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giovedì 18 ottobre 2012

La rivoluzione di Monsignor Gaume - vol. 4


La rivoluzione

ricerche storiche

sopra l'origine e la propagazione del male in Europa



di Monsignor Gaume



VOLUME QUARTO



Traduzione italiana di Gaetano Buttafuoco



MILANO

Tipografia Pirotta e C.

1857







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INDICE DELLE MATERIE



PARTE QUINTA

Proemio



CAPITOLO I

APOTEOSI DI VOLTAIRE

La rivoluzione riconosce Voltaire per uno dei suoi padri. - Petizione della municipalità di Parigi per ottenere la translazione degli avanzi di Voltaire. - Parole di Regnault di Saint-Jean d'Angély; di Treilhard - Domanda d'una festa in onor di Voltaire. - Parole di Gossin, di Regnault. - Arrivo di Voltaire a Parigi. - Stazione alla Bastiglia. - Descrizione dell'apoteosi - Carattere pagano di quella festa



CAPITOLO II.

APOTEOSI DI ROUSSEAU.

La rivoluzione lo riconosce ira proprio padre. - Pensione alla sua vedova. - Domanda degli onori del Panteon. - Parole di Eymard. Descrizione dell'apoteosi



CAPITOLO III.

MABLY E GLI ALTRI FILOSOFI.

La rivoluzione è distruzione e ricostruzione. - Voltaire la personifica nella sua opera di distruzione religiosa - Rousseau, nella sua opera di distruzione sociale: ambedue, nella loro opera di ricostruzione religiosa e sociale. - Mably; altro preparatore della rivoluzione. - Suo epitaffio. ­ Domanda, in suo favore, di una statua; degli onori del Panteon.- Parole di Arnoux e di Dussaulx. - La rivoluzione riconosce tutti gli altri filosofi per suoi avi. - Parole di Landine, di Chabroud, di Prud'homme, di Baudin; di Robespierre; di Riouffe. - La testimonianza della rivoluzione giustificata dalla filosofia stessa. - Genesi del Volterianesimo.


CAPITOLO IV.

VOLTAIRE.

Figlio del Risorgimento, e degli studii di collegio perde la fede e la costumatezza.- Suoi primi versi. - Testimonianza dell'educazione classica ricevuta. - Ignoranza e disprezzo del cristianesimo. - Entusiasmo pel paganesimo. -Testimonianza di Condorcet - Di La Harpe. – Di Lefranc di Pompignano. - Analisi della Filosofia della storia. -Tutte le teoriche, tutte le favole dell'antichità classica, ammirate e riprodotte da Voltaire. - Disprezzo costante dei cristianesimo, della sua lingua, delle sue arti, dei suoi uomini. - Elogio del Risorgimento.



CAPITOLO V.

VOLTAIRE (Continuazione).



Analisi del Saggio sui costumi.- Elogio costante dell'antichità pagana, delle sue arti, della sua letteratura, della sua libertà del discorso e dei culti. ­ Profondo disprezzo del cristianesimo e del medioevo, del suo linguaggio, delle sue arti, delle sue leggi e del suo sapere. - Ammirazione pel Risorgimento. - Genealogia del libero pensiero. - Apoteosi dell'uomo»



CAPITOLO VI.

VOLTAIRE (Continuazione).

Il secolo di Luigi XIV.- Continua diffamazione del cristianesimo.-Continue lodi dell'antichità pagana. - Voltaire spinge al cesarismo, al libero pensare degli antichi filosofi.- Effetti del libero pensare. - Costumi del secolo di Luigi XIV. - Camera dei veleni. - Voltaire giudica l'eloquenza, la filosofia, la religione sul regolo dei modelli classici. - Esorta di ritornare alla religione dei grandi uomini dell'antichità. - La mette in pratica. - Le procura molti proseliti. - Progetto di Maupertuis.



CAPITOLO VII.

VOLTAIRE (Continuazione).

Sue opere teatrali.- Deprimono il cristianesimo ed esaltano il paganesimo. Tragedia di Bruto Primo. - Tragedia di Bruto Secondo, o la Morte di Cesare. - Glorificazione dello spirito repubblicano e dell'assassinio politico. - Tragedia di Maometto; violento assalto contro il cristianesimo. - Lettera di Voltaire a Federico



CAPITOLO VIII.

VOLTAIRE (Continuazione e fine).


Tragedia di Merope. - Massime pericolose.- Lettera del P. Tournemine, gesuita. - Tragedia d'Olimpia. - Essa rende popolare l'antichità nell'aspetto religioso. - Tragedia di Catilina o Roma. salvata. - Esaltazione dei sentimenti repubblicani. - Voltaire vuole che anche le giovani conoscano Cicerone. - Elogio. - Si lamenta che non si vada a veder quant'è d'uopo gli spettacoli per studiarvi i Greci e i Romani. -Elogio completo dei Greci e dei Romani. – Voltaire si palesa qual esso è. – Muore come ha vissuto.



CAPITOLO IX.

ROUSSEAU.



Parte che ha nella filosofia del sec. XVIII. - Assalisce l'ordine sociale esistente per surrogarvi le instituzioni dell'antichità. - Rousseau discepolo di Plutarco. - Sue parole. - Elogio del Risorgimento - Necessità per le nazioni di attingere alle fonti antiche. - Mezzi. - Stato di natura e governo di Lacedemone. - Analisi del Contratto sociale. - Sistema della più mostruosa schiavitù. - Comunismo e socialismo di Licurgo riprodotto da Rousseau


CAPITOLO X.

