusti e virtuosi (233)».
Ciò
significa che, disdegnando gli insegnamenti del cristianesimo, e
cercando nella propria sua ragione le basi della morale, il giovane
Condorcet suppone, che l’uomo basti a sé medesimo per essere
virtuoso e per attuare in tutti i i secoli i tipi gloriosi che ha
lungamente ammirato in Cornelio, in Plutarco o nel libro Selecta e
profanis scriptoribus. Naturalismo in materia di religione, e
perciò indifferenza di qualunque religione rivelata. Condorcet
stesso si fa sollecito di dirlo.
In
una Memoria sull'ordinamento delle società scientifiche in
Europa, e, particolarmente in Ispagna, Condorcet esorta le autorità
spagnole a non investigar mai per la scelta dei candidati, i loro
principi religiosi, e fa questa domanda: «Credete che un'accademia
composta dell'ateo Aristotele, del brama Pitagora, del musulmano
Alhaseh, del cattolico Cartesio, del giansenista Pascal,
dell'oltramontano Cassini, del calvinista Uigenie, dell'anglicano
Bacone, dell’ariano Neutono, del deista Leibnizio non varrebbe
quanto un'altra? (234)
E
questo riguardo al domma. In altro luogo facendo professione di non
conoscere che le virtù greche o romane, così discorre delle
evangeliche: «Io penso che stabilendo un ordine nelle virtù, si
debba collocare la giustizia, la beneficenza, l’amor della patria,
il coraggio, l'odio dei tiranni, molto di sopra alla castità, alla
fedeltà coniugale, alla sobrietà (235). Un cristiano perderà a
rintuzzare gli stimoli della carne il tempo che avrebbe potuto
impiegare in cose utili all'umanità» (236).
Ad
esempio di Cornelio Nipote, egli crede doversi distinguere, in fatto
di costumi, quello che non è che locale da quello che è di tutti i
tempi e di tutti i luoghi. Così la fornicazione è permessa o
vietata secondo i diversi gradi di longitudine: ciò non é che
locale (237).
Al
libero pensare, Condorcet aggiunge l'amore delle lettere, il cui
tipo, a suo avviso, si trova soltanto nei modelli dell’antichità e
nei loro imitatori.
Rispondendo
al conte di Choiseul-Gouffier, allorché il 26 febbraio 1784, fu
ricevuto all'accademia francese, Condorcet gli dice: «Voi avete
offerto un grande esempio ai giovani, cui la sorte fa il pericoloso
dono d'una grande dovizia … Ardente amatore dell’antichità e
delle arti, avete lasciato tutto per andarne a studiarne i ruderi in
mezzo alle macerie d'Efeso e d'Atene, ed interrogare i monumenti di
quel popolo così grande e così amabile, al quale siamo debitori
di tutto, poiché gli siamo debitori delle nostre cognizioni
(238)».
E
il Vangelo? E gli alti intelletti cristiani dell’Oriente e
dell'Occidente? Condorcet non li conosce o li disprezza: chi gliene
ha parlato? chi glieli ha fatti studiare, ammirare?
Lo
spirito, il cuore, la fantasia, tutto in lui vive nell'antichità. Il
4 settembre 1784 egli apre la tornata dell'accademia delle scienze
con questo discorso:
«Questo
giorno glorioso per noi sembra che ravvivi ai nostri occhi i tempi
ognora celebri in cui gli eroi di Atene, reduci dalle loro
vittorie, non isdegnavano di entrar nelle scuole ad udire la voce di
Anassagora e di Socrate, oppure quei Cesari, così grandi in senato,
così formidabili alla testa delle legioni, deposti gli allori
raccolti sulle sponde dell'Eufrate e del Reno, discutere i principi
della filosofia con Apollonio, con Plinio e con Massimo …
Ma
quei tempi che furono quelli della gloria o della felicità delle
nazioni governate da quei grandi uomini, non segnano nella storia
che un breve periodo di giorni sereni, che hanno brillato di
distanza in distanza in mezzo una lunga serie di secoli condannati
all’errore e alla miseria (239).
Niuno
per fermo potrà negare che l'educazione di collegio non si manifesti
tutta intera in questa diceria da retore sì nella sostanza e sì
nella forma. Questo amore per le lettere trascina Condorcet verso
colui che ne è l’oracolo: egli idolatra Voltaire. In compagnia di
d'Alembert va a recargli i propri omaggi a Ferney, ed incomincia col
Dalai-Lama del XVIII secolo, come dice Arago, un epistolario seguito,
in cui l'alunno dei gesuiti palesa il suo disprezzo per la religione
ed il suo odio per i suoi maestri, e più veramente per i suoi
ripetitori.
Il
10 aprile 1772 scrive a Voltaire: «Perché mai, mio illustre maestro
non mi avete mandato il nono volume dell’Enciclopedia? Credete che
niuno più di me partecipi alla sorte di Gargantua? Io non ho mai
amato i mangiatori di uomini; e dappoichè ho veduto nelle
vostre opere ch'egli avea mangiato dieci pellegrini in insalata, l'ho
preso in avversione, e con lui, la sua abazia e tutti
coloro che ne vivono ...
«Il
signor Bergier (240) ha avuto la bontà di scrivere che noi eravamo
enciclopedisti i quali in un dopo pranzo avevano fatto tre o
quattrocento versi empi per assicurare il buon successo della
tragedia (i Druidi). Questo Bergier l’aveva approvata l’anno
scorso; ma essendo parsa cosa irreligiosa a tutte le pinzochere
titolate quando fu rappresentata a Vérsailles, ed avendogliene fatti
rimproveri, egli ha risposto che la non era più la stessa. Noi
l'abbiamo convinto d’aver mentito; ed ecco che nella sua
fazione egli è riguardato come un confessore. Lo hanno paragonato ai
Santi Padri i quali mentivano, così sfacciatamente in favore della
fede; ed avrà una grassa pensione sull'abazia di Teléme alla
prima promozione ...
«I
mercanti di ciambelle azime si lagnano che il commercio va
decadendo tutti gli anni.
«Eccovi
le notizie della, giornata: non ne ho di migliori da mandarvi.
«Martedì,
detto volgarmente martedì santo (241).
Condorcet
non aveva 29 anni quando scriveva queste linee, degne di un pagano,
degne principalmente di colui cui erano indirizzate.
In
altro luogo, ei dice a Voltaire: «Gli amici dei gesuiti hanno già
mutato disegno tre o quattro volte: «Chi facil cangia o è fiacco
o è ingannatore.
«Dovete
dunque diffidarvi: che abbiavi una congregazione di frati
incaricati d'imbestialire la gioventù con gesuiti o senza gesuiti, è
cosa sempre egualmente detestabile. Lo spirito è il medesimo ...
Non sembra anche a voi come a me, che, in tutte le nazioni, la
razza d’uomini più spregevole e la più esosa non sia quella dei
preti cattolici?
«Addio,
mio caro ed illustre maestro. Conservatevi sano: vivete per la
buona causa: Voi siete come il Giove Omerico: solo in uno
dei piattelli della bilancia date il tratto sopra tutta la turba
degli stolidi, dei bricconi, degl'imbroglioni, dei fanatici ed anche
degli atei» (242).
L'odio
che porta alla religione ed ai gesuiti non è superato che dal suo
amore per i filosofi e per la filosofia. Questa anima, vacua di
cristianesimo e briaca di paganesimo non può tollerare che sia a lui
ed ai suoi soci d’armi sia impedito di demolire a loro talento
l'edificio religioso e sociale per rizzarne uno sul modello antico,
nel quale non vi avrà più né superstizione né servitù. Il 16 di
gennaio 1774. Condorcet scrive a Turgot: «Il parlamento ha
condannato il Buon senso (del barone d’Holbach) ed il libro
di Elvezio (Dello spirito) ad essere al solito lacerati ed
arsi, ad esempio di Tiberio imperatore, di gloriosa memoria (243)».
Quando
Condorcet sarà divenuto membro della Convenzione, vedremo quale sarà
la sua condotta in materia di libertà.
Frattanto
aggredisce con nuova rabbia il cristianesimo ed i suoi difensori, e
per venire a riva di questa empia lotta implora l'influenza del
ministro Turgot: Nelle sue lettere del luglio 1774 e gennaio 1775, ei
dice: «Se non si può dare la caccia alle bestie feroci, è almeno
necessario di fare strepito per impedire che si scaglino sopra gli
armenti. Il vostro ingresso al ministero è un colpo di fulmine ...
Quante cose sono da farsi pel bene pubblico! Proscrivere il
fanatismo e far giustizia degli assassini di Labarre …
«Dopo
il male d'una religione intollerante, la cui morale diretta dai preti
è necessariamente abietta e crudele, il maggior male è
di vedere i principi della morale pubblica essere ludibrio di tutte
le persone illuminate. Ora noi siamo appunto a questo. Il colosso è
mezzo distrutto; ma conviene spezzarlo totalmente, perché importa
mettere qualche cosa in luogo di esso (244).
In
Condorcet, come in tutti i fanatici ammiratori del Risorgimento, il
disprezzo dell'ordine sociale esistente si congiunge con l'odio
dell'ordine religioso. Tutto quello che non si può giustificare con
un esempio della bella antichità è per lui inutile e ridicolo.
Così, a proposito della consacrazione di Luigi XVI, scrive a Turgot
(22 settembre 1774): «Non credete voi che fra tutte le spese
inutili, la più inutile e la più ridicola, non fosse quella
della consacrazione? Trajano non è stato consacrato (245).
Scoppia
la rivoluzione e con essa l'entusiasmo repubblicano di Condorcet:
L’agguagliamento dell'ordine sociale, l'emancipazione della ragione
umana, in una parola: l’apoteosi dell'uomo che gli ricorda i bei
giorni della classica antichità lo riempiono di beatitudine. Il 12
giugno 1790, si presenta con l’accademia delle scienze alla sbarra
dell’Assemblea nazionale e pronunzia un discorso nel quale dice:
«Ciascuno di noi, come uomo, come cittadino, vi debba eterna
riconoscenza per quella dichiarazione dei diritti, che vincolando i
legislatori medesimi coi principi della giustizia universale, rende
l'uomo indipendente dall’uomo, e non ne sottomette la volontà che
all'impero della ragione.
Avete
esteso i vostri benefizi a tutti i paesi, a tutti i secoli, e
consacrato tutti gli errori e tutte le tirannidi ad una rapida
distruzione (246).
Divenuto
legislatore, Condorcet non si lascia sfuggire di mano alcuna
occasione di adoperarsi efficacemente al rapido annientamento di
tutti gli errori e di tutte le tirannidi.
Non
riparleremo del progetto d'istituzione pubblica da esso proposto
alla Convenzione: Rammentiamo che Condordet fonda lo sviluppo morale
dell’uomo sull'ateismo, e per dare una mentita al Vangelo, vuole
che una volta alla settimana i maestri delle scuole primarie facciano
qualche miracolo alla presenza dei loro discepoli e di tutto il
villaggio adunato.
Con
zelo non minore, il marchese di Condorcet aggredisce, l'ordine
sociale. Il 19 giugno 1792 ascende la tribuna e spingendo i suoi
sentimenti repubblicani sino al vandalismo fa questo discorso:
Oggi
é l'anniversario di quel giorno memorando in cui, l'Assemblea
costituente, distruggendo i gingilli della nobiltà, le cui
prerogative aveva già cancellate, ha posto l'ultima mano
all'edifizio dell'eguaglianza politica. Solleciti ad imitare
un così preclaro esempio, l'avete proseguita sino nei
depositi che servano di rifugio all'incorreggibile sua vanità. Oggi,
in questa capitale, la ragione, abbrucia appiè della statua
di Luigi XIV quegl'immensi volumi che facevano testimonianza
della vanità di quella setta.
«Altri
vestigi sussistono ancora nelle biblioteche pubbliche, nelle camere
dei Conti, negli archivi dei capitoli delle prove in cui
richiedevansi prove, e nelle case dei genealogisti: è d’uopo
involgere quei depositi in una distruzione comune. Non farete
custodire a spese della nazione quella ridicola speranza che sembra
minacciare l'eguaglianza. Vi proporrò quindi il decreto seguente:
«Art.
1. Tutti i titoli genealogici che si troveranno in un deposito
pubblico, qualunque sia, saranno abbruciati.
«Art.
2. I direttori di ciascun dipartimento sono incaricati
dell'esecuzioni del presente decreto».
Esso
venne, adottato nella stessa sessione e senza discussione (247).
Sotto
i colpi di Condorcet e di tutti i giovani letterati di collegio, è
caduta la nobiltà, è caduta la monarchia, è caduta la testa d'un
re di Françia, è proscritta la religione, la repubblica è
inaugurata. Ma tosto la ragione, dichiarata indipendente si
personifica ora in una fazione, ora in un'altra; ed il primo uso che
fa della propria sovranità, è di stritolare senza pietà i suoi
devoti adoratori; e lo stesso Condorcet non doveva evitare l’impero
della terribile deità.
Proscritto
coi Girondini, va errando e per qualche tempo, e finalmente trova
rifugio presso la vedova Vernet, nella contrada Servandoni n. 21.
Dopo alcuni mesi non tenendosi ivi sicuro, gli riesce d'uscir di
Parigi.
Il
5 aprile 1794, in abito e berretto grossolano, si avvia verso
Clamart, si presenta verso le 10 di sera a casa dei signori Suard,
che, invece di ospitalità, gli danno per consolarsi le Epistole
d'Orazio!
Non
sapendo ove ripararsi, Condorcet si rifugia nelle cave di marmo, dove
passa la notte e il giorno seguente. Il giorno 7, stimolato dalla
fame, entra in un'osteria di Clamart: vi è arrestato ed è condotto
a Borgo la Regina, la cui prigione doveva servirgli di sepolcro.
Sino
alla morte è dominato dalle sue rimembranze di collegio. Nelle
ultime parole che scrive, manifesta la sua volontà che la propria
figlia; venga educata nell'amore della libertà, dell'eguaglianza,
nei costumi e nelle virtù repubblicane; e per aggiungere alle
parole l'autorità dell'esempio: «Riguardo a me, dice, morrò
come Socrate (248)».
Infatti,
allorché il giorno 8, alla mattina, il custode della prigione di
Borgo la Regina aprì la porta del carcere, non trovò che un
cadavere. Condorcet si era avvelenato con una forte dose di veleno
concentrato che da qualche tempo portava in un anello. Così dalla
cicuta in fuori, la sua morte fu quella di Socrate.
_____________________
CAPITOLO
XVIII
D'ALEMBERT.
Sua
nascita. - Sua educazione - S'innamora dell'antichità. - Suo
discorso all'Accademia. - Suo elogio ai Mani di madamigella di
Lespinasse. Suoi omaggi al Risorgimento. - Gli attribuisce
la rigenerazione del mondo, le lettere, le arti, la filosofia. -
Riflessioni sulle lettere e sulle arti.
***
Il
16 novembre 1717, il commissario del quartiere di Nostra Signora, a
Parigi, raccoglieva sulla scaléa di San Giovanni le Rond, un bambino
esposto di recente. Sia che avesse segrete istruzioni, sia che la
vita di questo bambino gli paresse così delicata da richiedere cure
assidue, il commissario lo affidò alla moglie di un povero vetraio,
che lo allevò con materna sollecitudine. Questo fanciullo, che si
seppe in seguito essere, figlio naturale di Destouches Conon,
commissario provinciale d'artiglieria e di madama Tencin, fu chiamato
Giovanni le Rond d'Alembert.
Di
quattro anni fu messo in una pensione. Di dieci anni conosceva così
bene gli autori classici che il suo maestro dichiarò non aver
più nulla da insegnargli. Entrò nel collegio Mazarino, invaghito
delle belle lettere; e specialmente della poesia latina a cui dava
tutti i momenti che gli lasciavano le altre occupazioni scolastiche
(249). I suoi maestri erano giansenisti fanatici i i quali, cercando
di tirarlo nella loro setta, contendevano di persuadergli che la
poesia inaridiva il cuore. D'Alembert passò cinque anni sotto di
essi, e tutto quello che ottennero da lui fu un commentario
sull'Epistola ai Romani, che scrisse durante il suo primo anno
di filosofia.
Nell’anima
del giovane d'Alembert il posto era già preso; ed il giansenismo dei
suoi professori non vi ebbe maggior accesso di quello che la dottrina
cattolica del P. Porée in quella di Voltaire e di Elvezio. Uscito
appena di collegio, d'Alembert si collega strettamente con questi due
filosofi, come pure con Condorcet e con Diderot. Questo è il luogo
di domandare come mai quei giovani sottoposti ad influenze così
contrarie, venuti da collegi così diversi, armonizzano senza sforzo,
e in maniera naturalissima, di sentimenti e di pensieri? Chi
s’assomiglia s’acconta. Facile è il vedere nonostante gli
ammaestramenti contraddittori dei loro professori: la loro educazione
è stata la stessa: ch'essi amano, ammirano, riguardano come maestri
ed oracoli i grandi uomini dell'antichità: che poca o niuna fiducia
hanno nella parola dei loro ripetitori; niuna stima, niun amore della
loro persona. Essi non tarderanno molto a manifestare tutti questi
sentimenti, e l'intera loro vita non sarà che un encomio continuo
della pagana antichità; dei suoi grandi uomini e dei suoi grandi
fatti, un disprezzo e un odio non meno continuo dei gesuiti, dei
giansenisti e del cristianesimo stesso.
Dopo
essersi fatto ricevere avvocato, poi medico, d'Alembert si diede con
ardore alle matematiche, senza però porre in dimenticanza Tacito, di
cui era appassionato ammiratore (250).
Le
sue opere di matematica sono senza dubbio il vero fondamento della
sua gloria, e lo collocano, con Eulero, fra i più celebri geometri
del suo secolo: Nel 1754 gli aprirono le porte dell'accademia
francese, e d'Alembert occupò il seggio lasciatovi vacante dalla
morte del vescovo di Vence. Nel suo discorso di ricevimento, dove
trova luogo di parlare di Cicerone, di Demostene, di Pompeo, di
Cesare, di Mitridate, dei Lacedemoni, di tutte le sue ricordanze di
collegio, trova anche modo di annicchiarvi una requisitoria contro la
religione e in favore della filosofia.
Facendo
l’elogio del suo predecessore, ei dice: «Fu egli principalmente
assai lontano da quel cieco e barbaro zelo che cerca l’empietà
dove non è, e che, meno amico della religione che nemico
delle scienze e delle lettere, oltraggia e denigra gli uomini
irreprensibili nella loro condotta e nei loro scritti ... La
religione è debitrice alle lettere, ed alla filosofia del
rassodamento dei suoi principi, i sovrani, del rassodamento dei loro
diritti combattuti e violati in secoli d'ignoranza, i popoli di
quella luce generale che rende più dolce l'autorità e più fedele
l’obbedienza (251)».
L'educazione
di collegio che non aveva armato lo spirito di d'Alembert contro la
miscredenza, aveva, a più forte ragione, lasciato il suo cuore senza
difesa contro gli allettamenti della voluttà. Né le egloghe, né
l'Eneide di Virgilio, né le poesie d'Orazio, o d'Ovidio, né le
stesse opere di Cicerone, sanno mettere un freno, alle sue passioni
nascenti. D'Alembert amò perdutamente madamigella di Lespinasse. Nei
teneri versi che le indirizza sembra di udir Tibullo, tanto il
pensiero e le forme sono degne del bel secolo d'Augusto.
Essa
muore, e il 22 luglio 1776, d'Alembert le consacra un elogio che
s'intitola: Ai mani di madamigella di Lespinasse.
«O
tu! che più non puoi udirmi, tu che ho con tanta tenerezza amata ...
che ho preferito a tutto, oh se ancora hai qualche sentimento in
cotesto soggiorno della morte (252), che ben presto sarà anche
il mio, vedi la mia sventura e le mie lacrime ... Ohimè! Nessuno ne
verserà sulla mia tomba, ed io vi discenderò quanto prima dietro a
te, sclamando con Bruto al momento che dà morte a sé stesso:
O virtù! nome sterile e vuoto, a che mi hai giovato nei sessant'anni
che mi ho trascinato sulla terra! oh natura, oh destino! mi
sottopongo a questa fatale sentenza della mia sorte: veggo con
Orazio, il fato conficcare i ferrei suoi chiodi
nell'infelice mio capo» (253).
La
stessa assenza di cristianesimo si scorge nelle opere letterarie e
filosofiche di d'Alèmbert: in esse l’odio del cristianesimo
cammina del pari con l'ammirazione della classica antichità. Il suo
Epistolario, il suo Discorso preliminare dell'Enciclopedia,
i suoi Elementi di filosofia ne danno prova, ad ogni pagina.
«Nella
prima di queste opere, dice il signor Lecretelle, autore poco
sospetto, d'Alembert e Voltaire fanno una pompa deplorabile di
disprezzo per la religione cristiana. Un gran poeta e un gran
geometra, sembra che si sollazzino a rappresentare una cospirazione
... Un solo pensiero domina nelle loro lettere, ed è di riunire
contro la rivoluzione tutte le forze dello spirito filosofico (254)».
D'Alembert,
ammesso in tutte le conversazioni, tiene, informato Voltaire di tutto
ciò che avviene a Parigi, gli dà consigli utili alla loro causa,
gli accenna gli argomenti da trattare, gli uomini da mettere in
ridicolo, ne applaudisce i sarcasmi e si mostra l'apostolo ardente
della filosofia. Scrivendo al degno suo amico, il re di Prussia, gli
raccomanda giovani filosofi, e lo supplica di chiedere al sultano la
riedificazione del tempio di Gerusalemme, per gli imbarazzi della
Sorbona ed i minuti piaceri della filosofia». Questa
riedificazione, dice, è la mia mania, come quella della distruzione
della religione cristiana è quella del patriarca di Ferney (255).
Il
Discorso preliminare dell'enciclopedia occupa il primo posto
fra le opere letterarie di d'Alembert. Esso è il programma
scientifico del materialismo e del naturalismo pagano. Voltaire, dopo
averlo letto, batte le mani e manda congratulazioni all'autore. Tutti
i filosofi fecero eco al loro capo ed esclamarono: Il Discorso
preliminare dell'enciclopedia è nel novero di quelle opere
preziose che due o tre uomini, tutt'al più, in ciascun secolo, sono
in grado di eseguire (256).
Nella
prima parte, dove espone la genealogia delle scienze, d’Alembert
stabilisce, come principio di tutte le umane cognizioni il
sensualismo di Locke, rozzamente rinnovato dai filosofi pagani. «Alle
nostre sensazioni, egli dice, siamo debitori di tutte le nostre idee
… Così pensavano gli antichi, e si conviene generalmente che
gli antichi avessero ragione: né questa è la sola questione sulla
quale incominciamo ad avvicinarci a loro» (257).
Dalle
sensazioni piacevoli e dolorose nasce il conoscimento del bene e del
male, del giusto e dell'ingiusto, e per via di conseguenza, il
conoscimento di Dio e delle altre verità fondamentali della morale.
«È
evidente, conclude, che le nozioni puramente intellettuali di vizio e
di virtù, il principio e la necessità delle leggi, la spiritualità
dell’anima, l'esistenza di Dio e nostri doveri verso di lui,
in una parola le verità di cui abbiamo il più pronto bisogno ed il
più indispensabile, sono il frutto delle prime idee riflesse cui
occasionano le nostre sensazioni» (258).
Dalla
medesima fonte venne ai primi uomini, e forse in brevissimo
tempo, la scoperta della medicina, dell’agricoltura di tutte le
arti necessarie, della geometria, delle matematiche, dell’astronomia,
e di tutte le scienze ad esse attinenti (259). Dalle sensazioni
nacquero anche le società, e con le società, il linguaggio. La
comunicazione delle idee, di cui il linguaggio è il veicolo, ha dato
origine alla storia (260).
La
storia è d'invenzione umana. Perciò essa narrerà unicamente le
opere dell’uomo. Le buone o cattive qualità di lui decideranno di
tutti gli avvenimenti: egli solo, egli sempre, egli dappertutto, e la
Provvidenza in nessun luogo. Un coperchio di piombo steso sul capo
del genere umano impedirà a qualunque, raggio del cielo di giungere
sino a lui, e l'uomo si troverà libero in questo mondo di cui è il
moderatore supremo.
L'uomo
nulla scorgendo di là dal tempo e dalla materia, non vedrà nelle
arti che l'imitazione della bella natura. Le arti nate dalla
continuazione delle idee primitive; e queste dalle sensazioni, non
avranno e non potranno aver altro obbietto che l'imitazione della
natura tanto conosciuta e tanto raccomandata dagli antichi (261).
Non esistendo più il bello ideale, celeste, soprannaturale, uffizio
delle arti sarà d'investigare in tutte le parti della natura il
bello sensibile, palpabile, materiale: il riprodurlo fedelmente qual
ch'esso sia, sarà loro gloria; e il lusingare i sensi, il loro
termine finale.
«In
prima linea delle cognizioni che consistono nell'imitazione debbono
essere annoverate la pittura e la scultura, perché fra tutte sono
quelle in cui l'imitazione s'approssima di più agli oggetti che
rappresenta, e più direttamente parla ai sensi. Queste arti
esprimono indifferentemente e senza restrizione tutte le parti
della bella natura, e la rappresentano quale essa è (262).
In ciò è l'apologia del nudo sotto tutte le forme, e in tutte le
sorte di obbietti; in ciò il materialismo dell'arte; e di sacerdozio
divino ch'essa era, la sua trasformazione in banditrice d'iniquità.
Così troppo bene l’hanno intesa gli artisti del Risorgimento.
Tali, secondo d’Alembert, sono l'origine, la genealogia, l'ufficio
delle scienze e delle arti. Quale ne è la storia? Il letterato
filosofo la espone nella seconda parte del suo discorso. Questa
storia non ha che due pagine: la prima è l'antichità greca e
romana: la seconda, l’età moderna posteriore alla presa di
Costantinopoli nel 1453. Prima e dopo tutto è barbarie. Qui
d’Alembert, il quale ha pianto la sua Lidia in stile tibulliano,
piglia il volo di Pindaro per cantare il Risorgimento, suo glorioso
padre, padre delle scienze, delle arti, della filosofia: Alma
parens, alma virum! Gli è il risorgimento che ha tratto il mondo
dalla barbarie in cui l'ha lasciato il Vangelo per ben mille anni: e
mediante il salutare suo influsso ogni cosa è ritornata in vita.
Primo suo beneficio è lo spirito letterario: lo spirito artistico è
il secondo, ed il terzo è lo spirito filosofico. Questo poi è il
regno della ragione che nei tempi moderni ricondurrà i lumi, la
libertà, la felicità, in una parola i bei giorni di Roma, d' Atene
e di Sparta. Il suo ditirambo, come quello di tutti gli alunni del
Risorgimento, esordisce con un oltraggio obbligatorio contro il
cristianesimo, il cui regno è inevitabilmente quello della barbarie,
della superstizione e della schiavitù. D'onde vengono questi tre
flagelli? Dall'aver cessato i secoli cristiani di studiare i grandi
modelli dell’antichità pagana, di cui seriamente crede non potere
il mondo dispensarsi.
La
maggior parte (così egli) dei bei spiriti di quei tempi tenebrosi si
facevano chiamare poeti o filosofi. Infatti, che mai costava loro
l’usurpare due titoli di cui si fregiavano a sì buon mercato, e
che si lusingavano di non dovere ad estranee cognizioni? Essi
credevano fosse inutile il cercare modelli della poesia nelle opere
dei Greci e dei Romani, e prendevano per vera filosofia degli antichi
una barbara tradizione che la sformava.
A
questo disordine si aggiunga lo stato di schiavitù in cui quasi
tutta Europa era sprofondata, le devastazioni della
superstizione che nasce ed è riprodotta dall'ignoranza; e si vedrà
che nulla mancava agli ostacoli che tenevano lontano il ritorno della
ragione e del gusto; perché non vi è che la libertà di
operare e di pensare che sia capace di produrre grandi cose (263).
Laonde,
per uscire dalla barbarie ci volle al genere umano una di quelle
rivoluzioni che fanno prendere alla terra un nuovo aspetto: l’impero
greco è distrutto: la sua ruina fa rifluire in Europa le poche
cognizioni che ancora restavano al mondo e da tutte le parti rinasce
la luce.
Si
divorò senza distinzione tutto quello che in ogni genere ci avevano
lasciato gli antichi: si volgarizzarono, si chiosarono; e, per una
specie di riconoscenza, si adorarono» (264).
Tutte
le arti fanno tempo dalla stessa epoca e rampollano dalla stessa
vena. Le belle arti, continua a dire d'Alembert, sono totalmente
connesse con le belle lettere, ché il medesimo gusto che coltiva
quelle conduce anche a perfezionare queste ... Dappoichè si cominciò
a studiar le opere degli antichi in ogni genere, i capolavori
dell'antichità che in gran numero erano scampati alla superstizione
e alla barbarie, ferirono tosto gli occhi degli artisti illuminati.
Non si poteva imitare Praesitele e Fidia se non facendo esattamente
com’essi; e l'ingegno non avea bisogno che di vedere per bene
(265): perciò Raffaele e Michelangelo non stettero guari a recare a
tal punto di perfezione la loro arte che non sono per anco stati
superati dappoi (266)».
Agli
omaggi che rende al Risorgimento, d'Alembert ha cura di aggiungere i
suoi ringraziamenti all'Italia che ne fu nutrice. «Saremmo ingiusti,
egli dice, se, in occasione che abbiamo riferito questi particolari,
non riconoscessimo quello di che siamo debitori all'Italia: da essa
abbiamo ricevuto le scienze, le quali hanno dappoi sì copiosamente
fruttificato in tutta Europa: da essa, abbiamo ricevuto le belle
arti ed il buon gusto di cui ci ha dato gran numero di modelli
impareggiabili (267)».
Voltaire,
Rousseau, Melantone, Mably, d'Alembert, tutti i letterati filosofi,
eretici e rivoluzionari a voce unanime recitano le stesse lodi alla
cristiana Italia. Ed essa, tanto più debba esserne lusingata, in
quanto che ad essi non accade mai di congratularsi a lei per essere
il fuoco donde raggia sul mondo la luce evangelica e la civiltà
cristiana. Da che proviene cotesto mistero? Non forse da questo che a
loro giudizio il Risorgimento è tutt’altra cosa che la luce
evangelica, tutt'altra cosa che lo svolgimento della civiltà
cristiana, in una parola, tutt'altra cosa che il cristianesimo nelle
lettere, nelle arti, nella filosofia: cristianesimo ch'ei detestano,
ed il cui influsso non credono di poter scemare e prepararne la ruina
in modo più efficace, che rendendosi gli encomiatori e gli apostoli
devoti del Risorgimento?
Checché
ne sia, d'Alembert non cessa dal ripetere con tutte le generazioni di
collegio, da tre secoli sino ai giorni nostri, che il medioevo è un
tempo di barbarie, che il cristianesimo non ha né letteratura, né
arti, né filosofia. Queste maiuscole menzogne, a lungo ripetersi
alla gioventù, sono in oggi ribadite nei cervelli. Eppure il vero è
che il cristianesimo ha la sua propria letteratura, la sua pittura,
la sua scultura, la sua musica, le sue arti, la sua filosofia
incomparabilmente più ricche, più variate, più belle, più in
armonia coi nostri bisogni intellettuali e morali di quelle della
bella antichità: il solo obietto è differente. La letteratura
pagana o quella del Risorgimento che ne è scaturita, si esercitano
su gli obbietti del mondo materiarle: esse hanno per obbietto l’uomo
materiale o semplicemente ragionevole, i suoi interessi, le sue
gioie, i suoi dolori, e le sue passioni in ispecie, senza mai
collegare queste condizioni o questi fatti della vita terrestre alla
vita soprannaturale: tutto è circoscritto come nel paganesimo,
nell'augusto orizzonte del tempo.
L'arte
pagana e l’arte del Risorgimento, senza ispirazione soprannaturale,
si esercitano unicamente a riprodurre ciò che chiamasi la bella
natura. In virtù di questo principio, l'ideale celeste è stato
messo totalmente in disparte: e poiché la bella natura trovasi
principalmente nell'uomo e nella donna l’arte si è studiata di
riprodurre, non solo senz'arrossire, ma anche come una specie
d'obbligo verso sé stessa, tutte le più oscene nudità. E per
copiare in tutti i suoi particolari la bella natura, ci vollero
modelli vivi! E ogni giorno milioni di vittime vendono il proprio
pudore alle asserite esigenze dell’arte! E le infamie che si
consumano nel segreto dello studio vengono poi a sfoggiare in
pittura, in scultura, in incisione, in bronzo, in legno, in marmo,
nelle botteghe, nelle case, sulle piazze pubbliche, nei giardini, nei
palazzi, e talvolta anche nelle chiese! E si è giunti a scusare
tutto col dire: È un oggetto d'arte!
Sì,
ma d'arte corrompitrice, d'arte infernale, i cui guasti tanto più
sono terribili che per sperimentarne i mortiferi effetti basta avere
occhi.
___________________
CAPITOLO
XIX.
D'ALEMBERT
(Continuazione
e fine).
Nuovo
beneficio del Risorgimento, lo spirito filosofico. - Opposizione che
trova. - Lodi di coloro che lo propagano. - Ritratto morale di
Bacone. - Giudizio sopra Cartesio. - Elementi di filosofia di
d'Alembert. - Il sensualismo sua base. - La morale dell'egoismo. - Il
comunismo n'è la conseguenza. - Ultimi momenti di d'Alembert. -
Muore leggendo Tacito.
***
Le
lettere e le arti quali da tre secoli le vediamo nell'Europa
cristiana sono, secondo d'Alembert, i frutti del Risorgimento. Ad
esso però siamo anche debitori dello spirito filosofico. Ora, lo
spirito filosofico, di cui ci parla d'Alembert, e ch'ei pone in cima
di tutti i benefizi del Risorgimento, altra cosa non è che la
sovranità assoluta della ragione, o, secondo il linguaggio odierno,
il razionalismo. Nei secoli cristiani, l'umanità era parimente il
suo spirito filosofico; né, come vogliamo sperare, lo si negherà né
in Sant'Agostino, né in sant'Anselmo, né in San Tomaso. Ma quello
era lo spirito filosofico ispirato e diretto nelle sue investigazioni
dal cristianesimo, rispettosamente sommesso alla fede, come il figlio
alla propria madre. La gloria del Risorgimento è di avere emancipato
la ragione, come ha emancipato la società.
«Intanto
che le arti e le belle lettere, dice d'Alembert, erano in onore, a
grande stento la filosofia faceva uguali progressi. La maggior parte
delle opere degli antichi filosofi erano state distrutte ... La
scolastica che componeva tutta la pretesa scienza dei secoli
d'ignoranza, opponevasi ancora ai progressi della filosofia in
quel primo secolo di lumi … Finalmente, alcuni teologi
osavano combatterla, abusando della sommessione (268) dei popoli.
Erasi permesso ai poeti di cantare nelle loro opere le divinità del
paganesimo, perché si aveva la ragionevole persuasione che i
nomi di quelle divinità non potevano essere che un gioco da cui
nulla si aveva a temere (269).
«Ma
si temeva .. (270) o si faceva sembianza di temere i colpi che una
cieca ragione poteva scagliare contro il cristianesimo: come
mai non si vedeva ch'esso non poteva paventare una così debole
aggressione? ... D'altra parte, per quanto una religione possa
essere assurda, rimprovero che la sola empietà può fare alla
nostra, non cono i filosofi quelli che la distruggono: anche quando
essi insegnano la verità, si contentano di mostrarla, senza
costringere nessuno a conoscerla: cotal potere non è proprio che
dell'Onnipotente (271)».
Questi
sofismi non ingannerebbero un fanciullo: ma questo hanno di prezioso
che definiscono lucidamente il nuovo spirito filosofico, provano
l'opposizione degli uomini chiaroveggenti dei secoli XV e XVI al
libero pensare inaugurato dal Risorgimento, e svelano, la via
tenebrosa seguita dal razionalismo pagano per invadere di nuovo il
mondo intellettuale.
Segue
poi uno splendido encomio dei principali apostoli della nuova
filosofia: di Bacone, di Cartesio, di Locke, di Neutono. Tali sono,
conclude d'Alembert, i principali intelletti che lo spirito umano dee
riguardare come suoi maestri ed a cui la Grecia avrebbe
innalzato statue, quand'anche fosse stato, d'uopo per dar loro luogo,
di abbattere quelle di alcuni conquistatori (272).
A
compimento di quest'elogio, tracciamo di passaggio il ritratto morale
di quello fra i prementovati illustri personaggi cui
d'Alembert chiama il più grande, il più universale ed il più
eloquente dei filosofi, cioè di Bacone (273). Vile adulatore
della regina Elisabetta, giustificò la condanna del conte
d'Essex, suo benefattore, e si fece aborrire da tutta l’Inghilterra.
Più vile ancora presso Giacomo I, ricevette in premio delle sue
adulazioni la carica di cancelliere. Screditare i suoi emuli,
strisciarsi dietro i grandi, non vi ha bassezza, per fede della
storia, che non abbia commesso per sollevarsi a quella dignità.
La
filosofia del risorgimento non era allora più di quello che sia
oggidì un freno potente alle passioni. In Bacone lasciava sciolta la
briglia all’ambizione ed alla cupidigia. Accusato dal parlamento di
venalità e di corruzione, l'illustre filosofo, si vide in
obbligo di presentare una risposta particolareggiata a tutti i capi
dell'accusa intentata contro di lui: comparve davanti la corte il 1°
maggio 1621, e confessò in termini bene espliciti il delitto di
corruzione di cui era imputato, in 28 diversi articoli; il che
vuol dire ch'ei si riconosceva per un illustre briccone.
Tale
era l’evidenza dei fatti che Bacone s'abbandonò interamente alla
discrezione dei suoi giudici. Fu condannato ad un’ammenda di
quarantamila lire di sterlini, ad essere rinchiuso, nella
torre di Londra per rimanervi a volontà del re: dichiarato inoltre
incapace per sempre di sostenere veruna carica, né verun impiego nel
regno, con divieto di seder mai più in parlamento, e di comparire
per tutta la sua vita nella giurisdizione della corte. Nella guisa
che Sallustio, dopo avere scorticato l'Africa, si ritirò nelle
sontuose sue ville del Pincio dove scriveva i suoi trattati di
morale; non altrimenti Bacone, ritiratosi nelle sue terre; scrisse i
suoi libri di Filosofia morale e politica (273). Figli della stessa
madre tutti i filosofi si rassomigliano.
Riguardo
a Cartesio, la cui filosofia è stata condannata ad un tempo dalla
Sorbona, da Roma e dal sinodo Protestante, di Dordretéh, d'Alembert
che lo riconosce per uno dei suoi avi ne parla in questi termini: «Al
cancelliere Bacone successe l'illustre Cartesio. Questo raro uomo
aveva quanto è d'uopo per mutare l'aspetto della filosofia ...
Cartesio ha osato di far vedere ai buoni ingegni a scuotere il
giogo della scolastica, dell'opinione, dell'autorità, in una parola,
dei pregiudizi e della barbarie; e mediante questa ribellione, di cui
oggidì noi raccogliamo i frutti, ha reso alla filosofia un servigio
più essenziale forse di tutti quelli ch'essa dee ai suoi illustri
predecessori. Si può riguardarlo come un capo di congiurati che
ha avuto il coraggio di sollevarsi pel primo contro un potere
dispotico arbitrario, e che, preparando una solenne rivoluzione, ha
poste le fondamenta di un governo più giusto e più felice che non
ha potuto vedere stabilito (274).
D'Alembert
si consola dicendo: «La filosofia che costituisce il gusto
dominante del nostro secolo, pare, dai progressi che fa da noi,
che voglia riparare il tempo che ha perduto, e vendicarsi del
disprezzo in cui l'avevano tenuto i nostri padri (275)».
Per
affrettarne il trionfo, d'Alembert stesso compone Elementi di
Filosofia.
Ogni
verità viene dalla sensazione: la sensazione è dunque il principio
universale delle nostre cognizioni: il più prezioso dei nostri
sensi, è il tatto: per esso discerniamo il giusto, l'ingiusto, le
cui sensazioni sono necessariamente differenti: sentire è quanto
l’essere uomo; sentir bene è quanto l'essere filosofo: condursi in
maniera di non far mai provare ad altri sensazioni spiacevoli è
proprietà dell'uomo onesto ed il criterio della virtù (276). Tale è
la filosofia di d'Alembert, o più veramente di Locke degli altri
sensualisti, educati dal Liceo e dal Portico.
Tra
filosofia e religione, divorzio completo. D’Alembert esclude dagli
Elementi di Filosofia non solamente la religione rivelata,
ma anche la religione naturale (277). Ei non ha bisogno, né
dell'una né dell'altra: senza di esse ei può, mediante il tatto,
fondare una metafisica, una logica ed anche una morale perfetta.
«La
morale, dice egli, è una conseguenza necessaria dello stabilimento
delle società ... A motivi puramente umani le società dovettero il
proprio nascimento: la religione non ha avuto parte alcuna alla
primitiva loro formazione.
«Mediante
i sensi veniamo a conoscere quali sono le nostre relazioni con gli
altri uomini e i nostri bisogni reciproci; e mediante questi bisogni
reciproci veniamo a conoscere quello che noi dobbiamo alla società,
è quello ch'essa deve a noi. Sembra dunque che si possa definire
esattissimamente l'ingiusto, o, ciò che vale lo stesso, il
male morale: Ciò che tende a nuocere alla società turbando il
ben essere fisico dei suoi membri (278).
Il
sacrificio del nostro ben essere fisico ai bisogni fisici dei nostri
simili è l'eroismo della virtù. «Questo sacrificio non è nella
natura, soggiunge d'Alembert, ma è nell'amore illuminato della
nostra propria felicità, la quale consisté nella pace con noi
medesimi e nell'affezione dei nostri simili: Così l’amore
illuminato di noi stessi è il principio di ogni sacrificio morale
(279)».