ROUSSEAU (Continuazione).

Fa l'apoteosi dell'uomo e del popolo nell'ordine sociale. - Gli attribuisce l'infallibilità, la sovranità. - Questi attributi, essendo divini, non sono comunicabili. - Il governo del popolo governo degli dei. - Applicazione di questi principi. – Il popolo solo proprietario dei beni - Solo proprietario delle persone. - I figli di proprietà dello Stato.- Educazione comune ed uguale come presso gli Spartani: - Autorità sovrana del popolo sulla religione. - Modello fornito dall'antichità. - Il cristianesimo che ricusa di riconoscere questa autorità, debba essere sbandito dalla società. - Esso rompe l'unità politica. - Predica la schiavitù. - Non può far che vili e renderci inferiori ai Greci e ai Romani



CAPITOLO XI.

ROUSSEAU (Fine).

Attuazione del sistema sociale sul modello dell’antichità. Il popolo debbe trattare i propri affari da sé stesso. - E non con rappresentanti. - Questa dottrina giudicata impraticabile dagli stessi rivoluzionari.- Parole di Vergniaud e di Robert. - Disprezzo dell'ordine sociale cristiano e del monarcato.-Ammissione di tutti i cittadini a tutti gl'impieghi civili. - Obbligazione per tutti d'essere soldati, come nelle antiche repubbliche. - Fine delle società rigenerate sul modello di Sparta e di Roma. – Conclusione.



CAPITOLO XII.

MONTESQUIEU


Precursore di Rousseau. - Formato alla stessa scuola. - Assalisce il cristianesimo. – Lettere persiane. Tempio di Guido. - Esalta l'antichità pagana. - Grandezza e decadenza dei Romani. - Spirito delle leggi, inspirato principalmente da Tacito e da Plutarco. - Morte di Montesqieu. - Analisi dello Spirito delle leggi.- Diffamazione del monarcato. - Elogio continuo del governo repubblicano di Sparta, d'Atene e di Roma



CAPITOLO XIII.



MONTESQUIEU (Continuazione e fine).



Ammirazione per l'antichità.- Diritto di ribellione. - Regicidio.- Purezza dei costumi. - Bella usanza matrimoniale. - Buona polizia dei Romani sull'esposizione dei figli. - Lodi delle greche istituzioni. - Disprezzo delle arti e del commercio. - Elogio dei Romani. - Parole di Senofonte, di Plutarco, di Diodoro Siculo. - Indebolimento della ragione cristiana in Montesquieu. – Ignoranza, errori, pregiudizi. - La punizione del Sacrilegio.- La potenza e i beni del clero. -Fatalismo. - Il protestantesimo e il suicidio. - Conclusioni





CAPITOLO XIV.

MABLY.



Mably, uno dei principali autori della rivoluzione. - Sua nascita. - Sua educazione presso i Gesuiti. - Entra nel seminario di S. Sulpizio ed è ordinato suddiacono. - Lascia il seminario e la teologia per darsi allo studio degli autori pagani. - Vi passa sessant'anni. - Suo culto per l'antichità. - Sua morte. - Elogio che ne fa l'abate Brizard. - Mably, anima vuota di cristianesimo e briaca di paganesimo. - Analisi del Focione. - Voto in favore della rivoluzione



CAPITOLO XV.

MABLY (Continuazione).



Mably non vede che l'antichità classica.- È Spartano.- Parole di Brizard. – Di Mably. - Analisi delle Osservazioni sui Greci. - Stato di natura. - Contratto sociale. - Espulsione dei re, principio della gloria e della libertà della Grecia. - Predicazione dell'eguaglianza e del comunismo. - Pittura menzognera di Sparta. - Disprezzo per le società formate dal cristianesimo. - Elogio dei Greci. - Analisi delle Osservazioni sui Romani. - Disprezzo della Francia



CAPITOLO XVI.

MABLY (Continuazione e fine).



Sempre fuori del cristianesimo.-Analisi dei Principii di morale.-Mably opposto al Vangelo. - Disprezzo delle virtù cristiane. - Mably non conosce che le virtù pagane. - La sua morale è quella dell'interesse. ­ Approva un passo scandaloso di Cicerone.-Analisi dei Diritti del cittadino. -Mably sospinge allo sconvolgimento dell'ordine sociale.- Predica la repubblica. - Mably tratto a perdizione dalla sua educazione di collegio. - Parole di Brizard



CAPITOLO XVII.

CONDORCET.



Sua nascita. - Sua educazione presso i Gesuiti. - Anima vuota di cristianesimo ed ebbra di paganesimo. - Sua professione di fede. – Sua Memoria sull'ordinamento delle accademie. - Suoi discorsi pieni di memorie classiche. - Suo disprezzo dei suoi maestri e suo odio del Cristianesimo. - Lettere a Voltaire, a Turgot. - Suo odio dell'ordine sociale. - Suo fanatismo repubblicano. - Fa ardere tutti i titoli di nobiltà. - È proscritto coi Girondini. - Repubblicano e pagano sino alla morte. - Ei muore come Socrate.



CAPITOLO XVIII

D'ALEMBERT.



Sua nascita. - Sua educazione S'innamora dell'antichità. - Suo discorso all'Accademia. - Suo elogio ai Mani di madamigella di Lespinasse. ­ Suoi omaggi al Risorgimento. - Gli attribuisce la rigenerazione del mondo, le lettere, le arti, la filosofia. - Riflessioni sulle lettere e sulle arti.



CAPITOLO XIX.

D'ALEMBERT (Continuazione e fine).



Nuovo beneficio del Risorgimento, lo spirito filosofico. - Opposizione che trova. - Lodi di coloro che lo propagano. - Ritratto morale di Bacone. - Giudizio sopra Cartesio. - Elementi di filosofia di d'Alembert. - Il sensualismo sua base. - La morale dell'egoismo. - Il comunismo n'è la conseguenza. - Ultimi momenti di d'Alembert. - Muore leggendo Tacito.



CAPITOLO XX.

ELVEZIO.



La filosofia attuale tende al paganesimo. - Parole di monsignor vescovo di Poitiers. - Questa filosofia viene dal XVIII secolo. - Parole di Guizot. - La filosofia del XVIII secolo viene dal Risorgimento. - Elvezio. ­ Sua educazione presso i gesuiti. - Suo entusiasmo per Quinto Curzio. - Per Locke. - Anima vuota di cristianesimo ed ebbra di paganesimo. - Esordisce con versi. - Analisi dello Spirito. - È razionalista e sensualista. - Analisi dell'Uomo. - Disprezzo del Medio Evo. - Elogio dell'antichità classica. - Odio del clero, e soprattutto dei gesuiti. - Una quistione.



CAPITOLO XXI.

ELVEZIO (Continuazione e fine).



Stabilimento d'una religione filosofica. - Suo programma. - Suoi caratteri. - Intanto s'ha da distruggere il cristianesimo. - Far rifiorire la religione pagana. - Migliore del cristianesimo. - Il mezzo di farla rifiorire è l'educazione classica. - Morte d’Elvezio.



CAPITOLO XXII.

D'HOLBACH.



Sua nascita. - Sua educazione. - La comunanza d'idee lo ravvicina agli altri filosofi. - Sue cene.-Analisi del suo Sistema della natura. - È in tutta la sua estensione il naturalismo pagano.- Eternità della materia. - Lo prova con gli autori classici. - Fatalità; stesse prove. - La natura Dio; stesse prove. - Negazione di Dio e della Provvidenza; stesse prove. - Dell'immortalità dell'anima; stesse prove. - Movente della virtù, la gloria umana; stesse prove. - Legittimità del suicidio; stesse prove. - Morte pagana di d'Holbach.



CAPITOLO XXIII.

GENEALOGIA DEL VOLTERIANESIMO.



Tutti i filosofi del XVIII secolo si definiscono in due parole: anime vuole di cristianesimo ed ebbre di paganesimo - Particolareggiato confronto delle loro dottrine con quelle degli autori classici. - Sul mondo. - Su Dio. - Sull'anima - Sulla morale.- Sulla virtù. - Sulle pene eterne. - Sulla società. - Sulla forma di governo. - Sui mezzi di governare i popoli e di renderli buoni e felici.- Il dispotismo cesariano, gli onori, il carnefice, il divorzio, le cortigiane, l’abolizione della proprietà e il comunismo. - Tutte queste dottrine tratte letteralmente dagli autori insegnati in collegio



CAPITOLO XXIV.

SECOLO DECIMO OTTAVO.



Quadro generale e definizione. - Memorie di Bachaumount. - Predizione dell'avv. generale Séguier. - Il paganesimo generale nel secolo XVIII. - Nelle arti, sale di Diderot. - Nelle lettere, traduzioni continue degli autori classici. - Nelle scienze, soggetti di premio proposti dall'Accademia delle iscrizioni. - Al teatro, titoli d'opere, tragedie e componimenti drammatici. - Nei costumi, Memorie di Bachaumont. - Nell'educazione, parole del P. Grou. - Cagione del male. - Passo dell'Apologia dell'Instituto dei gesuiti. -Manifestazione dello spirito pagano, espulsione dei gesuiti, scacciati dai propri loro discepoli. - Lista dei filosofi educati da essi e dagli altri ordini religiosi. – Conclusione.



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PARTE SESTA

PROEMIO





CAPITOLO I.

IDEA DEL CESARISMO.

Importanza della questione.-Definizione del Cesarismo. - Sua origine. ­ Sua storia nell'antichità - Esso fonda l'ordine religioso e sociale sulla sovranità dell'uomo. - Questa sovranità dal popolo passa a Cesare.­ La legge Regia. - Diritti e prerogative di Cesare. - Parole di Gravina, di Terrasson. - Articolo della legge Regia. - Risultamenti del Cesarismo nell'antichità.



CAPITOLO II.

IDEA DELLA POLITICA CRISTIANA



Abolizione della legge Regia. - Divisione del potere.- Parole del papa San Gelasio all'imperatore Anastasio. - La politica cristiana seguita da Costantino, da Carlomagno, dai re cristiani. - Esposizione che ne fa San Bernardo. - San Tommaso. - Sorgente del potere - Origine e scopo delle società. - Magnifico quadro della politica e della società cristiana che ne fa San Tommaso



CAPITOLO III.