Questo
è la morale dell'egoismo, così ben insegnata da Mably e sì
logicamente dimostrata alla tribuna della Convenzione, da
Lavicomterie, sono il nome di morale calcolata. Nobile morale
che è quella veramente e proprio capace di mettere un freno alle
passioni! Quanto era meschina la ragione in quel XVIII secolo, in cui
i più distinti intelletti sciorinavano simili fanfaluche alle menti
volgari che le accettavano siccome oracoli!
Quel
secolo però fu educato unicamente da preti! Non accusiamo né i
gesuiti né il clero secolare, ma riconosciamo che nei collegi vi ha
sopra l'insegnamento sacerdotale, un altro insegnamento più potente
che aveva sedotto quella gioventù sfortunata, e che essa, propagava
con ardore, come, propagherà in appresso le idee repubblicane,
attinte alla stessa sorgente.
Dal
ben essere fisico posto come principio generatore della morale,
d'Alembert dedusse logicamente come obbligatoria l’elemosina, in
aspettativa che la rivoluzione, più logica ancora, ne deduca il
comunismo, sogno prediletto di tutti gli ammiratori della bella
antichità. «Tutti coloro, egli dice, che hanno più del necessario
relativo debbono allo Stato almeno una parte di quanto
posseggono di più (280)
Segue
una requisitoria contro il lusso, di cui d’Alembert chiede
l'abolizione come a Sparta e a Roma: poscia, il desiderio di vedere
cotesta morale ridotta a catechismo da qualche filosofo (281).
Se
d’Alembert avesse vissuto di più, avrebbe veduto gli ultimi suoi
desideri essere attuati dalla rivoluzione. Avrebbe assistito
all'abolizione del lusso ed alla resurrezione della semplicità
spartana; avrebbe potuto leggere il Catechismo dei Diritti
dell'uomo e morire in pace avanti allo spettacolo delle virtù
repubblicane generate dall'insegnamento della morale di Licurgo e di
Platone. Ma la morte non aspetta. Essa trovò d'Alembert fin mezzo
al mondo pagano dove era entrato fin dall'infanzia, dove aveva
passato la vita (282), ed in cui doveva morire. L'ultimo suo
passatempo fu d'indovinare gli enimmi del Mercurio; la sua
ultima occupazione fu di correggere la sua versione di
Tacito. Tale fu la sua preparazione alla morte. La sua
raccomandazione dell'anima consiste in queste ultime parole diretta a
Pougens, suo confratello dell’Accademia: Udite il petto che si
riempie? Era il 29 ottobre 1783.
«Non
ha voluto, aggiunge Condorcet, pagare verun tributo, neppur esterno,
ai pregiudizi del suo paese, né rendere omaggio morendo a ciò
che per tutta la sua vita aveva professato di disprezzare» (283).
_____________________
CAPITOLO
XX.
ELVEZIO.
La
filosofia attuale tende al paganesimo. - Parole di monsignor vescovo
di Poitiers. - Questa filosofia viene dal XVIII secolo. - Parole di
Guizot. - La filosofia del XVIII secolo viene dal Risorgimento. -
Elvezio. Sua educazione presso i gesuiti. - Suo entusiasmo per
Quinto Curzio. - Per Locke. - Anima vuota di cristianesimo ed ebbra
di paganesimo. - Esordisce con versi. - Analisi dello Spirito.
- È razionalista e sensualista. - Analisi dell'Uomo. -
Disprezzo del Medio Evo. - Elogio dell'antichità classica. - Odio
del clero, e soprattutto dei gesuiti. - Una quistione.
***
In
un'Istruzione sinodale pubblicata, nel 1855, monsignor vescovo
di Poitiers combatte vigorosamente la filosofia attuale, i cui
principi conducono alla distruzione di ogni religione e di ogni
società. Poscia, l’eloquente prelato mette un grido di spavento e
stabilisce con le prove alla mano, che «la filosofia, ai nostri
giorni, ha tolto di farci ritornare, sotto pretesto di religione,
sino al paganesimo.
«Sì,
o signori, io punto non esagero; la filosofia di questo tempo, ha una
predilezione spiegata pel paganesimo, pei suoi dommi e per la
sua morale. Questi non esita a desiderare le antiche divinità della
Gallia: quegli ci propone con tutta serietà, di abbandonare un
domma, che, secondo lui, non è proprio dell'essenza della
rivelazione cristiana, il domma dell'eternità delle pene e delle
ricompense, per ritornare, sotto l'azione dello spirito progressivo
della Francia, alla credenza dei druidi, cioè all'antica
metempsicosi, interpretata col soccorso dell'astronomia, della
geologia, e della filosofia moderna (284).
«Altri
si lamentano che al Vangelo manchi l'estetica, al
Crocefisso il grazioso. Il maestro principale non vuole che si abbia
troppa fretta d'accusare l'antropomorfismo né l'idolatria che
ha diffuso: quest'è la prima conquista della libertà e
dell’intelletto; esso maggioreggia immensamente sopra tutto ciò
che lo ha preceduto (285)».
Finalmente
un insigne pubblicista ci assicura che, dove regna lo
spiritualismo, potrebbesi dire senza temerità, non considerando che
gli atti, che non vi ha grande differenza tra un onesto filosofo ed
un onesto cristiano. E questa conclusione ei l’appoggia sopra
una recente lezione di un famoso professore, il quale stabilisce: Che
i filosofi antichi erano eccellenti direttori spirituali
dell'umanità; che la loro morale non difettava di nessuna delle
guarentigie desiderabili; che era quasi altrettanto precisa quanto
quella dei Padri della Chiesa; che era popolare e pratica;
adattata a tutti, fornita di sanzione sufficientissima; avere
finalmente il suo impulso quasi soprannaturale, e trovarvisi la
dottrina della grazia in tutta la sua severità (286). Così i
santi del cristianesimo sono messi naturalmente in compagnia con gli
eroi pagani: Oh! sclamasi, se l'anima dell'ultimo Bruto, se l’anima
di San Luigi avessero da sé medesime narrato la propria storia, che
bella psicologia morale avremmo noi mai! (287).
Ora,
questa filosofia; la cui applicazione ricondurrebbe il mondo al caos
non è nata da sé medesima. Gli uomini che la professano hanno
antenati; e per tali si gloriano di riconoscere i filosofi del XVIII
secolo. Ascoltiamo il signor Guizot nel suo discorso di ricevimento
all'Accademia francese, in surrogazione di Destutt di Tracy. «Un
gran secolo, dice egli, un secolo che ha conquistato il mondo,
s'allontana appena da noi: un gran filosofo, l’ultimo d'una
generazione di grandi filosofi è appena steso nella sua tomba, ed
eccomi chiamato a dire il mio pensiero sopra quell’immensa età;
e sopra il degno suo rappresentante. Ed è conveniente ai figli
di giudicare pubblicamente il loro padre? Il decimottavo
secolo ci ha fatto ciò che siamo. Idee, costumi, istituzioni, tutto
ricevemmo da lui, a lui siamo, debitori, e per parte mia gli
porto un affetto figliale: questo affetto penetri, comparisca
nelle mie parole anche più libere. Se le nostre parole sono libere,
a chi lo dobbiamo? Il XVIII secolo ha fatto la nostra libertà. In
questo recinto, fuori di questo recinto, dappertutto, ogni pensiero
che si svolge, ogni voce che s'innalza senz'inciampo rende
testimonianza della gloria del XVIII secolo e del suo benefizio.
Montesquieu, Voltaire, Rousseau, potenti ingegni, nomi immortali,
saremo liberi come ci avete voluto (288)».
I
filosofi poi del secolo XVIII sebbene istruiti dal clero, si
dichiarano a loro volta apertamente figli del Risorgimento e dei loro
studi di collegio. Quelle stesse lodi che ricevono dai loro
discendenti, le rivolgono ai loro avi. Abbiamo udito quelle di
Voltaire, di Rousseau, di Mably, di Condorcet: ecco un nuovo fratello
la cui parola merita di essere ascoltata, poiché esso non occupa
l'ultimo posto nella filosofica famiglia; e questi è Elvezio.
Claudio
Adriano Elvezio, nato a Parigi nel 1715, fu posto in età assai
tenera età nel collegio dei gesuiti. La giovane sua immaginazione fu
ben tosto colpita al racconto delle battaglie narrate da Quinto
Curzio e da Omero. Questi due autori ne mutarono l'indole. Era assai
timido e divenne ardimentoso. La sua propensione per lo studio
disparve: ei non respirava che guerra, ed a ogni costo voleva seguire
la carriera dell'armi. Una nuova prova qui si vede degli effetti
prodotti dai primi studi. In età fanciullesca Carlo XII, re di
Svezia si era anch'egli invaghito di Quinto Curzio. Lo portava sempre
in tasca: a questa lettura, dice Federico re di Prussia, si vogliono
attribuire le stravaganze di quel principe, e il desiderio che ebbe
in tutta la sua vita di somigliare ad Alessandro. «È Quinto Curzio,
aggiunge egli, quei che ha perduto la battaglia di Pultava (289)».
Elvezio,
dominato dalla sua inclinazione per l'arte militare, giunse,
trascinandosi sugli ultimi banchi della scuola, sino alla rettorica.
In collegio erano assai in voga le amplificazioni. Il p. Porée
trovando in quelle di Elvezio più idee e più, immagini che non in
quelle dei suoi condiscepoli, lodò i primi suoi tentativi, e ne
prese cura speciale. Leggeva con lui stesso i grandi modelli
dell'antichità. Elvezio ripigliò il gusto dello studio delle
lettere. Ma tosto una nuova passione diede al suo intelletto una
direzione che non doveva mutare più. «Essendo ancora in collegio,
studiò la Filosofia di Locke. Quel libro operò una
rivoluzione nelle sue idee: ei diventò un fervoroso discepolo del
filosofo inglese (290).
L'entusiasmo
per questa filosofia razionalistica e sensuale, l'ammirazione,
esclusiva per l'antichità pagana e l'ignoranza o il disprezzo della
letteratura e della filosofia cattoliche, tali sono le disposizioni
in cui Elvezio uscì dalle mani dei suoi maestri, e queste
disposizioni bastarono in lui quanto la vita. Nave senza stiva e
senza bussola la vedremo navigare all'avventura e rompere a tutti gli
scogli.
Uscito
appena di collegio, suo padre che lo destinava alle finanze, lo mandò
dal signor d'Armancourt, suo zio materno e direttore delle regalie a
Caen. Ivi il giovane Elvezio si occupò delle lettere e della
filosofia più che delle finanze; e più delle donne, che
delle lettere e della filosofia. Ciò nonostante, per la protezione
della regina fu nominato a ventitré anni, appaltatore generale
(291).
Questo
posto gli recava opulenza ed ozi. Ne profittò per collegarsi con
Fontenelle, Montesquieu, Condorcet, Voltaire, ed aumentare quella
famiglia di letterati filosofi di cui i collegi di allora riempirono
le alte classi sociali, l’amministrazione, le finanze, la
magistratura, la corte, i castelli, le accademie ed i parlamenti.
Secondo
la moda d'allora, Elvezio esordì con alcuni componimenti in versi,
in cui fece entrare le sue idee filosofiche. Voltaire gli fa coraggio
e gli scrive: «La prima vostra epistola è piena di una arditezza di
ragione ben superiore alla vostra età, e più ancora dei nostri
fiacchi scrittori che si rannicchiano sotto la sesta d'un regio
censore ... Non temete d'abbellire il Parnaso delle produzioni del
vostro ingegno .... Come! perché siete appaltatore generale, non
avrete la libertà di pensare! Anche Attico era appaltatore generale:
i cavalieri romani erano appaltatori generali. Continuate dunque
Attico (292)
Alla
voce del maestro Elvezio continua. Nel 1758 venne in luce il suo
libro dello Spirito: La filosofia batte le mani ed esclama:
«Gli è un buon libro ..... La sua maggior colpa mi sembra
che sia di aver declamato contro il dispotismo in modo di far credere
non ai despoti che poco leggono, né ai loro visir, che leggono ancor
meno, ma ai sotto-visir o alle loro spie, che tutte le persone di
spirito sono loro nemici implacabili; la qual cosa può suscitare
una persecuzione contro le persone di spirito (293)».
Ecco
in brevi parole l'analisi di cotesto buon libro:
1°
Tutte le facoltà dell'uomo si riducono alla sensività fisica, e noi
non ci differenziamo dagli animali che per l’organizzazione
esterna; 2° il nostro interesse fondato sull'amore del piacere o sul
timor del dolore è l’unico movente dei nostri giudizi e delle
nostre azioni, il principio d'ogni morale; 3° le nozioni del giusto
e dell’ingiusto variano secondo le consuetudini; 4° tutti gli
uomini sono suscettivi delle stesse passioni, cui l'educazione
sviluppa più o meno. Questo è precisamente senza nulla aggiungere
né togliere l'abbietto materialismo, quale si intendeva e si
praticava nei bei giorni d'Atene e di Roma.
Allo
Spirito succede il trattato dell'uomo e della sua
educazione, pubblicato soltanto dopo la morte dell'autore.
Per
Elvezio, come per tutti gli alunni del Risorgimento, il medioevo, le
sue arti, le sue istituzioni, la sua filosofia sono la vergogna
dell'umanità: questo per loro è un assioma. Ecco in quali parole
viene da Elvezio formulato: «Che cosa sono gli scolastici? I più
stupidi ed i più orgogliosi tra tutti i figli di Adamo. Il puro
scolastico occupa in fra gli uomini, il posto che occupa fra gli
animali quello che non lavora come fa il bue, che non porta il basto
come il mulo; che non abbaia al ladro come il cane, ma che, simile
alla scimmia, imbratta tutto, rompe tutto, morde chi nassa, e nuoce
in mille maniere. Lo scolastico, possente in parole, è paralitico in
ragionamenti. Perciò che forma egli? Uomini dottamente assurdi e
orgogliosamente stupidi. I secoli d'oro degli scolastici furono quei
secoli d'ignoranza le cui tenebre, prima di Lutero e di
Calvino, inviluppavano la terra. Allora, gli uomini, mutati in
bestie, in muli come Nabucco, erano sellati, imbrigliati, caricati di
enormi pesi, e gemevano sotto la soma della superstizione: ma
finalmente alcuni di quei muli impennatisi rovesciarono ad un tempo
il carico ed il cavaliere (294)».
Ma quello che principalmente viene in uggia al giovane pagano sì è il pensare che la scolastica, la teologia, in una parola il cristianesimo, hanno falsato la nozione della vera, virtù e reso la terra vedova dei Minossi e dei Codri, suoi grandi santi del collegio.
Ma quello che principalmente viene in uggia al giovane pagano sì è il pensare che la scolastica, la teologia, in una parola il cristianesimo, hanno falsato la nozione della vera, virtù e reso la terra vedova dei Minossi e dei Codri, suoi grandi santi del collegio.
«Al
momento, dice egli, che si stabilì il cristianesimo che cosa
predicò?... Che il cielo è la vera patria degli uomini. Questi
discorsi intiepidirono nel laico l'amor della gloria, del pubblico
bene e della patria. Gli eroi divennero più rari. Il prete
recò a sé l'autorità, e per conservarsela screditò la vera
gloria e la vera virtù, e più non sostenne che si onorassero i
Minossi, i Codri, i Licurghi, gli Aristidi, i Timoleoni, finalmente
tutti i difensori e i benefattori della loro patria. O venerabili
teologi! O bruti! (295)
Il
più grande ostacolo al ritorno della bella antichità, sola feconda
di lumi e di virtù, è dunque il clero. Con un’arte e con una
virulenza non minore Elvezio lo aggredisce dapprima nelle sue
ricchezze. «Uno dei maggiori servigi da rendersi alla Francia dice
egli, sarebbe d'impiegare una parte delle rendite troppo
considerevoli del clero ad estinguere il debito nazionale» (296).
Docile agli insegnamenti dei suoi maestri, la rivoluzione cominciò
col far questo, e finì col darsi per fallita.
Passando
poi all'autorità del clero, l’alunno del collegio di Luigi il
Grande continua: «È d'uopo che il clero non abbia nessun potere sul
cittadino. Il timore del prete degrada lo spirito e l'anima:
imbrutisce quello ed invilisce questa ... Lo spirito religioso fu
sempre incompatibile con lo spirito legislativo, ed il prete sempre
nemico del magistrato. Quegli istituì le leggi canoniche, questi, le
leggi politiche. Lo spirito di dominazione e di menzogna
presiedette alla compilazione delle prime; esse furono funeste
all'universo (297)».
Nel
clero Elvezio non conosce nulla di più formidabile degli antichi
suoi maestri. «Vede il loro generale nell'oscurità della sua cella,
come il ragno nel centro della sua tela: egli stende le sue fila in
tutta l'Europa, e, mediante questi medesimi fili è avvertito di
tutto quello che accade ... Quest'uomo comanda ad una società i cui
membri sono nelle sue mani quello che è il bastone nelle mani del
vecchio: e parla per loro bocca, colpisce col loro braccio. Despota
quanto il Veglio della Montagna ha sudditi altrettanto sommessi. Al
suo cenno vedonsi precipitare nei più grandi pericoli, eseguire le
più ardite imprese» (298).
Intanto
che Elvezio, Condorcet, Voltaire, educati dai gesuiti trattano in tal
modo i loro professori, esaltano a Cielo i veri loro maestri, i
filosofi cioè, gli oratori ed i poeti dell'antichità. Donde
proviene questo fatto, che nel passato secolo si manifestò in tutta
Europa, e che, ai giorni nostri si è riprodotto in Ispagna, nella
Svizzera e in Italia?
_____________________
CAPITOLO
XXI.
ELVEZIO
(Continuazione
e fine).
Stabilimento
d'una religione filosofica. - Suo programma. - Suoi caratteri. -
Intanto s'ha da distruggere il cristianesimo. - Far rifiorire la
religione pagana. - Migliore del cristianesimo. - Il mezzo di farla
rifiorire è l'educazione classica. - Morte di Elvezio.
***
Le
aggressioni d'Elvezio contro il clero non sono che un primo passo per
giungere alla distruzione dello stesso cristianesimo. A giudizio del
discepolo di Anassagora e di Epicuro, la ragione umana non ha bisogno
né di Dio né di rivelazione per creare una religione e una morale.
Elvezio, con tutta modestia, pretende di attuare questo problema, e
ne raccoglie gli elementi. Alcuni anni dappoi si vedrà la
rivoluzione francese, formata alla stessa scuola, metter l'ultima
mano a quest'opera ed inaugurare solennemente una religione ed una
morale di fattura umana.
Ecco
il Simbolo ed il Decalogo di Elvezio: «Iddio ha detto
all'uomo: Io t'ho creato, t'ho dato cinque sensi, ti ho dotato di
memoria, e, per conseguenza di ragione: ho voluto che la tua ragione,
stimolata primieramente dal bisogno, illuminata poscia
dall'esperienza, provvedesse al tuo nutrimento, t'insegnasse a
fecondare la terra, e finalmente tutte le science di prima necessità.
Ho voluto che, coltivando cotesta stessa ragione, tu pervenissi al
conoscimento delle mie volontà morali, cioè dei tuoi doveri verso
la società, dei mezzi di mantenervi l'ordine; finalmente al
conoscimento della migliore legislazione possibile. Ecco il solo
culto cui voglio sia educato l'uomo, il solo che divenir possa
universale, il solo che degno sia d’un Dio e che sia marchiato del
suo suggello e di quello della verità. Ogni altro culto porta il
marchio dell’uomo, della furberia e della menzogna. La volontà
d'un Dio giusto e buono si è che i figli della terra siano felici, e
che fruiscano tutti i piaceri compatibili col bene pubblico. Tale
è il vero culto, quello che la filosofia deve rivelare alle nazioni»
(299).
I
filosofi dei nostri giorni che preconizzano la morale di Socrate
chiamandola la vera morale di questo mondo, che fanno un
sorriso di compassione, al nome di rivelazione e di morale
evangelica, che limitano tutti i doveri dell'uomo ai doveri sociali,
tutte le virtù alle virtù puramente umane; tutti i dommi alla fede
nella ragione; in una parola, che si dicono inviati per sollevare
l'umanità, facendola passare dalle braccia del cristianesimo in
quelle della filosofia, questi filosofi non sono novatori né
capiscuola: sono nient'altro che i discepoli di Elvezio, come esso
era dei filosofi pagani. E ben a ragione da Guizot è stato detto:
«Il secolo XVIII ci ha fatti quello che siamo».
Conosciamo
l'essenza della religione filosofica: Elvezio ci rivelerà i segni o
caratteri esterni che da tutte le false religioni la discernono.
La
religione filosofica sarà gioconda, tollerante, economica, politica,
pacifica e pacificante.
«Magistrati
illuminati, dice egli, saranno come a Roma ed a Sparta, insigniti dal
potere temporale e spirituale, il che impedirà qualunque conflitto,
rimovendo qualunque contraddicenza tra i precetti religiosi ed i
precetti patriottici. (300)
Qual
potere non avrà sugli animi un'istruzione morale data da un senato!
Con qual rispetto i popoli non ne riceveranno le decisioni! Dal corpo
legislativo si può unicamente attendere una religione benefica e
che, d'altra parte poco costosa, non offrirà che idee grandi e
nobili della Divinità, non accenderà negli animi che l'amore dei
talenti e delle virtù e non avrà finalmente per obietto, come la
legislazione, che la felicità dei popoli» (301).
Se
il creare una religione sulla carta non è per Elvezio che negozio di
brevi momenti, lo stabilirla nel mondo gli sembra intrapresa il cui
successo chiede un tempo lunghissimo. Questo pensiero lo rattrista ed
esclama: «Che avverrà sino a questo momento? Gli uomini non avranno
che idee confuse della morale» (302). Intanto che tutti i popoli
teneri della propria felicità, abbiano abbracciato il vero culto che
la filosofia dee rivelare ad essi. Elvezio esamina le due grandi
religioni fra le quali, in mancanza di migliori, il mondo è
costretto a scegliere. Queste religioni sono: da una parte, il
cattolicesimo ch’ei chiama papismo; e, dall’altra, il
paganesimo.
La
prima deve essere assolutamente abbandonata ed immediatamente
distrutta. Essa è nocevole al genere umano perché non ha alcuno dei
caratteri della religione filosofica. «Il Papismo non è a giudizio
di un uomo sensato che una pura idolatria» (303).
Ed
è costosissimo: «Duecentomila preti costano dugento milioni
all’anno ... Noterò anche a questo proposito che la potestà
temporale, essendo specialmente incaricata d'invigilare alla felicità
temporale dei popoli, ha diritto d'incaricarsi essa stessa
dell'amministrazione dei legati fatti all'indigenza, e di metter mano
in tutti i peculi che i frati hanno rubato ai poveri» (304).
È
intollerante. «Esso ha dogmi. Ora ogni dogma è un germe di
discordia e di delitto seminato fra gli uomini. Qual è la religione
veramente tollerante? Quella che, come la pagana, o non ha verun
dogma; o quella che si riduce, come quella dei filosofi, ad una
morale sana e sublime, la quale, senza fallo, sarà un dì la
religione dell'universo (305).
Non
è ne umano, né dolce, né giocondo. «Esso soffoca le passioni; ed
ogni culto che attuta le passioni non produce che bertuccioni, bonzi,
bramini e non mai eroi, grandi uomini, né grandi cittadini: Comprime
gli animi sotto il peso del timore, fa degli uomini schiavi vili e
pusillanimi. A suo giudizio l’uomo giusto, umano verso i suoi
simili non è assicurato del favore del cielo (306).
Non
è politico. «Esso non divinizza il bene pubblico. Perché mai
questo dio non ha ancora il suo culto, il suo tempio ed i suoi
sacerdoti? Il papismo preferisce di venerare l'umiltà. Ma
quest'umiltà che favoreggia l'abiezione e la pigrizia dee essere la
virtù d'un popolo? No: il nobile orgoglio fu sempre la virtù di una
celebre nazione. Il disprezzo dei Greci e dei Romani per
popoli schiavi in concorso con le loro leggi sottopose ad essi
l’universo mondo» (307).
Finalmente
non è né pacifico né pacificante. Esso dispone della potestà
spirituale in favore del clero. «Ora, non si é fatto nulla contro
il corpo sacerdotale quando lo si è soltanto umiliato. Chi non lo
annichila, ne sospende e non ne distrugge l'autorevolezza» (308).
Quest'ignoranza
e quest'odio del cristianesimo, comuni a tutte le generazioni
letterate degli ultimi secoli ed anche del nostro, non è che un lato
della medaglia. Al disprezzo del cristianesimo e delle sue
istituzioni, l’alunno del Risorgimento aggiunge un'ammirazione
spesse volte inconsiderata, ma sempre costante per l'antichità
pagana: Elvezio ne è una nuova prova.
Intanto
che si stabilisce la religione filosofica, la seconda cosa che i
popoli debbono fare, è di ritornare al paganesimo. Questa religione,
non essendo la religione filosofica, non è, a vero dire, la
religione buona. «Ma stantechè ha molte attinenze con essa, Elvezio
dice che il paganesimo, fra tutte le false religioni, è la meno
nocevole alla felicità degli uomini. «Infatti la religione
pagana non era che il sistema organizzato della natura. Saturno era
il tempo: Cerere, la materia, Giove lo spirito generatore. Tutte le
favole della mitologia non erano che i simboli di alcuni principi
della natura. Era forse poi tanto assurdo l'onorare sotto
diversi nomi i differenti attributi della Divinità?
«Del
resto, voglio ammettere che la religione pagana sia stata assurda.
Questo difetto, per una religione, non è il più grande di tutti; e
se i suoi principi non sono interamente disruttivi della pubblica
felicità, e se le sue massime possono accordarsi con le leggi, e con
l’utilità generale, è la meno cattiva di tutte. Tale
era la religione pagana. Essa non pose mai ostacoli ai disegni
d'un legislatore patriota: era senza dogmi e per conseguenza umana e
tollerante (309). Niuna disputa, niuna guerra tra i suoi seguaci, cui
non potesse prevenire la più piccola veggenza dei magistrati. Il suo
culto poi non richiedeva molti sacerdoti: non era necessariamente a
carico dello Stato.
«Gli
dei lari e domestici bastavano alla divozione giornaliera dei
privati. Alcuni templi innalzati nelle grandi città, alcuni collegi
di sacerdoti, alcune feste pompose bastavano alla divozione
nazionale. Queste feste, celebrate nei tempi in cui la cessazione
delle opere campestri permette agli abitanti delle ville di recarsi
nelle città, divenivano per essi un diletto. Per quanto tali feste
fossero magnifiche, erano però rare e per conseguenza poco
dispendiose. La religione pagana non aveva dunque essenzialmente
nessuno degli inconvenienti del papismo. «Questa religione dei
sensi era d'altra parte la meglio acconcia per gli uomini, la
più idonea a produrre quelle forti impressioni che talvolta è
necessario al legislatore di eccitare in essi.
«Gli
dei e le dee vivevano in società coi mortali, partecipavano alle
loro feste, alle loro guerre, ai loro amori. Nettuno andava a cena in
casa dei re d'Etiopia: le belle e gli eroi sedevano fra gli dèi:
Latona aveva altari; Ercole deificato sposava Ebe. Gli eroi meno
celebri abitavano i Campi e i boschetti dell'Eliso. Ivi Achille,
Patroclo, Ajace, Agamennone e tutti i guerrieri che pugnavano ad Ilio
si occupavano ancora di fazioni militari. Ivi ancora Pindaro ed Omero
celebravano i giuochi Olimpici e le imprese dei Greci. Quella specie
di esercizio o di Canto che, sulla terra era stata l'occupazione
degli eroi e dei poeti, tutte le inclinazioni finalmente che vi
avevano contratto li seguivano anche nell'inferno. La loro morte
non era propriamente che un prolungamento della vita.
Data
questa religione, quale esser doveva il più vivo desiderio, il più
potente interesse dei pagani? Quello di servire la loro patria coi
loro talenti, col loro coraggio, con la loro integrità, con la loro
generosità e con le loro virtù. Che si può trovare in un popolo
senza desiderio? dei mercatanti, dei capitani, dei soldati, dei
letterati, dei ministri abili? no: ma soltanto dei frati (310)».
Quello
poi che, a giudizio di Elvezio, costituisce la superiorità della
religione pagana, è il disprezzo suo della castità: e il suo odio
della tirannide. Il saggio legislatore d'Atene, Solone, dice
egli, faceva poco conto della castità monacale. Se nelle sue leggi,
dice Plutarco, vietò espressamente, agli schiavi di profumarsi e di
amare i garzoni si è che anche nell'amore greco Solone nulla vedeva
di disonesto!
«Ma
quei fieri repubblicani che senza vergogna si gettavano in braccio ad
ogni sorta d'amori, non si sarebbero però abbassati al vile mestiere
di spia. Un Greco od un Romano non avrebbe, senza arrossirne,
ricevuto i ferri della schiavitù. Un vero Romano non sosteneva
neppure senza arrossirne la vista di un despota dell’Asia. Ai tempi
di Catone il Censore, venne a Roma Eumene. Tutta la gioventù si
stringe intorno a lui; il solo Catone lo schiva. Perché mai gli si
domanda, Catone sfugge un sovrano che lo cerca, un re così buono,
così amico dei Romani? Buono quanto vorrete, risponde Catone:
ogni re è un mangiatore d'uomini cui ogni cittadino virtuoso dee
fuggire (311): Chi ha maggiore venerazione pel fondatore di un ordine
di oziosi che per un Minosse, un Mercurio, un Licurgo, ecc., non ha
per fermo idee giuste della virtù».
Ma
qual è il mezzo di far rifiorire la religione pagana di tanto
superiore al cristianesimo? Senza titubare, Elvezio risponde:
L'educazione di collegio: essa riempie l'anima di ammirazione, per la
classica antichità ed emancipa la ragione. «Un giovane, egli dice,
nutrito delle vite dei santi avrà della virtù, idee diverse
da quello che informato da studi più onesti e più
istruttivi, avrà tolto a modelli i Socrati, gli Scipioni, gli
Aristidi, i Timoleoni. Non è possibile che la propria virtù non
risvegli in noi idee diverse, secondo che si legge Plutarco o la
Leggenda dorata. Dai pagani gli onori divini sono resi agli Ercoli,
ai Castori, alle Cereri, ai Bacchi, ai Romoli; dai cattolici questi
stessi onori sono tributati a frati vili, ad un Domenico, ad un
Antonio (312). Riconoscendo che egli stesso é stato così educato,
soggiunge:
«Mi
si presenti nella storia o sul teatro un grand'uomo greco o romano,
ed io l'ammirerò. I principi di virtù ricevuti nella mia infanzia
mi vi costringeranno (313).
Fare
studiare ed ammirare fin dall’infanzia i Greci ed i Romani, ecco
secondo Elvezio, il mezzo di dare nobili idee della virtù e di
rimettere in onore la religione che le produce. L'educazione
modellata su quella dei Greci e dei Romani ha un altro vantaggio:
essa forma corpi vigorosi e robusti; di guisa che per renderci
fisicamente e moralmente Greci e Romani, non vi è niente di meglio
che di ripristinare senza eccettuar nulla la educazione di Roma e di
Sparta. «Convinti, egli dice, dell'importanza della fisica
educazione, i Greci avevano in onore la ginnastica. Taluno forse
potrebbe desiderare che descrivessi qui i giuochi e gli esercizi
degli antichi Greci. Ma che posso mai dire su questo subietto che non
si trovi già nelle Memorie dell'Accademia delle Iscrizioni, in cui è
descritto persino il modo onde le nutrici di Lacedemone allevavano
gli Spartani e ne cominciavano l'educazione? ...».
Noterò
solamente che l'educazione fisica è negletta da quasi tutti i popoli
europei ... Però non ci ha legge che nei collegi vieti la
costruzione di un’arena dove gli alunni di una certa età possano
esercitarsi alla lotta, alla corsa, al salto; apprendano a
volteggiare, a) nuotare, a lanciare il cesto, a sollevar pesi, ecc.
Ora, in questa arena costruita ad imitazione di quella dei Greci
si decretino premi ai vincitori, né v'ha dubbio che tali premi non
accendano ben presto nella gioventù il naturale desiderio che ha per
tal fatta di giuochi. Una buona legge produrrà quest'effetto (314)».
La rivoluzione ci darà cotal legge.
Avvezzi
fino dall'infanzia ad ammirare le virtù, le massime, le splendide
azioni dei Socrati, degli Aristidi, dei Catoni, che non erano
cristiani, che non si confessavano, che non si comunicavano, che non
digiunavano, che non ascoltavano la messa, i giovani entrano nel
dubbio della necessità di tutti quei precetti e della verità della
religione che gli stabilisce: la loro ragione si emancipa.
Cotal
emancipazione della ragione mediante l'insegnamento classico è tanto
più inevitabile, in quanto che questo insegnamento, secondo Elvezio,
è la negazione permanente dell'influenza delle religioni sulle virtù
e sulla felicità dei popoli.
«Alcuni
uomini, dice egli, più pii che illuminati, hanno immaginato
che le virtù delle nazioni dipendessero dalla purezza del loro
culto. Che importa la fede? Sotto Costantino la religione
cristiana diventa la religione dominante. Essa però non rendeva i
Romani alle loro primiere virtù. Allora non si videro i Deci a
sacrificarsi per la patria, né i, Fabrici preferire sette acri di
terra alle ricchezze dell’impero. I re più cristiani non furono i
grandi re. Pochi fra loro mostrarono sul trono le virtù di Tito, di
Traiano, di Antonino. Qual principe devoto, fu a loro paragonabile?
Il male che fanno le religioni è reale ed il bene immaginario (315).
Per
incredibile che sembri, la tesi d'Elvezio in favore dèl politeismo
sarà alcuni anni dopo, ripresa con pompa da Quinto Auclero. Non ci
affrettiamo troppo di gridare alla follia. Allo stringere dei conti
non vi sono che due religioni nel mondo: il cattolicismo e il
paganesimo: il culto di Dio o il culto dell'uomo, schifavo e zimbello
di Satana. Quando l’uomo si toglie all’impero della redenzione,
ei cade inevitabilmente e proporzionalmente sotto l'impero del
demonio. Quello che è vero per l’uomo, è anche vero per le
società. Teniamo per certo, che se l'abbandono del cattolicismo
potesse divenire completo, le nazioni moderne non adotterebbero né
il protestantesimo, né il giudaismo, né l'islamismo, ma sì il
paganesimo sotto l'una o l'altra forma. Quando la rivoluzione
francese si staccò dal cristianesimo, verso qual religione piegò?
Per
compiere il ritratto d'Elvezio aggiungiamo ch'ei si mostra da per
tutto repubblicano democratico (316).
Ora,
se è vero che dai frutti si conosce l’albero, domandiamo ad ogni
uomo imparziale che sia Elvezio. Per chi sono i suoi disprezzi ed i
suoi odi? Per chi i suoi encomi, le sue affezioni, le sue tendenze.
Rimane a sapere come questo filosofo pagano, questo cittadino di Roma
e di Sparta il cui tipo non trovasi per fermo in Europa dallo
stabilimento sociale del cristianesimo sino al Risorgimento,
apparisca con molti altri in mezzo al secolo XVIII, nonostante la
pietà dei suoi maestri?
Né
gli anni, né le sventure, né la malattia modificano le idee che
Elvezio ha ricevuto nella sua gioventù.
Ritirato
nella sua terra di Voré passa gli ultimi suoi momenti a mettere in
versi le dottrine sensuali e razionaliste di Locke e di Epicuro.
In
mezzo a quest'occupazione il 26 dicembre 1771, un attacco di gotta
risalita al petto gli tolse subitamente la vita.
______________________
CAPITOLO
XXII.
D'HOLBACH.
Sua
nascita. - Sua educazione. - La comunanza d'idee lo ravvicina agli
altri filosofi. - Sue cene. - Analisi del suo Sistema della
natura. - È in tutta la sua estensione il naturalismo pagano.-
Eternità della materia. - Lo prova con gli autori classici. -
Fatalità; stesse prove. - La natura Dio; stesse prove. - Negazione
di Dio e della Provvidenza; stesse prove. - Dell'immortalità
dell'anima; stesse prove. - Movente della virtù, la gloria umana;
stesse prove. - Legittimità del suicidio; stesse prove. - Morte
pagana di d'Holbach.
***
Un’altra
vittima dell'educazione di collegio, Paolo Thiry, barone d'Holbach,
nato nel 1723 nel Palatinato, fu condotto a Parigi in età
fanciullesca ed educato alla stessa scuola dei giovani suoi
contemporanei. Non colse altro frutto dai suoi studi che una passione
sviscerata per la bella letteratura, per la bella filosofia, per le
belle arti, cioè per la letteratura, per la filosofia e per le arti
quali sono insegnate dai grandi maestri e realizzate nei modelli
dell’antichità greca e romana. Fuori di questo cielo, il giovane
d'Holbach non vede nulla, o piuttosto non vede che tenebre e
barbarie. Il mondo soprannaturale è nulla per lui, o se esiste, è
come un non so quale fantasma importuno di cui s'ha da liberare al
più presto per la prosperità del mondo. A questo incarico
perfettamente pagano d'Holbach impiega tutta la propria vita.
Uscito
appena di collegio, la segreta affinità, che esiste tra tutti i
figli d'una stessa madre gli fa cercare la compagnia dei letterati,
dei filosofi e degli artisti non meno pagani di lui. Le sue dovizie
gli lasciano comodità di fare della propria casa il convegno
generale dei letterati di professione e di un gran numero di giovani
signori che, come lui, gustano ed incoraggiano le tendenze religiose
e politiche di cui la rivoluzione francese esser doveva la terribile
manifestazione.
Tutte
le domeniche, il giovane barone che il famoso Galiani chiamava il
primo maggiordomo della filosofia, convita a cena i suoi amici.
Quei banchetti sontuosi richiamano quelli di Socrate in Atene, di
Ficino a Firenze, di Callimaco a Roma, di Federico a Potsdam; di
Voltaire a Ferney. Con una licenza che di nulla arrossisce, vi si
discutono i principi più sacri della religione e della società; si
mettono in ridicolo, si balestrano: l'ateismo e il paganesimo menano
trionfo. Il giovane d'Holbach vi paga il proprio debito, pubblicando
successivamente una moltitudine di libercoli l’uno più empio
dell'altro. Staremo contenti di analizzare brevemente quello che
meglio rivela la sua filosofia e la scuola dove l’aveva appresa:
ognuno intende che vogliamo parlare del Sistema della natura.
Questo
libro, del quale si trovano molti simili nella classica antichità, e
niuno così infame in tutto il medio-evo, ed in assai numero ne sono
apparsi dopo il risorgimento, è l'apoteosi la più svergognata della
ragione e della carne. L'ateismo, il materialismo, il fatalismo,
tutti quei mostruosi errori che il Risorgimento, al suo apparire,
riprodusse nel mondo sotto il manto degli antichi filosofi, e che
Leone X stesso, nel concilio di Laterano anatematizzò, nel 1512, con
tanta vigoria, dichiarando che quella filosofia nuova era infetta
sin nelle radici: tutti questi errori sistematicamente esposti,
compongono il libro di D’Olbach.
«L'uomo,
dice egli, è l'opera della natura; esiste nella natura, è
sottoposto alle sue leggi, non può emanciparsene, non può neppure
col pensiero, uscirne. Per un essere formato dalla natura e da questa
circoscritto, nulla esiste fuori del Gran Tutto di cui fa
parte: gli esseri che si suppongono superiori alla natura o da essa
distinti saranno sempre chimere» (317).
Alla
negazione del mondo soprannaturale, succedono, come conseguenza
logica, il fatalismo ed il materialismo. «L'uomo, continua
d'Holbach, si pieghi senza lamentarsene ai decreti di una forza
universale che non può retrocedere, o che non può mai scostarsi
dalle regole cui la sua essenza l'assoggetta... L'uomo è un essere
puramente fisico; l'uomo morale non è altro che quest'essere
fisico considerato relativamente ad alcune sue maniere di operare,
dovute al peculiare organismo ...
L'uomo
è debitore della propria esistenza al moto necessario della materia
che si produce, si aumenta e si accelera, senza il concorso di verun
agente esterno … La creazione non è che una parola … L'uomo
perfetto é quegli che segue le leggi della natura (318).
Queste
animalesche dottrine non sono quello che ci spaventa di più. Ciò
che fa tremare si è che l’influenza degli studi pagani sullo
spirito del giovane filosofo: A quelle mostruose asserzioni occorrono
prove. Dove mai le va a cercare d’Holbach? Nel solo mondo che ei
conosce, ai soli maestri che egli ammira. Di balzo ei si slancia
nella classica antichità, e ne ritorna accompagnato dai filosofi
della Grecia e di Roma. Poscia con aria di trionfo, esclama:
Quasi
tutti gli antichi filosofi sono stati d’accordo in riguardare il
mondo come eterno. Ocello Lucano dice formalmente parlando
dell’universo: Esso è sempre stato e sempre sarà. Cicerone
soggiunge che la perfezione dell’uomo consiste a seguire le
leggi della natura (319)», che avete a dire?
Continuando
la propria tesi in favore dell'eternità della materia e del moto
necessario, principio generatore degli esseri, d'Holbach viene a
questa conclusione: «Così contentiamoci di dire che la materia ha
esistito sempre, che si muove in virtù della sua essenza, che tutti
i fenomeni della natura sono cagionati dai diversi movimenti delle
varie materie che in sé contiene, e che fanno sì che, simile
alla fenice, rinasca continuamente dalle sue ceneri (320)»
Come
farà passare cotesti nuovi errori? Mettendoli al solito sotto il
patrocinio dei suoi autori classici.
«Il
poeta Manilio espone cotal dottrina della classica antichità in
questi bei versi:
Tutte
si mutan le create cose,
E
al volgersi degli anni e terra e mari
Più
gli stessi non son: diverso aspetto Vestono ancor co’ secoli le
genti.
Ma
integro il mondo si rimane, e tutta
Serba
la sua sustanza, né s'aumenta
Per
lunghezza di tempo, o per vecchiezza
Punto
si scema: sempre in moto e sempre
instancabile
al corso; e poiché ognora
Lo
stesso fu, sempre il medesmo mia» (321).
«Tale
fu anche il sentimento di Pitagora, com'è espresso da Ovidio nel XV
delle Metamorfosi:
«Tutto
si muta, nulla muor: sospinte
Di
qua, di là, di su, di giù soltanto
Sono
le cose … (322).
Chi
dunque oserebbe impugnare il sentimento di Manilio, di Pitagora e
d'Ovidio?
Puntellato
da tali autorità, d'Holbach continua intrepidamente il suo cammino e
ci spiega come il Gran Tutto, e la natura, adoperi nella
formazione degli esseri. Poscia aggiunge:
«Il
pretendere che la natura sia governata da un’intelligenza, è un
pretendere che sia governata da un essere fornito di organi,
stantechè senz'organi non vi può essere né percezione, né idee,
né intuizione, né pensieri, né volontà, né concetto, né
operazioni (323)».
Popoli
cristiani, se tale non è la vostra credenza, peggio per voi! Quello
ch'io v'insegno è la dottrina del divino Platone, e del suo
discepolo Aristotele, quasi divino quanto il suo maestro. Ascoltate.
«La materia, dice Platone, e la necessità sono la stessa cosa; e
questa necessità è la madre del mondo (324) ... Si dice che
Anassagora fosse il primo che suppose l'universo sia stato creato e
governato da un'intelligenza. Aristotele gli faceva rimprovero di
aver impiegato questa intelligenza alla produzione delle cose, come
un dio-macchina, cioè quando tutte le buone ragioni gli
mancavano (325)».
Negazione
della libertà, negazione dell'anima, negazione della virtù,
negazione dei miracoli, negazione del peccato originale, in una
parola negazione universale dell'ordine divino, tali sono le
conseguenze che d'Holbach trae direttamente dalle sue dottrine,
fondandosi costantemente ed unicamente, sopra l'autorità degli
autori pagani (326).
Ma
va più oltre, e tenta di giustificare cotesti mostruosi errori e di
mostrar l'influenza disastrosa delle verità contrarie.
Se
in quest'incredibile polemica egli allegasse almeno una volta
Lutero, Calvino, Zuinglio o qualche altro riformatore, sarebbe una
consolazione per quelli che pretendono che la filosofia del secolo
XVIII sia figlia del protestantesimo: ma no: d'Holbach attiensi
tenacemente ai suoi autori classici.
Vuole
che si sappia per bene non aver egli avuto e non conoscere altri
maestri. Stabilitasi da lui la mortalità dell'anima, aggiunge:
«Allorché il domma dell'immortalità dell'anima, uscito dalla
scuola di Platone, si diffuse fra i Greci, esso cagionò le più
grandi sciagure ed indusse una turba d'uomini malcontenti della
loro sorte a terminare la propria vita. Tolomeo Filadelfo, re
d'Egitto, vedendo gli effetti che questo domma, che oggidì si
riguarda per così salutare, produceva nei cervelli dei suoi sudditi,
proibì d'insegnarlo sotto pena di morte (327). Molte persone,
persuase dell’utilità, del dogma dell’altra vita, riguardano
quelli che osano impugnarlo come nemici della società ... È facile
però il convincersi che gli uomini più dotti dell’antichità
hanno creduto non solo che l’anima fosse, materiale e peritura col
corpo; ma hanno anche apertamente impugnato l'opinione dei castighi
della vita futura. Questo sentimento non era proprio degli epicurei;
ma lo vediamo ammesso dai filosofi di tutte le sette, dai pitagorici,
dagli stoici, finalmente dagli uomini più santi, è più
virtuosi della Grecia e di Roma.
Fra
questi gran santi d'Holbac annovera Ovidio, Pitagora, Timeo Locrese,
Zenone, Cicerone, Seneca filosofo, e Seneca tragedo; finalmente, i
più santi di tutti, Epitetto e M. Aurelio.
«Epitetto,
egli dice, ha le stesse idee in un passo degnissimo d'osservazione,
riferito da Ariano: eccolo fedelmente tradotto: «Dove, andate? non
in un luogo, io credo, di tormenti; non fate che ritornare al luogo
donde siete venuti; sarete di nuovo pacificamente assimilati con gli
elementi donde uscite. Quello che nel vostro composto era della
natura del fuoco, ritornerà all’elemento del fuoco: quello che era
della natura della terra, si riunirà alla terra, e quello che era
aria si riunirà all'aria, e quello che era, acqua si risolverà in
acqua: non vi ha punto inferno (328).
«Finalmente
il saggio e pio Antonino dice: Colui che teme la morte, o teme di
essere privato d'ogni sentimento, o teme di provare sensazioni
penose. Se perdete ogni sentimento più non sarete soggetti né a
pene né a miseria. Se siete fornito d'altri sensi d’una natura
diversa; diverrete un creatura di natura differente. La morte non è
che la dissoluzione degli elementi di cui è composto ciascun animale
(329).
La
conseguenza di queste dottrine della bella antichità, è, secondo
d'Holbach, che ci dobbiamo astenere dal parlare agli uomini ed ai
fanciulli specialmente, delle favole di un avvenire inutile a
conoscersi e che nulla ha di comune con la presente loro felicità.
Per eccitarli, alla virtù è d’uopo, ad esempio dei santi della
Grecia e di Roma, ed, in modo particolare di Cicerone, parlar loro
dell'immortalità delle anime coraggiose che, poco contente di
risvegliare l'ammirazione dei loro contemporanei, vogliono rapire
eziandio gli omaggi delle future generazioni (330).
«Non
reputiamo insensato l’entusiasmo di quei vasti e benefici ingegni
che hanno scritto per noi, che ci hanno guarito dei nostri
errori: tributiamo loro gli omaggi che hanno aspettato da noi,
mentre glieli hanno rifiutati gl’ingiusti loro contemporanei.
Bagniamo delle nostre lacrime le urne dei, Socrati e dei Focioni:
laviamo col nostro pianto la macchia onde il loro supplizio ha
bruttato il genere umano. Spandiamo fiori sulla tomba d'Omero:
Adoriamo le virtù dei Titi, dei Trajani, degli Antonini, dei
Giuliani (331)».
Discepolo
sino all'estremo del paganesimo classico, d'Holbach, annovera il
suicidio fra i titoli all'immortalità, e dice; «I Greci, i Romani
ed altri popoli cui tutto tendeva a rendere coraggiosi e magnanimi,
riguardavano come eroi e come dèi coloro che recidevano
volontariamente il filo di loro vita (332). E con qual diritto si
biasima chi si uccide per disperazione? La morte è il rimedio unico
della disperazione. Allora un ferro è l'unico amico, l'unico
consolatore che rimane allo sventrato. Quando niuna cosa non sostenta
più in lui medesimo l’amore del proprio essere, la vita è il
massimo dei mali, e il morire è un dovere per chi vuole liberarsene
(333)».
Non
vi sgomenti questa sconfortante dottrina: sappiate ch'essa è quella
d'uomini più saggi di voi, e specialmente del virtuoso Seneca:
«Vivere infelice è un male: ma niente obbliga a vivere infelice:
mille vie brevi e facili ci sono aperte per metterci in libertà
(334)».
D'Holbach
termina questo trattato di religione, fedelmente copiato
dall'antichità greca e romana, con questa invocazione che si
crederebbe scritta duemila anni addietro: «O Natura! Sovrana di
tutti gli esseri, e voi figlie sue adorabili, Virtù, Ragione,
Verità! Siate mai sempre le sole nostre divinità. A voi sono
dovuti gl'incensi e gli omaggi della terra. Raccogliete, o divinità
soccorrevoli! il vostro potere per sommettere i cuori. Cavateci
fuori dall'abisso in cui ci sprofonda la superstizione.
Spezzate nelle mani insanguinate della tirannide lo scettro
con cui ci stritola: che l'uomo osi una volta di emanciparsi;
sia felice e libero, schiavo soltanto delle vostre leggi (335)».
Dopo
pochi mesi, la rivoluzione metteva in atto i desideri del barone
d'Holbach. Riguardo a lui, giustificando, come gli altri filosofi,
quel detto divino che si muore come si è vissuto, e che si vive come
si è stato educato, morì il 21 gennaio 1789, dicendo che, come
tutti gli animali, andava a
ricadere nel nulla.
_________________
CAPITOLO
XXIII.
GENEALOGIA
DEL VOLTERIANESIMO.
Tutti
i filosofi del XVIII secolo si definiscono in due parole: anime vuole
di cristianesimo ed ebbre di paganesimo - Particolareggiato confronto
delle loro dottrine con quelle degli autori classici. - Sul mondo. -
Su Dio. - Sull'anima - Sulla morale. - Sulla virtù. - Sulle pene
eterne. - Sulla società. - Sulla forma di governo. - Sui mezzi di
governare i popoli e di renderli buoni e felici. - Il dispotismo
cesariano, gli onori, il carnefice, il divorzio, le cortigiane,
l’abolizione della proprietà e il comunismo. - Tutte queste
dottrine tratte letteralmente dagli autori insegnati in collegio.
***
Gli
stessi studi resterebbero a farsi sopra Diderot, Piron, Robinet,
Boulanger, Lalande, Toussaint, Lamettrie, Maupertuis, Buffon, de
Maillet, Locke, Cumberland. Bolingbrocke, Condillac, d'Argens,
Brissot, Raynal ed alcuni altri la cui riunione forma ciò che si
chiama filosofia del XVIII secolo ossia il Volterianesimo.
Ma
i limiti che ci siamo prefissi non ci permettono di ampliare di più
l'opera nostra. Basta il sapere che i risultamenti sono gli stessi:
cioè che la vita intellettuale e morale degli uni e degli altri non
è che lo svolgimento della loro educazione di collegio: intendiamo
dire dell’educazione non già data dagli uomini, ma dai libri. La
stessa ammirazione per l'antichità pagana, la stessa ignoranza e lo
stesso disprezzo del cristianesimo.
Per
una parte, affinché niuno sia obbligato a prestare fede sulla nostra
sola asserzione; e per l'altra, al fine di rimuovere totalmente il
velo che a certi occhi potrebbe ancora occultare la genealogia del
Volterianesimo, metteremo, in un rapido quadro, a confronto tutti i
filosofi del XVIII secolo con gli autori pagani. Il lettore deciderà
in qual grado di parentela siano uniti.
L'ordine
religioso e l'ordine sociale sono i principali obbietti delle
dottrine filosofiche del passato secolo: della letteratura e delle
arti non parliamo: e noto a tutti che agli occhi del Volterianesimo
non vi ha né arti né letteratura fuorché presso i Greci e i
Romani, o presso i loro imitatori presso il Risorgimento.
Nell'ordine
religioso vuolsi distinguere il domma e la morale. Sul domma,
Diderot, d'Holbach, Buffon, de Maillet, Robinet, Lamettrie ed altri
negano la creazione ed insegnano che il mondo è stato formato dalle
sole forze della natura: che l’acqua è il principio di tutte le
cose; che il mondo è il grande animante, il gran tutto da cui escono
tutti gli esseri per rientrarvi un giorno: che questo mondo è
eterno.
Questa
maniera di fabbricare l'universo mediante le sole forze della natura
non è nuova: Anassimandro, Anassimene, Talete, Epicuro e molti altri
filosofi riferiti nella classica opera di Diogene Laerzio e di
Cicerone lo fabbricavano come i filosofi del secolo XVIII, mediante
le sole forze della natura (336).
Buffon,
de Maillet ed altri moderni fanno, uscire il mondo dall'acqua che,
secondo essi, contiene il germe di tutto ciò che esiste, delle
piante, degli animali, dell'uomo, che fu dapprima pesce, carpione,
luccio, merluzzo. «L'acqua è il principio di tutte le cose, ci dice
de Maillet: essa contiene tutti i semi … Perciò il settentrione,
carico di parti acquose, sarà il luogo che gli uomini marini hanno
incominciato ad abitare: per questo motivo le moltitudini
innumerevoli di uomini di cui sono state inondate le parti
meridionali dell’Asia e dell'Europa, sono uscite dalle regioni
settentrionali ... In tutti gli uomini vi avrà sempre un segno
indelebile che traggono la propria origine, dal mare. Osservatene la
pelle col microscopio, e la vedrete tutta coperta di piccole squame
come quella d'un giovane carpione» (337).
Questa
dottrina fu pur quella di Talete che vide parimenti nell’acqua pura
il principio di tutte le cose; d'Anassimandro che vide l'uomo-pesce
guizzar nell'oceano prima di edificare palazzi; di Omero che
cantando l'eccidio di Troja, vide gli uomini e gli dèi uscire dal
seno di Teti, cioè dalle acque dell'oceano, (338).
Il
mondo, grande animante, gran tutto, tutto producente e tutto
assorbente, questo mondo favorito di Diderot, d’Holbach, d'Elvezio
è precisamente, il mondo di Zenone, di Platone, di Speusippo, di
Virgilio, di Seneca, e dei migliori autori del collegio (339).
Intorno
all'esistenza di Dio, vi è divergenza fra i filosofi del XVIII
secolo: affermano alcuni, negano altri: ed altri ancora ora affermano
ed ora negano. Voltaire e d'Alembert dicono sì: d’Holbach e de
Maillet dicono no: Robinet, Lamettrie, Raynal, Diderot, dicono ora sì
ora no. Queste variazioni dipendono dal maestro da cui sono iti a
scuola. Prodico, Simonide, Stilpone, Teodoro, Lucrezio sono contro
Dio: Platone, Cicerone, Tacito a favore: Diagora, Protagora ed assai
altri non meno spettabili sono ora a favore ora contro (340).
Intorno
alla natura di Dio, le stesse opinioni tra i maestri e i discepoli.
Voltaire insegna il dio grande anima, ed anima unica:
gli è il dio di Virgilio, di Platone; di Pitagora, e di Zenone
(341). D’Holbach insegna il dio gran tutto: gli è il dio di
Senofane, il quale dice in espresse parole, che tutto ciò che
esiste non fa che uno e che quest'uno è dio (342). Diderot,
Boùlanger, Raynal, Voltaire e molti altri insegnano il dio
tranquillo: Gli è il dio di Epicuro ed anche d'Aristotele, che
non si prende pensiero di quello che qui avviene, e che ben si
guarderebbe dar curare le nostre azioni per tema di disturbare il
proprio riposo (343).
Intorno
all’anima c’è perfetto accordo fra i moderni e gli antichi.
Fréret, Lamettrie, d'Holbach, d'Argens, talvolta Voltaire ne negano
l'esistenza. Allora ei ripetono gl'insegnamenti di Epicuro,
d’Anassimene, di Anassagora e di Senofane (344). Poscia si
ricredono e mantengono che hanno un'anima metà corpo e metà
spirito: che ne hanno due, ed anche tre di specie diversa. Perché
no? Aristotele ha detto ad essi ch'egli ha un'anima metà materia e
metà spirito: Platone che ne ha tre, la prima delle quali ha sede
nel cervello, la seconda nel petto e la terza sotto al cuore (345).
Anche d’Argens riconosce di aver un'anima, ma tenuissima,
sottilissima, e tutta di materia. Quest'è l’anima di Democrito, la
quale altro non era che un globetto rotondo e leggiero come una piuma
(346).
Diderot,
la volta sua, per spirito d'emulazione vede in sé un'anima Dio,
emanazione di Dio, particella di Dio: Egli ha riletto i suoi classici
e vi ha veduto che tale fu l'anima di Pitagora, di Platone,
d'Aristotele, di Seneca, d'Epitteto e di Virgilio cui sa a memoria
(347).
Robibet
che ha studiato alla stessa scuola, conta tante anime quanti ha
cavoli e rape nel suo orto: ne trova nel sole, nella luna, nella
terra, nei ciottoli, e sino nella sua selce che sa benissimo il
momento in cui dee far fuoco. Così gli ha insegnato Talete (348).
L’anima
è mortale? Elvezio, Fréret, Lamettrie, Voltaire rispondono con
Lucrezio ed Epicuro affermativamente (349), Diderot protesta di non
voler morire tutto intero. «Fui cane, dice egli, fui gatto, fui
uomo. Perché non ritornerò un giorno sotto la tonaca di un
cappuccino o sotto il soggolo d'una monachella»? Lode dunque a
Diderot, il quale ci dà saggio d'avere studiato per bene Virgilio e
Diogene Laerzio, in cui ha veduto che Pitagora fu dapprima Atalide
figlio di Mercurio; poscia Euforbio, ferito all'assedio di Troja:
poscia, Ermotimo; poscia, povero pescatore sotto il nome di Pirro; e
finalmente, dopo la quinta sua morte, filosofo sotto il nome di
Pitagora; senza tener conto delle altre morti dopo le quali era ora
cane, ora gatto e principalmente fava (350).
Dal
dogma passiamo alla morale. Esiste egli un bene o un male morale? Le
virtù e i vizi sono vane parole oppure realtà? Su questo subbietto,
Diderot, Fréret, Lamettrie, Voltaire, d'Holbach non sono d'accordo
né fra loro né con sé medesimi. Niuna meraviglia: i discepoli non
sono superiori ai loro maestri, né ad essi inferiori. Socrate,
Platone, Pitagora, Zenone rispondono affermativamente; Pirrone,
Aristippo, Stratone, Epicuro, negativamente (351).
Ammettiamo
la virtù ed ai filosofi del XVIII secolo domandiamone la natura. -
L'utile, rispondono Raynal Elvezio e molti altri. Tutto
riducesi all'interesse privato o all'interesse pubblico. Questa è la
pura dottrina di Aristippo, il quale diceva ai suoi discepoli: Il
savio non fa nulla che per sé: di Cicerone, che soggiunge: La
vera misura della virtù è nell'utilità pubblica (352).
Per
tutti i Volteriani indistintamente i castighi dell'inferno e la
ricompensa del cielo sono pregiudizi e chimere, buone per tenere in
freno il popolo, ma di cui il filosofo ha diritto di beffarsi.
Quest’è l'idea prediletta di tutti i più celebri autori
dell'antichità. Converrebbe non aver letto né Cicerone, né Orazio,
né Virgilio, né Plinio, né Seneca, né i tragici greci e romani,
né lo stesso Platone, per ignorare che gl'iddii degli antichi non
andavano in collera e non punivano; che la dottrina sui Campi Elisi e
sul Tartaro non era che pel popolo e che i liberi pensatori la
deridevano. Chi non sa che quegli stessi i quali credevano alla
permanenza dell'anima dopo la morte, la distinguevano dalla nostra
immortalità e che erano principalmente ben lontani dal credere, a
motivo della metempsicosi, le pene eterne? (353)
Per
Elvezio, per d’Holbach e per gli altri filosofi, il pudore, la
mortificazione, l'umiltà, la castità sono virtù scaturite dai
pregiudizi; e questa dottrina essi impararono in Diogene, in Epicuro,
in Crate (354).
Dopo
questa rapida corsa nell’ordine religioso, entriamo nell'ordine
sociale.
Tutta
la scuola volteriana è repubblicana e democratica: tutti gli autori
classici sono repubblicani e democratici: tutto il secolo XVIII
predica l'odio del monarcato e preconizza il regicidio politico:
tutta l'antichità classica greca e romana predica l’odio del
monarcato, e preconizza il regicidio politico.
Dopo
di avere abolito la cristiana religione, negano tutti i motivi di
virtù ch'essa propone e che assicurano la quiete e la felicità
della società, la filosofia popone i suoi mezzi di governo: il
dispotismo, gli onori, il boia, il divorzio, le cortigiane,
l'abolizione della proprietà.
Il
dispotismo. «Un sovrano, dicono Boulanger ed Elvezio, ha più
potenza degli dèi per ristabilire e riformare i costumi. spetta
dunque al sovrano di predicare: spetta a lui il riformare i
costumi. .. Spetta a lui il definire l'istante in cui ciascuna
azione cessa d'essere virtuosa e diventa viziosa (355). Ecco
letteralmente il sistema antico in cui l'uomo, sotto il nome di
Cesare, d'arconte o di areopago, raccogliendo in sé la potestà
temporale e la spirituale, curvava le teste e le anime sotto il suo
scettro di ferro.
Gli
onori. «I titoli, dicono Elvezio e d'Holbach, gli onori, le
ricompense, la stima pubblica e tutti i piaceri rappresentati da
cotale stima sono le ricompense più proprie a far rinascere
l’amore della virtù» (356). Così ragionava tutta l'antichità
classica, e così ragionerà la rivoluzione.
Il
boia. Elvezio prosegue: «Non gli anatemi della religione, ma la
spada della giustizia disarma gli assassini nei civili consorzi: il
boia è quegli che trattiene il braccio dell'omicida. Il timore del
supplizio può tutto nei campi, e può tutto anche nelle città ...
Esso rende i cittadini onesti e virtuosi … Le virtù sono dunque
opera delle leggi e non della religione (357)». Quando nel 1793
i discepoli di Elvezio non riconobbero che virtù legali inaugurarono
il sacerdozio del boia.
Il
divorzio. Con gli occhi tenacemente fissi sui grandi legislatori di
Sparta e di Atene, i filosofi del XVIII secolo preconizzano un nuovo
mezzo di rigenerare le società cristiane; e questo è il divorzio,
tanto conosciuto dall'antichità. E dicono: «Due coniugi cessano
d'amarsi? perché condannarli a vivere insieme?... Il divorzio è una
conseguenza delle leggi dei contratti... Col vietarlo si fa
l'infelicità delle persone che non possono vivere insieme, e spesso
le si sospingono ai più grandi delitti (358)».
Le
cortigiane. Il primo apostolo di questo mezzo di governo nei tempi
moderni è Voltaire: nel suo Discorso sulla felicità,
esclama: «La Natura sollecita a satisfare i nostri desidèri. Vi
chiama al suo dio mediante l’allettamento dei piaceri.
«Si
apra la storia, soggiunge l’amico suo Elvezio, e si vedrà che in
tutti i paesi dove certe virtù erano incoraggiate dai piaceri
dei sensi, cotali virtù sono state le più comuni, ed hanno
brillato del più grande splendore ... I piaceri dell’amore, come
notano Plutarco e Platone, sono i meglio acconci ad innalzare
l’animo dei popoli e la più degna ricompensa degli eroi... Essi
formarono il carattere di quei virtuosi Sanniti, presso i quali, la
più grande bellezza era il premio della più grande virtù ...
Ricordiamoci di quelle feste, solenni, in cui le belle e giovani
Spartane si presentavano seminude danzando nell'assemblea o del
popolo. Qual trionfo pel giovane eroe che riceveva la palma della
gloria dalle mani della bellezza! ... Si può dubitare che allora
quel giovane guerriero non fosse inebriato della virtù»? (359)
L'abolizione
della proprietà. Questa laida dottrina che confina con la
promiscuità è letteralmente copiata dalle leggi di Licurgo e dalla
repubblica di Platone: ed i moderni discepoli dell’antichità non
dubitano punto di proporla siccome l'ultimo termine della sociale
perfezione. «Supponiamo se si vuole (dicono) un paese in cui le
donne siano in comune. In cotal paese quanti maggiori mezzi esse
inventassero di seduzione tanto maggiormente moltiplicherebbero i
piaceri dell’uomo ... La loro civetteria nulla avrebbe che fosse
contrario alla prosperità pubblica ... I loro favori diverrebbero un
incoraggiamento ai talenti ed alle virtù (360) ... Togliete la
proprietà: più non vi sono passioni furiose, non più azioni
feroci, non più idee, di male morale. Laonde, per troncare dalla
radice i vizi e tutti i mali di una società senza darmi pensiero dei
dileggi di coloro che temono la verità, la prima legge che pongo
sarà concepita in queste parole: Nulla nella società apparterrà
singolarmente né in proprietà a veruno, se non le cose di cui farà
uso abitualmente, sia pel suo bisogno, sia pei suoi piaceri o pel suo
lavoro giornaliero (361)».
Brissot,
che ci spiace di non poter citare, è ancora più esplicito e fura a
Proudhon il merito delle sue scoperte (362). Mably, il catechista
della rivoluzione voleva appartenere ad una società che
prendesse la generosa risoluzione d'obbedire alle leggi di
Platone: «Non posso, sclamava, abbandonare questa
gradevole idea della comunanza dei beni (363). Tutti finalmente,
infatuati di paganesimo, sognavano il ristabilimento puro e semplice
dell'ordinamento delle società antiche.
È
tempo di por fine a questa storia genealogica del Volterianesimo, cui
sarebbe facile il continuare nelle più piccole sue particolarità.
Quanto,
abbiamo detto basta per autorizzarci a concludere con l'autore delle
Elviane: «La pretesa filosofia moderna non è che una
barbogia di oltre duemila anni che ricomparisce impiastricciata di
bracca e di minio, per ringiovanire la sua pelle offuscata dai secoli
... I suoi apostoli non sono che pagani risuscitati (364)».
Tutto
ciò è evidente; e quello che non lo è meno si è la risposta ai
quesiti seguenti: Come mai la filosofia pagana con tutti i suoi
mostruosi errori sulla religione e sulla società, è ricomparsa viva
nel secolo XVIII dell'era cristiana? Come mai cotale filosofia,
combattuta, disprezzata, disdegnata, aborrita durante tutto il
medioevo, dopo la caduta di Costantinopoli, ha ripigliato il
deplorabile suo impero in Occidente? Chi l'ha rimessa in onore? Dove
mai la gioventù degli ultimi secoli ha imparato ad ammirarla? Chi ha
esaltato davanti ad essa i grandi nomi di Licurgo, di Platone, di
Virgilio, d'Omero e di tutti quegli uomini le cui dottrine riunite
costituiscono il complesso del Volterianesimo, padre della
-rivoluzione?
____________________
CAPITOLO
XXIV.
SECOLO
DECIMO OTTAVO.
Quadro
generale e definizione. - Memorie di Bachaumount. - Predizione
dell'avv. generale Séguier. - Il paganesimo generale nel secolo
XVIII. - Nelle arti, sale di Diderot. - Nelle lettere, traduzioni
continue degli autori classici. - Nelle scienze, soggetti di premio
proposti dall'Accademia delle iscrizioni. - Al teatro, titoli
d'opere, tragedie e componimenti drammatici. - Nei costumi, Memorie
di Bachaumont. - Nell'educazione, parole del P. Grou. - Cagione del
male. - Passo dell'Apologia dell'Instituto dei gesuiti.
-Manifestazione dello spirito pagano, espulsione dei gesuiti,
scacciati dai propri loro discepoli. - Lista dei filosofi educati da
essi e dagli altri ordini religiosi. – Conclusione.
***
Dai
fatti superiormente narrati risulta la seguente definizione del
Volterianesimo e della filosofia del secolo XVIII; nell'ordine
filosofico, il volterianesimo è il razionalismo: nell'ordine
religioso, il naturalismo; nell'ordine morale, il sensualismo;
nell'ordine sociale, il repubblicanesimo; o, in altre parole è
lo sforzo perseverante di un secolo per liberarsi dell’ordine
religioso e sociale fondato dal cristianesimo, per stabilire un
ordine religioso e sociale fondato sull'umana ragione.
Ora,
l'esercito filosofico si divide in tre corpi, ciascuno dei quali è
incaricato di compiere sopra un punto speciale l’opera di
distruzione e di ricostruzione: gli enciclopedisti, gli
economisti, i patrioti.
Il
duce supremo Voltaire combatte successivamente con questi diversi
corpi, senza appartenere esclusivamente a nessuno.
«Gli
enciclopedisti, perfezionando la metafisica, mezzo il più
proprio a dissipare le tenebre in cui la teologia l'aveva
involta, hanno distrutto il fanatismo e la superstizione.
«A
costoro sono succeduti gli economisti, i quali essenzialmente
occupandosi della morale e della politica pratica hanno
cercato di rendere i popoli più felici, applicando l'uomo allo
studio della natura, madre dei veri godimenti.
«Finalmente,
i tempi di turbolenza e di oppressione hanno prodotto i patrioti, i
quali risalendo all'origine delle leggi e della costituzione dei
governi, hanno dimostrato gli obblighi reciproci dei sudditi e dei
principi, penetrato profondamente nella storia, e fermato i grandi
principii dell'amministrazione (365)».
Questo
morbido linguaggio nasconde un senso nascosto. Ecco l'interpretazione
veramente profetica che ne dava l'avvocato generale Séguier, nella
sua requisitoria contro il Sistema della natura del barone
d'Holbach. «L'empietà, dice quel magistrato, non limita i suoi
disegni d'innovazione a dominare sugli spiriti ed a strappare dai
nostri cuori ogni sentimento della divinità; il genio suo
inquieto, intraprendente, nemico d'ogni dipendenza, aspira a
sconvolgere tutte le istituzioni politiche. I suoi voti non saranno
pieni se non quando avrà distrutto quell'ineguaglianza necessaria di
grado e di condizione, quando avrà invilito la maestà del re, resa
precaria la sua autorità e subordinata ai capricci di una turba
cieca, e quando finalmente, coll’aiuto di questi strani mutamenti,
avrà precipitato l'intero mondo nell’anarchia ed in tutti i
mali, che ne sono inseparabili (366)». Abbiamo passato in
rassegna l'esercito filosofico ed abbiamo dimostrato che tutte le
sue dottrine antireligiose ed antisociali si trovano letteralmente ed
esclusivamente negli autori pagani di cui era stato nutrito. Così, a
meno che si voglia negare che il loglio proviene dal loglio, a meno
che si voglia negare ai filosofi una genealogia di cui si fanno
gloria, e che conoscono meglio di ogni altro, non si può
dubitare che il Volterianesimo sia nato dal Risorgimento e dagli
studi di collegio.
«Sì,
dicono ancora ai nostri giorni, siamo filosofi e rivoluzionari e ne
siamo orgogliosi; ma siamo i figli del Risorgimento prima di esserlo
della filosofia e della rivoluzione (367)». Una nuova prova
s'aggiunge a puntellare questo discorso. Cadrebbe in inganno chi
riguardasse Voltaire, Rousseau, Elvezio, Mably ed i principali loro
commilitoni come eccezioni. Nel secolo XVIII la gioventù letteraria,
presa in generale, era, a diversi gradi, imbevuta degli stessi
principi, detestava le medesime cose, partecipava alle stesse
ammirazioni e manifestava le stesse tendenze. Dal collegio, il
paganesimo raggiava sopra tutta la società, la investiva del suo
spirito e la trasformava attivamente nell'immagine della classica
antichità.
Che
facevano nel secolo XVIII quella folla di pittori, di scultori,
d'incisori, d'artisti in ogni genere i cui nomi sono appena giunti
sino a noi? Se vuolsi saperlo, si faccia una corsa nella sala di
Diderot (368). Si vedrà che la costante loro occupazione è di
riprodurre all'infinito i subbietti della storia e della mitologia
pagana, o di trasformare in dei e in dee dell'Olimpo re, nostre
vergini ed i nostri martiri. Visitandone le gallerie, l’abitante di
Roma, d’Atene e di Pompei si troverebbe nel proprio paese, Augusto
che chiude il tempio di Giano, le Grazie, le Vestali, Giove cangiato
in pioggia d'oro, Traiano, Ippomene, ed Atalanta, Marcaurelio,
Achille, Artemisia alla tomba di Mausolo, Minerva, il gran sacerdote
Coreso, che si sacrifica per Calliroe; pastorali degne dei
freschi di Pompei e riflessioni di Diderot degne delle pastorali:
ecco quello che da tutte le parti si dispiega. Osservate anche i
mobili, i bronzi, le tappezzerie, le decorazioni degli appartamenti e
ditemi se tutto ciò non è il paganesimo in tutta la sua
disinvoltura!
Che
cosa facevano gli umanisti? Tradurre, chiosare, postillare,
illustrare per la centesima volta gli autori pagani e specialmente
Tacito, nemico dei despoti, per preparare, scienti o no, il terribile
scoppio che doveva scrollare tutti i troni e abbandonare allo spregio
dei popoli o al ferro del carnefice i re ed i principi trasformati in
tiranni (369).
Che
facevano i corpi scientifici, i principi della letteratura? Il
miglior modo di saperlo è il leggere le Memorie dell'Accademia
delle iscrizioni, relative quell’età. Ecco alcuni soggetti di
premio proposti dal 1736 al 1789 dalla grave assemblea.
Nel
1736: «Quali erano le leggi comuni ai popoli della Grecia, che
costituivano il corpo ellenico?»
Nel
1738: «Quali erano le leggi dell'isola di Creta? Se Licurgo ne fece
uso in quelle che diede a Sparta».
Nel
1739: «Quali erano il mese e il giorno dell'anno romano in cui i
consoli entravano in carica?
Nel
1744: «Quante volte il tempio di Giano è stato chiuso?
Nel
1744: «Quali erano nella Grecia i sacerdozi annessi a certe
famiglie?»
Nel
1745: «Quali erano i diritti delle metropoli greche sulle colonie?»
Nel
1750: «Quale fu l'autorità del senato romano sulle colonie romane?
Nel
1753: «Quali furono l'origine, il grado e i diritti dei cavalieri
romani?
Nel
1754: Quale fu il sistema religioso che Dionigi d’Alicarnasso
accerta essere stato speciale ai Romani?»
Nel
1755: «Quali erano gli attributi d'Osiride, d’Iside e di Oro?»
Nel
1756: «Quali erano gli attributi di Giove Ammone?»
Nel
1757: «Quale era lo stato delle città e delle repubbliche situate
nel continente della Grecia europea?»
Nel
1758: «Quali erano gli attributi d'Arpocrate e di Auuhi? Nel 1759:
Se Serapide era una divinità originaria d'Egitto?»
Nel
1760: «Quali idee gli Egiziani si formavano di Tifone?»
Nel
1761: «Quali sono i nomi che l'antichità ha dato al Nilo?»
Nel
1762: «Quali erano le divinità inferiori dell'Egitto?».
Nel
1763: «Quali erano i diritti e le prerogative del pontefice massimo
di Roma sui sacerdozi della città e delle province?»
Nel
1764: «Quali erano le diverse classi dei sacerdoti egiziani, i loro
segni distintivi, le loro funzioni e i loro sacrifizi?»
Nel
1765: «Per quali ragioni le leggi di Licurgo si sono alterate presso
i Lacedemoni?
Nel
1766: «Quale educazione gli Ateniesi davano ai loro figli nei secoli
fiorenti della Repubblica?»
Nel
1766: «Quale era il vestimento dei due sessi, presso gli Egiziani
prima del regno dei Tolomei?»
Nel
1767: «Quali erano gli attributi di Saturno e di Rea?»
Nel
1768: «Quali erano gli attributi di Giove in Grecia e in Italia?
Nel
1770: «Far l'esame critico degli storici d'Alessandro»
Nel
1771: «Quali erano i nomi e gli attributi di Giunone nella Grecia e
in Roma? »
Nel
1772: «Quali erano i nomi e gli attributi di d'Apollo e di Diana
nella Grecia e in Italia? » Nel 1773: «Quali erano i nomi e gli
attributi di Minerva nella Grecia e in Italia? ».
Nel
1774: «Qual era lo stato dell'agricoltura presso i Romani sino a
Giulio Cesare?»
Nel
1775: «Quali erano i nomi e gli attributi di Venere nella Grecia e
in Italia?».
Nel
1776: «Qual era lo stato dell'agricoltura presso i Romani da Cesare
fino a Teodosio?
Nel
1777: «Quali erano i nomi e gli attributi di Cerere e di Proserpina
nella Grecia e in Italia?»
Nel
1779: «Quali erano i nomi e gli attributi di Plutone e delle diverse
divinità infernali, eccettuata Proserpina?»
Nel
1787: «Quali furono l'origine, i progressi e gli effetti della
pantomima presso i Romani?»
Nel
1789: «Se l'ostracismo ed il petalismo hanno contribuito al
mantenimento o alla decadenza delle repubbliche della Grecia? (370)»
Ecco
quali erano, alla vigilia della rivoluzione, gli studi di cui si
occupavano e di cui occupavano la letterata Europa i più gravi fra
gli uomini di lettere del XVIII secolo!
Che
facevano gli altri? E di che occupavano quella parte frivola ed
oziosa della società che chiamasi il bel mondo? Per unica risposta,
riferiamo i titoli delle principali produzioni teatrali,
rappresentate dal 1712 al 1743.
Balli:
Idomeneo, Creusa, gli Amori di Marte e Venere, Medea e Giasone, gli
Amori mascherati, Adone, le Feste di Talia, Calipso, Teoneo, Aiace ed
Ipermnestra, Arianna e Teseo, il Giudizio di Paride, Semiramide, gli
Amori di Proteo, Piritoo, le Feste greche e romane, Telegono, gli
Stratagemmi dell'Amore, Piramo e Tisbe, gli Amori degli Dei, Orione,
gli Amori delle Dee; Endimione, il Ballo dei sensi, l'Impero
dell'Amore, Achille e Deidamia, … ed altri.
A
lato dei balli, specialmente riservati per la corte e l’alta
nobiltà, prendono luogo le rappresentazioni drammatiche, a cui la
nobiltà e la borghesia assistevano con eguale interessamento:
I
Giuochi dell'Amore, Callistene, l'Innamorato senza sapere di esserlo,
il Divorzio, l’Isola del Divorzio, Bruto,
… e ne omettiamo tante altre e delle migliori. Intanto il
paganesimo che aveva invaso il mondo letterato, che parlava per
organo dei filosofi, che si svolgeva in articoli scientifici nelle
memorie delle accademie, che dall’alto dei teatri si introduceva
per tutti i sensi sino al midollo delle anime, produsse costumi
consonanti con le sue dottrine. Che cosa erano le cene del reggente?
le veglie di Luigi XV? Le riunioni dei grandi signori nei loro
palazzi in città e nelle loro castella? Qual parte rappresentavano
le cortigiane e le attrici? (371)
I
più illustri nomi della Francia congiunti coi nomi delle Arnoux,
delle Deschamps, delle Leclerc, delle Guimard, delle Mazzarelli e
d'una turba di altre (372).
Ratti,
scandalose fughe, più scandalosi matrimoni; e Parigi spendere ogni
anno cinquanta milioni per stipendiare illustri infamie (373).
Poscia
tutta quella corrotta - nobiltà, tutta quell’oziosa borghesia,
tutta quella classe di letterati, ad imitazione dei Romani degenerati
al tempo di Tiberio: recitar la commedia in città e in campagna,
comporre a gara versi galanti e madrigaletti screziati di Venere e di
Cupido, recitarli come intermezzi nelle loro cene in casa le Tencin,
le Graffigny, le Geoffrin, ed altre dame più o meno filosofesse
(374).
La
stessa morte non la trae quasi più dalla vita sibaritica in cui è
tuffata. Allora incomincia il suicidio; allora è in voga il morire
come gli stoici e gli epicurei dell'antichità, con l'insensibilità
nel cuore e col motteggio sulle labbra. È nota, la fine di Voltaire,
di d'Alembert e dei principali modelli di quel secolo. Ecco, in fra
gli altri qual fu il fine d’uno dei molti loro discepoli.
Versi
del conte di Maugiron, luogotenente generale, un'ora prima della sua
morte:
Suona
già l'ora estrema!
Pastori
e pastorelle.
Le
mie palpebre a chiudere venite.
De'
vostri baci al mormorio soave
Placidamente
l'alma mia si spenga.
Nelle
braccia d'Amore
Finir
così la vita
Non
è sentir la fredda man di morte
Ma
un addormirsi d'un bel dì al tramonto»
Il
signor di Maugiron abitava in casa del vescovo di Valenza: il clero
rendevasi sollecito di recargli i soccorsi spirituali, allorché egli
si voltò e disse al suo medico: «Li burlerò bene io! e
credono di agguantarmi, ma io me ne vado». Ciò detto morì (375).
Il
clero stesso, poiché vuolsi ricercare la piaga fino al vivo, il
clero in assai dei suoi membri paga il proprio tributo allo spirito
classico del secolo XVIII. Lo si vede a svolgere gli autori pagani
molto più delle Scritture (376), esaltare i Greci e i Romani, e
renderli in ogni guisa popolari; e, per conseguente, arrossire del
cristianesimo, come quel gran Vicario di Cahors, di cui Bachaumont
narra il fatto seguente:
«28
Agosto 1765. Il panegirico di San Luigi recitato il 25 di questo mese
nella cappella del Louvre dall'abate Bassinet gran Vicario di Cahors,
fa grande rumore. Gli vien fatto rimprovero d'aver convertito in
cerimonia assolutamente profana quest'elogio consacrato specialmente
al trionfo della religione. Ha soppresso persino il segno di
Croce. Nessun testo, nessuna citazione della Sacra Scrittura;
neppur una parola di Dio e dei suoi santi. Ei non ha riguardato Luigi
IX che dal lato, delle virtù politiche, guerresche e morali (un eroe
di Plutarco). Ha vituperato le crociate ed ha urtato di fronte la
corte di Roma (377)».
Altrove
l'abate Legendre, prozio della duchessa di Choiseul, scrive commedie,
l'abate di Prades, aiutato dall'abate Yvon, nel 1751, in piena
Sorbona sostiene una tesi in favore del materialismo (378). L’abate
di Bernis mette in rima le Georgiche francesi e le quattro
parti del giorno (379).
L'abate
Corné, canonico d'Orléans, nel giorno di Pasqua 1772, predicando a
Versaglia davanti il re, sdegna di fare il segno di croce.
«Sua
Maestà si rivolse verso il duca d'Ayen, suo capitano delle guardie,
e gliene dimostrò il proprio stupore: «Vedrete, Sire: rispose
il motteggiatore, che gli è un sermone alla greca».
L'oratore infatti incominciò: «I Greci ed i Romani, ecc.»
Il re non si poteva tenere dal ridere, ed il predicatore confuso,
provò in tutto il suo discorso l'effetto di quel motteggio (380)».
Perciò,
filosofia, arti, scienze, teatri, idee, costumi, spirito generale
tutto quel secolo ha un colorito ben carico di paganesimo.
«Panem
et circenses; pane e giuochi del circo, questo era, esclama, un
testimonio oculare, la divisa del popolo romano, e tale è quella del
popolo francese (381)». In termini più espliciti lo dice uno degli
educatori di quel secolo, il quale non ha potuto non riconoscere il
fatto e segnalarne la cagione.