STORIA DELLA POLITICA CRISTIANA



Base della politica cristiana. - Potere sociale del Papato. - Parole degli scrittori protestanti. I re di Francia e d'Inghilterra giudicati dal Papa. - Compromesso dei re di Francia e d'Aragona. - Appello al giudizio del Papa. - Affare di Lodovico Pio, di Lotario, re d'Austrasia.- Deposizione dell'imperatore Arrigo IV. - Bolla di San Gregorio VII. Deposizione dell'imperatore Federico. - Bolla d'Innocenzo IV.


CAPITOLO IV.

STORIA DELLA POLITICA CRISTIANA (Continuazione).



Permanenza del diritto pontificale. - Deposizione d'Enrico VIII. - Bolla di Paolo III. - Deposizione d'Elisabetta. - Bolla di San Pio V. ­ Riflessioni. - Parole del sig. Coqueret. - Di Luigi Blanc. - Dilemma. - Risultato sociale della politica cristiana e del Cesarismo.



CAPITOLO V.

STORIA DEL CESARISMO PRIMA DEL RISORGIMENTO. - DIRITTO POLITICO.



Gl'imperatori d'Alemagna. - Il diritto romano, politico e civile. - Parole di Schlegel. - D'un autore francese. - Pandette trovate in Amalfi ­ Università di Bologna. - Irnerio. - Il Risorgimento del diritto pagano venuto dall'Italia. - Giuristi di Francia, d'Inghilterra e di Spagna. - Dottrine che insegnano. - Baldo. - Giovanni di Parigi.



CAPITOLO VI.

STORIA DEL CESARISMO PRIMA DEL RISORGIMENTO.

(Continuazione).



Dante e la sua opera De Monarchia. - Principii del Cesarismo. - Argomenti di Dante, filosofici, politici e teologici. - Sostiene la monarchia universale e l'onnipotenza di Cesare. - Sua dottrina contraria all'insegnamento cattolico. -Conseguenze che ne fluiscono.


CAPITOLO VII.

STORIA DEL CESARISMO PRIMA DEL RISORGIMENTO.

(Continuazione e fine).



Filippo il Bello, suoi atti arbitrari; - Ammonito dal papa - Stati generali. - Loro insensate risposte. - Parole di Luigi Blanc di Sismondi. - Bolla del papa. - La Santa Sede continua ad essere la chiave della vòlta dell'edificio sociale dell'Europa. - Omaggi resi al primato pontificio. - L'imperatore Alberto. - La Bolla d'Oro. ­ Luigi XI. - Arrigo VII. - Alessandro VI e i re di Spagna e di Portogallo



CAPITOLO VIII.

STORIA DEL CESARISMO PRIMA DEL RISORGIMENTO.

DIRITTO CIVILE.



Diritto civile cristiano. - Sue origini. - Suoi caratteri - Varietà. ­ Semplicità. - Assicuratore di tutte le franchigie e conservatore del carattere nazionale. - Amministrazione patriarcale della giustizia. - Passo del cancelliere dell'Hospital. - Carlomagno. - San Luigi. ­ Sconvolgimento dell'antico ordine per l'introduzione del diritto romano. - Le liti. - La giustizia venale. - Il parlamento permanente. - La creazione degli avvocati. - Nuovo passo dell'Hospital



CAPITOLO IX.

STORIA DEL CESARISMO PRIMA DEL RISORGIMENTO.

(Continuazione e fine).



Foga pel diritto civile dei Romani. - Pericolo di questo studio. - Bolla di Onorio III. - Divieto d'insegnare il diritto romano a Parigi. - Bolla d'Innocenzo IV, sullo stesso soggetto, indirizzata a tutta l'Europa. ­ Preghiera ai re di far cessare l'insegnamento del diritto romano. ­ Luogo notevole di Rogero Bacone. - l legisti continuano questo studio. ­ Loro carattere. - Stato politico e civile dell'Europa prima del 1455



CAPITOLO X.

STORIA DEL CESARISMO PRIMA DEL RISORGIMENTO.

MACCHIAVELLI



Mutamento radicale nella politica, dovuto al Risorgimento: testimonianza non sospetta di Matter. - Macchiavelli padre del Cesarismo moderno. - Sua vita. - Sua politica pagana.-Testimonianza di Gentillet, d'Enrico Stefano. - Macchiavelli, ceppo della generazione dei politici rivoluzionari. ­ Testimonianza della rivoluzione. - Prove della sua influenza. - Edizione delle sue opere. - Confutazione che si crede necessario di fare delle sue dottrine. - Federico II re di Prussia.



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LA RIVOLUZIONE

PARTE QUINTA



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PROEMIO



L'aver dimostrato in modo irrepugnabile che la rivoluzione Francese del 1789 fu l'attuazione degli studii di collegio, basterebbe, a nostro avviso, a giustificare le instanti preghiere che, da quattro anni ci facciam lecito di rivolgere ai governi, alle famiglie, ai maestri della gioventù, per indurli alla riformazione d'un sistema d'insegnamento dal quale, scaturì quella grande catastrofe.

Tuttavia, per non lasciar nelle menti verun'ombra di dubbio, dobbiamo far risposta ad un'obbiezione. V'ha di quelli che, riguardando il Volterianesimo, o la filosofia del secolo XVIII, siccome una fra le principali cagioni della rivoluzione francese, dicono: Gli studii classici, per fermo, contribuirono potentemente alla rivoluzione: ma Voltaire, Rousseau, Mably e gli altri filosofi del passato secolo non sono forse stati gli autori principali di quel grande avvenimento? Tutte le dottrine religiose, sociali, politiche della rivoluzione non le troviamo forse nelle loro opere? E quei loro libri non erano, in sullo scorcio del secolo XVIII, gli oracoli dell'opinione?

Il fatto è vero, e noi vogliamo far qualche cosa di meglio che di semplicemente riconoscerlo. E per aiutare il trionfo dell'obbiezione, fedeli al nostro metodo storico, stabiliremo con documenti irrefragabili la parte che ricade sul Volterianesimo nello scompigliamento del 1789. Dopo di che ci sarà lecito di dimostrare quello che ricade sugli studii classici e sul Risorgimento nel Volterianesimo stesso.

Tale: è l'obbietto di questa parte, che dividiamo così:

Rivolgendoci alla rivoluzione medesima, le domandiamo:

È egli vero che annoveri Voltaire, Rousseau, Mably e gli altri filosofi del XVIII secolo fra tuoi antenati?

Poscia, rivolgendoci a Voltaire, a Rousseau, a Mably ed agli altri filosofi, domanderemo loro:

Chi siete? come siete apparsi nel mondo? qual è la vostra genealogia? di chi siete figli?

E nella guisa che abbiamo provato la discendenza della rivoluzione non già con ragionamenti, ma con fatti, seguiremo lo stesso cammino per provare la genesi del Volterianesimo. Importa ripetere che l'opera nostra non è punto polemica, ma puramente storica.







IL VOLTERIANESIMO

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CAPITOLO I

APOTEOSI DI VOLTAIRE



La rivoluzione riconosce Voltaire per uno dei suoi padri. - Petizione della municipalità di Parigi per ottenere la traslazione degli avanzi di Voltaire. - Parole di Regnault di Saint-Jean d'Angély; di Treilhard - Domanda d'una festa in onor di Voltaire. - Parole di Gossin, di Regnault. - Arrivo di Voltaire a Parigi. - Stazione alla Bastiglia. - Descrizione dell'apoteosi - Carattere pagano di quella festa.



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Alla rivoluzione non è mai stato fatto questo rimprovero, perché essa in realtà non lo merita, d'ignorare, cioè, la propria genealogia e di sconoscere i suoi antenati. Ora i primi suoi sorrisi furono ad un tempo per Bruto, Scevola, Temistocle, Licurgo, Voltaire, Rousseau, Mably. Uscita appena dalle fasce manifesta la propria pietà figliale, onorando simultaneamente i suoi padri e i suoi avi. La storia ci ha detto quello che essa ha fatto pei primi capi del suo stipite; rimane ora che ne faccia vedere quello che ha fatto pei suoi ascendenti immediati.

La domenica 8-5-1791, la municipalità di Parigi chiede all’assemblea nazionale che gli avanzi di Voltaire, siano condotti trionfalmente nella capitale. Regnault (1) sostiene la domanda «attesochè, dic'egli, Voltaire è il solo uomo che abbia sconfitto il fanatismo ed illuminato l'ignoranza (2)».

A Regnault succede Treilhard. «Voltaire, dice costui, nell'anno 1764, incominciava la rivoluzione di cui siamo testimoni; e l'annunciava tal quale noi la vediamo. A lui ne siamo debitori; ed è, forse uno dei primi ai quali dobbiamo rendere gli onori che destinate ai grandi uomini che hanno bene meritato della patria. Non parlo qui della condotta privata di Voltaire: Basta soltanto ch'egli abbia onorato il genere umano; che sia l'autore d'una rivoluzione così bella, così grande come la nostra, perché noi tutti ci affrettiamo di fargli rendere senza indugio gli onori che gli sono dovuti (3)».

Chiamar uomo grande colui che per tutta la sua vita è stato schiavo delle più ignobili passioni; benefattore della patria, colui che dal primo giorno in cui seppe tenere in mano una penna, non cessò di oltraggiare le più pure glorie del suo paese e di corromperlo coi mezzi più diabolici; l’onore del genere umano, colui la cui vita letteraria fu una continua prostituzione dell'ingegno ed un'insensata ostilità contro l'edifizio religioso e sociale, la cui caduta doveva tirare sull'universo mondo mali incalcolabili, oh quale oltraggio alla verità, oh quale sconvolgimento d'ogni sentimento cristiano! Ma Voltaire ha fatto la rivoluzione, Voltaire ne è il padre: Treilhard dunque è logico.

Il 30 maggio, Gossin chiede gli onori del Panteon per Voltaire, e l'assegnamento del giorno dell'apoteosi. «Voltaire, egli dice, ha creato un monumento che poggia sopra i più grandi benefizii, come sopra le più sublimi produzioni dell'ingegno. Voltaire che ha abbattuto il fanatismo, denunziato gli errori fino allora idolatrati delle nostre antiche instituzioni: egli ha squarciato il velo che copriva tutte le tirannidi. I Francesi, divenuti liberi decreteranno al liberatore del pensiero l’onore che da essi ha ricevuto uno dei fondatori della libertà (4)».

Regnault, sostenendo la proposta di Gossin, ascende di nuovo la tribuna e ripiglia: «Domando gli onori del Panteon pel filosofo che fra i primi osò parlare ai popoli dei loro diritti, della loro dignità, della loro potenza in mezzo ad una corte corrotta.