La
nostra educazione è tutta pagana,
esclama dolorosamente P. Grou della Compagnia di Gesù. Non si fa
leggere ai fanciulli nei collegi e nelle case che poeti, oratori e
storici profani ... Non so qual confuso miscuglio si formi nelle loro
teste delle verità del cristianesimo e delle assurdità della
favola, dei veri miracoli della nostra religione e delle ridicole
meraviglie raccontate dai poeti, e principalmente della morale del
Vangelo e della morale umana e tutta sensuale dei pagani. Non
dubito che la lettura degli
antichi, sì poeti e sì filosofi, non abbia contribuito a formare
quel gran numero di increduli che sono comparsi dopo il
Risorgimento delle lettere.
«Questo
gusto del paganesimo contratto nell'educazione pubblica o privata si
spinge poscia nella società ... Non siamo idolatri, è vero, ma
non siamo cristiani che al di fuori, seppure la maggior parte dei
letterati oggidì lo sono, e in sostanza, siamo veri pagani e per lo
spirito e pel cuore e per la condotta. (382)
Sotto
un altro aspetto Voltaire provava il fatto medesimo: «Veggo con
piacere, scriveva egli, che in Europa si forma un’immensa
repubblica di spiriti colti: la luce si comunica da tutte le
parti. Da circa quindici anni si è fatta una rivoluzione negli
intelletti che segnerà un'epoca. Le grida dei pedanti
annunziano questo gran mutamento, come il crocidar dei corvi annunzia
il bel tempo ...» E altrove: «Fra vent'anni Iddio avrà bel giuoco
(383)».
Tutto
ciò pur troppo era vero. Ora, all’avvicinarsi della procella il
cui cupo brontolio si faceva udire di lontano, al cospetto di quella
società che cadeva a brandelli, rosa dal razionalismo e dal
sensualismo, cioè dal paganesimo nella duplice sua manifestazione
intellettuale e morale, che si faceva nei collegi? Invece,
d'agguerrire fortemente la gioventù nello spirito cristiano mediante
lo studio profondo del pensiero cristiano, sociale, storico,
letterario e nazionale, la si nutriva quasi unicamente di autori
pagani: la si faceva vivere coi Babilonesi, con gli Egiziani, coi
Greci, e coi Romani; le si facevano rappresentare commedie e tragedie
pagane; le s'infondeva con ogni mezzo l’amore della bella
antichità, dei suoi grandi uomini e dei suoi grandi fatti (384)
E
se ne menava vanto! Per ottenere grazia avanti a quel secolo, uscito
quasi interamente dai loro collegi, i gesuiti minacciati nella loro
esistenza credono di dover richiamargli a memoria che la loro
compagnia non la cede a niuno nell’ammirazione degli autori pagani,
e che niuno ha posto maggior cura d'insegnarli.
Il
loro difensore, P. Cerutti, discorre così: «I fatti che l’Istituto
vuole scolpire nella memoria della gioventù sono di loro natura i
più interessanti (385). È il Quadro dei Romani tratteggiato,
o dal pastoso pennello di Tito Livio, o dall’ardita mano di
Sallustio, o dal profondo bulino di Tacito. È la storia greca,
scritta con tanta forza e rapidità da Tucidide, con tanta amenità e
abbondanza da Senofonte, con tanta erudizione e con tanto senno da
Plutarco.
«Le
belle lettere sono il pascolo che l’istituto presenta
all'immaginazione .. Per belle lettere si dee intendere in particolar
modo l’eloquenza e la poesia. L’una e l’altra in Roma e in
Atene, come nel terreno più proprio e più profondo, misero le
più profonde radici, e s'innalzarono alla più alta cima di loro
grandezza. Quali oratori Demostene e Cicerone! Quali poeti Omero,
Pindaro, Virgilio, Orazio! Quali ornamenti pel loro secolo! Quali
modelli pei secoli futuri! Questi sono che l'Istituto vuole si
propongano alla gioventù (386).
Il
che vuol dire: Ecco quello che siamo: ecco la manna squisita di cui
vi abbiamo nutrito: e voi ci discacciate! Ingrati figli!
Giunge
infatti il momento di raccogliere quello che si seminato; allora si
manifestano i risultati dell'educazione, piamente pagana, data alla
gioventù. L'elemento pio svanisce, e l’elemento pagano scoppia con
estrema violenza. La gioventù letterata proclama, al cospetto
dell'Europa, coloro ch'essa riconosce nei suoi veri maestri,
ed i cui insegnamenti vuol mettere in pratica; come pure coloro
ch’essa riguarda come suoi maestri di studi; di cui detesta
l'abito e il nome e ch’essa disprezzerebbe, se le loro virtù non
ne rendessero impossibile il disprezzo. Si stupisce al vedere che nel
secolo XVIII i gesuiti furono espulsi dalla Francia, dalla Spagna,
dal Portogallo, e da Napoli dai propri loro alunni, come lo furono ai
giorni nostri da Friburgo, da Torino e da Roma. Per non parlare che
della Francia, la lista seguente, sebbene assai incompleta, sembra
che contenga un grave ammaestramento.
L'antesignano
della crociata contro la compagnia di Gesù e contro la religione,
Voltaire fu educato dai gesuiti: Elvezio, dai gesuiti; Condorcet dai
gesuiti; Diderot, dai gesuiti; d'Argenson, dai gesuiti; Raynal, dai
gesuiti; Turgot, dai gesuiti; Dupuy dai gesuiti; De la Porte, dai
gesuiti (387); Millot, dai gesuiti; Chauvelin dai gesuiti (388);
Ripper di Monclar, dai gesuiti; Prévost, dai gesuiti; d'Olivet, dai
gesuiti; Morellet, dai gesuiti; Marmontel, dai gesuiti; Piron; dai
gesuiti. Tutti i parlamenti che ne pronunziarono l'espulsione erano
composti dei loro alunni, e la maggior parte dei letterati che li
perseguitarono con le loro satire uscirono dai loro collegi (389).
Al
vedere questo fatto doloroso si chiede da che mai era originata
quest'avversione verso maestri rispettabili in una generazione per le
loro cure allevata? E come mai questa stessa avversione si è
manifestata ai giorni nostri laddove avrebbe dovuto esistere meno?
Come accade, per esempio, che i gesuiti sono stati espulsi da
Friburgo, da Torino, e da Roma dai loro propri discepoli, non con le
grida di Giansenio, di Lutero o di Calvino, ma con le grida di Viva
la Repubblica, viva Cicerone, viva Bruto?
Dagli
educatori degli altri ordini religiosi, barnabiti, oratoriani,
dottrinari, canonici regolari di Santa Genoveffa e del clero secolare
uscirono: d'Alembert, d'Holbach, Boulanger, il cardinal Dubois a
Parigi: Volney, ad Angers; Condillac a Grenoble; Parny a Rennes; ed
altrove: Duclos, Toussaint, d’Argens, Andra, l'abate di Prades, che
Federico chiamava il suo piccolo eretico; Chastellux, Brissot;
ed una turba di molti altri che vengono a dar la mano a Robespierre,
a Saint-Just, a Camillo Desmoulins, a Billaud- Varennes, a Grégoire,
a Talleyrand, a Couthon, a Chazal, a tutta la progenie rivoluzionaria
del 1793, uscita dai medesimi collegi.
Finalmente
tutti i libertini della Reggenza, tutti gli enciclopedisti, tutti i
filosofi pagani del XVIII secolo, tutti gli avvocati, letterati,
medici, giornalisti che prepararono e compirono la rivoluzione,
furono educati in istituti ecclesiastici da istitutori religiosi.
«Di
che è d'uopo concludere che per fare buoni cristiani non bastano i
buoni professori.
«E
vuolsi concludere eziandio: o che l'educazione e l'istruzione non
hanno veruna influenza nell'intelletto e nel cuore dei giovani;
oppure che l'educazione e l’istruzione che si è data alla gioventù
cristiana nel secolo XVIII era detestabile.
«Sotto
qual aspetto cotal educazione ed istruzione erano cattive? non già
dal lato dell'insegnamento religioso: ché se ciò si sostenesse, si
calunnierebbe la Chiesa; neppur dal lato dell'esempio dato dai
maestri; chi osasse dir questo ingiurierebbe tutte le congregazioni
religiose, ed in particolar modo i gesuiti, i cui costumi, per
confessione dello stesso d'Alembert, erano immuni, da qualunque
rimprovero (390).
«Ora,
tutta l'educazione consiste in tre cose: nella purezza
dell'insegnamento religioso, nella moralità dei maestri e
nell’insegnamento letterario. Se non è possibile di accusare
l'insegnamento religioso, e neppur la moralità dei maestri del XVIII
secolo, conviene ben concludere che fu il loro insegnamento
letterario che cagionò e la loro ruina e la corruzione della società
(391)».
La
prova che la corruzione delle idee e dei costumi nel XVIII secolo
proviene dall'insegnamento letterario, e non proviene che da esso,
l’abbiamo dimostrata scritta in ciascuna pagina della storia di
quella vergognosa età; in ciascun verso della vita e delle opere dei
sedicenti filosofi; in ciascun atto della risoluzione: in ciascuna
frase degli oratori della Convenzione; in tutte le deposizioni dei
testimoni oculari a favore o contro di quella terribile catastrofe.
Questa
prova è stata da noi dimostrata e tutti possono come noi vederla
ancor viva a Versaglia, a Compiègne, a Fontainebleau, al Lovero, ad
Anet, in tutti i castelli reali o principeschi, nei giardini e nelle
piazze pubbliche, ornati, unicamente, nel XVIII secolo, delle statue
e delle pitture degli eroi delle divinità del paganesimo: Essa è
ancor viva e l'abbiamo veduta nei titoli e nell'argomento delle
produzioni letterarie, delle produzioni delle opere drammatiche,
degli studi storici e scientifici, dei o lavori delle arti meccaniche
e liberali dello stesso tempo.
Ora
se nel sistema d'insegnamento seguito e seguito di buona fede dai
suoi religiosi istitutori quello sciagurato secolo ha preso quella
sua tendenza al paganesimo, scongiuriamo qualunque uomo imparziale a
dire se sia cosa saggia, lecita, dopo la fattane esperienza di
continuare un simile sistema?
«Si
spera forse oggidì di essere più esperto del P. Porèe, maestro di
Voltaire e d'Elvezio; degli abati Proyart e Royon, maestri di Camillo
Desmoulins e di Robespierre; più esperto, più previdente e
principalmente più fortunato dei de La Rue, dei Jouvency, dei
Brumoy, dei Cervier, dei Rollin, maestri tanto pii, tanto istruiti e
tanto esercitati nella difficile arte di educare la gioventù? Si ha
forse fiducia di prendere precauzioni da essi trascurate, di
amministrare antidoti da essi non conosciuti? Si ha un mezzo sicuro,
efficace, sperimentato d'ammorzare gli effetti dell’insegnamento
classico e pagano sull'intelletto e sul cuore dei giovani?
«Se
si è ritrovato cotal mezzo, è un delitto il tenerlo occulto; o se
non si è trovato, come mai si osa dire: Continuate ad insegnare
come hanno insegnato i padri nostri; continuate ad insegnare come se
i pii istitutori dalle cui mani sono usciti tutti i volteriani e
tutti i rivoluzionari: non c'è da mutar nulla (392).
Si
risponderà certamente:
1°
Che uno spirito maligno soffiava sul secolo XVIII: che cotale spirito
anticristiano ed antisociale pervertiva giovani all'uscita di
collegio, e che questa è la cagione vera del volterianesimo;
2°
che l'insegnamento letterario della fine del XVI secolo e di tutto il
XVII, tanto pagano quanto quello del secolo XVIII, ha però prodotto
una generazione cristiana e virtuosa.
L’esame
di cotal questione sarà obbietto di altre nostre investigazioni.
FINE
DELLA PARTE QUINTA
____________________
LA
RIVOLUZIONE
***
PARTE
SESTA
_____________
PROEMIO
Nella
parte quinta di questa opera è stato evidentemente provato:
1°
Che il Volterianesimo, o la filosofia del secolo XVIII, ha
gagliardamente contribuito alla rivoluzione francese, nell'ordine
religioso e nell'ordine sociale;
2°
Che anzi, per parlare esattamente, il Volterianesimo altro non è che
la rivoluzione attuatasi nelle menti, aspettando tempo di
manifestarsi nei fatti;
3°
Che il Volterianesimo ha costantemente sostenuto che i veri lumi, la
vera libertà, la vera civiltà, non si trovavano che nelle
repubbliche di Sparta, d'Atene e di Roma; che il regno, sociale del
Cristianesimo era stato un periodo di barbarie, di schiavitù e di
superstizione; e che quest'età di ferro non era cessata in Europa
che facendo tempo dal Risorgimento.
4°
Che il Volterianesimo non ha cessato di prendere per tipo della
perfezione l'antichità pagana, la sua filosofia, la sua morale, i
suoi grandi uomini, le sue arti, la sua letteratura, le sue
istituzioni sociali: che ha messo in opera tutti i suoi sforzi per
persuadere alle, nazioni che il vero mezzo di rigenerazione era il
rifarsi, per quanto fosse possibile, a somiglianza dei Greci e dei
Romani;
5°
Che il Volterianesimo é uscito tutto intero, dai collegi cattolici,
sì riguardo alle persone e sì riguardo alle dottrine. Riguardo alle
persone, tutti i volteriani sono stati educati dal clero secolare e
regolare: riguardo alle dottrine, tutte, senza eccezione, trovansi
letteralmente negli autori classici, e soltanto in essi.
6°
Che il Volterianesimo non è stato prodotto né dall'insegnamento dei
professori, che era ortodosso, né dai loro esempi che erano
irreprensibili, ma unicamente dall'insegnamento letterario;
7°
Che il Volterianesimo ha provato egli stesso tale genealogia,
adorando gli autori pagani, e, discacciando i suoi maestri
ecclesiastici.
8°
Che il Volterianesimo non può essere riguardato né come
un'aberrazione momentanea, né come un eccezione malaugurata,
composta soltanto di alcuni individui: ma tutto il XVIII secolo,
nella generalità delle classi letterate, era volteriano, cioè
pagano nelle idee, nel linguaggio, nei costumi, nella vita e in
morte:
Per
evitare la conseguenza che scatta da questi fatti, e per difendere
gli studi classici, si dice:
«Nel
XVIII secolo spirava sull'Europa un soffio d'empietà che pervertiva
la gioventù all'uscir di collegio. Questa è la terribile cagione
del Volterianesimo; l'educazione letteraria non vi ha parte, oppure
assai piccola».
Questa
risposta allontana, ma non risolve la difficoltà. Si tratta di
sapere quale fosse cotesto spirito d'empietà e donde venisse.
Si
ripiglia: «Era nell’ordine sociale, lo spirito di indipendenza, lo
spirito repubblicano provocato dal Cesarismo, cioè dall'assolutismo
dei re, e specialmente di Luigi XIV, contro cui, già da lungo tempo,
nelle alte classi formavasi una terribile reazione.
Nell’ordine
religioso era il libero pensare, nato dal Protestantesimo. Ecco per
qual motivo il Volterianesimo non è stato altro, che una guerra
incessante contro la società e contro il cattolicismo».
Da
una parte il Cesarismo, dall'altra il Protestantesimo, sarebbero
questi adunque gli antenati del Volterianesimo o della filosofia del
XVIII secolo. Nonostante le difficoltà ond'è inviluppata questa
soluzione, non la ripudiamo però. Ma il Cesarismo ed il
Protestantesimo non sono nati da se stessi; anch'essi hanno le loro
cause. Per muovere innanzi un passo nella nostra storia genealogica
del male, è d'uopo dunque che ci rivolgiamo al Cesarismo ed al
protestantesimo, e che loro domandiamo, come abbiamo fatto pel
Volterianesimo e per la rivoluzione: Di chi siete figli? qual è
la vostra genealogia? La risposta del Cesarismo darà materia a
questa sesta parte: quella del protestantesimo sarà, subbietto della
seguente.
Nelle
gravi contingenze in cui versa l'Europa, al cospetto di eventualità
forse più gravi per l'avvenire, ci sembra difficile il trattare un
suggetto più imperlante, sotto il duplice aspetto della religione e
della società. L’avvenire sarà figlio del presente, come il
presente è figlio del passato: se non sappiamo donde veniamo è
impossibile il sapere dove andremo.
IL
CESARISMO
_____________________
CAPITOLO
I.
IDEA
DEL CESARISMO.
Importanza
della questione.-Definizione del Cesarismo. - Sua origine. Sua
storia nell'antichità - Esso fonda l'ordine religioso e sociale
sulla sovranità dell'uomo. - Questa sovranità dal popolo passa a
Cesare. La legge Regia. - Diritti e prerogative di Cesare. -
Parole di Gravina, di Terrasson. - Articolo della legge Regia. -
Risultamenti del Cesarismo nell'antichità.
***
Il
male, entrando nel mondo, ha prodotto il dualismo: da ciò, due
uomini nell'uomo e due città sulla terra: da ciò parimente, due
filosofie, due letterature così opposte fra di loro quanto gli
spiriti che le animano, i principi da cui partono, i mezzi che
impiegano e lo scopo a cui tendono. Da ciò, per una conseguenza non
meno assoluta, due politiche: la politica del bene e la politica del
male; la politica cristiana e la politica pagana. Col farle conoscere
amendue, si mette avanti agli occhi delle nazioni la vita e la morte,
perché è un mostrare ad esse le due vie, l'una delle quali conduce
alla felicità, l’altra all'abisso.
Il
mezzo più sicuro di riuscirvi e ad un tempo più conforme al disegno
della nostra opera è di delineare a grandi tratti la storia di
queste due politiche, e dei loro generali risultamenti nel mondo,
nelle diverse età del loro regno. Incominciamo dalla politica
pagana, che noi chiamiamo cesarismo.
Una
medaglia rappresentante un imperatore con questa leggenda: Divus
Cesar, imperatore et summus pontifex: il divo Cesare, imperatore e
sommo pontefice, ecco il Cesarismo.
In
fatto, il Cesarismo è la riunione della sovranità temporale e della
sovranità spirituale in mano dell'uomo, cui l’uomo chiama popolo,
senato, imperatore o re, In diritto, è la dottrina che pretende di
fondare un ordine di cose sopra una tal base.
In
questo sistema, l’uomo sociale, emancipato dalla tutela delle leggi
divine, regna senza sindacato sulle anime e sui corpi. La sua ragione
è la regola del vero, la sua volontà è la fonte del diritto. Lo
scopo supremo della sua politica è la prosperità materiale, senza
relazione alcuna con la prosperità morale.
I
futuri destini dell'umanità non entrano punto nei suoi computi: per
lui la religione non è che uno strumento di regno: egli l'ha in mano
e la governa come qualunque altro ramo della pubblica
amministrazione, mediante sacerdoti suoi funzionari ed agenti. Finché
il suo interesse lo richiede e dentro i limiti in cui lo richiede, la
fa rispettare; altrimenti l'abbandona ed anche la perseguita. Purché
rassodino la sicurezza del godimento, contenendo il popolo nel
dovere, tutte le religioni, per quanto siano contraddittorie, sono
buone ai suoi occhi: le protegge tutte senza aver fede in nessuna.
La
medesima supremazia anche nell'ordine sociale. Tutto viene dall'uomo,
all'uomo ritorna tutto. Egli mediante un contratto steso da lui,
soscritto da lui, fondò le società. Crea e delega il potere col
diritto di ripigliarlo e misura a ciascuno la libertà, e, se è
d'uopo, la proprietà; costituisce la famiglia; dà l'educazione;
governa le fortune: nulla sfugge alla sua sovranità.
Come
ognun vede, il Cesarismo, abbozzato nelle sue grandi linee è
l’apoteosi sociale dell'uomo. In principio è la promulgazione dei
diritti dell'uomo contro i diritti di Dio; e, nel fatto, il
dispotismo innalzato all'ultima sua potenza. Tale fu il sistema che
resse il mondo antico.
Questo
sistema ebbe cominciamento quel giorno in cui l'uomo, con un solenne
di ribellione, proclamando la propria indipendenza, divenne a sé
medesimo il proprio dio: eritis sicut dii, secondo il detto
profondo del sacro testo. Invece di governare sé e di governare le
cerature a norma dei divini voleri, governò tutte le cose secondo
gli arbitrari suoi voleri. Lo stato sociale, fondato sopra un’audace
ribellione, ne fu il castigo: schiavitù uguale non si aggravò mai
sopra il mondo. Sotto i diversi nomi di Popolo e di Cesare
l'uomo la impose e vi soggiacque a vicenda.
Lasciando
di esaminare se i pagani ammettessero o no, in teorica, l’origine
divina del potere, egli è certo che, nella pratica generale, si
attenevano pel no. Al principio tutte le loro storie ci rappresentano
l'uomo sotto nome di popolo, come fonte dell'autorità,
operante pel proprio interesse e non per l'interesse della divinità.
Non già per praticare più perfettamente la legge di Dio, ma per
satisfare più agevolmente ai propri i desideri e per meglio
provvedere a sue necessità instituisce società. Se gli dei, e quali
dèi! Intervengono, non è che pura formalità; la religione non è
un fine, ma un mezzo di governare. Sparta, Atene, Roma, le altre
repubbliche della classica antichità non muovono da diverso
principio, non hanno altra regola di condotta (393). Ivi, in
principio, ogni cosa s'inchina non davanti alla maestà degli dei, ma
davanti alla maestà del popolo. Re, fa le leggi, crea i
magistrati, i senati, gl'imperatori: li giudica, gli assolve o li
condanna. Pontefice, interpreta a suo senno la legge naturale, di cui
conserva alcuni frammenti: instituisce sacerdozi, adotta e fabbrica
dii, stabilisce feste, prescrive riti, ordina sacrifici e sceglie le
vittime; dà, toglie, divide la proprietà; regola i maritaggi;
proscrive o comanda la poligamia e il divorzio. S'impossessa del
fanciullo appena nato, gli lascia o gli toglie la vita, lo alimenta
per proprio conto; e lo educa a proprio profitto; in una parola,
sotto il nome di Popolo, l'uomo ribellato s'arroga tutti i diritti di
Dio e li esercita senza sindacato.
Tale
è, finché sussistettero le repubbliche, il ferreo giogo che pesò
su quelle città famose che una mendace educazione e bieca ci
rappresenta da quattro secoli, siccome, il tipo della perfezione
sociale ed il paradiso della libertà.
Col
tempo, le nazionalità del mondo antico vanno a perdersi nell'impero
fondato da Romolo. Allora il popolo romano, signore di tutti i
popoli, diviene per eccellenza il Popolo-Re che poi
personifica sé stesso in un uomo chiamato il divo Cesare. A
quest’uomo individuale si trasferiscono tutti i diritti, tutte le
prerogative religiose e sociali dell'uomo collettivo o del popolo,
cioè del popolo romano e insieme degli altri popoli, di cui questi è
il dominatore e l'erede. Re, pontefice e dio, Cesare regna
sovranamente sul mondo. Re e pontefice, fa nell'ordine sociale e
religioso tutto quello che faceva il popolo: esso è la legge viva e
suprema: questa legge obbliga gli altri, non lui. Come dio, si
attribuisce i titoli e le prerogative della divinità; parla della
propria eternità e delle divine sue orecchie (394). Da
vivo, si fa offrire sacrifici, e condanna all'estremo
supplizio coloro che ricusano di parteciparvi; da morto, ha templi ed
altari (395)
Un
ordine di cose si stabilisce sul domma dell'onnipotenza e della
divinità di Cesare. Se non che se un tempo si adorava il popolo, ora
si adora il divus imperator. La maestà di quello si tramuta
nella maestà di questo (396). Mentre gli antichi legisti dicevano:
«Ogni volontà del popolo è legge», i giuristi imperiali
dicono: «Ogni volontà, di Cesare è legge: quidquid placuit
principi legis habet vigorem (397)».
Questo
assioma, divenuto così famoso, e la base legale del Cesarismo: esso
promulga l'apoteosi dell'uomo, principio fondamentale a cui devesi
sempre risalire. se vuolsi fare un giusto concetto della storia
religiosa e sociale dell'antichità pagana, come pure del tempo
moderno, condotto dalla rivoluzione a promulgare il medesimo domma.
Questo
punto importantissimo richiede prove e schiarimenti; e noi gli
attingeremo alla storia.
Allorché
Augusto, vincitore dei suoi emoli, rientrò in Roma dopo la battaglia
di Filippi, i poeti, il dì innanzi suoi nemici, e dopo suoi
adoratori, furono i primi ad incensarlo: il senato che lo avrebbe
condannato alle gemonie, se fosse stato vinto, lo gridò padre e
salvatore della patria, ed il popolo, le cui urla avrebbero
accompagnato al supplizio l’antico triunviro, gli fece omaggio: né
basta: ché fecegli anche géttito della propria libertà. In favore
di lui si spogliò di tutti i suoi diritti civili e politici di
qualunque natura; ed in ricambio non domandò al nuovo suo padrone
che piaceri e la pace per goder dei piaceri: panem et circenses.
Questo trasferimento dell'onnipotenza religiosa e sociale si fece
mediante la Legge Regia (398), che ha avuto tanta celebrità
nella storia del diritto romano.
In
virtù di cotal legge, Cesare succede in tutti i diritti del senato e
del popolo. Nell'ordine politico, egli è il capo supremo delle forze
di terra e di mare: ha il supremo governo della Repubblica col
diritto assoluto di pace e di guerra, nell’ordine amministrativo, è
console, console perpetuo, proconsole, proconsole perpetuo, senatore;
capo del senato che convoca e discioglie, tribuno del popolo, e
tribuno perpetuo: Nell'ordine civile e legislativo, egli è censore;
é pretore. I suoi editti, i suoi decreti; i suoi pareri, le sue
lettere, i suoi rescritti, le sue decisioni hanno forza di legge
(399). Così, nell'ordine sociale, Cesare ha in mano il potere in
tutti i gradi, sotto tutti i nomi e sotto tutte le forme.
Lo
stesso avviene nell'ordine religioso. Egli è sacerdote, è augure, è
sommo pontefice, capo assoluto di tutti i sacerdozi e di tutte le
religioni. «I Cesari, dice il giureconsulto Gravina, ben compresero
che la pienezza della civile potestà sfuggirebbe loro di mano se
anche non vi aggiungessero la pienezza della potestà religiosa, e se
investendo sé medesimi del sommo pontificato, non divenivano arbitri
supremi delle cose divine, dalle quali tutte le umane sono rette e
governate. Laonde, per avere a propria balia tutte le umane cose, non
presero solamente né l'augurato né il quindicemvirato dei
sacrifici, che erano i due maggiori sacerdozi; ma, ad esempio
d'Augusto, assunsero il sommo pontificato; in virtù del qual
diritto, comandavano a tutti i pontefici, ed a tutti gli altri
sacerdozi, decidendo sovranamente della religione, delle cerimonie,
dei riti e del culto degli déi; ed interpretando il diritto
religioso in tutto ciò che vi ha di oscuro, e la loro
interpretazione aveva forza di legge (400)».
Questo
trasferimento di potestà avviene in favore di ogni nuovo Cesare: e
gli imperatori mettono assai cura in far constare questo fatto
principalissimo, facendolo incidere nelle loro medaglie, nelle quali
si trova invariabilmente, da Augusto sino a Graziano, il titolo di
divino, d'imperatore, di sommo pontefice, di
console, di proconsole, di tribuno del popolo, e
tutti quelli che proclamano l'assoluta loro potenza nell'ordine
religioso e nell'ordine sociale.
Di
tal fatta è la legge Regia (401) che costituisce la base
dell'ordine sociale dell'antichità, ed il cui testo, alquanto
prolisso si riepiloga tutto intero nell'articolo seguente: «Tutto
ciò che per uso della Repubblica, ei crederà essere conforme alla
maestà delle divine ed umane cose, delle pubbliche e delle private,
avrà egli il diritto e la potestà di farlo (402)».
È
forse d'uopo il dire che l'abbrutimento delle anime, la snervatezza
dei caratteri, l'universale degradazione, le rivoluzioni ognor
rinascenti, le crudeltà e le lascivie più mostruose, furono gli
effetti d'un sistema politico che di Nerone, di Caligola, di
Domiziano facendo un dio, ne trasformava i pazzi capricci, in leggi
religiose e sociali, obbligatorie in tutto l’impero?
_______________
CAPITOLO
II.
IDEA
DELLA POLITICA CRISTIANA
Abolizione
della legge Regia. - Divisione del potere. - Parole del papa
San Gelasio all'imperatore Anastasio. - La politica cristiana seguita
da Costantino, da Carlomagno, dai re cristiani. - Esposizione che ne
fa San Bernardo. - San Tommaso. - Sorgente del potere - Origine e
scopo delle società. - Magnifico quadro della politica e della
società cristiana che ne fa San Tommaso
***
Da
venti secoli, l'uomo schiavo dell'uomo si agita nei ferri onde da sé
medesimo si è inceppato. Iddio ha pietà del mondo: ed il suo
Figliuolo discende dal cielo per rigenerare tutte le cose, sì
l'ordine sociale come l'ordine religioso. Afferrando la legge Regia,
la lacera e ne appende i brani alla croce: poscia, a quel patto della
più mostruosa schiavitudine, sostituisce il gran patto della libertà
universale. Per inaugurare un nuovo monarcato ed una nuova politica,
DIVIDE IL POTERE (403): a fianco di Cesare crea il pontefice: a
Cesare lascia la potestà dei corpi, al pontefice dà il dominio
delle anime. La società spirituale e la società temporale, unite
senza confondersi non altrimenti che l'anima ed il corpo,
cammineranno con passo sicuro nella via della loro perfezione.
L'umana libertà è salva, perché il dispotismo cesareo è reso per
sempre impossibile.
Nella
politica cristiana, il potere in luogo di salire dalla terra,
discende dal cielo. Ministro di Dio, e non mandatario del popolo,
Cesare cessa d'essere autonomo per divenire il primo suddito
delle leggi divine. Il pontefice, rivestito dell'infallibilità di
Dio stesso, conservane le leggi, le interpreta, le promulga; e, se è
d'uopo, Cesare, con la sua spada le fa eseguire.
Mentre
che nel Cesarismo non si contano per nulla i futuri destini
dell'uomo; mentrechè la materiale prosperità è lo scopo supremo
della politica e la religione non altro che uno strumento di regno;
nella politica cristiana, i futuri destini dell'uomo sono il perno
delle costituzioni; la prosperità morale, lo scopo supremo della
politica; e la religione il fine ulteriore a cui si riferisce
l'intero ordine sociale. In una parola, mentre che il Cesarismo è la
promulgazione dei diritti dell'uomo, la politica cristiana è la
promulgazione dei diritti di Dio.
Laonde
il Cesarismo non è che la rivoluzione, poiché colloca in alto
quello che giacer dovrebbe in basso; e deprime al basso quello che
dovrebbe essere posto in alto: la politica cristiana non è che
l'ordine, poiché mette ciascuna cosa a suo luogo, in alto cioè
quello che debba stare in alto, ed in basso quello che debba stare in
basso.
Nella
stessa guisa che la semente deposta in un terreno fecondo, ben presto
si svolge con vegetazione vigorosa, la divina parola, che contiene
tutta la politica cristiana: Rendete a Cesare quello che è di
Cesare, e a Dio quello che è di Dio, dà origine ad una nuova
società piena di forza e di speranze.
Al
cospetto dei tribunali e negli anfiteatri, sotto le zanne dei leoni
ed in mezzo ai roghi, gli apostoli ed i martiri, dicendo agli
imperatori ed ai loro carnefici: Non possiamo, non possumus,
rivelano l'esistenza di questa giovane società e ne rassodano i
fondamenti.
Il
perché dovranno i Cesari spogliarsi della loro divinità, e lo loro
orecchie udiranno ben presto dalla voce dei pontefici l'esposizione
del gran codice della libertà umana. «Avvi due cose, Augusto
imperatore, da cui questo mondo è governato: l'autorità sacra del
pontefice e la potestà di Cesare. L'autorità, dei vescovi tanto più
è formidabile in quanto che debbono render conto a Dio, nell'estremo
giudizio, anche della salute dei re. Non ignorate che, quantunque la
vostra dignità v'innalzi sopra gli altri uomini, dovete però
piegare umilmente il capo davanti ai pontefici, incaricati della
dispensazione delle divine cose, e che dovete essere loro sottomessi
in ciò che concerne l'ordine della religione e l'amministrazione dei
santi misteri. Sapete che in tutte queste cose dipendete dal loro
giudizio e che non avete diritto di assoggettarli ai vostri voleri.
In tutto ciò che si attiene all’ordine pubblico, questi stessi
vescovi alle vostre leggi obbediscono; e voi, la volta vostra, dovete
obbedir loro in tutto ciò che concerne le cose sante di cui sono i
dispensatori (404).
Fra
le parole del pontefice cristiano ed i discorsi dei flamini
dell'antica Roma a Cesare vi ha distanza infinita. Il gran patto
dell'ordine e della libertà che i papi hanno ricevuto in deposito,
la trasmettono, per serie non interrotta, ai propri successori: i
Padri della Chiesa ed i dottori lo spiegano ai popoli ed ai re; ed
esso diventò la base del diritto pubblico.
Nel
concilio Niceno, Costantino vi rende omaggio con queste nobili
parole: «Iddio vi ha fatto suoi pontefici, dice egli ai vescovi; e
vi ha dato la potestà di giudicare i nostri popoli e noi medesimi. È
dunque giusto che ci sottomettiamo ai vostri giudizi e non già che
pretendiamo di essere giudici vostri. Iddio vi ha costituiti per
essere come nostri dii; e come mai gl'iddii potrebbero essere dagli
uomini giudicati? (405)».
Riconosciuto
solennemente da Carlomagno e dai suoi successori all'impero, il gran
patto della libertà è già popolare nel secolo XI.
L'illustre
fondatore di Chiaravalle, San Bernardo, scrivendo a Corrado re dei
Romani, gli espone in queste parole il concetto della politica
cristiana: «Iddio solo, dice egli, è propriamente sovrano. Il
Figliuolo di Dio fatto uomo è stato investito da suo Padre di questa
sovrana potestà. Fra gli uomini non vi ha potere o diritto di
comandare, se non derivante da Dio e dal suo Verbo. Il Figliuolo di
Dio fatto uomo, Gesù Cristo, è ad un tempo, sommo pontefice e re
sovrano. Nella propria persona e perciò nella sua Chiesa, riunisce e
il sacerdozio e la regia autorità.
«Ma
il sacerdozio è uno, come uno è Dio, come una è la Fede, una la
Chiesa, una l'umanità.
«L'autorità
regia è molteplice come le nazioni: essa è divisa in re diversi ed
indipendenti gli uni dagli altri. Ma queste così diverse nazioni in
cui si divide l'umanità, sono ricondotte all'unità umana ed
all'unità divina mediante l'unità della fede cristiana, mediante
l'unità della Cattolica Chiesa, e mediante l'unità del suo
sacerdozio.
«Il
dovere, l’onore, la prerogativa del primo re cristiano, qual è
l'imperatore, è di essere il braccio destro, la spada della
cristianità per difendere tutto il corpo e specialmente il capo, e
secondarne l'influente civiltà di dentro e di fuori (406)».
Dalle
labbra dell'abate di Chiaravalle, questa dottrina passa su quelle dei
più grandi teologi.. Nel suo opuscolo De regimine principum,
San Tommaso dichiara in tal modo l'organamento cristiano delle
società:
«Il
fine della comunità, dice egli, è il medesimo di quello
degl'individui. Ora, se chiedete ad un cristiano: Per qual fine Iddio
vi ha creato e messo al mondo? ei risponde: Iddio mi ha creato e
messo al mondo per conoscerlo, per amarlo, per servirlo e con questo
mezzo giungere alla vita eterna che è il mio fine.
«Interrogata
sul medesimo punto ogni comunità cristiana debba dare la medesima
risposta: niun'altra può sostenersi (407)»
Partendo
da questo principio, luminoso come il sole, il dottore angelico
svolge magnificamente le leggi che reggono l'ordine sociale fondato
dal cristianesimo, doveri reciproci dei re e dei sudditi, come pure
le relazioni dei reami temporali col regno di Gesù Cristo che è la
Chiesa. Sembra che l'ordine e l'armonia fluiscano dalla penna
dell'ammirabile filosofo.
Per
San Tommaso, ciascun regno particolare è una nave fornita del suo
equipaggio e di tutti i suoi attrezzi. Il re ne è il nocchiero.
Lanciata in alto mare la nave veleggia verso il porto: tal porto è
il fine per cui il regno è stato creato. Con la sua consueta
lucidezza San Tommaso prova che cotal fine non è né può essere né
l'opulenza, né i piaceri, ma soltanto l'acquisto della virtù; ed
anche questa non ha obbietto se non conduce al possedimento del Sommo
bene che è Dio stesso (408).
«Ora,
soggiunge l’illustre teologo, se l'uomo potesse con le naturali sue
forze pervenire a questo fine ulteriore, spetterebbe al re il
condurvelo; poiché nell'ordine umano, essendo il re il superiore, a
lui solo spetterebbe di dirigere al fine supremo tutto ciò che è
sotto a lui. Così in tutte le cose vediamo che colui che presiede al
fine e all'uso d'una cosa, dirige coloro che preparano i mezzi
acconci per giungere a questo fine: l'uomo di mare dirige la
costruzione dei navigli: l'architetto dirige il muratore, il capo
delle armi, l'armaiolo.
«Ma
non potendo l'uomo, con virtù puramente umane pervenire al proprio
fine, che è il possedimento di Dio, ne risulta che il condurvelo
debba essere opera di una direzione divina e non già umana.
«Il
re cui appartiene questa direzione suprema è Colui che non è
soltanto uomo, ma Dio nel tempo stesso, nostro Signore Gesù Cristo,
che facendo gli uomini figliuoli di Dio li conduce al regno celeste.
«Ed
affinché le cose temporali e le spirituali non si confondessero
insieme, questa suprema direzione è stata commessa non ai re, ma ai
sacerdoti, e specialmente al sommo sacerdote, al successore di San
Pietro, al Vicario di Gesù Cristo, al romano Pontefice, al quale
tutti i re del popolo cristiano debbono essere sommessi, come al
figliuolo stesso di Dio. Tale è l'ordine: il meno si riferisce al
più; l’inferiore è sottomesso al superiore, e tutti pervengono al
loro fine (409).
Per
vedere in un'immagine sensibile questa bella e profonda esposizione
della politica cristiana, vuolsi dunque considerare ciascun regno
come una nave di cui il re è il nocchiero, e tutti i regni cristiani
riuniti come una grande squadra, ciascun legno della quale, per
giungere al porto, debba attenersi al vascello ammiraglio che è il
regno visibile di Gesù Cristo o della Chiesa, di cui il sommo
Pontefice è il nocchiero. Per signore che ciascun piloto sia sulla
propria nave, non è indipendente. Per serbar l'ordine, ei debba
sempre manovrare a norma dei segnali dell'ammiraglio di maniera da
dirigere la propria nave verso il termine finale. Laonde ciascun re è
obbligato di provvedere alla salute eterna del suo popolo, sia
ordinando ciò che può procacciarla, sia vietando ciò che può
impedirla: il sommo pontefice gli fa conoscere l'una cosa e l'altra;
nella guisa stessa che l'ammiraglio dà ordini ai capitani e dirige
la squadra (410).
In
somma il Verbo eterno da cui l'universo è stato creato e per cui
sussiste, è la legge, la via, la verità, la vita e perciò stesso
il re sovrano delle nazioni. Col farsi uomo, ha unito e subordinato
nella sua persona la terra al cielo, l'umanità alla divinità.
Quanto si è compito nell'uomo-Dio, si compirà proporzionalmente in
tutte le creature. Tutto debba essere assoggettato a Cristo; e,
mediante Cristo a Dio suo Padre. Tale è la gran legge della
rigenerazione umana ed il fine, della creazione.
Questa
grande subordinazione sarà consumata, come dice l'Apostolo,
allorché, dopo aver distrutto ogni principato, ogni potestà,
ogni forza, Cristo sottometterà sé stesso, col suo regno, a Colui
che gli avrà sottomessa ogni cosa, sì che Dio sia tutto in tutti
(411).
Di
che risulta che l'universo è una vasta teocrazia che si forma nel
tempo per compiersi nell'eternità (412).
Questo
magnifico principio è desso la base della politica cristiana? Lo
vedremo nei capitoli seguenti.
Intanto
la luminosa esposizione di San Tommaso mostra tutta la differenza del
Cesarismo o dell’ordine sociale pagano e dell'ordine sociale
cristiano.
Il
primo dice: La società è un fatto umano.
Il
secondo soggiunge: La società è un fatto divino.
Il
primo: Pontefice e re tutt'insieme, l'uomo o Cesare, regna da padrone
assoluto sui corpi e sulle anime, senza veruna dipendenza.
Il
secondo: Cesare non ha il dominio delle anime: ed anche nell'ordine
temporale è sottomesso alle leggi divine delle quali è conservatore
ed interprete il sommo Pontefice.
Il
primo: Niun potere che possa o debba bilanciare il potere di Cesare:
franchigie, libertà, distinzioni, educazione, proprietà, tutto
debba venire da lui, dipendere da lui, riferirsi a lui.
Il
secondo: Sommissione di Cesare al Pontefice: rispetto alla libertà
di tutti, alle franchigie, ai titoli, ai diritti acquisiti.
Il
primo: La religione è uno strumento di regno.
Il
secondo: La religione è lo scopo dei regni ed il fine degl'imperi.
Il
primo: La Chiesa è nello Stato, come la serva nella famiglia.
Il
secondo: Lo Stato è nella Chiesa, come il figlio nelle braccia della
propria madre.
Il
primo: Mio supremo dovere è di procurare ai popoli la maggior
quantità di godimenti possibili, senza riguardo al loro ultimo fine.
Il
secondo: Mio dovere è di far poco pei piaceri dei popoli;
molto pei loro bisogni; tutto per la loro virtù, al
fine di condurli al possedimento eterno del sommo bene.