Lo sguardo suo penetrante ha letto nel futuro, e vi ha veduto l’aurora della libertà, della rigenerazione francese, di cui spandeva le sementi con sollecitudine non minore del coraggio … Voltaire col suo esempio ha fatto una rivoluzione nella storia; or bene! Quella rivoluzione ha preparato la nostra (5)».

La domanda è convertita in decreto. La domenica 10 luglio 1971 una deputazione del corpo municipale si trasferisce alla barriera di Charenton per ricevervi il corpo di Voltaire che da Romilly giungeva a Parigi.

Il tragitto, di quaranta leghe, non era stato che una serie, non interrotta di onori funebri. Il carro che portava la bara era sempre stato scortato dagli officiali municipali e dalle guardie nazionali di ciascuno dei comuni pei quali transitava. Di tratto in tratto, drappelli di fanciulle biancovestite, erano venute a deporvi corone di fiori. Rami d’alloro e di quercia intrecciati di rose, di mirto e di fiori campestri ombreggiavano quel carro di forma antica, sul quale, per epigrafe si leggevano due versi di Voltaire:

«Se libero è creato l’uomo, ei debba da sé stesso governarsi; e se l’uomo ha tiranni, dee sbalzarli trono».

Era notte quando il corteggio venne a Parigi. Ogni cosa era stata apparecchiata per riceverlo. Fiaccole, luminarie d'ogni maniera rischiaravano il cammino; e la moltitudine che l'accompagnava fa del suo ingresso nella capitale un vero trionfo. In mezzo alle acclamazioni del popolo, il corpo è condotto sulle ruine della Bastiglia: una piattaforma ergesi sull'area della torre che servì di prigione a Voltaire. La bara, prima di esservi collocata, è mostrata al popolo, che ai più vivi applausi fa succedere un religioso silenzio. Ivi riposano sino al giorno seguente le reliquie del liberatore del pensiero, in mezzo a fiori e ad arbusti d'ogni specie sotto un pergolato di rose, di mirti e di allori.

Surge, a lato, a guisa di colonna trionfale una roccia formata con le pietre provenute dai ruderi della Bastiglia. La sommità e i contorni di questa roccia sono ornate di diverse figure simboliche con l'iscrizione seguente: In questi luoghi dove t’incatenò il dispotismo, Voltaire, ricevi gli omaggi che ti rende la Patria.

Il giorno seguente, 11 luglio, ha luogo la traslazione degli avanzi di Voltaire al Panteon: nulla si è pretermesso per dar risalto alla magnificenza di quella cerimonia.

Il corteggio mettesi in cammino a due ore, nell'ordine seguente:

Parecchi squadroni di cavalleria, i zappatori, i tamburi, i cannonieri ed i giovani allievi della guardia nazionale;

Una deputazione dei collegi, le conventicole e le società patriottiche, recando ciascuna le proprie insegne e le proprie divise, fra le quali sono notevoli le seguenti, tratte dalle opere di Voltaire:

«Gli uomini sono eguali, non la stirpe, ma la sola virtù ne costituisce la differenza».

«Sterminate, - gran Dio, dalla terra in cui siamo chiunque con diletto spande il sangue degli uomini».

Molti distaccamenti della guardia nazionale ed una moltitudine d'uomini in armi marciano in ordine di battaglia; ed in mezzo a loro compariscono in abito da cerimonia tutti i bastaggi del mercato, formando un corpo separato, seguono i cittadini di Varennes e di Nancy portando i medaglioni incoronati d'alloro di Rousseau, di Mirabeau e di Franklin;

Dopo, di essi i vincitori ed i demolitori della Bastiglia portano i ferri, le palle, le catene, le corazze trovate in quella fortezza, e preceduti da Palloy, loro capo;

Un palanchino sul quale sono posti parecchi volumi intitolati:

Processo verbale degli elettori; e Sollevazione parigina di Dussablx;

Gli abitanti del sobborgo Sant'Antonio, portando la bandiera e la pianta di quella fortezza. Fra essi vedesi una donna all'amazzone, vestita dell'assisa di guardia nazionale, la qual distinzione le è stata concessa per la sua cooperazione alla presa di quella fortezza. Essa è armata d'un bastone, la cui estremità, terminata in una punta di ferro, reca queste parole: L'ultima ragione del popolo.

Un drappello di cittadini armati di picche, sull'una delle quali è posto il berretto della libertà con questa leggenda: Da questo ferro nacque la libertà.

Le guardie francesi portando un modello della Bastiglia, scolpito in pietra proveniente dalla demolizione di quella fortezza (6);

Dopo essi, la conventicola dei Giacobini, i quali, per un sentimento d’orgoglio, ben degno di quella troppo celebre congrega, tiensi appartata dalle altre società patriottiche;

Gli antichi elettori del 1789 e 1790;

I cento svizzeri e le guardie svizzere in armi;

Una deputazione dei diversi teatri della capitale, che precedeva immediatamente la statua di Voltaire. Questa statua d'oro, incoronata d’alloro, è portata dai giovani allievi delle arti, in abito antico: alcuni sollevano in alto, fra ghirlande di quercia e diversi emblemi delle Muse, medaglioni in cui leggesi il titolo delle principali opere del semidio. Gli altri portano un cofanetto d’orato che contiene un esemplare delle opere in settanta volumi, dono di Beaumarchais.

Dietro, seguivano in folla gli accademici, i dotti, i letterati e gli artisti.

Cori di musicanti, cantando inni ed accompagnandosi col suono di strumenti antichi, precedono il carro che porta il sarcofago in cui è chiusa la bara di Voltaire. Questo carro, le cui ruote e le forme tutte hanno somiglianza coi carri dei trionfatori romani, era stato costruito sopra disegno del celebre David. Dodici cavalli bianco-grigi, attellati a quattro di fronte e condotti a mano da guardie vestite alla romana, traggono quel capo-lavoro, immagine fedele della e della maestà dei concetti antichi.

Su quel carro s’innalza una tronca piramide, ornata d'un ricco drappo di velluto verde chiazzato di stelle d'oro e sorreggente un letto funereo su cui riposa l'immagine plastica, di Voltaire. Quella figura rappresenta il filosofo semi-giacente su un letto di riposo. I drappi che lo circondano ne lasciano vedere le forme della persona: nude sono le braccia, ed il volto non è improntato della larva della morte. Disopra alla testa la Fama, sotto l’emblema di una giovinetta alata, tien sospesa una corona di stelle. Entro vasi collocati ai quattro angoli del carro ardono i più soavi profumi, che diffondono per l’aere un olezzo il più squisito.

Il sarcofago è ornato di parecchie epigrafi:

Dalla parte anteriore:

AI MANI DI VOLTAIRE.

Sull’una delle facciate laterali:

COMBATTÈ GLI ATEI ED I FANATICI; INSPIRÒ LA TOLLERANZA;

RECLAMÒ I DIRITTTI DELL'UOMO CONTRO LA SCHIAVITÙ E LA FEUDALITÀ.

Sull’altra delle facciate laterali:

POETA, FILOSOFO, STORICO, HA DATO UN GRANDE IMPULSO ALLO SPIRITO UMANO, E CI HA PREPARATI A DIVENTAR LIBERI

Dalla parte posteriore:

EI DIFESE CALAS, SIRVEN, LABARRE E MONBAILLY.


Questo pomposo sarcofago sollevato a quaranta piedi d'altezza, si avanza lentamente, e nel suo cammino scuote le contrade che attraversa.

È seguito dal procuratore generale sindaco, dai ministri, dagli ambasciatori delle diverse potenze estere; dalle deputazioni dell’assemblea nazionale, del dipartimento, del distretto, della municipalità, della sezione, della Corte di cassazione, dei giudici dei tribunali di Parigi e dei giudici di pace. Il corteggio è chiuso dai veterani e da un corpo di cavalleria.

Il corteggio segue tutti i baluardi dall'area della Bastiglia e si ferma davanti all’Opera, che occupava allora il teatro della Porta S. Martino. La facciata di quell'edifizio è ornata di ghirlande di foglie e di drappi intrecciati a fiori. Il busto di Voltaire è collocato su un altare all’antica, e sotto si leggono queste iscrizioni:

PANDORA, IL TEMPIO DELLA GLORIA, SANSONE,

opere di cui Voltaire era autore. Alcuni attori in abito da scena vengono a porre corone su quel busto ed a sua gloria intonano un inno allusivo alla cerimonia.

Poscia il corteggio riprende il suo cammino, continua i baluardi sino alla piazza di Luigi XV, e segue il lungo senna della Conferenza, il ponte Reale e il lungo senna dei Teatini, conosciuto di già allora sotto il nome di lungo senna Voltaire.

Si ferma rimpetto al palazzo Villette, posto all’angolo della contrada di Beanne. Ivi Voltaire aveva passato gli ultimi suoi giorni.

Quattro altissimi pioppi, congiunti da ghirlande di fiori e di alloro formano una vòlta di verzura, in mezzo alla quale è una corona di rose che discende sul carro nell’atto che vi passa sotto. La facciata dell'edifizio reca questa leggenda:

Il suo spirito è in ogni luogo, ma il suo cuore è qui.

Sul davanti è un rialto a forma d'anfiteatro sul quale, sono schierate cinquanta fanciulle bianco-vestite, con cinture azzurre, inghirlandate di rose, e con una corona civica in mano. Due di esse si distinguono fra le altre per lunghe vesti di lutto: sono le figlie di Calas.

Madama di Villette, che aveva adottato la tenerezza paterna di Voltaire, si avanza allora per posare una corona sul capo della statua di suo zio; e, mossa dai più vivi sentimenti di tenerezza e di dolore, cinge con le braccia e copre di baci, il marmo inanimato che ne fa rivivere, le care sembianze. A questa scena commovente, tutti gli spettatori sono compresi della più sentita tenerezza, ed i lugubri concenti d'una musica flebile raddoppiano la commozione generale. Si cantano poscia a coro strofe d'un'ode di Chénier messe in musica da Gossec. Finita la stazione, il corteggio a cui si aggiunge madama di Villette, circondata dalla famiglia Calas, da La Harpe, che era anch'esso un figlio adottivo di Voltaire, e da un numeroso drappello di dame vestite di bianco ed ornate di cinture e di nastri tricolorati, riprende il cammino e piega verso il teatro della Nazione, oggidì dell'Odeone.

Davanti all'antica area della commedia francese, posta nella contrada dei Fossi di San Germano de' Prati, che è lungo il passaggio del carro trionfale, è un busto di Voltaire incoronato da due Genii; e nella base si legge quest'epigrafe:

Compose Edipo a diciassette anni.