Tali
sono, in iscorcio, i due sistemi sociali che si dividono la durata
dei secoli. Non è più perfetta l'opposizione tra il giorno e la
notte. Di che sono uscite due diverse civiltà. La civiltà pagana,
ovvero il culto sociale dell'uomo, con la forza brutale per regola,
la schiavitù per base, il sensualismo a scopo; la poesia, la
pittura, la scultura, la musica, le feste, i, teatri, tutte le arti
corrotte e corruttrici per sequela; i delitti, gli sconvolgimenti, e
la degradazione per risultamento.
La
civiltà cristiana, ossia il culto sociale di Dio, con la verità per
regola: la libertà per base; l'emancipazione dello spirito per fine;
tutte le arti santificate e santificatrici per sequela; la virtù, la
pace, ed il vero progresso per risultamento.
I
nostri avi, semplici ed ingenui elessero il sistema cristiano.
Una
rapida occhiata sulla loro storia ci mostrerà i benefizi che ne
ritrassero, come pure ci farà vedere l'idea sublime che avevano
della politica e della regia autorità.
_____________
CAPITOLO
III.
STORIA
DELLA POLITICA CRISTIANA
Base
della politica cristiana. - Potere sociale del Papato. - Parole degli
scrittori protestanti. I re di Francia e d'Inghilterra giudicati dal
Papa. - Compromesso dei re di Francia e d'Aragona. - Appello al
giudizio del Papa. - Affare di Lodovico Pio, di Lotario, re
d'Austrasia.- Deposizione dell'imperatore Arrigo IV. - Bolla di San
Gregorio VII. Deposizione dell'imperatore Federico. - Bolla
d'Innocenzo IV.
***
Nella
persona di Pietro, il Figliuolo di Dio è il capo visibile della
società cristiana. Per voce di questo suo rappresentante, ei dice
continuamente ai re ed ai popoli questa parola sempre antica e sempre
nuova: «Ogni potestà mi è stata data in cielo e sulla terra»
ed ai suoi vicari nella successione dei secoli: Io vi darò le
chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che scioglierete sulla terra,
sarà sciolto anche in cielo; e tutto ciò che legherete sulla terra,
sarà legato anche in cielo. Voi siete la luce del mondo: ammaestrate
tutte le nazioni ed insegnate loro a prendere tutte le mie leggi per
regola di loro condotta (413).
«Tutto
è sottoposto a queste chiavi, sclama Bossuet; tutto, fratelli
miei: re e popoli, pastori e greggi (414).
Depositario
dell'autorità del Re dei re, organo infallibile dei suoi voleri, il
sommo Pontefice travasi collocato alla cima della gerarchia sociale:
nelle sue mani sono le redini che debbono dirigere il mondo cristiano
verso il suo ultimo fine; sopra la sua nave è la bussola che debbo
indicar la via a tutto le navi, mantenerle nel loro ordine di
battaglia ed incamminarle al porto dell'eternità. A lui spetta il
diritto di tracciare la strada e di dar la parola ai condottieri dei
popoli: a lui spetta di giudicare in ultima istanza tra i nocchieri e
i naviganti, notificando agli uni e agli altri le leggi della
giustizia eterna.
E
stantechè un potere giudiziario è nullo, se non è armato, egli ha
il diritto di costringere con pene efficaci i colpevoli
all'obbedienza, ed anche di togliere il comando ai capitani
ostinatamente ribelli, i quali, col tradire il proprio ufficio,
condurrebbero nell'abisso e la loro nave ed i passeggeri.
A
meno che non si voglia sostenere che il fine supremo delle nazioni
non è lo stesso che il fine degl'individui, cioè che un tal fine,
circoscritto nei limiti dei tempi, consiste in vendere, comprare,
bere, mangiare, dormire e digerire in pace senza pensiero della vita
eterna; oppure che ciascun potere sociale ha diritto di regnare
secondo i propri capricci; o finalmente, che ha diritto
d'interpretare infallibilmente la legge divina; questi principi sono
d'un'evidenza irrepugnabile. Il medio evo ne fece la base del suo
ordine sociale. E per quanto parer possa duro di udirlo, è d’uopo
ripeterlo: queste grandi verità con le conseguenze pratiche che ne
fluiscono, hanno creato la civiltà cristiana e fondato la libertà
del mondo: l'obblivione di queste stesse verità ricondusse il mondo
alla barbarie ed alla schiavitù.
Tanta
è in ciò l'evidenza dei fatti e la certezza del diritto che gli
stessi protestanti vi rendono omaggio; e lo fanno con tanta buona
fede (conviene render loro questa giustizia) e con tanta ammirazione
da far arrossire certi scrittori che si dicono cattolici.
«Perché
erano sottomessi all'alta direzione del papa, dicono essi, non si
creda già che i regni del medio evo fossero meno felici né meno
liberi: vero è anzi tutto il contrario. Era pure una bella sovranità
quella degl'Innocenzi e dei Gregorii!... Rispettatemi,
sottomettetevi, obbedite, diceva: in contraccambio io vi darò
l'ordine, la scienza, l'unione, il progresso... Con una mano il
papato lottava contro l'islamismo: con l'altra soffocava gli avanzi
del Paganesimo energico del settentrione. Raccoglieva come intorno ad
un punto centrale le forze morali ed intellettuali della specie
umana: era despota come il sole che fa girare il globo (415).
Dirigere
con la face del Vangelo l'umanità rigenerata nella via del vero
progresso: detta eleggi, creare istituzioni in armonia con questo
alto scopo: ricondurvi tutte le scienze, tutte le arti e persino le
feste popolari: fare di tutti i reami cristiani una famiglia armata
sempre contro la barbarie, tale fu per le nazioni del medio evo il
primo beneficio della politica cristiana. Mantener la pace nel loro
seno; allontanare i due più grandi flagelli dell'umanità, lo
scisma, e l'eresia, compone, per quanto era possibile, i loro
dissidi, evitando l'effusione del sangue, fu il secondo.
«Non
era egli mirabile cosa, prosegue l'autore precitato, il vedere un
imperatore tedesco, nella pienezza della sua potenza, all'atto stesso
che spingeva i suoi soldati a soffocare il germe delle repubbliche in
Italia, arrestarsi d'improvviso e non poter proseguir più avanti;
tiranni armati di tutto punto, Filippo di Francia o Giovanni
d'Inghilterra, sospendere la propria vendetta, e lasciarsi cadere le
armi? ... Alla voce di chi? ditemi: Alla voce d'un povero vecchio,
abitante in una lontana città, con due battaglioni di cattive
soldatesche, e in possesso appena di poche leghe di terreno
contestato! Non è forse questo uno spettacolo fatto per innalzar
l'animo, non è una meraviglia più straordinaria di quelle onde
riboccano le leggende? (416)».
Gli
esempi allegati dall'autore con ammirazione tanto legittima, non sono
fatti isolati. La storia dell’Europa al medio evo è piena di
monumenti e di atti solenni, che fanno brillare splendidamente la
legge fondamentale della politica cristiana, il regno di Gesù Cristo
e l'autorità sociale del papato:
I
famosi Capitolari di Carlomagno incominciano così: «REGNANDO
PER SEMPRE NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO: Io, Carlo, per la grazia e
per la misericordia di Dio, re e capo del regno dei Franchi, devoto
difensore ed umile coadiutore della santa Chiesa di Dio: a tutti
gli ordini della pietà ecclesiastica ed a tutte le dignità della
potestà secolare, la salute della perpetua pace e beatitudine in
Cristo, Signore Dio eterno (417)».
Negli
atti dei privati, durante il medio evo, si trova frequentemente, con
l’anno del regno dei principi, questa formola dei primitivi
cristiani: «REGNANTE JESU CHRISTO».
Spesso,
alla morte di un re, si legge: «Fatto nell'anno che morì il re
N., SOTTO IL REGNO DI GESÙ CRISTO, e mentre da Lui aspettiamo un
nuovo re» (418).
Secondo
il protestante Blondel, i nostri antenati apponevano questa formola
ai loro atti per ridurci di continuo a memoria che tutto ciò che ci
riguarda è amministrato sotto la regia potestà di Gesù Cristo,
dipende da Lui, debba a Lui riferirsi: che i re stessi, padroni dei
negozi sotto, di Lui, sono coi popoli, suoi beati servitori, e che
coi loro sudditi si riconoscono per sudditi di quel Re supremo (419).
Questo
regno sociale di Gesù Cristo non è già, come pretendono gli uomini
o ignoranti o di mal a fede, un'invenzione del medio evo a profitto
del papato. Il medio evo non è che il continuatore dei primi secoli.
Fino dall'anno 250, vediamo i cristiani segnar la data: degli atti
dei martiri nel seguente modo: «Queste cose avvennero sotto i
consoli o imperatori N. N., come dicono i Romani; ma per noi SOTTO il
REGNO DI NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO, a cui sia onore e gloria per
tutti i secoli dei secoli» (420).
Ai
monumenti scritti si aggiungono le azioni.
Nel
1298 si accende guerra tra Filippo di Francia ed Edoardo
d'Inghilterra. Non ostante lo spirito nuovo introdotto dal Cesarismo
germanico, i due potenti monarchi s'accontano insieme di rimettere al
sommo Pontefice il giudizio della loro contesa. Il padre comune
ascolta le doglianze dei suoi figli; e per non offender nessuno,
rigetta la guerra sul demonio, eterno nemico del genere umano: poscia
giudica, definisce e pronuncia che la pace si farà alle clausole e
condizioni ch'egli indica. I due re si piegano alla sentenza del
vicario di Gesù Cristo: si cessa dall'effusione del sangue, ed
ancora una volta i popoli benedicono alla potenza sociale del papato
(421).
Nel
1365 incontrasi un fatto simile, glorioso vestigio, dell'antico
diritto sociale dell'Europa cristiana. Il re di Francia ed il re di
Aragona sono in guerra. D'un tratto rammentano che sono re cristiani,
che del sangue dei popoli dovranno render conto, e che nel sistema
sociale d'Europa esiste un mezzo pacifico di ristabilire l'armonia.
Con
sublime semplicità scrivono il seguente compromesso: «Il nostro
santo padre il papa, di nostro consenso e del suddetto nostro
fratello sarà incaricato per ordinare, udite le parti, siccome a lui
parrà, di fare secondo ragione; e noi ed il suddetto nostro
fratello, ci sottometteremo al prelato nostro santo padre, senza
pregiudizio della nostra sovranità, per le più forti guarentigie
che potranno esser fatte, e né noi né il predetto nostro fratello
porremo né i successori nostri di lui potranno procedere per via di
fatti o di guerra, a motivo delle domande e cose sopraddette o
dipendenti, ma riconoscer sempre il suddetto nostro santo padre che è
e che sarà pel tempo» (422).
Come
si vede, fin dal principio della Chiesa, giungere dalle differenti
cristianità dell'Oriente e dell'Occidente le grandi cause religiose
al supremo tribunale della santa fede, così vediamo la Francia,
l'Inghilterra, la Spagna, l'Alemagna del medio Evo, sottomettere le
loro grandi cause sociali al giudizio del sommo Pontefice.
Quest'alta
magistratura poi é dai papi, esercitata, non già come si pretende
da alcuni, in virtù di una concessione dei re e dei popoli;
concessione immaginaria, della quale non si trova traccia; ma sì
piuttosto in virtù di un diritto inerente alla loro qualità di capi
della società cristiana, d'interpreti infallibili delle leggi divine
e di giudici divinamente stabiliti per decidere punti di diritto sì
pubblico come privato, e rivestiti della necessaria autorità per far
eseguire le loro sentenze. Tale è il titolo che i successori di
Pietro invocano ogni volta che adempiono uno di questi grandi atti
d'autorità sociale; così legittimi, così salutari, così
giustamente benedetti nel medio Evo, e così odiosamente a giorni
nostri calunniati.
Gregorio
IV, nei dissidi fra Lodovico Pio ed i suoi figli; Nicolo I, nella
contesa di Lotario re d’Austrasia; Urbano II, Vittore III, tutti
invocano il loro diritto, e non la chimerica concessione di
cui si parla. Ma alleghiamo qualche fatto più clamoroso.
L'imperatore
Arrigo IV, chiamato il Nerone dell'Alemagna; il qual nome
giustamente meritò per le sue crudeltà, per le sue lascivie, pei
suoi ladronecci, per le sue violenze contro la libertà dei suoi
popoli, i diritti dei suoi vicini e l'autorità della Chiesa, viene
più volte avvertito dal padre comune dei re e dei popoli di
rientrare in sé stesso e di ricordarsi che a lui è stato dato il
potere non per distruggere, ma per edificare, non per opprimere, ma
per proteggere. Arrigo disprezza gli avvisi: succedono le minacce di
cui non fa verun conto.
Allora
il sommo Pontefice rammenta di essere il vicario del Re dei re, e
pronuncia in questi termini il decadimento di colui che da sé
medesimo si è dichiarato indegno del trono:
«Beato
Pietro, a voi è piaciuto e piace ch'io sia il capo del popolo
cristiano, specialmente alla vostra sollecitudine commesso; e per
mezzo vostro mi è stata data da Dio la potestà di legare e di
sciogliere in cielo e sulla terra.
«Laonde
per l'onore e per la difesa della vostra Chiesa, per la parte del Dio
onnipotente, Padre, Figliuolo e Spirito Santo, in virtù della vostra
potestà e della vostra autorità, tolgo al re Arrigo, figlio
dell'imperatore Arrigo, che con inaudito orgoglio si è ribellato
dalla vostra Chiesa, il governo di tutta l'Alemagna e dell'Italia.
«Ed
io sciolgo tutti i cristiani dal giuramento di fedeltà che gli hanno
fatto, e proibisco a chiunque di obbedirgli come a re. Poiché è
giusto che chi studiasi di menomare l'onore della vostra Chiesa,
perda egli stesso l’onore ond'è insignito. In virtù pertanto
della vostra autorità di cui io sono erede, lo incateno col vincolo
della scomunica, affinché sappiano le nazioni e conoscano che voi
siete Pietro, e che sopra questa pietra il Figliuolo del Dio vivente
ha edificato la sua Chiesa e che lo porte dell'inferno non
prevarranno mai contro di essa.
«Dato
l'anno dell'incarnazione del Signore millesettantacinque (423)».
Due
secoli dopo, nel 1245, Innocenzo IV, al cospetto del Concilio
generale di Lione, invoca lo stesso diritto e fa uso della stessa
formola contro l'imperatore Federico, quell'altro Cesare i cui
delitti furono il terrore e l'infamia del suo secolo. Dopo di aver
enumerato i misfatti d'ogni maniera onde Federico erasi bruttato,
come pure gli ammonimenti paterni di cui era stato obbietto e ch'egli
aveva dispettato, il sommo Pontefice richiama di essere stato
stabilito per pesare nella bilancia il merito e il demerito, il
giusto e l'ingiusto, per mantenere la pace della Chiesa e la
tranquillità generale della società cristiana.
Poi
soggiunge:
«Pertanto,
sottoposta la causa a diligente disamina del santo sinodo, poiché
noi, non ostante la nostra indegnità, occupiamo il posto di Gesù
Cristo sulla terra, e che nella persona di San Pietro ci è stato
detto: Tutto quello che legherai sulla terra sarà legato in
cielo, e tutto quello che scioglierai sulla terra sarà sciolto anche
in cielo; noi dichiariamo privato dal Signore di ogni onore e
dignità, e tale denunziamo e dichiariamo con nostra sentenza, il
suddetto: Principe che si è reso cotanto indegno dell'impero, del
regno e di ogni specie di onore e di dignità, e che per le sue
nequizie ha meritato di essere reietto da Dio e privato del diritto
di regnare: sciogliendo per sempre dal loro giuramento coloro che gli
hanno giurato fedeltà, proibendo, in virtù dell'autorità
apostolica a chiunque di obbedirgli d’ora innanzi come se fosse
imperatore o re, incorrendo nella scomunica, ipso facto coloro
che gli dessero consiglio od aiuto; e che: quelli ai quali spetta
l'elezione dell'imperatore, gli scelgano. liberamente un successore.
«Dato
a Lione, il 16 delle calende di agosto; l’anno terzo del nostro
pontificato (424)».
Questi
atti solenni cui certi cattolici non osano di confessare; questi
pontefici contro i quali tutto si è riversato il veleno
dell'empietà, pur sono dai protestanti ammirati!
Parlando
dei papi e dell’esercizio del loro primato sociale, il celebre
Giovanni di Muller scrive queste parole: «Senza i papi, Roma non
esisterebbe più: Gregorio, Alessandro, Innocenzo opposero un argine
al torrente che minacciava tutta la terra; le loro mani
paterne sollevarono la gerarchia, ed a lato di essa la libertà di
tutti gli Stati (425).
Cotal
torrente era il Cesarismo. Consigliato dai suoi legisti Federico II
voleva camminare sulle orme di alcuni dei suoi predecessori, ed
ambiva di essere unico sovrano, unico proprietario, unica legge del
mondo.
«Come
i suoi predecessori, dicono due scrittori gallicani, Federico non
occultava il disegno di rialzare l'impero dei Cesari, e, senza
l'influenza dei papi, è probabile che l'Europa avrebbe soggiaciuto
al giogo degl'imperatori di Germania. Federico, sognando esso pure la
monarchia universale, tendeva certamente ad emanciparsi dal primato
di Roma. L'imperatore faceva chiamare dal suo cancelliere tutti gli
altri re del mondo re provinciali, ed intitolava sé stesso la
legge vivente (426)».
Da
una parte pretende di ridurre i re di Svezia, di Danimarca,
d'Inghilterra, di Spagna e di Francia alla qualità di suoi vassalli:
d'altra parte, pretende che i papi gli saranno strumento in questa
intrapresa, come il Mufti di Costantinopoli è lo stromento del Gran
Signore. I papi si oppongono con invincibile coraggio a questo
mostruoso despotismo. Per salvare la libertà e l'indipendenza della
Chiesa, e con essa la libertà e l'indipendenza di tutti i re e di
tutti i popoli dell'Europa, privano di ogni autorità i moderni
Neroni.
Dov'è
il male?
________________________
CAPITOLO
IV.
STORIA
DELLA POLITICA CRISTIANA (Continuazione).
Permanenza
del diritto pontificale. - Deposizione d'Enrico VIII. - Bolla di
Paolo III. - Deposizione d'Elisabetta. - Bolla di San Pio V.
Riflessioni. - Parole del sig. Coqueret. - Di Luigi Blanc. - Dilemma.
- Risultato sociale della politica cristiana e del Cesarismo.
***
Possono
le idee dei popoli e dei re mutarsi, possono le nazioni scegliere
nuove forme di governo; ma il diritto non muta mai. A mezzo il
sestodecimo secolo, una muova sentenza di scomunica e di deposizione
fondata sulla medesima autorità, piomba su una testa non meno odiosa
di quella di Federico. Un tiranno i cui costumi richiamano quelli di
Eliogabalo, e la crudeltà quella di Caligola, Arrigo VIII, mette sul
trono d'Inghilterra tutti i delitti, e contamina l'isola dei santi
col saccheggio dei monasteri, la distruzione delle chiese, la
profanazione dei sepolcri, e col supplizio di settantaduemila
cattolici.
Il
padre della grande famiglia Europea viene informato di tanti eccessi:
ammonisce, riprende, scongiura: tutto è vano. Rammentandosi allora
ed il proprio dovere ed il proprio diritto, depone il mostro
coronato, libera l’Inghilterra dall'obbligo di sottomettersi agli
odiosi suoi capricci; e, per quanto è in lui, salva la nave
dall'abisso a cui la tragge il colpevole suo nocchiere. «Quegli,
dice Paolo III, che dall'immobile sua eternità, per la divina sua
Provvidenza imprime a tutte le creature il moto che ammiriamo, ha
degnato, nella sua clemenza, di stabilirei, senza verun merito per
parte nostra, suo vicario sulla terra, di collocarci sul trono della
giustizia e di dirci come a Geremia: Ecco
che io ti ho costituito sulle nazioni e sui regni, con potestà di
schiantare e di distruggere, di edificare e di piantare.
«Imitando
Quello la cui misericordia uguaglia la potenza, per impulso della
sollecitudine apostolica che Ci obbliga d'invigilare al bene di tutte
le persone confidate alle nostre cure. Ci vediamo obbligati, per
salvarle dagli errori, dagli scandali, dagli eccessi e dalle
enormezze d'ogni maniera di cui le circuisce la malizia del demonio,
d'usar severità contro coloro che ne sono autori (427)».
Laonde,
per mettere il tiranno fuori di condizione di poter nuocere, e per
salvare in tal modo l'ordine pubblico, la libertà, la proprietà, la
fede dell'Inghilterra, il sommo, pontefice lo isola, vietando sotto
pena d'incorrere nella stessa scomunica, di prestargli obbedienza,
aiuto od assistenza; poscia, se mantiensi ostinato, il capo della
famiglia europea ordina a tutti i re suoi figli d'andar in soccorso
dell’Inghilterra, e di liberarla dal cignale che la devasta (428).
L'Inghilterra sconosce la voce del padre comune, ed in punizione
della sua disobbedienza, cade sotto il giogo d'una femmina, le cui
crudeltà, le ingiustizie, le infamie hanno un luogo tutto speciale
nella storia d'una femmina la cui mano bruttata del sangue della
propria sorella, soscrive il lungo martirio dell'Irlanda, la morte,
in mezzo a torture inaudite, di quante avvi in Inghilterra di più
rispettabili persone, la spogliazione in grande, e finalmente (ciò
che più è doloroso) l'atto che strappa all'isola dei Santi l'antica
sua fede, per gittarla in braccio al Cesarismo cieco e brutale,
personificato nella figlia d'Anna di Boleno.
Il
trono di Pietro è occupato da un santo. Fedele al proprio mandato
Pio V, seguendo l'esempio dei suoi predecessori, fa uso del diritto
sociale di cui è depositario il papato. Il 23 febbraio 1570,
promulga contro Elisabetta la sentenza di deposizione fondata non già
sopra un diritto convenzionale, ma sull'apostolica autorità.
«Quegli
che regna in alto, al quale è stata data ogni potestà in cielo e
sopra la terra, ha commesso il governo supremo della Chiesa una,
santa, cattolica ed apostolica, fuor della quale non vi ha salute, ad
un solo capo sulla terra, cioè al principe degli apostoli Pietro, e
al successore di Pietro, il romano pontefice. Solo Egli lo ha
stabilito principe sopra tutte le nazioni e sopra tutti i reami,
alfine di schiantare, di distruggere, di dissipare e gettare al
vento, di piantare è di edificare, in guisa da contenere il popolo
fedele pel vincolo della carità e nell'unità dello Spirito Santo e
di presentarlo sano e salvo al suo Redentore ...
«Pertanto,
fondato sull’autorità di Quello, che non ostante la nostra
indegnità, si è degnato di collocarci su questo trono supremo della
giustizia, nella pienezza dell'apostolica autorità, Noi
dichiariamo la prementovata Elisabetta eretica e fautrice degli
eretici ed i suoi aderenti scomunicati e troncati dall'unità, del
corpo di Gesti Cristo.
«Di
più la dichiariamo privata di ogni diritto al regno d'Inghilterra, e
di qualunque autorità, dignità e privilegio; e i grandi, i sudditi
e i popoli del detto regno, e tutti quelli che le hanno prestato qual
si sia giuramento, sciolti per sempre da ogni giuramento di fedeltà
e d'obbedienza, come ne gli sciogliamo per l'autorità delle
presenti. Proibiamo ed interdiciamo, sotto pena di scomunica, a tutti
ed a ciascuno di obbedire sia a lei, sia ai suoi ordini ed alle sue
leggi (429)».
Dopo
questi atti solenni si vede, secondo il pensiero di Leibnizio,
conforme a quello di san Tommaso, che, i papi sono i Capi spirituali,
e gl’imperatori o re i capi temporali, ma subordinati della Chiesa
universale o della società cristiana; il diritto pubblico poggia su
questa base ed i giureconsulti del medio evo ragionano su questi
principi (430).
Vedesi
di più (e lo ripetiamo) che i sommi pontefici, esercitano la loro
suprema magistratura in virtù di un'autorità inerente alla loro
carica e non in virtù d'una concessione o d'un arbitrato. Ce lo dice
la storia e ce lo prova la ragione.
Nella
guisa che nell'ordine religioso è assolutamente necessario un
giudice infallibile del vero, non altrimenti nell'ordine sociale
richiedesi un giudizio supremo del giusto. Private il papa di questo
giudizio e lo darete alla forza. Il duello, giustamente vietato fra
privati, diventa non solo legittimo, ma necessario fra popolo e
popolo, e fra popoli e re. Or ponderatene la conseguenza: se l'ordine
sociale è costituito di maniera che la ragione del più forte sia
l'ultima ragione del diritto, dove mai è la bontà, dov’è la
giustizia, dov'è la sapienza di Dio?
Il
genere umano non è più, come dice Rousseau, che un'aggregazione
d'individualità ostili, governata e retta dalla morale dei lupi.
Tuttavia,
vedendo i papi deporre i re e sciogliere i sudditi dal loro
giuramento di fedeltà, molti ne pigliano scandalo. Per giustificare
cotal condotta, alcuni mettono innanzi spiegazioni zoppicanti: non
confessano i fatti che con timidezza e quasi arrossendo: secondo
altri, quell'età che riconosceva per base del suo diritto pubblico
una simile tirannia, sembra barbara, e salutano come l'era
dell'emancipazione il giorno in cui ebbe fine la sovranità sociale
del papato.
Ora
odano tutti quello che ad essi rispondono uomini non sospetti.
«La
potestà papale, dice un ministro protestante, che disponeva delle
corone, impediva che il despotismo divenisse atroce. Perciò, in
quei tempi di tenebre, non vediamo verun esempio di tirannide
paragonabile a quella dei Domiziani di Roma. Un Tiberio era
impossibile; Roma l'avrebbe schiacciato. I grandi dispotismi
ne vengono soltanto quando i re si persuadono non avervi nulla
superiore a loro; allora l'ebbrezza d'un potere illimitato
produce i più atroci misfatti (431)».
«Coll'innalzare
i re sopra ad ogni giurisdizione ecclesiastica, aggiunge Luigi Blanc,
avete creduto di collocare i troni in una regione inaccessibile alle
tempeste. Quest'errore muove a pietà! L'emancipazione dalla potestà
papale niente muta alla necessità d'un sindacato. Essa non fa che
spostarla; la trasferisce primieramente al parlamento, poscia alla
moltitudine. Venne il momento, in Francia, in cui la nazione s'avvide
che l'indipendenza dei re era la schiavitù dei popoli. La
nazione allora si sollevò sdegnata, stanca di soffrire, e chiedendo
giustizia. Ma poiché non vi ha giudice della potestà regia, la
nazione si fece giudice essa stessa, e la scomunica fu surrogata da
una sentenza di morte (432)».
Tale
è in fatti il dilemma, inesorabile che i detrattori della politica
cristiana debbono sciogliere; o ammettete nella società un potere
senza sindacato, o non l'ammettete.
Se
l'ammettete, col più mostruoso despotismo consacrate l'imbrutimento
dell'umana natura, ribadendo per sempre i ferri della schiavitù al
trono di tutti i tiranni.
Se
non l'ammettete, ecco l'alternativa che si presenta: o il sindacato
della ragione, o il sindacato della forza: o la sovranità del papa,
o la sovranità del popolo: o la scomunica, o il patibolo: o i canoni
del Vaticano o i cannoni delle barricate.
Ciascuno
ha le proprie predilezioni: i nostri avi, nella loro semplicità,
inchinandosi. davanti alla sovranità sociale del vicario di Gesù
Cristo, gli dicevano: «Voi siete il padre comune dei re e dei
popoli: a voi spetta il decidere fra i vostri figli». In ciò a noi
parvero barbari, ed abbiamo detto a Pietro: «Noi non riconosciamo la
tua autorità sociale; non vogliamo che ti brighi dei nostri affari;
sapremo bene regolarli senza di te».
Ecco
alcuni dei benefizi di quest'atto di modestia e di pietà figliale:
1°
L'Europa è sventuratamente rientrata nelle condizioni sociali del
paganesimo, in cui, nel caso di conflitti sociali, la sola forza
decideva del diritto;
2°
Mentre che nel lungo periodo di seicento anni si trovano cinque o sei
re appena, carnefici dei loro popoli ed obbrobrio dell'umanità,
privati d'un potere di cui erano manifestamente indegni, dobbiamo,
dopo il Risorgimento, contare a centinaia i troni abbattuti, le
corone gettate al vento, i re buoni o cattivi, espulsi, spogliati di
ogni onore e dignità, condannati all'esilio, morti sotto la scure
del carnefice o per mano degli assassini.
3°
Col primato papale, religiosamente accettato, non avremmo avuto né
le guerre di religione che hanno insanguinato l'Alemagna, la Francia,
l'Inghilterra e la Svizzera, nei secoli XVI e XVII; né lo
smembramento della Polonia; né gli scandalosi trattati che,
attribuendo all'errore diritti che non ha, danno una patente ai falsi
monetari della verità. Non avremmo avuto né le sacrileghe
spogliazioni del clero né il crollo generale della proprietà, né i
saturnali del 1793, né il culto della Ragione; ed anche oggidì non
avremmo né l'incertezza del diritto, né la negazione del dovere, né
dinastie senza avvenire, né popoli incerti di loro sorte futura, né
società ritrose ad ogni freno, né quell’universale diluvio di
dottrine mostruose che minacciano di trasformare la nostra civiltà
in barbarie e di sprofondare l'Europa nell'abisso senza fondo del
socialismo.
Ed
ecco quello che produce nel mondo un domma di più o domma di meno.
_____________________
CAPITOLO
V.
STORIA
DEL CESARISMO PRIMA DEL RISORGIMENTO.
DIRITTO
POLITICO.
Gl'imperatori
d'Alemagna. - Il diritto romano, politico e civile. - Parole di
Schlegel. - D'un autore francese. - Pandette trovate in Amalfi
Università di Bologna. - Irnerio. - Il Risorgimento del diritto
pagano venuto dall'Italia. - Giuristi di Francia, d'Inghilterra e di
Spagna. - Dottrine che insegnano. - Baldo. - Giovanni di Parigi.
***
Il
Risorgimento, che formulò ricisamente il Cesarismo, e lo rese
pratico in Europa, è un albero: ora, ogni albero ha le sue radici; e
quelle del Cesarismo le vediamo serpeggiare attraverso i secoli del
medio evo. Il male è permanente come la concupiscenza, nel cuore
umano. La gloria d'un'età è d'impedirgli a costituirsi in istato
religioso o sociale. Tale fu, per riguardo al cesarismo in
particolare, la gloria del medio evo.
Fin
del secolo XI, il paganesimo, politico trova principi ambiziosi e
cupidi disposti a restaurarlo a loro profitto. In primo ordine si
presentano gli Arrighi, gli Ottoni, i Lotarii, i Federici d'Alemagna.
Onorati dalla santa sede del titolo di Cesare e d'Augusto,
pretendono di esercitarne le antiche prerogative, vagheggiano a
proprio vantaggio la monarchia universale, e cominciano a scrollare
il domma fondamentale della politica cristiana, così gloriosamente
proclamata da Carlomagno: la separazione della potestà, e la
subordinazione necessaria della potestà temporale alla potestà
spirituale.
In
Alemagna bandiscono le loro pretensioni con la forza; in Italia, vi
cercano un puntello nella popolarità. Sopra tutte le città della
penisola soffiano uno spirito d'indipendenza, non per emanciparle, ma
per tirarle dalla loro parte. Di che nascono per l'Italia dissensioni
interminabili, e per l’Europa le grandi lotte del sacerdozio e
dell’impero. L'istinto della loro ambizione diventa l'argomento
prediletto dei giuristi cortigiani i quali, nelle università di
Bologna e di Padova, si provano di giustificarlo davanti alla
gioventù di tutte le nazioni.
Il
DIRITTO PUBBLICO e il DIRITTO CIVILE: ecco i due veicoli pei quali le
idee politiche e sociali dell’antichità pagana ritornano
scientificamente nel seno dell'Europa di Carlomagno le di San Luigi.
Se niun fatto è più certo, niuno meglio stabilisce la gran tesi che
sosteniamo, cioè:
CHE
IL CESARISMO MODERNO NON È CHE UN RAMO AVVELENATO, RINVERDITO SUL
VECCHIO TRONCO DEL PAGANESIMO, AL SOFFIO DELL’INSEGNAMENTO
CLASSICO.
Ascoltiamo
a questo proposito uno dei più celebri filosofi tedeschi.
«Un
altro dono non meno sciagurato di quello dell'Aristotele
arabo, dice Federico Schlegel, introdotto in Europa dà Federico II,
fu l'antico diritto ed il vecchio codice romano, che il ghibellino
Federico I confermò solennemente nelle pianure di Roncaglia, con
tutti i diritti regolari e con tutte le prerogative della corona
che seppe farne rampollare a suo vantaggio; aprendo in tal modo
pei secoli successivi l'adito a tutti gli andirivieni del sofismo, a
quella dialettica inestricabile del foro, ad una scolastica giuridica
senza uscita e senza fine.
«Prima
di lui, la giurisprudenza romana, quel codice prolisso di
Giustiniano, faceva già autorità sotto gl'imperatori franchi,
quando il giureconsulto tedesco Irnerio fondò a Bologna una cattedra
di questa nuova scienza. Ma le vecchie formole di
dominazione universale che si trovano sparse in quel corpo di diritto
romano, favorivano in particolar modo gl'imperatori ghibellini, o
essi se ne valsero adunque con assai poco riserbo contro
gl'imperatori greci e contro gli altri re, come di titoli evidenti
od almeno plausibilissimi del diritto che rivendicavano alla
monarchia universale.
«Così,
movendo dal tempo dei Ghibellini e per conseguenza della voga dei
principii assoluti, quel corpo di leggi romane, le cui formole
artificiali ed il cui rigoroso concatenamento, non erano in armonia
né con la vita nuova né coi costumi tedeschi, né con lo spirito
del cristianesimo; diventa l’oggetto d'una scienza alla moda, o
piuttosto occasione d'una nuova malattia del secolo.
«Il
vero ufficio della scienza del diritto nell'occidente cristiano
sarebbe stato di non vedere in quella vecchia giurisprudenza che
un'arte perfetta: di pigliarne per conseguenza le forme, ma di
riformare lo spirito secondo i principi e le idee del diritto
cristiano, recandosi a coscienza di attingere alle fonti indigene
e di raccogliere quella moltitudine di cose eccellenti sparse nelle
antiche legislazioni germaniche.
È
vero che queste essendo tutte locali ed eminentemente individuali,
per la più parte, convenivano ai costumi semplici ed all'infanzia
d'una nazione bellicosa, senza corrispondere al bisogno delle più
avanzate civiltà moderne; ma però esse ovunque presentano con le
tracce di un'alta equità, la base netta e precisa della vera libertà
(433)».
«Per
determinare il risorgimento dell'antichità soggiunge uno scrittore
francese, vi voleva una causa morale; ed essa si presentò.
«Finché
non vi aveva in Italia che pretendenti all'impero, usciti dalla
schiatta dei Carlovingi, la corona imperiale che Carlomagno aveva
posto sotto
la tiara,
s'inchinò davanti alla tiara sotto il regno dei suoi successori. Ma
Ottone I portò in Italia sentimenti
nuovi nati in Alemagna. Questi sentimenti ostili al papato, ruppero
l'alleanza che Carlomagno aveva formato tra la potestà pontificale e
la potestà temporale.
Scoppiò
la guerra fra questi due principii, non mediante negoziazioni, né
mediante canoniche discussioni, ma mediante violenze, mediante atti
di autorità. Sotto la protezione di Ottone e col suo sostegno
Gerberto invocò gli autori pagani nella sua lotta, contro la
corte pontificia: invocò la ragione umana contro la
potestà religiosa ... La libertà riconduceva
all'antichità, i cui semi, conservati sino al XIV secolo,
germogliarono allora e produssero il Risorgimento. DA QUESTO
SCATURIRONO, IN ALEMAGNA, L'INDIPENDENZA RELIGIOSA; IN ITALIA, LA
LIBERTA' NAZIONALE; IN FRANCIA, LO SPIRITO FILOSOFICO (434).
È
difficile il disegnare con più di precisione e con più di brevità
la storia del Cesarismo in Europa. Tuttavia questa esposizione non
basta. La questione del Cesarismo è talmente grave in sé stessa, ed
è di tanta importanza per le moderne società che richiede maggiore
svolgimento.
«I
principi di Germania, dice il dotto autore della Storia universale
della Chiesa, ai quali i papi trasferirono la dignità imperiale,
dopo l'estinzione della linea maschile di Carlomagno, sconobbero a
poco a poco l'idea cristiana di questa dignità, per ripigliare a
poco a poco l'idea pagana di Nerone e di Caligola. Non si chiamavano
ancora dii o sommi pontefici, ma vi tendevano; e poiché i papi si
opponevano a questa tendenza, impresero a disfare i papi legittimi ed
a farne di loro fabbrica (435)».
Se
i nuovi Cesari non si danno ancora per sommi pontefici o per dii, i
loro legisti però fin d'allora li presentano come la legge viva e
sovrana, come la legge incarnata. «L'imperatore, dicono essi nel
secolo XII, è la legge viva, che comanda ai re; da questa legge viva
dipendono tutti i diritti possibili; essa li corregge, li scioglie,
li lega. L'imperatore è l’autore della legge, e non vi è
obbligato se non in quanto vuole. Regola del diritto è il piacer suo
(436)».
I
giuristi pagani non dicevano diversamente.
Di
tal guisa sotto Arrigo V si formula il concetto dell'imperialismo
pagano. I suoi successori, coi giuristi di Bologna, ne traggono le
naturali conseguenze: che l'imperatore germanico è il solo signore
del mondo: il solo proprietario; che né regi né privati non hanno
nulla se non dipendentemente dal suo beneplacito: che i sovrani di
Spagna, d'Inghilterra e di Francia non sono che re provinciali
(437), removibili ad un cenno dell'imperatore.
Le
cose erano a questo punto, allorché nel 1135, nella piccola Città
d'Amalfi, in Italia, fu scoperto un esemplare delle Pandette
di Giustiniano. Quest'avvenimento che attrae l'attenzione di tutta
Europa, dà un nuovo impulso allo studio del diritto romano, e giunge
opportuno a favorire le cesaree pretensioni di Alemagna.
Lotario
fonda una cattedra di diritto romano a Bologna. Una delle sue
creature, Irnerio, tedesco di nascita, vi è nominato professore.
Tutti gli sforzi del nuovo cattedratico mirano ad ampliare l'autorità
del diritto romano. Ottiene facilmente dall'imperatore che le opere
di Giustiniano siano citate nel foro, e che abbiano forza di legge
nell'impero. I giuristi della sua scuola lo innalzarono sino alle
stelle, e lo soprannominarono lucerna juris. Irnerio morì nel
1190.
Trista
e dolorosa cosa è il dirlo, ma il risorgimento del diritto cesareo
venne dall'Italia, come da essa il risorgimento della filosofia e
della letteratura pagana. «Ai tempi d'Irnerio, dice Terrasson, non
ci aveva in Alemagna scuole di diritto; e, d'altra parte la
giurisprudenza romana si coltivava in Italia più che in
alcun'altra parte dell'Europa. Di che avveniva che l'Alemagna
mandava i suoi giuristi a formarsi alle scuole d'Italia (438)»,
nella guisa stessa, che nel secolo XV mandava i suoi letterati a
formarsi a Firenze ed a Roma. L'Alemagna però non è sola la
tributaria dell’Italia. Alle lezioni dei giureconsulti italiani,
Gosia, Bulgaro, Rogerio, Ottone, Ugolino, Azone, Accursio, Cino da
Pistoia, Bartolo, Baldo ed altri ancora, la Francia invia i giovani
suoi giuristi nei secoli XII, XIII e XIV. Da quelle scuole uscirono,
per nominare soltanto i più conosciuti, Pietro di Bella Pertica,
Durando lo Speculatore, e Piacentino, il quale insegnò lungo
tempo e con grande fama a Monpellieri. L'Inghilterra e la Spagna
imitano la Francia (439).
Ora
tutta questa progenie di giuristi anteriori al Risorgimento altamente
sostiene i principii fondamentali del diritto cesareo. Insegnano fra
l'altre cose, che l'impero è d'instituzione divina; essere uno, ed
indivisibile; Costantino non aver potuto sminuirlo donando al papa il
patrimonio di San Pietro; cotal donazione, in ogni caso, non obbliga
punto i suoi successori. Per acquistar fede, ne basterà l'allegare
le stesse loro parole.
Il
più celebre discepolo di Bartolo, Baldo da Perugia, cui i giuristi
del Risorgimento hanno soprannomato Apolline Pizio, discorre
in tal modo nella sua Prefazione al Digesto.
«Obbiettate
che un tempo l'imperatore ha diminuito i diritti dell'impero facendo
una donazione alla Chiesa? Rispondo che quella donazione è un fatto,
ma non costituisce già un diritto, e che punto non pregiudica i
diritti dei successori all'impero. E per verità se l'imperatore non
può imporre al suo successore le proprie sue leggi, a più forte
ragione non gli può imporre la legge d'un contratto. Non può
menomare i diritti dell'impero, smembrandone una parte e ritenendone
un'altra, perché l'impero è un ente indivisibile e similmente la
dignità imperiale è d'istituzione divina, e nessun uomo ha potestà
di sopprimerla (440)
Per
un motivo o per l'altro si lasciano sostenere queste tesi, almeno
strane, alla presenza della gioventù. Come si fece in appresso con
le idee filosofiche e letterarie del paganesimo, si faceva allora coi
principii del Cesarismo, le cui conseguenze terribili ben si era
allora lontani dal prevedere.
Dall’Italia
però quest'insegnamento si riflette su tutta Europa. Lo troveremo in
Inghilterra, nella Spagna e in Francia, professato più o meno
esplicitamente dai giuristi regi dei secoli XIII e XIV. Le
Collezioni di giurisprudenza antica e specialmente l'opera di
Savaron, Della sovranità del re (441), ne contengono la
prova.
Ci
contenteremo di allegare, fra tutti, il giureconsulto francese,
Giovanni da Parigi, il quale nel suo Trattato della potestà del
re e del popolo discorre in questi termini: «La donazione
di Costantino è nulla, per una quantità di ragioni esposte nella
Glossa del diritto civile (442) La prima si è che
l'imperatore é chiamato sempre Augusto, perché proprio è
dell'imperatore di augumentare l'impero e non di diminuirlo.
Di che è chiaro che quella donazione fu invalida. La seconda si è
che l'imperatore non è che l'amministratore dell'impero e della
repubblica, secondo il testo formale della legge regia. Dunque
se il semplice amministratore dell'impero si fa lecito di sminuirlo,
o di devastarlo, la donazione è invalida. Tale è l'insegnamento del
diritto (443)».
Questo
diritto, come apertamente dichiara Giovanni da Parigi, è la legge
regia; la qual legge costituì il Cesarismo pagano: la qual
legge fatte imprudentemente rivivere, pubblicamente insegnata nelle
scuole, invocate continuamente, come fra poco vedremo, da tutti i
nemici del papato, cominciando dai Cesari della Germania sino ai
moderni rivoluzionari.
__________________
CAPITOLO
VI.
STORIA
DEL CESARISMO, PRIMA DEL RISORGIMENTO.
DIRITTO
POLITICO
(Continuazione).
Dante
e la sua opera De Monarchia. - Principii del Cesarismo. -
Argomenti di Dante, filosofici, politici e teologici. - Sostiene la
monarchia universale e l'onnipotenza di Cesare. - Sua dottrina
contraria all'insegnamento cattolico. -Conseguenze che ne fluiscono.
***
La
dottrina del Cesarismo, tanto aggradevole all'orgoglio dei re,
diventa il simbolo dei loro cortigiani, come pure il tema
prediletto dei letterati ambiziosi e scontenti del papato: Nel novero
di questi ci accuora di trovare fra i primi Dante Alighieri, il
celebre cantore della Divina Commedia. Ma quanto più è
deplorabile l'aberrazione di questo smisurato ingegno, tanto
maggiormente essa diventa perentoria in favore della causa che
propugniamo. La lettura degli autori pagani gli ha pervertito il
sentimento in politica, come gli ha falsato il gusto in letteratura.
Poeta sublime ovunque è cristiano, diventa triviale e ridicolo
allorché fa quel bizzarro miscuglio di cose sante e di cose profane,
di fiori mitologici e di pensieri cristiani. Così per esempio,
trasformando nostro Signore in Giove, esclama: O sommo Giove che
foste crocifisso per noi (444). Giurista erudito, Dante ha
studiato il diritto, e questo studio aggiunto a sdegni privati lo ha
reso ghibellino fanatico. Logico, robusto, deduce in argomenti
strettamente concatenati il suo pensiero politico nella sua opera De
Monarchia.
Questo
libro famoso può essere chiamato il codice del Cesarismo al medio
evo. Il poeta giurista stabilisce la sua tesi sopra due sorte di
ragionamenti: i ragionamenti filosofici e i ragionamenti politici. I
primi consistono, in dire che governando Iddio il mondo mediante un
solo movimento ed un solo motore, anche l'umanità, immagine di Dio,
debba essere governata da uno solo che è il principe. I secondi sono
così formulati: la pace è il supremo bene dei popoli; la pluralità
dei principi espone i popoli ad una moltitudine di conflitti: per
mantener l'ordine è necessario un superiore unico (445).
Questa
teorica che non ammette che un solo impero, una sola società sulla
terra, cela, come si vede, un formidabile risorgimento del Cesarismo
pagano: Dante insiste su questa idea; la svolge per ogni verso;
poscia chiede qual è l'impero che ha diritto alla dominazione
universale? E senza esitanza risponde che è l'impero romano. Fondato
da Romolo, o piuttosto dalla Natura, sviluppato da Augusto,
continuato da Costantino, personificato in Federico l'impero romano
sussiste, ancora, e sussiste con tutti i suoi diritti. Il carattere
del popolo romano, le sue vittorie, il bene dell'umanità, scopo
unico delle sue conquiste, l'elezione di Dio medesimo: tali sono,
agli occhi del poeta pubblicista, i titoli imperscrittibili
dell'impero romano all’esclusiva dominazione dell'universo.
«Il
popolo romano, dice egli, fu creato dalla natura stessa per
l'imperio: In fatti, secondo Aristotile, non solamente i
privati, ma i popoli nascono, questi per obbedire, quelli per
comandare. Dunque il popolo romano che ha conquistato il mondo, aveva
diritto di conquistarlo: Iddio stesso lo ha deciso (446)».
Di
tal maniera Dante con inaudito ardimento pone la forza nel luogo del
diritto. Il medio evo richiedeva altri argomenti; non era filosofo
quanto bastasse per accettar quietamente questa brutale apoteosi
della forza. Ben lo conobbe Dante, e ricorse a ragionamenti
teologici. Udiamo lui stesso: «Se il romano impero non è stato un
impero legittimo, il peccato di Adamo non è stato espiato in Cristo.
È vero però che Cristo ha espiato il peccato. Ma vuolsi sapere che
la punizione non è soltanto una pena inflitta al colpevole; essa
include per parte di chi l'infligge una giurisdizione legittima. La
pena inflitta senza diritto non è una punizione; è un'ingiustizia.
«Se dunque Cristo non avesse patito sotto un giudice legittimo, non
sarebbe stato punito né il peccato espiato. Ora, questo giudice
legittimo doveva avere giurisdizione su tutto intero il genere umano
poiché il genere umano tutto intero era punito nella carne di
Cristo, divenuto nostro fideiussore. Ma Tiberio Cesare, di cui Pilato
era vicario, non avrebbe avuto giurisdizione sul genere umano, se
l'impero, romano non fosse stato legittimo. Perciò Erode, senza
sapere quel che faceva, e Caifa, per un decreto della Provvidenza,
rimisero Cristo a Pilato affinché fosse giudicato ... Coloro dunque
che si dicono figlioli della Chiesa, cessino dall'osteggiare l'impero
romano poiché veggono Cristo rendergli omaggio al principio e alla
fine della sua vita terrena (447)».
L'impero
romano è dunque un impero de jure. Dovete crederlo, sotto
pena di negare l'espiazione del peccato in Gesù Cristo, e per
conseguenza la redenzione del mondo. Dovete crederlo ancora perché
il popolo romano fu il benefattore perpetuo dell'umanità, un popolo
santo e il vero popolo di Dio.
«Il
popolo romano, ha costantemente mirato al bene generale dell'umanità.
Le sue azioni ce lo mostrano scevro di quella cupidigia che ebbe
sempre in aborrimento. Con lo stabilire la pace universale e
quella libertà così cara agli uomini, quel popolo santo, pio
e glorioso, sembra aver negletto i propri suoi interessi per
intendere soltanto alla salute del genere umano» (448).
È
impossibile il falsare più impudentemente la storia: ma continuiamo.
Popolo-Re per diritto di nascita, dominatore universale per vocazione
divina benefattore perpetuo del genere umano per le sue conquiste, il
popolo romano è il vero popolo di Dio, e l’impero romano è
l'istituzione definitiva e voluta da Dio pel bene dell'umanità.
«Tutto ciò, dice il logico del Cesarismo, è fuor di dubbio. Quello
che non meno è irrepugnabile si è che i Cesari furono e sono ancora
gli unti del Signore, contro i quali hanno inutilmente fremuto tutti
i re della terra (449)».
Nerone,
Tiberio,Caligola, Eliogabalo, Arrigo, Federico Barbarossa, gli unti
del Signore! Tali sono le conseguenze a cui riesce Dante, sospinto,
da una parte, dalla sua ammirazione per l'antichità pagana; e,
dall'altra, dalla sua logica ferrea. Non ci faccia però grande
meraviglia cotale aberrazione! la vedremo espressa nei termini
medesimi dai giuristi educati alla scuola del Risorgimento.
Nel
terminare l'esposizione dei suoi principii, Dante contende di battere
un colpo decisivo. Storico, giureconsulto e teologo, colloca il
Cesarismo sotto la triplice autorità della storia, della teologia e
del diritto. Invoca le grandi memorie che riscuotono la fantasia: si
piace in descrivere la grandezza di quel popolo romano, il quale non
ha conseguito l'impero se non perché era il più degno di
possederlo. Riconosce nei trionfi di lui la mano di Dio; il suo
entusiasmo è una vena inesauribile: si direbbe un professore di
rettorica, dei quali l'Europa ne ha avuto tanti in quattro secoli,
che fa ogni sforzo per risvegliare con qualche rimbombante
amplificazione l'entusiasmo della gioventù cristiana per quella Roma
così potente, così santa, così feconda di uomini grandi e di
grandi fatti: Alma
parens, alma virum!
Cosa
degna di stupore! Dopo l'intervallo di seicento anni, lo studio
ammirativo dell'antichità ha precipitato un compatriota di Dante,
Gioberti, in eccessi uguali. L'abito di vivere in mezzo alle
rimembranze della Grecia e di Roma facevagli compassionare i popoli
rigenerati dal cristianesimo: ed era giunto ad un vero paganesimo
politico (450).
La
conclusione di Dante si è essere dovere il conservare nella pienezza
delle sue prerogative quell'impero romano, la più bella creazione
della natura ed il maggior suo beneficio. Tale è pure, come vedremo
quanto prima, la conclusione di tutti i giuristi regii usciti dai
collegi del Risorgimento: se non che invece di applicarla all'impero
romano, ciascun di loro l'applica alla monarchia di sua elezione,
aspettando che i rivoluzionari del 1793, rinvenendo ai principii del
Cesarismo, imprendano apertamente la restaurazione della Repubblica
romana; e diano origine all’impero.
Nell'ultima
parte del suo libro, Dante discorre delle relazioni del sacerdozio e
dell'impero. Sia timore, sia pudore, qui gli vien meno il coraggio.
La conseguenza necessaria dei suoi principii è la riunione della
sovranità spirituale e della temporale in una mano sola. I giuristi
del Risorgimento dedussero arditamente cotal conseguenza, prima a
profitto dei re, poi a profitto del popolo. Il medio evo non era
preparato per questa teorica della schiavitù rinnovata del
paganesimo. Dante si limita dunque a stabilire l'indipendenza
assoluta dello Stato.
Ripigliando
i suoi argomenti teologici, dice: «Il sacerdozio e l'impero
dipendono direttamente da Dio. L'impero perché esso non procede né
dalla Chiesa, né dal vicario di Gesù Cristo, poiché gli ha
preceduti. Le due potestà sono indipendenti perché tendono a fini
diversi. La potestà imperiale conduce l'uomo al paradiso della
terra; la potestà pontificale al paradiso dell'altro mondo. Il
paradiso della terra è la pace universale che Cesare solo può dare.
Se così è, e se Iddio destina l’umanità ad una duplice
beatitudine, alla terrestre cioè ed alla celestiale, il principe
romano è l'eletto da Dio pel medesimo titolo e nelle stesse
condizioni del sommo pontefice» (451).
La
dottrina di Dante è contraria all'insegnamento della teologia
cattolica. Essa pecca per la precisione dommatica ch'ei le vuole
imprimere; poiché suppone a profitto degli individui e delle
famiglie reali una specie di bolla d'istituzione inviata dal
cielo.
Certamente
che l'origine del potere è divina: non est potestas nisi a Deo,
ma l'apostolo non va più avanti: la questione di persona o di
dinastia è riservata.
Avvi
qui un punto di diritto sociale che fino dai primi secoli viene da
san Crisostomo dichiarato con mirabile perspicuità. «Non vi ha
potestà che non proceda da Dio. Che dite, mai? Ogni principe è
dunque stabilito da Dio? Non dico questo, poiché non parla di verun
principe in particolare, ma della cosa in sé stessa, cioè a dire
della potestà. Affermo che l'esistenza dei principati è opera della
sapienza divina, e che essa fa sì che tutte le cose non siano a
balia dei capricci del caso. Laonde l'apostolo non dice già che
non vi ha principe che proceda da Dio, ma dice, parlando della
cosa in sé stessa: Non vi ha potestà che non proceda da Dio
(452)».
Dante,
che, nella sua qualità di Ghibellino, ha buone ragioni di negare
queste fondamentali distinzioni, afferma di un uomo quello che
l'apostolo dice della potestà in generale; afferma di più che
quest'uomo-potestà, immediato e diretto rappresentante di
Dio, è Cesare, l'imperatore romano, fuori, del cui imperio non avvi
per la società né pace, né prosperità, né salute.
Da
questa dottrina rampolliamo tre conseguenze: La prima, che la potestà
dell'imperatore è al tutto indipendente dalla potestà pontificia;
La
seconda, che l'imperatore è il monarca universale;
La
terza, che il dominio temporale del papa è un abuso, perche in
opposizione con la monarchia universale.
«L'imperatore,
dice il logico del Cesarismo, non è il proprietario del potere, ma
depositario, usufruttuario: non spetta a lui il modificare il titolo
in virtù del quale ei regna. Se dunque Costantino ha ceduto ai papi
la sede di Roma, ha operato senza diritto, e la donazione è nulla.
Con lo smembrare l’impero ha adoperato contro il diritto imperiale,
perché l'ufficio dell'imperatore è di tenere il genere umano sotto
la dominazione d'un solo (453)».
_____________________
CAPITOLO
VII.
STORIA
DEL CESARISMO PRIMA DEL RISORGIMENTO
(Continuazione
e fine).
Filippo
il Bello, suoi atti arbitrari; - Ammonito dal papa - Stati generali.
- Loro insensate risposte. - Parole di Luigi Blanc di Sismondi. -
Bolla del papa. - La Santa Sede continua ad essere la chiave della
vòlta dell'edificio sociale dell'Europa. - Omaggi resi al primato
pontificio. - L'imperatore Alberto. - La Bolla d'Oro. Luigi XI.
- Arrigo VII. - Alessandro VI e i re di Spagna e di Portogallo.
***
La
teorica pagana di Dante sopravvisse alle censure di Roma. Perpetuata,
almeno riguardo a certi principii, dall'insegnamento del diritto, si
distese a poco a poco sull'intera Europa; e nei conflitti che
insorgono fra il sacerdozio e l’impero, vedesi costantemente
invocata dai giuristi regii.
Alla
fine del XIII secolo, Filippo il Bello stima conveniente
d'impossessarsi, sotto il nome di diritto di regalia, delle
rendite dei vescovati, delle abazie e di altri benefici vacanti nel
suo regno, sino alla nomina dei nuovi titolari (454).
Il
sommo pontefice Bonifacio, VIII si richiama contro questa sacrilega
spogliazione. Nel che non solo adempiva un sacro dovere verso la
Chiesa; ma esercitava inoltre un atto eminentemente sociale. Il
diritto di proprietà è uguale per tutti. Se lo vulnerate nel
vescovo o nel monaco, lo scrollerete nel principe, nel nobile e nel
popolano. Questo punto, dopo il 1789, non abbisogna più d'essere
discusso.
Invece
di riconoscere il proprio errore, Filippo, aizzato dai suoi
cortigiani e sostenuto dai giuristi, si ripara dietro i principii del
Cesarismo, e si dichiara, in ordine al temporale, indipendente
dal papato. In molte lettere, nelle quali traluce la bontà del padre
e la fermezza del successore di Pietro, il papa ammonisce il diletto
suo figlio di rientrare in sé medesimo (455). Anziché ottemperare
in ciò che nel tempo stesso è del proprio interesse e del proprio
dovere, il re continua le sue spogliazioni. Allora il vicario di Gesù
Cristo minaccia di far uso del diritto sovrano esercitato dai suoi
predecessori.
Per
risposta, Filippo convoca gli stati generali del suo reame, espone la
questione sotto l'aspetto a lui favorevole, e sotto quell'aspetto che
oggidì, per antifrasi, si chiamerebbe, la dignità nazionale;
ed ottiene tre rimostranze, del clero, della nobiltà e del
terzo stato: ciò era nel 1302.
Il
clero, posto tra il proprio dovere ed il rispetto che è dovuto alle
potestà, indirizza la propria rimostranza al papa, e senza entrare
nel merito della controversia, scongiura Sua Santità a mantenere la
buona armonia tanto necessaria al bene generale e che regna da sì
lungo tempo fra la Madre e la sua Figlia primogenita.
La
nobiltà invia la propria al sacro collegio; e gli dice con alterezza
che il re di Francia non è soggetto che a Dio, riguardo al
temporale; che la nobiltà del regno è pronta a difendere questa
dottrina con le armi in mano. Poi soggiungono: «Né le
università, né i popoli del detto regno richiedono, né vogliono
ricevere né correzione né ammenda sulle predette cose da lui (il
papa) né dalla sua autorità; né dalla sua potestà, né da altra,
fuor quella del predetto nostro signore il re (456)».
Il
terzo stato fece la propria risposta al re medesimo. Questo
documento, opera di qualche giurista della scuola di Dante, è
un'immensa diceria di parecchie pagine in folio. Vi si fa risalire
l'assoluta indipendenza del re di Francia sino ad Adamo; il che è
provato dalle parole del Creatore al padre del genere umano: Quod
calcaverit pes tuus, tuum erit: la terra sopra la quale tu poserai il
piede è tua. Vengono in seguito, l'un dopo l'altro,
Melchisedech, Giosuè, Samuele, i Profeti che arringano a favore del
re contro il papa!
Puntellato
da tante autorità, il terzo stato conclude non solo incitando
Filippo alla resistenza, ma, morto essendo il papa, chiede che il re
ne punisca la memoria: «Voi, nobile Re sopra tutti gli altri
principi, ereditario difensore della fede, distruttore
dell’ingiustizia, potete e dovete e siete in obbligo di richiedere
e procurare, che il detto Bonifacio sia tenuto e punito in quel modo
che si potrà e dovrà e si dee fare dopo la sua morte: sì che la
sovrana vostra franchigia sia mantenuta e dichiarata» (457).
«Insensati,
grida Luigi Blanc, non sapete che l’indipendenza dei re è la
schiavitù dei popoli»! (458)
«Allora,
soggiunge il protestante Sismondi, PER LA PRIMA VOLTA, la nazione ed
il clero si riscuotono per difendere la libertà della Chiesa
gallicana. Avidi di servitù, chiamarono libertà il
dititto d'immolare persino la propria coscienza ai capricci dei loro
padroni, e di respingere la protezione che un capo straniero ed
indipendente offriva loro contro la tirannide. In nome di quelle
libertà della Chiesa, si ricusò al papa il diritto di prendere
cognizione delle tasse arbitrarie che il re levava sul clero;
dell’imprigionamento arbitrario del vescovo di Pamiers;
dell'arbitrario incameramento delle rendite ecclesiastiche di Reims,
di Chàlons, di Laon, di Poitiers; si ricusò al papa il diritto di
dirigere la coscienza del re, di fargli rimostranza
sull'amministrazione del suo regno e di punirlo con le censure della
scomunica, allorché violava i propri giuramenti ... Sarebbe stata
troppa ventura pei popoli che i sovrani dispotici riconoscessero
ancora sopra ad essi una potestà venuta dal cielo, che gli
arrestasse nella via del delitto (459)».
Alle
prime aberrazioni della Francia, alle parole ed ai fatti violenti, il
padre comune sta pago di contrapporre con calma il diritto pubblico
della società cristiana. In un linguaggio, pieno di dolcezza e di
dignità, la bolla Unam sanctam, richiama i grandi principii
sui quali poggia il primato del vicario di Gesù Cristo, e che soli
valgono ad infrenare il despotismo dei re e sono il baluardo della
libertà dei popoli. Questo monumento della sollecitudine pontificale
è di tanta importanza nella grave questione ché agitiamo, da
doverlo riferire in tutta la sua integrità.
BONIFACIO
SERVO DEI SERVI DI DIO.
«La
fede ci obbliga di credere e di professare che la santa Chiesa
cattolica, apostolica è una..... E poiché la Chiesa è una ed
unica, essa non è che un corpo solo, avendo, non due capi, il
che sarebbe mostruoso, ma un capo solo, cioè: Gesù Cristo, e Pietro
vicario di Gesù Cristo, e il successore di Pietro; avendo il Signore
detto a Pietro medesimo: Pasci le mie agnelle, in generale: il
che dimostra che gliele ha confidate tutte senza eccezione. Se dunque
i Greci ed altri, ancora affermano che non sono stati affidati a
Pietro ed ai suoi successori, è d'uopo che confessino non essere
eglino le agnelle di Gesù Cristo, poiché il Signore ha detto,
secondo San Giovanni: Che non vi ha che un solo gregge ed un solo
pastore.
«Il
Vangelo c'insegna eziandio avere esso in sua potestà le spade,
l'una spirituale e l'altra temporale, poiché avendo detto gli
apostoli: Ecco due spade qui, cioè nella Chiesa, poiché
quelli che parlavano erano gli apostoli, il Signore non rispose già:
E troppo; ma: Basta.
«Per
fermo chi nega che la spada temporale sia in potestà di Pietro,
sconosce questa parola del Salvatore: Rimetti la tua spada nel
fodero.
«La
spada spirituale e la spada materiale sono dunque l'una e l'altra in
potestà della Chiesa: ma questa debba essere impiegata per la
Chiesa; e quella, dalla Chiesa. Questa è nelle mani del sacerdote;
quella, in mano, dei re e dei soldati, ma sotto la direzione e la
dipendenza del sacerdote. Una di queste spade debba essere
subordinata all'altra, e l'autorità temporale debba essere
sottomessa alla potestà spirituale.
«In
fatti, secondo l'Apostolo: Ogni potestà procede da Dio.
Quelle che esistono sono ordinate da Dio. Ora, esse non sarebbero
ordinate se una spada non fosse sottomessa all'altra spada, e come
inferiore, da essa condotta all'esecuzione del volere sovrano.
Imperocchè, secondo San Dionigi, è una legge della Divinità che
ciò che è infimo sia per intermediari coordinato a ciò che è
sopra a tutto. Così; in virtù delle leggi dell'universo, tutte le
cose non sono condotte all'ordine immediatamente ed al modo stesso;
ma le cose basse dalle mediane, l'inferiore dal superiore.
«Ora,
la potestà spirituale sopravanza in nobiltà e in dignità qualunque
potestà terrena; e dobbiamo ciò ritenere per così certo, quant'è
parvente che le cose spirituali stanno sopra le temporali. Ciò è
che non meno chiaramente fa vedere l'oblazione; benedizione e la
santificazione delle decime, l'istituzione della potestà e le
condizioni necessarie del governo del mondo.
«Infatti,
per testimonianza della Verità stessa, spetta alla potestà
spirituale l'instituire la potestà terrena, e il giudicarla,
se non è buona. Così si verifica l'oracolo di Geremia riguardo alla
Chiesa e alla potestà ecclesiastica: Ecco che io ti ho costituito
sulle nazioni e sui regni, con quel che segue.
«Se
dunque la potestà terrena forvia, essa sarà giudicata dalla potestà
spirituale. Se la potestà spirituale d'un ordine inferiore erra,
sarà giudicata da quella che le è superiore. Se erra la potestà
suprema, l'uomo non può giudicarla, ma Dio solo, secondo il detto
dell'Apostolo: L'uomo spirituale giudica e non è giudicato da
nessuno.
«Ora,
cotal potestà che, sebbene conferita all'uomo ed esercitata
dall'uomo, è non umana, ma divina, Pietro l'ha ricevuta dalla stessa
bocca divina, e Colui, ch'ei confessò, l'ha resa per lui e pei suoi
successori irremovibile come la pietra. Imperocchè il Signore gli ha
detto: Tutto quello che legherai, ecc. Dunque chiunque resiste
a questa potestà così ordinata da Dio, resiste all'ordine di Dio
medesimo, eccettochè, come il manicheo, non immagini due
principii, la qual cosa giudichiamo essere un errore ed
un'eresia. Laonde Mosè attesta che nel principio e non nei
principii, Iddio creò il cielo e la terra.
«Perciò,
ogni umana creatura deve essere sottomessa al romano pontefice, e
noi dichiariamo, affermiamo, definiamo e pronunziamo che tale
sommissione è assolutamente di necessità di salute (460)».
Questa
esposizione di principii fu in certa guisa il testamento del
coraggioso pontefice, il quale morì subito dopo. Non era forse mai
stato dato avvertimento più chiaro e più solenne all'Europa per
richiamarle l'antica via seguita dai suoi padri ed i pericoli della
nuova strada in cui la s'intricava imprudentemente. Questa nuova via
era il Cesarismo che, ripulsando il sindacato sociale del papato,
aprir doveva l'era delle rivoluzioni: e, dopo di aver consacrato la
prevalenza della forza, stabilire in diritto il sindacato del
pugnale: Noi siamo a questo punto.
Intanto
che diciamo come l'Europa sia giunta a questi estremi confini della
barbarie, citiamo in prova l'ultima bolla del papa della demagogia
moderna. Nel mese di giugno del 1856 dell'èra cristiana, Mazzini
indirizza ai socialisti il seguente proclama. Dopo aver parlato
dell'assenza del diritto, dell'oppressione dei popoli e dei governi
dell'Europa, responsali avanti a Dio ed avanti agli uomini dei colpi
di pugnale che guizzano come lampi in mezzo alle tenebre, continua:
«Se
un uomo del popolo si alza e pugnala un Giuda di pieno mezzogiorno
sulla via pubblica, non sento in me il coraggio di scagliare la
pietra a quell'uomo, che assume sopra di sé di rappresentare la
giustizia sociale odiata dalla tirannide. Per parte delle persone
oneste non temo una sinistra interpretazione delle mie parole, se
soggiungo avervi nella vita e nella storia delle nazioni momenti
eccezionali a cui non possono applicarsi i giudizi ordinari degli
uomini, e che non ammettono che le inspirazioni della coscienza
e di Dio.
«Il
pugnale che Armodio inghirlandava di rose, è stato un'arme santa:
santo il pugnale di Bruto; santo lo stilo del Siciliano che diè il
segno dei vespri siciliani; santo il dardo di Guglielmo Tell.
Allorché in un paese dove è morta ogni giustizia, dove un tiranno
opprime col terrore la coscienza d'una nazione, e rinnega Dio che la
vuol libera, un uomo scevro d'odio e di ogni vile passione, mosso dal
solo amore della patria e del diritto eternalmente incarnato in
lui, si alza in faccia al tiranno e gli grida: «Tu martori
parecchi milioni dei miei fratelli, tu ricusi loro quello che Iddio
aveva loro concesso; tu ne tormenti i corpi e ne corrompi le anime:
per te la mia patria agonizza ogni dì: su te posa un intero edificio
di schiavitù, di disonore e di vergogna; or bene, io do il crollo a
quest'edifizio trucidandoti a morte»! Allora riconosco in questa
manifestazione di terribile eguaglianza tra il padrone di tanti
milioni d'uomini ed un solo individuo, IL DITO DI DIO ... (461).
L'Europa
del XIV secolo non era a tal punto. Non ostante la momentanea
ostinatezza ed anche le riprovevoli violenze di Filippo il Bello; non
ostante le proteste rivoluzionarie degli Stati del 1302, rinnovate
agli Stati del 1360 e del 1406; nonostante le dimostrazioni
pressappoco simili dei baroni inglesi nel 1301; non ostante gli
scalpori dei legulei che si erano costituiti custodi e difensori
delle pretese franchigie e libertà cesaree, la sede apostolica
continua ad essere l'anima della religione l'anima della società.
E
questo è così vero, che Arnaldo da Brescia, ed il tribuno Rienzi,
infatuati della classica antichità, si provano indarno di
ristabilire in Roma l'impero romano con le prerogative di Cesare.
Questo
è tanto vero, che abbiamo veduto i re di Francia, d’Inghilterra e
d'Aragona sottomettere umilmente le loro contese al sommo pontefice e
riferirsi fedelmente alla sua decisione.
Questo
è tanto vero, che, nel 1303, vediamo l'imperatore Alberto scrivere
al papa:
«Riconosco
che l'impero romano è stato trasferito dalla sede apostolica dai
Greci ai Germani, nella persona di Carlomagno: che il diritto di
eleggere il re dei Romani, destinato ad essere imperatore è stato
concesso dalla sede apostolica a certi principi ecclesiastici e
secolari: che i re e gl'imperatori ricevono dalla sede apostolica la
potestà della spada materiale; che i re dei Romani i quali
debbono essere promossi imperatori sono approvati dalla medesima
sede, principalmente e specialmente per essere gli avvocati ed
i principali difensori della santa Chiesa romana e della cattolica
fede (462)».
Ciò
è tanto vero, che gl’imperatori d’Alemagna, successori d'Alberto
continuano, a termini della Bolla d'oro, data nel 1350, a
riguardarsi come la spada della Chiesa; che ricevono la corona
dalle mani del papa, e che l'assemblea degli elettori dell'impero ha
più somiglianza con un conclave di cardinali, che con un'adunanza di
principi secolari (463); che i diritti d'Immunità e di annate,
duplice omaggio della rispettosa sommessione dell'Europa e della
figliale sua pietà verso la santa sede, sono generalmente rispettati
(464); che i delitti contro Dio sono sempre i più grandi delitti,
agli occhi della legge; che l'eresia, ben lontana dal possedere il
menomo diritto civile, è riguardata sempre come un flagello,
perseguitata come un nemico pubblico (465): in una parola che in
tutti i codici dell'Europa il re vien dopo Gesù Cristo, l'uomo dopo
Dio.
Questo
è tanto vero che poco prima che il torrente del paganesimo non
trascinasse tutto dietro a sé, al momento in cui volgeva a fine il
secolo XV, il primato pontificio, in quattro memorande circostanze,
riceveva un nuovo omaggio dai più grandi principi dell'Europa.
Pio
II lagnasi a Luigi XI dell'atto pel quale Carlo VII aveva rinnovato
la Prammatica sanzione; e Luigi XI depone quei privilegi ai
piedi del santo, padre, scrivendogli il 27 novembre 1461: «Usa
quindinnanzi, nel nostro regno, della tua potestà come vorrai»
(466).
Arrigo
VII d'Inghilterra, dopo aver felicemente condotto a termine la guerra
delle due Rose, e riunito col suo matrimonio York a Lancastro, chiede
al papa Innocenzo VIII la sanzione dei suoi diritti, e, nel
1487, ne ottiene una bolla che pronunzia l'anatema contro chiunque
osasse di usurpare il trono a lui od ai suoi eredi. Cristoforo
Colombo ha scoperto il nuovo mondo, e ne ha preso possesso in nome
del re Ferdinando e della regina Isabella. Questi potenti monarchi si
rendono solleciti di chiedere al vicario di Gesù Cristo la conferma
dei loro diritti. Per risposta, il papa manda loro con un mappamondo,
su cui era tracciata una linea di confine (467), la bolla del
seguente tenore:
«Nella
pienezza dell'apostolica potestà, dell'autorità che Iddio ci
ha dato nella persona di San Pietro, e nella nostra qualità di
vicario di Gesù Cristo, le cui funzioni Noi esercitiamo sulla terra,
doniamo, accordiamo ed assegniamo per le presenti, in perpetuo a voi
ed ai vostri eredi e successori, re di Castiglia e di Leon, tutte le
isole e terre ferme scoperte e da scoprirsi dai vostri inviati e
capitani, verso l'occidente ed il mezzodì, conducendo una linea da
un polo all'altro, a cento leghe dalle isole Azore, dalla parte del
mezzodì e dell'occidente. Non intendiamo, per altro di pregiudicare
il possesso dei re e principi cristiani in ciò che essi avessero
scoperto prima del Natale ultimo (468)».
Poscia
richiamando lo scopo di quel diritto supremo, il pontefice dice che
concede loro quel mondo affinché essi lo diano al Re dei re,
facendolo entrare, mediante il battesimo, nella grande famiglia dei
popoli cristiani.
«A
condizione, dice il papa, che in virtù della santa obbedienza ai
nostri ordini, e secondo le promesse che ci avete fatto e che Noi non
dubitiamo manterrete, abbiate ogni cura d'inviare in quelle terre
ferme ed in quelle isole, uomini dotti, sperimentati e virtuosi, per
ammaestrarne gli abitanti nella fede cattolica e nei buoni costumi
(469)».
Finalmente,
quando nel 1494, in proposito delle loro conquiste in Africa, nei
reami di Algeri, di Tunisi, di Fez e di Marocco, insorge un conflitto
tra la Spagna ed il Portogallo, una sentenza arbitrale della santa
sede stabilisce e determina i loro rispettivi possedimenti (470).
______________________
CAPITOLO
VIII.
STORIA
DEL CESARISMO PRIMA DEL RISORGIMENTO.
DIRITTO
CIVILE.
Diritto
civile cristiano. - Sue origini. - Suoi caratteri - Varietà.
Semplicità. - Assicuratore di tutte le franchigie e conservatore del
carattere nazionale. - Amministrazione patriarcale della giustizia. -
Passo del cancelliere dell'Hospital. - Carlomagno. - San Luigi.
Sconvolgimento dell'antico ordine per l'introduzione del diritto
romano. - Le liti. - La giustizia venale. - Il parlamento permanente.
- La creazione degli avvocati. - Nuovo passo dell'Hospital
***
Nella
guisa che aveva creato un diritto politico, il cristianesimo aveva
anche creato un diritto civile. Fondato sui principi del Vangelo,
sulle consuetudini delle nazioni eredi dell’impero romano ed anche
sulle regole della giustizia e della naturale equità che si trovano
nella legislazione romana, questo diritto era in armonia con la fede,
coi costumi, coll'indole dei nuovi popoli. Concordava col diritto
politico cristiano, e l'uno e l'altro erario perfezionati dal diritto
canonico; nella guisa stessa che tutte le scienze erano perfezionate
dalla teologia.
La
varietà e la semplicità costituivano i caratteri principali del
diritto civile. Il Vangelo che non è venuto per distruggere, ma sì
per perfezionare la natura, lascia a ciascun popolo come a ciascun
individuo il carattere che lo distingue. Così la famosa legge
Gombetta, fondata sulle consuetudini dei popoli germani, resse il
regno di Borgogna.
Gli
antichi Galli, abitanti del suolo prima dell'invasione franca,
continuavano ad osservare il diritto romano in tutto ciò che non era
contrario alla loro costumanza (471).
I
paesi occupati dai Franchi erano soggetti alla legge salica.
I
Franchi abitanti delle rive del Reno, e fondatori del regno di
Colonia, erano giudicati secondo le leggi ripuarie.
I
Bavari seguivano il codice bavaro.
I
Goti seguivano le leggi gotiche.
I
Longobardi le leggi longobardiche.
Somigliante
alla tribù di Levi, che non ebbe porzione nello partimento della
terra promessa, il clero si reputava non appartenere a verun popolo:
Di che avviene che il diritto romano era la legge degli
ecclesiastici, di qualsiasi nazione ei fossero.
Nelle
diverse legislazioni che abbiamo enumerato, trovasi qualche vestigio
del diritto civile dei Romani (472). Poco dopo questi vestigi
svaniscono. I Visigoti di Spagna abbandonano completamente il diritto
romano; ed un luogo dei nostri Capitolari lascia credere ch'ei fosse
abolito anche presso i Franchi (473). In ciò che se ne era
conservato, tutto quello che era contrario allo spirito cristiano ne
era stato direttamente abolito od era caduto in dissuetudine, di
qualità che, nel medio evo, il diritto civile, considerato in
complesso, era cristiano e nazionale (474). Alla varietà
aggiungevasi la semplicità. Alcune leggi scritte, consuetudini
ereditarie consacrate da atti autentici ed entrate nei i costumi
formavano la base e l'interpretazione del diritto, di cui indicavano
la sanzione. Nel silenzio della consuetudine, si ricorreva al diritto
romano, non come a testo obbligatorio, ma come a
ragione scritta.
Questa
legislazione indigena, appropriata a ciascun popolo, era conosciuta
da tutti coloro che ne erano governati. Da ciò nacque l'istituzione
veramente sensata d'un giurì, ben diverso da quello della
Rivoluzione. Non solamente ciascuna classe di cittadini era giudicata
secondo la legge della propria nazione, ma ciascun cittadino aveva
anche per giudici i suoi pari. Un Gallo era giudicato da un Gallo; un
Franco da un Franco; un Borgognone da un Borgognone. Ciascuna causa
era decisa da giudici del medesimo grado e della medesima condizione
dei litiganti e scelti fra gli abitanti del luogo dove le parti
avevano domicilio. Il magistrato che presiedeva era assistito
ordinariamente da dodici pari, secondo l'uso degli antichi Germani
(475).
Di
tal guisa il carattere principale del diritto era la personalità;
non già che ciascun individuo potesse eleggere la legge dalla quale
doveva esser retto; il diritto era personale in questo senso che
ciascuno era retto dal diritto della propria nazione. Tale era
l'amore dei nostri padri per le loro libertà e per le loro
franchigie, per tutto ciò che mirava a conservare a ciascuna
nazione, a ciascuna città, il carattere suo originale e la vita sua
propria, che, al tempo dell'emancipazione dei comuni per opera di
Luigi il Grosso, ciascun comune emancipato ebbe la sua carta
particolare, che stabiliva a profitto pel comune un sistema
particolare d'amministrazione. In essa erano stipulate le immunità
municipali, il diritto dei cittadini di scegliere i loro magistrati,
la milizia locale: di nominarne gli ufficiali e di fare regolamenti
in ordine alle donazioni, alle successioni ed agli altri interessi
del comune (476).
Quello
che avveniva in Francia succedeva anche in tutti Europa: la Spagna è
celebre pei suoi Fueros. Si ammira ancora il detto
sacramentale che il gran giustiziere d'Aragona, a nome delle Cortes;
indirizzava al re di Spagna nel giorno della sua incoronazione.
«Noi
che valiamo quanto voi e che possiamo più di voi, vi facciamo nostro
re e signore, a condizione che manteniate le nostre franchigie: se
no, no (477)».
La
semplicità stessa della legislazione, indizio manifesto dice
Tacito, della perfezione sociale (479), rendeva le liti
rarissime e facilissime a giudicarsi. Non essendo la scienza del
diritto una scienza esotica, inutile era il ministero degli avvocati
e dei procuratori; non se ne conosceva punto. Alcune belle pagine del
cancelliere dell'Hospital ci descrivono l'amministrazione della
giustizia in quei tempi di barbarie che, come noi, ha il
cattivo gusto di rimpiangere.
«Primieramente,
dice egli, è d'uopo credere che i nostri padri vivevano in una sì
grande semplicità, schiettezza e sincerità, che non ci aveva
quasi liti e contese fra loro; ed il più certo argomento di ciò
è il piccolo numero di giudici che avevano per ispacciare le loro
liti.
«Carlomagno
mandava ordinariamente in tutti i luoghi ed in tutte le province del
suo regno persone probe e capaci per rendere ed amministrare la
giustizia, riparare gli abusi, i torti e soprusi, oppressioni e
violenze fatte di chi che fosse (479); ed allorché presentavasi
qualche negozio importante o qualche contesa fra grandi signori,
faceva venire le parti al suo cospetto, prendeva conoscenza della
causa, e le appuntava, od almeno in caso di difficoltà, faceva
esaminare il processo nel suo consiglio, ed egli stesso ne
pronunciava la sentenza.
«San
Luigi fu al suo tempo un grandissimo giudice. Questo buon principe,
dopo di aver ascoltato la messa, andava ordinariamente al bosco di
Vincennes, sedeva al piè d'una quercia facendo sedere presso di sé
alcuni signori del suo parlamento, poscia ad alta voce domandava se
vi fosse qualcheduno che chiedesse giustizia, e che avesse lite. Se
alcuno si presentava, li ascoltava tranquillamente, poscia
pronunziava la sentenza dopo di aver udito le due parti, e, notate
diligentemente questo punto, senza ministero d'avvocati né di
procuratori.
«Ecco
per vero un'ammirabile semplicità, dalla quale noi siamo tanto
lontani che é facile ci giudicare che l'avarizia dei secoli
posteriori ha fatto a poco a poco salire l’ingiustizia ed il
sofisma al pendio sdrucciolevole a cui è oggidì. Sappiamo dai
nostri antichi che l'imperatore Carlomagno fu il primo dei nostri re
ad autorizzare i gentiluomini, che avevano grandi feudi con diritto
di censo e di rendite sopra alcuni popolani e contadini, di udire le
loro contese e di rendere la giustizia. Ma tutto questo si faceva in
nome del re e soltanto in forma di commissione: e non pensiamo mai
alla beata condizione di quei secoli se non quando deploriamo le
miserie che ci sono state recate dal sovvertimento di quell'ordine.
Perché allora i signori non profittando delle liti dei loro
vassalli, non erano solleciti di moltiplicarle, né di favorire i
litiganti (480).
Qual
fu la cagione di questo sovvertimento e delle miserie ch'esso ha
recato in Europa? Fu, almeno in gran parte, l'introduzione del
diritto romano. San Luigi ottenne una copia delle Pandette: «Se si
fossero soltanto corrette, dice Refugio, sopra questa compilazione
più dotta che regolare, le antiche leggi barbare, la
legislazione avrebbe nel tempo stesso acquistato maggior chiarezza e
precisione; ma essa fu adottata nella sua interezza, e le
antiche leggi furono neglette, non però del tutto abrogate (481)».
Sostituendosi
a poco a poco il diritto romano alla legislazione indigena ed a
quella giustizia in certa guisa patriarcale, in cui non erano
necessari gli avvocati, poiché si trattava di consuetudini
conosciute da tutti, le liti si moltiplicarono ed obbligarono a fare
dell'ufficio di rendere la giustizia un ufficio permanente e perciò
venale.
Cessando
la giustizia di essere gratuita, continua il cancelliere
dell'Hospital, tutto è stato pervertito. E poiché i giudici
allettati da un guadagno sordido e vile, hanno incominciato ad amare
le liti, il popolo vi si è talmente avvezzato, e la curia ha preso
tal credito presso noi, che non ci vuole oggidì minor tempo a
diventare buon curiale, cioè dotto nel mestiere di mantener le liti,
che a fare un dottore in diritto o nella facoltà di medicina (482).
Le
pretensioni cesaree di Filippo il Bello e le servili rimostranze
degli stati generali del 1302, affrettarono in Francia lo
stabilimento del diritto romano, tutto sparso di massime assolutiste
(483).
Il
cancelliere dell'Hospital lo nota dicendo:
«Sappiamo
dalla nostra storia che al tempo di Filippo il Bello, verso il 1300,
si trovò necessario di edificare nell'isola di Parigi un palazzo
reale, dove tutti e ciascuno potrebbero rivolgersi, come alla
persona propria del re, per aver ragione di tutte le contese mediante
giudizio sovrano (484)». Il parlamento, che fino allora era
ambulante, divenne stabile: da temporario diventò permanente,
e fu d'uopo stabilirne altri nelle altre città. Nondimeno, sia a
motivo della difficoltà di farsi giudicare in parlamento, sia a
motivo della ripugnanza che il sentimento cristiano e nazionale
opponeva alla nuova legislazione, le liti in parlamento erano ancora
comparativamente in piccolo numero.
«Non
è dunque a stupire, soggiunge il cancelliere quello che leggiamo del
poco numero di liti, e di quello che troviamo scritto che in quel
tempo l'erba
verdeggiava nel cortile del palazzo di Parigi come nei prati e nei
campi.
«Non
si sapeva allora che cosa fosse il perorare in iscritto, e
produrre le cause avanti ai giudici. Vi erano uditi i testimoni,
i documenti, i titoli, gli stromenti vi erano letti ed esaminati, ed
il giudice, per avviso del consiglio che vi assisteva, dava il suo
giudizio ... Quest'ordine fu cangiato: si produssero i documenti per
iscritto; e da ciò anche i processi in iscritto che furono dappoi
così frequenti nella scienza della curia (485)».
Il
male non fece che aggravarsi, allorché il diritto romano, prendendo
ogni giorno nuovo augumento moltiplicò i giuristi e creò gli
avvocati.
Udiamo
ancora il cancelliere:
«Faccio
un’altra osservazione di grandissima conseguenza pel mio disegno, e
che dimostra la lealtà e la previdenza mirabile dei nostri
predecessori, cioè che le parti erano in antico udite di loro bocca,
senza ministero di verun avvocato né procuratore, e ciascuno
era obbligato di venire personalmente alle citazioni: volendo per tal
mezzo soffocar le liti al loro nascere e così impedire tutti i
germogli che spesso pullulano da un cattivo tronco (486)».
Sino
al Risorgimento ed anche posteriormente, era necessario ottenere dal
re lettere che si chiamavano lettere di grazia per poter litigare
mediante procuratore.
Francesco
I, il gran promotore del diritto romano, come pure dell'arte e della
letteratura pagana, nel 1528, rese perpetue cotali lettere di grazia,
usque ad revocationem. «Perciò, aggiunge l'Hospital, furono
in numero eccessivo creati i procuratori tanto alle corti sovrane
come alle subalterne; e questa sorta di gente, la maggior parte della
quale non ha altro scopo che di far moltiplicare, rampollare ed
eternare le liti, non vede mai cattiva nessuna causa, se non quando
la parte è povera, e non ha mezzi di sopperire alle spese, oppure
quando ha smunto i propri clienti sino al midollo, è favorita anche
dai cattivi giudici, perché, in loro gergo, conduce acqua al molino.
«Il dotto Budeo lagnasi in grande maniera del suo tempo (487), e
sostiene che una terza parte degli uomini di questo regno che sono in
qualche posto, vivono e si mantengono nella curia delle spoglie
altrui. Facile è dunque il giudicare che da questa mala semenza sono
sorti e moltiplicati all'infinito i litigi in tutto il regno, perché
non vi ha parte od angolo in questa che non sia popolato, da questo
mal seme (488).
_____________________
CAPITOLO
IX.
STORIA
DEL CESARISMO PRIMA DEL RISORGIMENTO.
DIRITTO
CIVILE.
(Continuazione
e fine).
Foga
pel diritto civile dei Romani. - Pericolo di questo studio. - Bolla
di Onorio III. - Divieto d'insegnare il diritto romano a Parigi. -
Bolla d'Innocenzo IV, sullo stesso soggetto, indirizzata a tutta
l'Europa. Preghiera ai re di far cessare l'insegnamento del
diritto romano. Luogo notevole di Rogero Bacone. - l legisti
continuano questo studio. Loro carattere. - Stato politico e
civile dell'Europa prima del 1453.
***
Fin
da principio i sommi pontefici avevano veduto le funeste conseguenze
del Cesarismo politico, e lo avevano combattuto con una perseveranza
e con una energia troppo ben giustificate oggidì da quattro secoli
di rivoluzione. Con non minore costanza si oppongono all'introduzione
del Cesarismo nell'ordine civile. Fra le molte testimonianze di
questo fatto, ci contenteremo di riferire le due celebri bolle
d'Onorio, III e d'Innocenzo IV.
Il
diritto romano insegnato nella maggior parte delle università come
ragione scritta, è non come testo obbligatorio, si sostituiva
finalmente, come abbiamo veduto, al diritto indigeno, e, mediante
alcuni principi aiutati dai giuristi, invadeva l'Europa. La tendenza
della gioventù ed anche di una parte del clero nel secolo XIII e
XIV, per questo studio classico, era un tristo preludio della foga
che doveasi manifestare al Risorgimento. I papi, nella loro
intelligente sollecitudine, segnalarono con forza questo nuovo
pericolo.
Nel
1210 Onorio III dà, specialmente per la Francia, la sua bolla Super
specula. «Senza dubbio, dice egli, la santa Chiesa non ricusa il
concorso delle leggi civili nelle quali trovansi i vestigi della
giustizia e dell'equità. Nondimeno, stantechè in Francia
ed in altre regioni i laici non si servono del diritto romano, e di
rado si presentano cause ecclesiastiche di tal natura che non possano
essere definite dal diritto canonico, affinché maggiormente si
intenda alle scienze sacre, interdiciamo assolutamente e vietiamo
rigorosamente a chiunque sia a Parigi, sia nelle città od
altri luoghi vicini, d’insegnare o di studiare il diritto civile; e
se alcuno osa fare il contrario, esso sia non solo privato del
diritto di difendere le cause, ma scomunicato anche dal vescovo del
luogo (489)».
Questa
bolla ha dato materia a molte chiose: applicando alcuni il divieto
soltanto agli ecclesiastici; mantenendo altri che riguarda anche i
laici (490). Quello che è certo si è che fu osservata dai membri
del clero.
«Gli
ecclesiastici, dice il signor Fournel, si ostinarono a trattare tutte
le materie coi principii e con le forme del diritto canonico, la
qual cosa assorbiva l'autorità del re, sottomettendo la sorte
della fortuna dei francesi alla dominazione della corte di Roma. Per
correggere quest'abuso, Filippo il Bello con l'ordinanza del
1287, escluse gli ecclesiastici dall'esercizio della giustizia
temporale e dall'ufficio di procuratori (491)».
Se
le parole di Onorio sono suscettive d'interpretazioni diverse, non ne
è meno manifesto il dolore profondo che sentiva la santa sede
vedendo quanto progressivamente andasse ampliandosi il diritto
romano, il cui ultimo risultamento esser doveva di sostituire un
diritto straniero al diritto nazionale, e di far perdere in tal modo
all'Europa. col suo impronto originale una parte dello spirito
cristiano.
Questa
previdente sollecitudine, di cui si è avuta si poca riconoscenza al
papato, la troviamo in Innocenzo IV. Nel 1254, l'illustre pontefice,
promulga la sua bolla Dolentes. Vi si trovano le stesse
lagnanze, le stesse minacce che in quella d'Onorio: con questa
differenza che il papa non si rivolge solamente alla Francia, ma a
tutti i re dell'Europa, scongiurandoli di fare cessare nei loro reami
lo studio del diritto romano, se non come ragione scritta, almeno
come testo obbligatorio.
«Innocenzo,
vescovo, servo dei servi di Dio, a tutti i prelati dei reami di
Francia, d'Inghilterra, di Scozia; di Galles, di Spagna e di
Ungheria, salute ed apostolica benedizione.
«Pieni
di dolore apprendiamo come la tribù clericale, un tempo così pia e
così santa, obliando la primiera sua dignità, discende dall'altezza
della santità, all'abisso del vizio. Infatti molti rapporti stancano
di continuo le nostre orecchie di orribili notizie, e ci fanno sapere
che trascurando, e, ciò che è più grave, dispettando gli studi
filosofici, per non parlar ora delle scienze sacre, i chierici
corrono a turbe alle lezioni del diritto laicale. E quello che ben
altrimenti merita la collera di Dio, nel tempo presente, in molte
parti del mondo, i prelati non eleggono più per le dignità
ecclesiastiche, per le cariche e per le prebende alcun suddito che
non sia professore di diritto laicale o avvocato ...
«Per
questa irrefragabile costituzione, statuiamo che in avvenire nessun
professore di diritto laicale o avvocato, quali che ne siano i titoli
ed i privilegi che gli attribuisce l'alto suo sapere nel diritto
laicale, sia eletto alle dignità ecclesiastiche, personali, e
prebende, e neppure pei benefici d'un ordine inferiore, eccettochè
non sia versato nelle altre scienze liberali, e spettabile per la sua
vita e pei suoi costumi. Imperocchè le elezioni di tal genere
disonorano il clero, ne sbandiscono la santità, vi fanno regnare il
fasto e la cupidigia a tal segno che le viscere della santa madre
Chiesa ne sono dilaniate da inenarrabili dolori. Se alcuni prelati
osassero, per una rea presunzione, di invalidare questo salutare
statuto, sappiano che il loro atto è nullo di pieno diritto, e che
essi stessi per questa volta sono privati della potestà di
collazione. E se osano di replicare la loro ribellione, avranno a
paventare la privazione delle loro proprie prelature.
«Oltracciò,
come nei reami di Francia, d'Inghilterra, di Scozia, di Galles, di
Spagna e di Ungheria, le cause dei laici sono giudicate non secondo
il diritto romano, ma secondo il diritto consuetudinario dei laici,
e che possono essere decise dalle costituzioni ecclesiastiche dei
santi Padri; e poiché il diritto romano, principalmente a motivo
della malizia degli uomini, sommove ben più che nol rassodi il
diritto canonico ed il diritto consuetudinario, per avviso e ad
instanza, dei nostri fratelli e di altri religiosi, statuviamo che
nei suddetti reami le leggi laicali non siano più insegnate, se però
i re ed i principi lo trovano opportuno, fermo per altro in tutto il
suo vigore il nostro primo statuto.
«Dato
a Roma, ecc.» (492)
Un
decreto della corte del re, del 1267, conforme al voto della Santa
Sede, tenta di porre un freno alla funesta tendenza degli spiriti
verso lo studio del diritto romano. È dunque un fatto notevolissimo
consegnato alla storia che nel mezzo del secolo XIII, il diritto
consuetudinario, cioè il diritto nazionale, completato dal diritto
canonico, regnava esclusivamente fra i laici nei principali reami
dell'Europa, e che il desiderio della santa sede era che l'ordine
delle cose fosse religiosamente conservato. Nulla di più saggio di
questo desiderio del padre comune. Il cancelliere dell'Hospital ci ha
fatto conoscere le miserie incalcolabili che recava nell'ordine
sociale l'invasione progressiva del diritto romano, e Innocenzo IV ci
rivela le conseguenze non meno funeste che ne derivavano nell'ordine
religioso.
Nella
stessa guisa ch'essa, in appresso, fu sorda alle voci che le
segnalavano i pericoli del suo entusiasmo pel paganesimo filosofico,
artistico e letterario, l'Europa del secolo XIII e XIV si mostrò
troppo poco docile agli ammonimenti del papato e, continuò a
trastullarsi col risorgimento del paganesimo legislativo. Nondimeno
la verità non manca mai di testimoni. Uno dei più alti ingegni di
quel tempo, alla fine del secolo XIII, fa udire, forti proteste: egli
è Rogerio Bacone, il dotto di primo ordine, l'inventore della
polvere, del telescopio e dello specchio usterio. Dall’oscurità
della sua cella, l'illustre francescano erede dello spirito di San
Bernardo e di San Tommaso, vede il Cesarismo, sotto il nome di
diritto pubblico e di diritto civile, dilatarsi ogni dì più
sull'Europa cristiana; accenna il male allo stesso pontefice, ne
assegna la cagione e ne mostra il rimedio. E di somma importanza
l'udire come il signor Cousin apprezzi quel nobile tentativo.
«Rogerio
Bacone, dice egli, è della più rigorosa ortodossia scolastica
richiedendo che, nell'armonia necessaria della fllosofia e della
teologia, la filosofia subordini sempre le sue spiegazioni al sacro
testo, e lo stesso spirito egli insinua nel diritto canonico. Chiede
che il diritto canonico sia esclusivamente fondato sulle decisioni
della Chiesa, e si lamenta, con un'acrimonia spinta talvolta sino
alla veemenza, che si contenda di togliergli a poco a poco quel santo
fondamento, e che lo si alteri, frammischiandovi dichiarazioni tratte
dal diritto civile.
«Si
rivolge a Clemente, che, nel secolo, era stato famoso giureconsulto;
lo prega di far cessare quel disordine che non fa niente meno che
ruinare l'autorità della Chiesa. Raccoglie tutti i rimproveri
che si possono fare alle persone di toga sulla loro avidità che nega
ai poveri la giustizia, sul loro spirito di sofisma che si spande da
per tutto ed infetta la società intera. Venuto è il tempo di
riformare, lo studio del diritto canonico e di salvare la Chiesa
minacciata dai giuristi …
Questo
luogo è prezioso in quanto che imprime fedelmente il vero carattere
della filosofia in quel tempo, la profonda sommessione alla Chiesa
negli spiriti indipendenti, lo zelo eguale del papato negli
ordini più dissomiglianti, nel francescano Rogerio Bacone, come nel
domenicano San Tommaso, ed anche perché, ci dipinge nel modo più
vivo, lo sgomento che gettava fra tutti e servitori della Chiesa
romana l'intrapresa della potestà regia francese d'emancipare lo
Stato e la società dalla dominazione ecclesiastica, con
l'aiuto del diritto civile opposto o frammisto al diritto canonico
(493)».
La
voce di Rogerio Bacone fu quasi soffocata dalle grida dei giuristi
pagani. Questa classe d'uomini la quale era debitrice della sua
influenza allo stabilimento del diritto: romano, ond'erasi
infatuata nelle scuole, contribuì più che verun'altra a
sospingere l'Europa cristiana fuori della sua via, e vedremo che dopo
il Risorgimento essa è rimasta fedele alle sue funeste tradizioni.
«Chi,
fra gli altri, dice Rohrbacher, sviò, e perdette Federico Barbarossa
e Filippo il Bello, furono coloro che chiamansi giuristi, uomini che
studiano le leggi, ma le leggi puramente umane, specialmente
quelle di Roma pagana, in cui i Cesari erano ad un tempo
imperatori, pontefici e dii, e per conseguenza la legge unica e
suprema. I giuristi, più o meno imbevuti di quest'idolatria
politica, facevano udire a ciascun principe che invece di essere
sottomesso alla legge di Dio interpretata dalla Chiesa, era egli
stesso la legge vivente e sovrana degli altri: riguardando così come
non avvenute e l'autorità della Chiesa cattolica e la sovranità di
Cristo Sulla terra: riconducendo così e giustificando in massima e
ad un tempo la più spaventosa tirannide e la più spaventosa
anarchia. Imperocchè se la legge di Dio, se la Chiesa di Cristo che
ne è l'interprete, non è nulla pei re, non sarà nulla neppure pei
popoli, non sarà nulla per nessuno.
«Così
fin d'allora, fra i giuristi ed i loro simili, si poté scorgere un
certo Basso Impero degl'intelletti: basso per le idee e pei
sentimenti: non vedendo che la materia, l'individuo, il re, o tutt'al
più un popolo particolare, ma non l'intera umanità, l'umanità
rigenerata in Dio dal cristianesimo, e progressiva nella Chiesa
cattolica verso l'umanità perfetta e trionfante in cielo.
«Non
si scorge, non si vuole scorger nulla di tutto questo, non si vuol
neppure lasciar vedere agli altri. Perciò, si alterano, si sfigurano
i fatti, e si falsano con maligne interpretazioni. Si dissimula il
bene: si dà risalto e si esagera il male. Direbbesi che il basso
Impero dei Greci, con la sua bassezza d'idee e di sentimenti, col
suo spirito di sofisma, di doppiezza, e principalmente d'antipatia
contro la Chiesa romana, è passato da Costantinopoli in
Occidente, e si è, in certa guisa, naturato negli scrittori dei tre
ultimi secoli. La è come un'invasione della barbarie saputa, che
non lascia apparire, nella storia che contese, guerre, ruine, senza
veruna cosa che consoli od edifichi l'anima del lettore cristiano»
(494).
Non
ostante tutti questi germi di male deposti da lungo tempo nel seno
delle nazioni cristiane dall'insegnamento del paganesimo civile e
politico, non ostante le pretensioni dei re e la ribellione delle
passioni popolari, tale fu, sino al Risorgimento, la potenza dello
spirito cristiano, che arrestò costantemente l'invasione della
barbarie saputa. Il che é tanto vero che prima del 1453, l'Europa ci
presenta ancora un vasto complesso di nazionalità rigenerate dallo
stesso battesimo, che professano la stessa fede, che sono sottomesse
alla medesima autorità per tutte le cose del loro interno e pei
grandi principi dell'ordine esterno. Il diritto delle genti è
cristiano: tutto il valore morale della diplomazia, i suoi principii,
le sue regole dichiarate le taglie dalla credenza cattolica e dal
titolo di membro della Chiesa, comune a tutti i capi dell'impero.
Il
diritto politico è cristiano: si riconosce ancora da per tutto, come
articoli fondamentali di qualunque costituzione che una nazione
cristiana non può essere governata che da un re cattolico, e che
ogni re il quale diventa eretico ed apostata perde per ciò stesso il
diritto di regnare sopra una nazione cristiana. Allora questo
principio era così elementare quanto può esserlo in oggi questo
assioma; che un re barbaro, il quale nega i diritti dell'umanità,
non può regnare sopra una nazione incivilita. Al tempo stesso, le
nazioni cristiane professano ancora quest'altro domma sociale, che
chiunque rimane scomunicato, separato dalla Chiesa un anno e un
giorno, perde ogni diritto politico, specialmente quello di comandare
a cristiani (495). E ciò pei nostri padri è così chiaro quanto
l'articolo del codice penale: «Chi è colpito di morte civile perde
i suoi diritti civili e politici, e non può più comandare a
cittadini (496).
Il
diritto civile è cristiano, perché i due atti che fondano e
perpetuano le famiglie erano due atti religiosi, il sacramento del
matrimonio ed il sacramento del battesimo.
Oggi
una costituzione civile e politica tutta diversa è successa a quella
di cui abbiamo fatto rapida descrizione, e che si è mantenuta sino
al Risorgimento. Da tutte parti, quello che si è convenuto di
chiamare diritto naturale è stato sostituito al diritto
cristiano; il carattere soprannaturale che dominava la
vita sociale dell'Europa si è cancellato quasi in ogni dove. Donde
una sì deplorabile trasformazione? Lo vedremo nel capitolo seguente.
____________________
CAPITOLO
X.
STORIA
DEL CESARISMO DOPO IL RISORGIMENTO.
MACCHIAVELLI
Mutamento
radicale nella politica, dovuto al Risorgimento: testimonianza non
sospetta di Matter. - Macchiavelli padre del Cesarismo moderno. - Sua
vita. - Sua politica pagana.-Testimonianza di Gentillet, d'Enrico
Stefano. - Macchiavelli, ceppo della generazione dei politici
rivoluzionari. Testimonianza della rivoluzione. - Prove della
sua influenza. - Edizione delle sue opere. - Confutazione che si
crede necessario di fare delle sue dottrine. - Federico II re di
Prussia.
***
Poc'anzi
il Risorgimento, l'Europa aveva scienze, letteratura, poesia, arti,
filosofia, feste, istituzioni, politica sue proprie, nate nel suo
suolo, inspirate dalla sua religione e dalla sua storia, che le
davano una vita propria in continuazione d'un glorioso passato. Il
vero progresso consisteva in perfezionare tutte queste cose,
conservando loro fedelmente il carattere nazionale e cristiano di
loro origine.
Giunge
l'età del Risorgimento ed uno spirito straniero spira
sull'Occidente. L'Europa, arrossendo di sé medesima, ripudia il suo
passato, spezza le grandi linee della sua civiltà; e, a guisa d'un
fanciullo, si mette alla scuola dei pagani, recati d'Oriente dai
Greci espulsi da Costantinopoli, per rinascere, sotto la loro
influenza, ad una nuova vita. Ascoltiamo un razionalista dei giorni
nostri che giudica secondo le sue idee, questo movimento decisivo
ch'ei chiama progresso, e che la storia chiama insensata
trasformazione.
«Il
progresso che abbiamo, tolto a descrivere, dice Matter, e che,
nel corso dei tre ultimi secoli, è una successione dei più
violenti conflitti, prende origine nel Risorgimento degli
studi più pacifici e più innocui (497); voglio dire degli studi di
letteratura e di filosofia.
Questa
filosofia e questa letteratura erano anche antiche. Sull'una e
sull'altra erano passati cinque secoli di decadimento e di
barbarie (498): erano fredde, erano ghiacciate.
«Ma
una procella, l'invasione di Costantinopoli per opera dei Turchi,
gettò quei lumi nel seno dei popoli dell'Occidente mediante i
profughi greci, nel momento stesso che quei popoli, grazie alle opere
di Petrarca e del Boccaccio rinascevano da sé medesime, al buon
gusto, alla ragione, al sentimento della dignità umana (499). Il
lampo scontrossi in altri lampi.
«Nove
anni dopo la caduta di Costantinopoli, nacque in Italia Pomponacio
che doveva emancipare la filosofia, e, sette anni dopo
Pomponacio, vi nacque Macchiavelli, che doveva emancipare la
politica». Questi due uomini condussero il mutamento di tutte
le dottrine e di tutte le istituzioni sulle quali posavano l'ordine
morale e l'ordine sociale del mondo. A questi due uomini che
furono i più grandi fra i discepoli dei profughi ed ai due fatti
d'emancipazione che dominano gli studi morali e politici di
quell'età, si rannodano tutti gli altri fatti, tutte le altre
dottrine. Tutto si trova condotto e spiegato da questi fatti e da
questi uomini (500)».
Nell'ordine
dei nostri studi dobbiamo ora parlare di Machiavelli: Pomponacio
verrà in appresso.
Nicolò
Machiavelli nacque a Firenze di nobile famiglia, il 3 Maggio 1469.
Con Poliziano e con Marcello Ficino fu uno dei primi discepoli dei
Greci. Alla loro scuola s'inebriò, come i suoi condiscepoli,
d'entusiasmo per l'antichità pagana. Intanto che Poliziano si dedica
alla letteratura antica e Ficino alla filosofia, Machiavelli si sente
inclinato alla storia e alla politica. Queste tre anime, circoscritte
ciascuna nel suo cerchio non ne usciranno più, e per un fenomeno
fino allora senz'esempio in Europa, queste anime, vittime della loro
educazione, saranno sino alla fine vuote di cristianesimo e briache
di paganesimo.
Come
tutti gli uomini celebri dell'antica Roma che, a detto di Plinio il
giovane, esordirono cantando la voluttà, Machiavelli fa il suo
ingresso nella nuova repubblica delle lettere con due commedie
talmente oscene che il pudore c'impedisce di analizzarle. I nomi
della Mandragora e della Clizia siano uno spavento che
faccia stornare il capo di chi gli ode pronunziare. A queste
composizioni succedono l'Asino d'oro, imitazione di Luciano e
di Apuleio, il Belfagor, ed alcuni poemetti non meno
licenziosi.
Il
paganesimo non è solamente voluttà: è soprattutto orgoglio; e
Machiavelli è repubblicano democratico. Come tutti i rivoluzionari
del 1789, educati dagli stessi maestri, a Machiavelli sembra assurdo,
dispotico, intollerabile il governo del proprio paese.
Entra
nella cospirazione di Soderini contro la casa de' Medici.
È
arrestato e messo alla tortura; ma non fa veruna rivelazione. I
Medici gli perdonano, lo proteggono e coi loro benefizi l'inducono a
scrivere la storia di Firenze. Si mette all’opera. «Ma, dice egli
stesso, scrivendo per Firenze, teneva gli occhi in Tito Livio.
«Gl'illustri tirannicidi dell'antichità gli sturbano il sonno:
partecipa in un'altra cospirazione, il cui scopo era di assassinare
il cardinale Giulio de' Medici che fu poi innalzato al sommo
pontificato sotto il nome di Clemente VII. Arrestato di nuovo, non
gli si poté opporre che le lodi continue ch'ei faceva di Bruto e
di Cassio. Se ciò non bastava per dannarlo a morte bastava e più
del bisogno per privarlo delle sue pensioni. Questa nuova disgrazia
lo precipitò nella miseria, cui sopportò per alcuni anni, e morì
nel 1527 per un medicamento preso fuor di tempo.
Se
vuolsi aver fede in Spizelio, la sua morte fu quella d'un eroe
pagano, e, se vuolsi, d'un libero pensatore quali ne ha prodotto il
Risorgimento. Quale è l’educazione, tale è la vita; e quale è la
vita, tale è la morte. L'ammirazione pei grandi uomini
dell'antichità, attinta alle lezioni dei suoi primi maestri,
Machiavelli la sente sino all'ultima sua ora. Agitato dal rimorso,
esclama: «Preferisco di discendere all'inferno con quegl'illustri
uomini (Platone, Aristotile, Alessandro ed altri dell'antichità) che
di stare in cielo con questi uomini infimi e di abbietta condizione
(501).
Checché
sia della testimonianza di Spizelio, domandiamo che s'ha da pensare
di una scuola, i cui maestri ed i più celebri discepoli lasciano per
la maggior parte dubitare se hanno conservato la fede? Ma quello che
è fuor di dubbio è il paganesimo assoluto delle dottrine politiche
di Machiavelli. Esse sono contenute principalmente nei suoi Discorsi
sulle deche di Tito Livio, nel suo Trattato della repubblica
e nel suo libro del Principe. Proviamo anzi tutto che
Machiavelli è proprio, secondo l'espressione di Matter, il padre
della politica moderna, cioè del Cesarismo.
È
inutile il rammentare che intendiamo con questo l'apoteosi sociale
dell'uomo: l'assorbimento della potestà spirituale e temporale a
profitto dell'uomo, popolo, imperatore o re: che fonda l'ordine
sociale non sulla volontà di Dio, ma sulla volontà sovrana
dell'uomo: che lo dirige non all'adempimento dei comandamenti di Dio,
ma al soddisfacimento dei voleri arbitrari dell'uomo; non alla
beatitudine eternale dell'umanità, ma alla sua temporale prosperità.
Gli
elementi del Cesarismo erano, come abbiamo veduto, sparsi qua e colà
nell’Europa del medio evo; ma non trionfarono mai dell'elemento
cristiano. Machiavelli li riunisce, li condensa, li formula, ne fa un
corpo di dottrina, e secondo l'espressione di Federico di Prussia, il
suo libro diventa il Breviario
dei re.
«L'opera
di Machiavelli, dice Matter, segna un'era novella, un'era di
completa sovversione; non solamente un’èra di scissura fra la
religione e la politica, ma un'era di sovversione fondamentale dei
loro antichi rapporti. In fatti non solo Machiavelli fa
astrazione da tutti i principii di diritto divino e di legittimità
religiosa; non solo la politica, in lui, riducesi ai fatti ed ai
mezzi puramente umani; ma colloca persino la religione stessa nel
novero dei suoi mezzi; e di tal guisa il suo sistema è ad un
tempo la sostituzione del materialismo allo spiritualismo, la
subordinazione della religione alla politica (502)».
Sopra
questi rinnovati principii dell'antico Cesarismo vedremo che la
maggior parte dei governi monarchici o repubblicani, legittimi
o rivoluzionari, dopo il Risorgimento, hanno fondato la loro
politica.
Machiavelli
era morto, e già un autore protestante scriveva: «Al tempo del
defunto re Arrigo II e prima eravamo governati alla francese, cioè
secondo le tracce e gl'insegnamenti degli antichi: ma dopo siamo
stati governati all'italiana e alla fiorentina, cioè secondo
gl'insegnamenti del fiorentino Machiavelli. Talmente che da quel
tempo in poi, il nome di Machiavelli è stato ed è celebre e stimato
come il più saggio personaggio del mondo, e meglio ascoltato
in affari di stato; ed i suoi libri tenuti cari e preziosi dai
cortigiani italiani e italianati, come se fossero i libri di sibille
a cui, i pagani ricorrevano quando volevano deliberare di qualche
gran negozio concernente la cosa pubblica, o come i Turchi tengono
caro e prezioso il Corano del loro Maometto (503)».
Nella
sua opera Principum monitrix Musa, Enrico Stefano non si
solleva con minor energia contro Machiavelli e le sue dottrine: «Ti
amo, dice egli, o Firenze, perché mi richiami rimembranze di
gioventù!... Ma debbo confessartelo; più cara mi saresti se tu non
avessi dato il giorno all'empio Machiavelli... Perché non è egli
stato arso coi suoi libri?... Oh Francia, oh mia patria! ora saresti
felice ... se non avessi respirato quel veleno, e se esso non avesse
infettato lo spirito dei tuoi figli... Io so la cagione del male, ho
potuto conoscerla, durante il lungo soggiorno che ho fatto alla
corte, e voglio svelarla a tutti. «Sappiate adunque che i libri
pestiferi di Machiavelli hanno aperto allo spirito francese una
scuola d'immoralità (504)».
Nel
1792, un figlio della Rivoluzione, facendo la genealogia politica
della propria madre, dichiara che essa discende dagli antichi
mediante Machiavelli, Montesquieu, Rousseau. «Machiavelli, dice
egli, fu il modello di tutte le virtù … La politica
moderna debba tanto ai suoi studi degli antichi quanto a quelli
di Folard. Nell'autore dello Spirito delle leggi, ed in quello
del Contratto sociale si trovano continuamente
osservazioni tolte da lui. Lo scopo del Principe
è di mettere gli oppressi in guardia contro gli oppressori. La prova
che i suoi contemporanei ne giudicarono in tal modo si è che
parve prezioso a Soderini ed ai repubblicani di Firenze ...
Machiavelli era cristiano; ma cristiano come tutte le persone
sensate di quel tempo (505); cioè partecipava alle opinioni di
quella setta che dovunque, eccettuata la Francia, si è estesa
esattamente ed in proporzione del progresso della filosofia e
delle arti (506), di quella setta a cui Lelio Socino diede ben
presto il suo nome in Italia. Perciò, gl'inquisitori, nel loro
indice dei libri proibiti, non mancano di caratterizzare l'uomo che
fu tanto nemico della superstizione come della tirannide, con
questa frase: Nicolò Machiavelli, Fiorentino, ateo, sebbene
sembri aver voluto parer cristiano (507). Questo rimprovero
passerà; ed il nome del saggio, del virtuoso Machiavelli, sarà
scritto nei fasti dei difensori della ragione e della libertà»
(508).
Parlando
di Machiavelli, gli altri rivoluzionari dicono: Il maestro di
tutti noi» (509); e Camillo Desmoulins l'invoca con Bruto, come
l’ultima ragione della verità. «Forte degli esempi della storia,
dice egli, e delle autorità di Trasibulo, di Bruto e di Machiavelli
..., ho espresso in iscritto i miei sentimenti sul miglior modo di
far le rivoluzioni ... Se sono stato un visionario, lo sono stato
non solamente con Tacito e con Machiavelli, ma con Loustalot e con,
Marat, con Trasibulo e con Bruto (510).
La
Rivoluzione, la quale meglio di qualunque altro conosce i propri avi,
non lascia sfuggire, nessun'occasione di propagare le opere di
Machiavelli. Essa incoraggia coloro che le traducono, ed i dottrinari
del 1792 non mancano d'encomiare il maestro ed i suoi scritti.
«Machiavelli, il cui nome non dovrebbe per fermo essere un'ingiuria,
Machiavelli, che vale assai più della sua fama, ha scritto
discorsi sulla prima deca di Tito Livio (511)». Temendo che non
s'impieghino tempo e cure a sufficienza nello studio degli eccellenti
autori pagani, che sono, stati i maestri di Machiavelli, e questi fu
poi maestro di Bucammo, d'Obbes, di Gravina, di Montesquieu, di
Febronio, di Rousseau, della Rivoluzione, i redattori della
Decade filosofica non omettono di così discorrere: «Speriamo
che non si trascurerà nella nostra educazione la lingua di tanti
grandi uomini, dei Ciceroni, dei Bruti, ecc., fatti per inspirare
l'amore della patria, della libertà e di tutte le virtù (512).
Alle
testimonianze si aggiungono i fatti rivelatori dell'influenza di
Machiavelli. Il primo è il gran numero delle edizioni di
quest'autore dal Risorgimento sino ai nostri giorni. Si può
affermare che nessun'opera grave uscita dalla penna d'un risorgente è
stata più frequentemente ristampata della scienza politica di
Machiavelli. Sebbene assai incompleta, la seguente specificazione
delle edizioni che ne sono state fatte nei diversi paesi dell'Europa
prova la voga di cui ha goduto il pubblicista fiorentino, e per
conseguenza, l'influenza sociale che esercita da quattro secoli.
Le
prime traduzioni di Machiavelli furono edite in Francia col favore di
alti personaggi e con le approvazioni officiali di molti poeti di
quel tempo. Le sue opere venivano proposte come emporii di
sapienza (513). Furono stampate a Firenze, non saprei ben dire
quante volte: poi a Venezia nel 1540 e 1546; a Roma, nel 1550; a
Parigi, nel 1633; a Liegi, nel 1648; ad Amsterdam ed a Parigi nel
1686; a Parigi, nel 1694; a Londra, nel 1747; a Parigi, nel 1768; a
Firenze nel 1796 e 1799; a Parigi, nel 1799, 1804, 1810, 1811; a
Firenze, nel 1810; a Parigi, nel 1823; ecc. Un secondo fatto sono le
molte confutazioni che si è creduto dover fare delle sue dottrine.
Ora, non si confuta ciò che è morto; non si oppongono argini ad un
torrente inaridito. Nel secolo XVI, Machiavelli venne rigorosamente
confutato da Gentilet e da Enrico Stefano, le cui opere abbiamo giù
citate. Queste confutazioni non arrestarono il progresso delle
dottrine machiavelliche. Anzi veggonsi svolte col tempo, e, divenendo
vie maggiormente pratiche, s'incarnano nella politica europea.
Dugento anni dopo la sua morte, Machiavelli era più vivo che mai. E
ciò a tal punto che un re, poco scrupoloso del resto in fatto di
politica, credette di dovere, in nome dell'umanità, altamente
infamare il moderno patriarca del Cesarismo e le sue dottrine
sovvertitrici d'ogni morale e d'ogni libertà.
«Il
Principe di Machiavelli, dice Federico di Prussia, è in fatto di
morale ciò che è l'opera di Spinosa in materia di fede. Spinosa
scalzava i fondamenti della fede, e non mirava che ad abbattere
l'edificio della religione: Machiavelli corruppe la politica,
e tolse a distruggere i principii della sana morale ... È avvenuto
che i teologi hanno strepitato e gridato contro Spinosa, che ne hanno
formalmente confutato il libro ed hanno difeso la divinità contro i
suoi assalimenti. Mentre che Machiavelli non è stato sferzato che da
alcuni moralisti: ed è sostenuto non ostante essi e non
ostante la perniciosa sua morale, sulla cattedra della politica
sino ai nostri giorni.
«Oso
pigliar le difese dell'umanità contro questo mostro che vuol
distruggerla; oso opporre la ragione al sofisma ed al delitto .... Ho
sempre riguardato il Principe di Machiavelli come una delle
opere più pericolose che si siano mai sparse per il mondo (514):
«Così,
soggiunge Federico terminando la sua confutazione, si può vedere
smascherato questo politico, cui il suo secolo ci diede per un
grand'uomo, che molti ministri hanno riconosciuto
pericoloso, ma cui hanno seguito, le cui massime abominevoli, si sono
fatte studiare ai principi, cui molti politici seguono senza volerne
essere accusati (515)».
Per
apprezzare i rimproveri che Federico fa a Machiavelli, per verificare
l'asserzione di Matter il quale attribuisce all’illustre figlio del
Risorgimento la paternità del Cesarismo moderno, due cose rimangono
a farsi: la prima è di esporre la dottrina politica di Machiavelli;
la seconda di confrontare cotal dottrina con la politica europea
degli ultimi quattro secoli. La qual cosa eseguiremo ne' capitoli
seguenti.
FINE
DEL VOLUME QUARTO
________________
Note
(1)
Deputato di Saint-Jean d'Angely.
(2)
Monit., 9 maggio 1791.
(3)
Monit., 9 maggio 1791.
(4)
Monit., 30 maggio 1791.
(5)
Monit., 30 maggio 1791.
(6)
Pallow ne aveva fatto ottantatrè simili, mandati a ciascun
dipartimento.
(7)
Giornate memorabili della rivoluzione, t. I, p. 287-294, e
Monit., 13 luglio 1791.
(8)
Monit., 13 luglio 1791.
(9)
Non gli era che concubina.
(10)
Monit., 25 dicembre 1790.
(11)
Id., ibid.
(12)
Id., 30 agosto 1791
(13)
Id., ibid.
(14)
Id., ibid.
(15)
Id., ibid.
(16)
Id., 22 settembre 1791. (17) Monit.,
7 ottobre. Veggasi anche Monit. 16 aprile 1794, in cui Rousseau è
chiamato il
più grande dei moralisti.
(18)
Monit. 24 vendemmiale anno III.
(19)
Monit. 24 vendemmiale anno III.
(20)
Monit. 20 e 24 vendemmiale anno III.
(21)
Monit. 26 vendemmiale anno III.
(22)
Monit. 27 novembre 1789.
(23)
Monit. 31 maggio 1791.
(24)
10 fiorile anno III.
(25)
Monit., 24 pratile anno III. Discorsi di Arnoux e di Dussaulx.
(26)
Monit., ibid.
(27)
Monit., Discorso di Chabroud, 30 marzo 1791.
(28)
Prud'homme. Rivoluzioni di Parigi, n. 107-116, p. 269.
(29)
Discorso di Baudin (delle Ardenne), presidente della società degli
Anziani per l'anniversario del 14 luglio. - Monit., 26
messidoro, anno VII.
(30)
Discorso sulla proclamazione dell'Ente Supremo.
(31)
Discorso al circolo costituente 9 messidoro, anno VI.
(32)
Debats, 25-4-1792
(33)
Confessioni, ecc.
(34)
Memoriale di Sant'Elena, ecc.
(35)
Voltaire dipinto da sé stesso, 1775, lettera II, pag. 4, lettera IV,
pag. 9.
(36)
Vita di Voltaire, del marchese di Luchet, sei volumi in-8,
1781. t. I, pp. 6-7.
(37)
Memorie per servire alla storia di Voltaire, di
Servières (o Chaudon). - Vita di Voltaire di Condorcet,
p. 118
(38)
Veggasi questo componimento in Luchet, t. 1, p. 26.
(39)
ld. P. 22.
(40)
Memorie di Servières p. 2.
(41)
ld. ibid.
(42)
Memorie di Servières p. 4.
(43)
Vita di Voltaire, p. 245 (44) ld. pag. 246.
(45)
Elogio di Voltaire, p. 74.
(46)
Pastorale di monsignor Lefranc di Pompignano in occasione d'una
edizione completa di Voltaire, 1781. (47) P. 7 e 13, edizione
Beuchot.
(47)
P. 7 e 13, edizione Beuchot.
(48)
Id., p. 13.
(49)
Filosofia della storia, p. 16
(50)
Id., p. 28.
(51)
Filosofia della storia, p. 35
(52)
Id. p. 78-79.
(53)
Un grande e stolto orgoglio.
(54)
Filosofia della storia, p. 85
(55)
Saggio sui costumi, t. I, p. 113.
(56)
Id., p. 119-129
(57)
Id., p. 229
(58)
Id., p. 230
(59)
Id., p. 237
(60)
Id., p. 241
(61)
Id., p. 366
(62)
Id., p. 350
(63)
Id., p. 377
(64)
Id., p. 384
(65)
Id., t. II, p. 260
(66)
Id., p. 422
(67)
Id., p. 428
(68)
Id., p. 428
(69)
Id., p. 428
(70)
Il che prova che nel medioevo non si studiavano molto.
(71)
Saggio sui costumi, t. I, p. 431; t. II, p. 10-11 .
(72)
Saggio sui costumi, t. II, p. 185, 187, 189.
(73)
Saggio sui costumi, t. II, p. 225: Non si studiava dunque né
Demostene, né Luciano, né Sofocle, né Esopo.
(74) Ironia.
(75)
Una religione plausibile, plausibilissima; composta unicamente da
uomini fuorviati. Questa contraddizione non è che apparente.
Voltaire insinua che il libero pensare di Platone è la vera
religione dei saggi.
(76)
Tom. II, p. 301.
(77)
Saggio sui costumi, t. II, p. 302.
(78)
Id., p. 303.
(79)
Vita di Voltaire, p. 216
(80)
Saggio sui costumi, t. I, p. 233.
(81)
Anche la Giudea.
(82)
Secolo di Luigi XIV, t. I, p. 237-241
(83)
Secolo di Luigi XIV, t. I, p. 254-302
(84)
Secolo di Luigi XIV, t. I, p. 303
(85)
Secolo di Luigi XIV, t. II, p. 162
(86)
Eccoci al fatalismo.
(87)
Secolo di Luigi XIV, t. II, p. 162
(88)
Secolo di Luigi XIV, t. II, p. 174.
(89)
Secolo di Luigi XIV, t. II, p. 175
(90)
Secolo di Luigi XIV, t. II, p. 308
(91)
Secolo di Luigi XIV, t. II, p. 365
(92)
Secolo di Luigi XIV, t. II, p. 340
(93)
Secolo di Luigi XIV, t. II, p. 340
(94)
Vita di Voltaire, t.. II, p. 216
(95)
Veggasi l'opera del signor Nicolardot sopra Voltaire, verso il fine.
(96)
Memorie per servire alla vita di Voltaire, scritte da lui
stesso, p. 43.
(97)
Memorie ecc, p. 5
(98)
Dialogo del dubbioso e dell’adoratore, t. XLI, p. 401,
edizione Beuchott
(99)
Elogio di Voltaire, p. 80-81
(100)
Memoria di Colini, Vita di Voltaire; di Condorcet, p. 372.
(101)
Vita di Voltaire, p. 319.
(102)
Elogio di Voltaire, p. 43.
(103)
Vita di Voltaire, p. 142
(104)
Prefazione alla tragedia di Bruto.
(105)
Idem.
(106)
Questa tragedia fu composta pel collegio d’Harcourt a Parigi.
(107)
Prefazione al Bruto, edizione Palissot.
(108)
Vita di Voltaire, p. 145
(109)
Memorie ecc, p. 197
(110)
Memorie ecc, p. 198
(111)
Prefazione del Maometto, p. 1, edizione del 1792
(112)
… Riguardatemi come un figlio il quale dopo parecchi anni viene a
presentare al proprio padre il frutto delle sue fatiche in un'arte
che un tempo imparò da lui»: - Lettera di Voltaire al P. Pòrée,
1729, mandandogli l'Enrichiade.
(113)
Prefazione alla Merope
(114)
Un suicidio solenne.
(115)
Memorie di Servières, p. 218.
(116)
In grazia del Risorgimento e degli studi di collegio: sta bene il
notarlo.
(117)
Pag. 3.
(118)
O Voltaire inganna appositamente, o parla secondo quello che ha udito
in collegio. Nella nostra Prefazione alle Lettere di S. Bernardo,
abbiamo mostrato con la storia alla mano, e mostreremo ancora negli
ultimi volumi di quest'opera, che cosa realmente fosse la
rispettabile persona di Cicerone.
(119)
Quale onta, qual disgrazia!
(120)
Prefazione, id.
(121)
Dedicatoria dell'Oreste.
(122)
Elogio di Voltaire; di la Harpe, e Vita di Voltaire, di
Lucchet, tom. II, p. 238.
(123)
Feller dice: “Le prime letture di Rousseau furono romanzi: lesse
poscia alcuni buoni libri, quali, sono le Vite di Plutarco!”
(124)
Confessioni, lib. IV, cap. II.
(125)
Lettere, ecc.
(126)
Del governo della Polonia, Cap. II.
(127)
Del governo della Polonia, Cap. II.
(128)
Veggasi principalmente la seconda Parte del Discorso
sull’origine e sui fondamenti dell'ineguaglianza fra gli uomini.
(129)
Contratto sociale, lib. I, cap. VI e VII.
(130)
Id. cap. VIII
(131)
Contratto sociale, lib. I; cap. IX.
(132)
L’agguagliamento assoluto, l'eguaglianza davanti alla miseria.
(133)
Contratto sociale, lib. I, cap. IX
(134)
Discorso sull’eguaglianza, ecc. parte II.
(135)
Discorso sull’economia politica, p. 8.
(136)
Id. lib II, cap. 3
(137)
Repubblica francese una e indivisibile. La formula è uscita
bell’e composta dai libri di Rousseau, che l'aveva copiata in
Licurgo.
(138)
Discorso sull’economia politica, lib II, cap. 6.
(139)
Discorso sull’economia politica, lib. III, c. V e XV.
(140)
Contratto sociale, cap. 1.
(141)
Questo non è soltanto principio di Licurgo; ma è massima anche di
Aristotele.
(142)
Discorso sull’economia politica, p. 31.
(143)
Bello veramente questo presso a poco!
(144)
Discorso sull’economia politica, lib. IV, c. 8.
(145)
Discorso sull’economia politica, lib. IV, c. 8.
(146)
Discorso sull’economia politica, lib. IV, c. 26.
(147)
Discorso sull’economia politica, lib. IV, c. 26.
(148)
Discorso sull’economia politica, lib. IV, c. 26.
(149)
Contratto sociale, lib. III, c. 11.
(150)
Monit., 11 maggio 1793.
(151)
Monit., 27 aprile 1793.
(152)
Contratto sociale, lib. III, c. 15.
(153)
Contratto sociale, lib. III, c. 15.
(154)
Del governo della Polonia, Cap. 12.
(155)
E gli apostoli, e i martiri; e i missionari, e le suore di carità,
e i santi di tutti i tempi?
(156)
Discorso sull’economia politica, p. 31, ed. in-8.
(157)
Contratto sociale, lib. III, c. 9.
(158)
Elogio di Montesquieu, in capo delle sue opere.
(159)
Idem
(160)
Idem
(161)
Idem
(162)
Gli scrittori cattolici ci hanno lasciato più consolanti
particolarità sugli ultimi momenti di Montesquieu. Ei riconobbe i
propri errori e morì riconciliato con la Chiesa.
(163)
Spirito delle leggi, lib. I, cap. II.
(164)
Spirito delle leggi, lib. VIII, cap. III.
(165)
Spirito delle leggi, lib. II, cap. II. Osservate Montesquieu,
diceva Napoleone, ei trafigge con mille dardi lo spirito cristiano;
lacera quanto può la veste della Chiesa: ammira da platonico quelle
repubbliche greche, più inapplicabili ai nostri giorni che non il
governo della tribù di Giuda, e pretende di essere monarchico: pone
per principio l'onore per movente principale della monarchia, e vanta
sino la corruzione del governo britannico». Memorie del signor di
Narbona.
(166)
Montesquieu non ha veduto quello che dice, ma lo ha letto soltanto
nei suoi libri di scuola: ma noi abbiamo veduto.
(167)
Spirito delle leggi, lib. II, cap. II.
(168)
Spirito delle leggi, lib. II, cap. II.
(169)
Spirito delle leggi, lib. VII, cap. II.
(170)
Spirito delle leggi, lib. VII, cap. II.
(171)
Veggasi la Decade filosofica, citata nel primo volume.
(172)
Spirito delle leggi, lib. VIII, cap. II.
(173)
Menier, G. G. Rousseau autore della rivoluzione, t. I, p. 59.
(174)
Grandezza
e decadenza dei Romani
(175)
Grandezza e decadenza dei Romani, lib. VII, cap. XV.
Montesquieu
ha dimenticato Plutarco Sui costumi delle donne di Sparta, e
Bodino, Sulle donne adultere, nei bei giorni della repubblica
romana.
(176)
Grandezza e decadenza dei Romani, lib. VII, cap. XVI.
(177)
Grandezza e decadenza dei Romani, lib. XXIII, cap. XXII.
(178)
Grandezza e decadenza dei Romani, lib. XXIII, cap. XXII.
(179)
Grandezza e decadenza dei Romani, lib. VI, cap. XV.
(180)
Quale virtù!
(181)
Grandezza e decadenza dei Romani, lib. VI, cap. IV.
(182)
Grandezza e decadenza dei Romani, lib. IV, cap. XIV.
(183)
Grandezza e decadenza dei Romani, lib.
IV,
cap. XIII.
(184)
Hist.,
lib. II
(185)
Opere morali di coloro che trattano la parola.
(186)
Frammento del lib. XXXIV.
(187)
Coloro che non hanno turbato la tranquillità esterna dello Stato.
(188)
Spirito delle leggi, lib. VIII, cap. XIII.
(189)
Spirito delle leggi, lib. XVIII, cap. XXXI.
(190)
Spirito delle leggi, lib. XIV, cap. VII.
(191)
E la miseria la più generale e la più profonda che sia sotto il
cielo d’Europa.
(192)
Spirito delle leggi, lib. XXIII, cap. XXIX.
(193)
Spirito delle leggi, lib. XXIV, cap. II.
(194)
Spirito delle leggi, lib. XIV, cap. XIII.
(195)
Mercier, G. G. Rousseau principale attore della rivoluzione,
vol. 2 in-8, 1791, t. I, p. 1.
(196)
Mercurio nazionale, n. XII, p. 56.
(197)
Elogio
storico dell’abate di Mably,
di Levesque; in-8, 1789, e id.
dell’abate Brizard, id. Biografia,
ecc.
(198)
Brizard, p. 8.
(199)
Levesque, p. 5 e 6; Brizard, p. 98
(200)
Levesque, p. 7
(201)
Brizard, p. 88.
(202)
Levesque, p. 8
(203)
Levesque, p. 19
(204)
Id. p. 30 e 32.
(205)
Elogio storico, p. 4 e 5.
(206)
Quali? Qual principio sociale hanno rivelato?
(207)
Trattenimento di Focione, osservazioni, p. 112; ed. in-12,
1790.
(208)
Id. p. 123
(209)
Id. p. 84 e 86
(210)
Elogio storico, ecc. p. 18 e 22
(211)
Lettere di Mably all’abate di R .. in fronte delle Osservazioni
sui Greci.
(212)
P. 1 e 2
(213)
Lettera di Mably all’abate di R . ecc. p. 12
(214)
Id. ecc. p. 30 e 32
(215)
Lettera di Mably all’abate di R . ecc. p. 58
(216)
Id. p. 337
(216a)
Id. p. 339
(216b)
Osservazioni sui Romani, p. 13, ed. in-12, 1790.
(216c)
Id. Ibid.
(217)
Si conosce in quest'opera con quanta cura l’abate Mably avesse
studiato la storia di Roma: e, ciò che è più glorioso alla sua
memoria, si vede ch'ei saria stato degno d'essere cittadino di
Roma nei bei giorni della repubblica - Elogio storico ecc.
Levesque, p. 44.
(218)
Levesque, p. 85.
(219)
Principi di morale, p. 126; edizione in-12, 1790.
(220)
Id. p. 128
(221)
Id. p. 129
(222)
Id., p. 136
(223)
Id., p. 138
(224)
Id., p. 59 e 142
(225)
Id., p. 179.
(226)
Questo qualche cosa non è nient'altro che l'adulterio e
l'adulterio pubblico.
(227)
Principi di morale, p. 296. - I Principi di morale
furono censurati dalla Sorbona, e soppressi per ordine del governo.
(228)
Id. Diritti e doveri dei cittadini, p. 64.
(229)
Id. p. 51
(230)
Elogio storico, ecc., p. 98.
(231)
Elogio storico, ecc., p. 72
(232)
Biografia di Condorcet, p. VIII, Edizione in-8, 1847.
(233)
Biografia di Condorcet, p. X.
(234)
Biografia, ecc., p. XXXIII
(235)
Id., p. 221
(236)
Id., p. 228
(237)
Id., p. 228
(238)
Id., p. 133
(239)
Id., p. 446.
(240)
L’abate Bergier, nativo di Darnay, nei Vosgi, autore di alcune
opere di teologia e di critica, oggi affatto dimenticate e degne
di esserlo. Morì confessore delle principesse - Nota di Arago.
(241)
Epistolario, p. 5, nella Biografia d'Arago.
(242)
Id., p. 31.
(243)
Id., p. 234.
(244)
Id., p. 242 e 255.
(245)
Id., p. 252.
(246)
Id., p. 510.
(247)
Monit., ibid.
(248)
Biografia di Condorcet, p. 608, 625.
(249)
Memorie di d'Alembert, scritte da lui stesso, in fronte delle
sue opere, t. I, p. XXVIII, edizione in-8, 1805.
(250)
Memorie di d'Alembert,
scritte da lui stesso: Frammenti della filosofia del secolo XVIII, di
La Harpe, t. XV del Corso
di letteratura.
(251)
Verso il fine.
(252)
Questo è Tacito schietto.
(253)
Id. Opere di d'Alembert, t. I, p. 36 e 37.
(254)
Citato dalla Biografia, articolo d'Alembert.
(255)
Opere, t. XVIII, p. 309.
(256)
Id., t. I, p. 11.
(257)
Id.; ibid. p. 185 e 186
(258)
Id.; ibid. p. 193.
(259)
Id.; ibid. p. 201.
(260)
Id.; ibid. p. 217.
(261)
Id.; ibid. p. 219
(262)
Id.; ibid. p. 221
(263)
«L’eloquenza, dice altrove, figlia del genio e della libertà, è
nata nelle repubbliche. Riflessioni sull’educazione oratoria,
t. I, p. 145. - E l'eloquenza dei profeti e dei Padri della Chiesa
non conta nulla!
(264)
Discorso preliminare dell'enciclopedia, opere, t. I, p. 248,
250, 257.
(265)
E l’ispirazione?
(266)
Discorso ecc. p. 257.
(267)
Discorso ecc. p. 259.
(268)
Della credulità
(269)
Sotto questo bel pretesto vi è ancora chi si ostina a sostenere ai
nostri giorni, che lo studio assiduo degli autori pagani non presenta
nessun pericolo. Ma si pone in dimenticanza che i letterati di
collegio hanno fatto risorgere, per quanto hanno potuto, il culto
delle divinità pagane: si pone in dimenticanza che negli autori
pagani si attinge il razionalismo in filosofia, il naturalismo in
religione, il repubblicanesimo in politica, il comunismo nell’umana
società, l'orgoglio del regicidio, ed una moltitudine d'idee e di
sentimenti che dopo il Risorgimento, hanno reso e rendono ancora in
generale, le generazioni di collegio cristianamente e socialmente
ingovernabili.
(270)
Qui d’Alembert avrebbe dovuto dire: e con ragione.
(271)
Discorso ecc., t. I, p. 259-261.
(272)
Discorso ecc., t. I, p. 259-261.
(273)
Se ne veda la vita tradotta dall'inglese da Bertin, 1788.
(274)
Discorso ecc., t. I, p. 268-271.
(275)
Discorso ecc., t. I, p. 285.
(276)
Discorso ecc., t. I, p. 45-50.
(277)
Discorso ecc., t. I, p. 78.
(278)
Discorso ecc., t. I, p. 78, 80, 81.
(279)
Discorso ecc., t. I, p. 92.
(280)
Id., p. 74. - Ei fa un calcolo, esprimendone così la conclusione:
Ogni cittadino, ricco di più di trecento lire, deve a tutto rigore
ai suoi compatrioti il quinto del superfluo.
(281)
Id., p. 77-141.
(282)
«Ho conosciuto molto d'Alembert, scrive La Harpe; per affermare che
era scettico in tutto fuorché nelle matematiche: non avrebbe
sentenziato che non vi aveva religione più di quello che vi ha un
Dio: soltanto gli pareva più probabile il teismo e meno la
rivelazione» - Opere di d’Alembert, t. I, p. LXXVI,
Edizione in-8.
(283)
Lettera a Federico, 22 dicembre 1783, nella Biografia di
Condorcet, di Arago, p. 500.
(284)
Cielo e terra di Giovanni Raynaud, prima edizione. - Veggasi
l’eccellente libro di Martin, decano della Facoltà delle lettere
di Rennes: Della vita futura, 1855, pag. 207.
(285)
Primi saggi di filosofia, di V. Cousin, p. 207.
(286)
Giornale dei Dibattimenti, 8 marzo 1855. Corso del signor
Garnier.
(287)
Primi saggi, p. 265.
(288)
22 dicembre 1836.
(289)
Esame del Principe, di Machiavelli.
(290)
Saggio sopra Elvezio, in fronte delle sue Opere, t. I,
p. XI, ediz. In-8, Londra 1781.
(291)
Id., p. X.
(292)
Saggio sopra Elvezio, t. I, p. XIV, XVIII,
(293)
Lettera di Condorcet a Turgot. Notizia di Arago, p. 219.
(294)
Dell’uomo, ecc., sezione prima, cap. III, p. 6-9, edizione
in-8, Londra, 1783.
(295)
Id., ibid. cap. IX, p. 35-37.
(296)
Id., ibid. cap. XIV, p. 51-75.
(297)
Id., ibid. cap. XIV, p. 53, e sez. VII, cap. II, p. 123-125.
(298)
Id., ibid., cap. V,
p. 136-137.
(299)
Dell’uomo, ecc., sezione prima, cap. XIII, p. 39-40.
(300)
) Id., p. 50-55.
(301)
Dell’uomo, ecc., sezione prima, cap. XV, p. 60 e seg.
(302)
Id., p. 61.
(303)
Id., p. 61.
(304)
Id., cap. XV, p. 60 e seg.
(305)
Id., ibid.
(306)
Id., ibid.
(307)
Id., ibid.
(308)
Id., cap. XII,
XIV, p. 45,52,55,71,75, ecc.
(309)
Ne siano prova le persecuzioni da Nerone a Diocleziano.
(310)
Dell'uomo, sezione prima, cap. XV, p. 57, e 59
(311)
Id., ibid., cap, XVII. p. 165.
(312)
Id., sezione seconda, cap. XVIII, p. 167.
(313)
Id., sezione terza, cap. XIII, p. 287.
(314)
Id., sezione decima, cap. IV, p. 349.
(315)
Id., sezione settima, cap. I. p. 119 e 125.
(316)
Id., sezione settima alla decima.
(317)
Sistema della natura, t. 1, parte prima, cap. I, pag. 1,
edizione in-8
(318)
Id., p. 2,5,24,25
(319)
Sistema della natura, t. I, parte prima, cap. II, p. 27, e cap.
I, p. 5. – De legibus I.
(320)
Id., p. 31.
321
Astron., lib. 1
322
V. 165
323
Sistema della natura, t. I, parte prima, cap. IV e V, p.
54-66.
324
Id., ibid., p. 55.
325
Id., ibid., p. 68
326
Id., ibid., p. 75 e 149.
327
Id., ibid., p. 280.
328
Arian.
In Epitt., lib. III,
cap. 13.
329
Riflessioni morali di M. A. Antonino, lib. IV, § 14 o lib. VIII, §
58. – D’Olbach, Sistema della natura, t. I, parte prima,
cap. IV e V, p. 287.
330
Sistema ecc., p. 295.
331
Id., ibid., p. 298.
332
Id., ibid., p. 303.
333
Id., ibid., p. 306.
334
Epist. XII.
335
Sistema della natura, t. II, p. 411.
336
Veggasi Diogene Laerzio, Vit. Phil.; Platone, in Phoed.,
Ateneo, Sap. Conviv.; Cicerone, De natura Deorum;
Bayle, Dizion. art., Talete ecc.
337
Telliamed, dial. VI.
338
Cicerone, Quaest. accad. Plutarco De Plac. phil.
Lact., lib., II Iliad., lib. XIV, v. 201, ecc.
339
Cicerone, De nat. deorum, lib. I, n. 47; Virgilio, Georg.
Ed Eneide, lib. VI; Diz. Enciclop. art. Stoico,
ecc.
340
Cicerone, De nat. deorum, lib. I; Dottrina degli antichi
filosofi, art. 12; Bayle, art; Bione e Diagora,ecc.
341
Id., ibid. De nat. deorum, lib. II
342
Id., ibid. Bayle, art. Senofane.
343
Id.,
De
nat. deorum,
lib. I,
n. 71 e 72.
344
Id., ibid. n.34.
345
Id., ibid. n.34. Bayle, art. Averroè
346
Id., ibid. n.36. Platone, Placit. philos., lib. IV.
347
Esposizione della dottrina degli antichi, ecc.
348
Diog. Laer., Vit. philosoph.
349
Cicerone, De. Finibus, lib. I, n. 75.
350
Diog. Laer., lib., VIII
351
Id., lib. II,
Bayle art. Pirrone:
Esposizione della dottrina degli antichi.
352
Cicerone, De Offic., lib. III, n. 14,45,98, ecc.
353
Cicerone; Tuscul. lib. I, De Offic., lib. III e passim.
Plinio, Stor. Nat., lib. II e cap. 7. Seneca. Epist.,
103. Platone, nel Timeo; Dottrina degli antichi filosofi
art. 29.
354
Bayle; art. Fiag,
ibid., art. Ipparchia.
355
Cristianesimo svelato; Dello spirito, discorso, p. 2, cap.
17.
356
Dell’uomo, t. II; Sistema della natura, ibid.;
Sistema sociale, ecc.
357
Id., § 7, cap. III
358
Id., ibid., pag: 266; Principi della filosofia naturale, cap.
XVII
359
Dello spirito, discorso III, cap. XV, id., discorso II e III,
cap. XV
360
Elvezio, Dell’uomo e della sua educazione, § I, nota 22.
361
Codice della natura, parte terza.
362
Biblioteca filosofica del legislatore, t. VI, p. 42 e seg.
363
Osservazioni sui greci, ecc.
364
Elv. lettera LXXVI.
365
Mem. di Bachaumont, p. 1. Edizione, in-12, 1784; Id. l. III, p. 271
366
Decreti del Parlamento, 1759.
367
Alloury nei dibattimenti, 25 aprile 1562.
368
Tre volumi in-8, anni 1765-67.
369
Mem. di Bachaumont, t. III, p. 34,49,177 e passim.
370
Memor. dell’Accad., ecc., anno 1788. Veggasi anche
Bachaumont. t. III, pag. 98.
371
Veggasi Dizion. portatile dei teatri. tre vol. in-12. Parigi
1754, ecc.
372
Memor. di Bachaumont, passim.
373
Quadro di Parigi, cap. CCXXXVIII
374
Memor.di Bachaumont, l. I, p. 40; t. II, p. 105, 109, 159; t. III,
p. 32,33,125,137,167,176,274, ecc.
375
Id., ibid., p. 176.
376
Veggansi le opere degli abati Battoux, Vertot, Saint-Real, Voisenon,
d'Olivet, Gedoyen, ecc.
377
Mem. ecc., t. III, p. 220.
378
Mem. ecc., t. III, p. 58; t. III, p. 286.
379
Id., ibid., p. 277.
380
Id., t. II, p. 47
381
Id., t. IV, p. 15.
382
Morale tratta da sant'Agostino; l. cap VIII.
383
Lettera all’ambasciatore di Russia a Parigi, 1767.
384
Elenco ufficiale degli autori che i gesuiti facevano spiegare
(omissis). Edizione in-12, Parigi 1711. Il programma dei
gesuiti era pur quello degli altri collegi.
Due
o tre omelie greche cristiane per una classe soltanto e neppure un
autore cristiano latino. Tutto
il resto è di autori pagani: ecco quello che nel XVII e nel XVIII
secolo la gioventù cristiana educata dai gesuiti studiava nei sette
o otto anni di sua istruzione. Così prescrive l'istituto.
Lungi da noi il pensiero d'accusare: vogliamo allegare soltanto i
documenti del processo, e chiedere ad ogni onesta persona, ai preti,
ai gesuiti stessi, se dopo aver veduto i frutti religiosi e politici
d'un tale insegnamento, sia bene il continuare a fare
esattamente come facevano i nostri padri?
385
E i fatti cristiani e nazionali?
386
Apol.
Dell’Inst. Dei gesuiti,
cap. Dei
Collegi.
387
Veggasi Memor.di Bachaumont, t. I, p. 13
388
Id., ibid., p. 58
389
Id., ibid., p. 62, 74, 76, 83, 114, 115, 124, 265, ecc.
390
Delle distruzioni dei gesuiti, parte prima.
391
Danjou, Del paganesimo nelle idee, p. 48.
392
Id., p. 49.
393
Nelle repubbliche classiche e specialmente a Roma, ogni potestà
religiosa, civile e sociale, viene originariamente dal popolo. «I
re, dice Terrasson, nominati dal popolo, furono i primi
ministri della religione, e stabilirono a piacer loro le feste, il
culto di ciascun dio, come pure le cerimonie che si dovevano
osservare nei sacrifici. Il re, dice la legge quarta del codice
Papiriano, presiederà ai sacrifici e deciderà delle cerimonie che
vi saranno osservate».
Lo
stesso codice, nella legge quindicesima, aggiunge: «Il popolo si
eleggerà magistrati; farà plebisciti (che avevano forza di legge);
finalmente, non si intraprenderà nessuna guerra; e non si concluderà
nessuna pace contro il suo parere».
Il
«console Valerio Publicola volle che i littori abbassassero i fasci
consolari alla presenza del popolo convocato: la sua maestà,
teneva vece di quella dei re. Lo stesso console fece decretare
una legge per la quale nessun cittadino poteva essere giudicato in
ultima istanza, che mediante una sentenza delle Curie; ed ogni
colpevole condannato poteva appellare al popolo (*)», Così
legislatore, pontefice, re, magistrato, corte d'appello e di
cassazione, il popolo era tutto questo. Quello che avveniva a Roma,
avveniva nella Grecia, donde Roma aveva tratto le sue costituzioni e
le sue leggi.
(*)
Terrasson, Storia della giurisprudenza romana, p. 26, 75.
394
Decret.
Diocl. apud
Bolland. Act,
S. Georg. 25
aprile, ecc.
395
I Cesari pagani, dice l’autore della Storia universale della
Chiesa, erano insiememente dii, sommi pontefici ed imperatori. Plinio
condanna all’estremo supplizio i cristiani di Bitinia, perché
ricusavano d'offrire sacrifici all'immagine di Traiano. Adriano fa un
dio del suo compagno di lascivie. Antonino e Marc’Aurelio hanno in
mogli vere prostitute. In luogo di reprimere il libertinaggio,
ricompensano i complici di esse: morte, ne fanno le dee tutelari
degli sposi, consacrano loro templi e pontefici, ed obbligano le
giovani spose ad offrire sacrifici ad esse.
I
cesari pagani erano anche la legge viva e suprema. La loro volontà
aveva forza di legge: questa legge obbligava gli altri ma non già
essi. Signori del diritto, o più veramente, essendo essi medesimi il
diritto principale, erano padroni di tutto, della proprietà come di
qualunque altra cosa: nulla rimaneva ad altrui che pel loro
beneplacito.
«Se
ne vede un saggio nell'imperatore Caligola. L'idea pagana del Cesare
pagano si attuò tutta intera nella persona di lui. Egli stesso si
dichiarò dio, si dedicò un tempio, pontefici e sacrifici. Morta sua
sorella Drusilla, con la quale aveva commesso più d'un incesto, ne
fece una dea, e giurava pubblicamente per la sua divinità: Quando
gliene veniva talento, mandava a dire al tale, o al tal altro
senatore si guardasse bene dal toccare la propria moglie, stantechè
l'imperatore si degnava di prenderla per propria. Allorché ebbe
condotto il romano esercito attraverso le Gallie, fin sulle rive
dell'Oceano, per raccogliere conchiglie, scrisse ai suoi intendenti
di Roma di preparargli un trionfo, di cui non si fosse mai veduto
l'uguale; poiché essi avevano diritto sui beni di tutti gli
uomini. Ricordatevi, diceva, alla sua avola, che mi è
permesso tutto e verso tutti. Né si contentava di dirlo
solamente: Perciò dato avendo a Napoli lo spettacolo d'una battaglia
navale, fece gettare gli spettatori nel mare. Piacesse agli dei,
sclamò egli altra volta, che il popolo romano non avesse che una
sola testa! Ciò era per avere il diletto di abbatterla d'un sol
colpo».
396
Lorry, Instit. exposit., t. I; p. 49, ediz. in-12.
397
Id., ibid., p. 9.
398
Veggasi questa legge in Gravina, ecc:., e in Terrasson, p. 241.
399
Gravina, De
ortu et progressu juris civil.,
c. IV, p.68. I
400
Gravina, De ortu et progressu juris civil., c. VII, p. 8
401
Nella sua Storia della giurisprudenza romana, Terrasson riassume in
tal modo quella famosa legge Regia che serve di base all'ordine
sociale nell'antichità: Tutta la potestà religiosa, politica,
legislativa e civile, in una parola, l’onnipotenza in tutte le cose
e sopra tutte le cose di cui essi fruiscono popolo e senato
trasferirono in Cesare, allorché la repubblica divenne impero ».
Ciò fecesi in virtù della legge Regia, di cui Ulpiano così
discorre: «Il beneplacito del principe ha forza di legge, in virtù
della legge regia promulgata sul suo impero, per la quale il popolo
gli conferisce e trasfonde in lui tutto il suo impero e la sua
potestà» (*)
*
Al succedere di ciascun imperatore si rinnovano tutte le
disposizioni di questa legge.
402
Grav., p. 22.
403
Veggasi Gerlache, Studii sopra Sallustio, prefazione.
404
Epist. VII; S. Gelas, S. P., ad Anastas. imper.
405
Euseb. Vit. Const., lib. III, cap. 27.
406
Epist. 244 Ad Conrad. reg. Rom.,
oper., t. I, p. 514. Ediz. nuovissima analizzata da Rohrbacher, p.
422, t. XV.
407
Lib. II, cap. XIV.
408
De reg. princip., lib. II, c. XIV.
409
Id., lib. I, cap. XIV.
410
Id., lib. I, cap. XIV.
411
1Cor. 15.
412
Storia universale della Chiesa, t. XIX, p. 391, prima edizione.
413
Matteo, XVI, ecc.
414
Sermone sull'unità della Chiesa.
415
Rivista quadrimestrale, anno 1842, ecc.
416
Rivista quadrimestrale, anno 1842, ecc.
417
Baluz., Capitul. reg. franc., t. I, col. 209.
418
Id., t. II, col. 1555 e 1556
419
De formula regnante Christo, p. 571.
420
Veggasi fra gli altri, gli Atti di San Pionio nella Bibliot. dei
class. Crist.
421
Veggasi il testo della sentenza pontificia nel Codex juris
gentium diplomaticus; di Leibnizio, anno 1298.
422
Libertà della chiesa gallicana, di Pithou, t. I, p. 149.
423
Bullar. rom:, t. II, p. 35.
424
Bullar. rom:, t. II, p. 35.
425
I Viaggi dei Papi, 1782.
426
Michaud, Storia delle Crociate, l. IV, p. 67, sesta edizione.
Il marchese di Villelleuve-Trans, Storia di San Luigi; t. I,
p. 238.
427
Bullar., t. IV, p. 125.
428
Bullar., t. IV, p. 125.
429
Bullar., t. IV, p. 98.
430
Osservazioni sul progetto d'una pace perpetua; dell'abate di
Saint-Pierre, p. 59. - Opere, t. V. in-4; edizione 1768.
431
Coquerel, Saggio sulla storia del Cristianesimo, p. 75.
432
Storia della rivoluzione, t. I, p. 252.
433
Filosofia della storia, t. II, sezione XIV
434
Storia dell'eloquenza latina, di M. N., p. 7 e 9.
435
Storia universale della Chiesa, t. XVIII, p. 6
436
Viterb. chron., pag. 17. Apud Baron. An. IV, n. 25.
437
Reges provinciales.
438
Terrasson, id. parte IV, § IV, pag. 385.
439
Il Risorgimento del diritto romano ebbe grande influenza nel diritto
pubblico, ed in particolar modo nell'ampliazione data alla potestà
regia: indebolì l’autorità del diritto consuetudinario, che
viepiù perdette il suo carattere germanico e nazionale. Tale fu
l’entusiasmo pel diritto romano, che si dubitò un istante se non
prendesse luogo delle consuetudini. Per infrenare questa tendenza
occorse, nel 1267, un decreto della corte del re.
440
In proemio digestor.
441
Della sovranità del re e che sua maestà non può sottomettersi
a chicchessia, di messer Giovanni Savaron, consigliere del re,
presidente e luogotenente generale nella giurisdizione d'Alvernia e
sede presidiale di Clermont, in-12, 1620.
442
La Glossa era opera del professori cesarei.
443
Dicta donatio nihil valuit, propter multa quae in glosa juris
civilis ponentur ... De jurisdictionibus sive de potestate
regia et populi, c. XXII: De donatione facta papa. - La
stessa dottrina è in Pietro di Bella Pertica, nato a Lucenay, nel
secolo tredicesimo, item, Glosa in authenti, tit. IV, ecc.
ecc.
444
Div. Com., c. XII.
445
De Monarch., c. 1.
446
Romanus populus ad imperandum ordinatus fuil a natura. Ergo romanus
populus subjiciendo sibi orbem de jure ad imperium venit. - Id.
447
De Monarch., c. 1.
448
Populus ille sanctus, pius et gloriosus, propria commoda neglexisse
videtur ut publica pro salute humani generis procuraret. - Id.
449
In hoc uno concordantes (principes gentium) ut adversarentur Domino
suo et uncto suo romano principi. - De Monarch., c. 1.
450
Sembra certo che tale sia stato l'ultimo sogno dello sciagurato
abate di Lamennais.
451)
Sic ergo patet quod auctoritas temporalis monarchiae, sine ullo
medio, de fonte universalis auctoritatis descendit. - De Monarch.,
c. 1.
452
Homil. XIII in Epist. ad Rom.
453
Nec Ecclesia recipere per modum possessionis, nec ille (Constantinus)
conferre per modum alienationis poterat. - De Monarch., c. 1.
-, Apud Savaron, Della sovranità del re, p. 11.
454
Vit.
et res gest. pontif. rom. ab August.
Oldoino,
Romae,: in-fol., p.1677.
455
É provato che è stata fabbricata apposta una corrispondenza tra il
papa ed il re, per rendere odioso il pontefice. Pithou non ha temuto
di riprodurre quella congerie di apocrifi documenti.
456
Pithou, Libertà della Chiesa gallicana, t. II, p. 129.
457
Id., ibid. p. 130, Veggasi anche Savaron, Della sovranità del re,
p. 14.
458
Storia della rivoluzione.
459
Storia delle Repubbliche italiane, t. IV, cap. XXIV, p. 141 e
seg.
460
Bullar. Rom., Bonif. VIII. - Questa Bolla nulla dice di
nuovo: la dottrina in essa contenuta era già compresa nel diritto
canonico mediante la decretale Novit., d'Innocenzo III.
461
Pubblicato dall’Italia e Popolo.
462
Raynald, Annal., 1303, n. 9.
463
Aurea Bulla, Caroli IV, Rom. Imper. 1356, ediz: 1612, in-4. - Il
primo atto del nuovo eletto era la solenne conferma di tutte le
immunità, libertà, privilegi, consuetudini dell'impero: la qual
conferma si doveva rinnovare alla presenza di tutto il popolo, subito
dopo la consacrazione. Tutto ciò non meno che l'elezione era
anticesareo.
464
Questi diritti furono ancora stipulati nel concordato fra Leone X e
Francesco I.
465
P. 13, 14.
466
Utere deinceps in regno nostro potestate tua ut voles, 27 nov. 1461.
467
Questa carta esiste ancora nel museo di Propaganda.
468
Apud Raynald, anno 1495, n. 19.
469
Id.
La
Bolla è del 1493.
470
Apud Raynald, 1494 e 1496. Veggasi in Raynald il testo di queste due
Bolle, date, come tulle le altre, in virtù dell'autorità
apostolica, e non d'una concessione dei principi.
471
Era il codice Teodosiano - I principi franchi fecero anche per uso
dei loro sudditi gallo-romani delle compilazioni della legge romana.
Tale è il Breviarum Alarici, redatto da Alarico II, re dei
Visigoti. Esso è un ristretto del codice Teodosiano e di alcune
posteriori costituzioni imperiali. Esiste ancora una specie di codice
romano redatto in Borgogna, verso il tempo del re Gondebaldo e
conosciuto sotto il nome di Papiano; ma sembra ch'essa sia piuttosto
un'opera di dottrina giuridica che un alto legislativo.
472
Si hanno prove eziandio che il diritto Giustinianeo era conosciuto;
ma non aveva un'autorità di legge, e la pratica non si fondò su
quella base.
473
Capitul., lib. VI, cap. 347.
474
Veggasi Savigny, Storia del diritto romano al medio evo, vol.
2. Parigi 1839. – Refugio, Saggio sullo stato della legislazione
al sesto decimo secolo. Terrasson, Storia della
giurisprudenza romana, ecc. ecc.
475
Anche oggidì l'Inghilterra conserva qualche cosa di quest'usanza. -
Refugio, Saggio sullo stato della legislazione al sedicesimo
secolo, p. 354.
476
Id., pag. 355. - Le nazionalità, dapprima distinte, si amalgamavano
viepiù. Le consuetudini dunque dovettero divenir locali, cioè
reggere tutti gli individui residenti in un dato luogo, fatta
astrazione dalla loro origine, alla quale diventava ognor più
difficile il risalire. Questa trasformazione del diritto cominciò
assai per tempo. Laonde Marculfo, verso la metà del secolo settimo;
autore d'un formulario, dice d'aver redatto le sue formole giusta la
consuetudine del luogo dove egli vive. Quest'opera di trasformazione
si continuò e si compì senza che si possa in preciso modo
determinare il momento in cui la località venne sostituita
alla personalità del diritto. Ma alla fine del decimo secolo
cotale trasformazione era interamente compita.
Una
trasformazione che si compì nel medesimo tempo, si è che il diritto
da scritto che era, dopo la redazione delle leggi
barbare, divenne consuetudinario; e vi fu tempo in cui non
si parlò più di leggi scritte, ma della giurisprudenza e delle
usanze sino al tempo in cui anche queste usanze furono redatte, cioè
sino alla redazione delle consuetudini decretata sotto Carlo VII e
compita sotto Arrigo III.
477
Nos que valemos tanto como vos, y que podemos mas que vos, vos
hazemos nuestro rey y senor, contal que guardeis nuestros fueros: se
no, no.
478
Pessima republica, plurimae leges. De morib. Germ.
479
Quei commissari si chiamavano Missi dominici.
480
Della riforma della giustizia, p. 246 e seg. Opere, t. IV, ed.
in-8, 1825.
481
Refugio, p. 355.
482
Della riforma della giustizia, p. 251.
483
Il diritto romano; non solo come scienza, ma anche come pratica, non
si è mai perduto totalmente. Così, come abbiamo detto, il
Risorgimento giuridico ebbe la prima culla nelle università
italiane. Allora, incominciò a Bologna quella scuola dei romanisti,
chiamata la scuola dei glossatori, di cui Accursio fu il più
celebre. A quella scuola successe l'altra degli scolastici: di
cui Bartolo fu la personificazione. - Quanto alla differenza nello
stato giuridico dei paesi di diritto romano e dei paesi di
consuetudini, non vuolsi vedervi un distacco assolutamente
riciso. Nei paesi di diritto scritto, il diritto romano
costituiva il fondamento del diritto; ma era piuttosto spiegato dalle
consuetudini che dai testi conosciuti e consultati. Nei paesi di
consuetudini, era consultato come ragione scritta, e
talvolta, pel silenzio della consuetudine, come testo obbligatorio.
L'elemento romano si trova più saliente nei paesi meridionali che
non nei settentrionali:
484
Della riforma della giustizia, p. 351.
485
Id. ibid., p. 253 e 254.
486
Id., p. 255.
487
Id., ibid., p. 285.
488
Di chi è la colpa? Non fu esso forse che più d'ogni altro contribuì
a distendere in Francia il regno del diritto romano, e, non ostante
le gagliarde opposizioni della Sorbona, a farci godere pei benefici
del Risorgimento?
489
Corpus
jur. Can.
c. XXVIII, lib. VI,
De
privileg:
Decret. Greg. XII.
490
Si possono vedere queste chiose in Ferrière e in Terrasson, ecc.
ecc.
491
Storia degli avvocati al parlamento di Parigi, due volumi,
in-8, 1813, tom, II, pag. 60.
492
Bulaeus, Hist. Univers. Paris. T. III, p. 265 et 266.
493
Giornale dei dotti, giugno 1848, pag. 342-343. - Clemente V
credette di dover rallentare alquanto la severità dei suoi
predecessori, e la bolla Dum perspicaciter, dell'anno 1305,
indirizzata all’università d'Orléans, approva lo studio del
diritto romano in quell'università; ma lo studio non è abuso.
494
Storia universale della Chiesa, t. XIX, p. 394.
495
Storia universale della Chiesa, t. XVIII, p. 6.
496
Questo principio di diritto cristiano era talmente radicato nei
cuori dei nostri antenati, che il Risorgimento non poté in sulle
prime schiantarnelo. Dopo ben più di un secolo di sforzi, esso è
ancora l'anima della Lega.
«Troppo
è a temere che non avvengano grandi turbolenze in tutta la
cristianità, e forse il totale sommovimento della religione
cattolica, apostolica, e romana in questo regno cristianissimo, in
cui non si patirebbe mai regnasse un eretico, stantechè i sudditi
non sono tenuti di riconoscere né di tollerare la dominazione d'un
principe sviato dalla fede cristiana cattolica, essendo il primo
giuramento che fanno i nostri re, allorché si pone loro la corona
sul capo, di mantenere la religione cattolica, sotto il qual
giuramento ricevono quello di fedeltà .... Dichiariamo aver tutti
giurato e santamente promesso di tener mano forte ed armi perché la
Santa Chiesa di Dio sia reintegrata nella sua dignità, e la vera e
sola religione .... Protestando di posar le armi tosto che sarà
piaciuto a Sua Maestà di far cessare il pericolo che minaccia la
ruina del servizio di Dio. - Memorie della lega, t. 1, p. 56 e
seg. Dichiarazione di Perona. 31 marzo 1585.
497
L'istruzione fa tutto, diceva il regicida Chazal, meglio
ispirato di Matter: siamo repubblicani perché fummo educati alle
scuole di Sparta, d'Atene e di Roma.
498
Ciò è proprio lusinghiero pel cristianesimo!
499
Prima del Petrarca e del Boccaccio, l'Europa di Carlomagno, e di San
Luigi, di San Bernardo e di San Tommaso, era morta a tutto questo?
500
Storia delle dottrine morali e politiche dei tre ultimi secoli,
di Matter, pag. 29-31.
501
Spizel, Scrutin. atheism., pag. 132. - Veggasi anche, Artaud
di Montar Machiavelli, suo genio, ecc., due volumi in-8,
l'Enciclopedia, ecc.
502
Id., p. 75.
503
Gentillet, Discorso sui mezzi di ben governare, ecc. contro
Machiavelli, in-4, pag. 8, Parigi 1576.
504
Principum monitrix Musa, p. 253, ediz., in-8, 1590.
505
I letterati.
506
Quali arti e quale filosofia?
507
Nicolaus Macchiavellus, Florentinus, athaeus, quamvis visus sit
voluisse videri Christianus.
508
Cronaca del giorno (Morning-Chronicle) 12 ottobre 1792,
509
Vecchio Cordigliere, n. 5, p. 125
510
Id., n. 5, p. 125.
511
Decade filosofica, t. III, p. 96.
512
Id. ibid., p. 104
513
Trad. del Principe, di Capel, 1553
514
Esame del Principe di Machiavelli, prefazione.
515
Id., cap. XXIV.
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