All'Odeone un nuovo omaggio è riservato ai mani del patriarca di Ferney. I più, magnifici drappi, ghirlande artatamente disposte fregiano tutta la facciata di quell'edifizio: festoni la spira ciugono le colonne, e su ciascuna è un titolo delle teatrali composizioni di Voltaire, scritte in trentadue medaglioni. Sul frontone dell'edifizio è questa leggenda: Compose Irene di ottantatrè anni.

Giungendo il corteggio, apresi il vestibolo che era stato chiuso da un drappo, e vedesi nel fondo l'immagine marmorea di Voltaire tutta raggiante di lumi. Tosto si veggono i principali personaggi drammatici da lui messi in scena, vestiti alla foggia dei diversi tempi e coi loro attributi, venire a prestare omaggio al Genio Creatore che sì degnamente li ha rappresentati. Bruto gli offre un fascio di allori; Orosmane, i profumi dell'Arabia; Alzira i tesori del nuovo mondo;Nanina, un mazzolino di rose; e, durante questa scena di riconoscenza, una musica deliziosa eseguiva a piena orchestra i cori dell'opera il Sansone.

Era la notte quando il corteggio si rimise in cammino al chiarore delle fiaccole e delle luminarie, e non giunse che a dieci ore al Panteon, dove la spoglia mortale di Voltaire fu deposta con tutta la pompa degna di quella festa trionfale. (7).

«Questa cerimonia aggiunge il Monitore, è stata una vera festa nazionale. Da per tutto si vedevano busti di Voltaire incoronati, leggevansi le massime più divulgate delle opere sue immortali: tutte le lingue le ripetevano. In tutta la lunghezza della via percorsa da quel superbo corteggio, una moltitudine immensa di cittadini era affollata nelle contrade, alle finestre e sui tetti delle case» (8).

Corone, carro trionfale, luminarie, plausi, processione, mostra di reliquie, inni, incensi, quietorio, nulla la rivoluzione dimentica nel culto che rende a Voltaire. Può egli dirsi in modo più esplicito: Egli è il mio santo, ei fu mio padre?


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CAPITOLO II.

APOTEOSI DI ROUSSEAU.



La rivoluzione lo riconosce in proprio padre. - Pensione alla sua vedova. - Domanda degli onori del Panteon. - Parole di Eymard. Descrizione dell'apoteosi,



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Quello che la rivoluzione aveva fatto in onore di Voltaire, lo fece anche per Rousseau.

Il martedì 21 dicembre 1790, Barère ed Eymard ascendono, alla tribuna e chiedono una pensione a carico dello Stato per la vedova (9) di Gian Giacomo Rousseau, ed una statua per Rousseau medesimo. «Atene, dice Barère, alimentò la famiglia di Aristide: che non farà la nazione francese, per la vedova di Gian Giacomo Rousseau?» Fra gli applausi di tutta l'assemblea Teresa Levasseur riceve una pensione vitalizia di 1200 lire (10). Perorando per Rousseau: «Nel momento, dice Eymard, in cui la più stupenda e la più completa delle rivoluzioni si effettua in Francia, quanta riconoscenza non dovete a colui che vi ha dato in mano le armi vittoriose con cui avete combattuto il dispotismo ed assicurati per sempre i nostri diritti alla libertà! Chiedo che dopo aver dato un grande esempio al mondo, sia riservata anche alla Francia questa gloria d'aver onorato, ad esempio dei popoli antichi, in modo degno di lei e degno di lui l'uomo immortale che, fu suo benefattore, o più veramente il benefattore del genere umano (11)». La sala rintronò d'unanimi applausi, e Rousseau avrà una statua.

Ciò non basta: Rousseau deve partecipare con Voltaire agli onori dell'apoteosi.

Il sabato 27 agosto 1791 presentasi all'assemblea una deputazione di letterati di Parigi, presieduta dal signor Vittore Broglio. L’oratore parla in questi termini:

«Avete collocato nel Panteon quel versatile ingegno a cui si è fatto rimprovero d'aver abbracciato tutti i generi; il quale per altro non vi pose mano che per ischiacciare sotto i piedi della filosofia il mostro del fanatismo e della superstizione. Voltaire fu il precursore necessario delle opere vostre; abbatté dinanzi a voi tutto ciò che poteva esservi d'ostacolo: spianò per così dire l’area su cui avete innalzato l'edifizio della nostra libertà.

«Gli avete concessi gli onori che gli erano dovuti: avete saldato il vostro debito alla sua memoria: ma lo avete forse saldato anche alla memoria dell’autore del Contratto sociale? L’eguaglianza dei diritti tra gli uomini e la sovranità del popolo furono stabiliti in sistema da Rousseau pel primo sotto gli occhi stessi del dispotismo. Quelle due idee madri hanno germogliato nelle anime francesi e nelle vostre mediante la meditazione dei suoi scritti: e se, come non si può negare, tutta la nostra costituzione non ne è che lo svolgimento, io sostengo che Rousseau è il primo fondatore della costituzione francese... Per la memoria dunque di questo grand’uomo domandiamo onori che ne vendicheranno il cenere, che sdebiteranno la Francia e che daranno maggior lustro alla vostra gloria (12).

Il presidente risponde: «L'assemblea nazionale, col distruggere tutti i titoli d’orgoglio ha dato maggior lustro ai veri titoli di gloria. Essa ha voluto che d’ora innanzi l’ingegno, la virtù, i talenti fossero i soli segni di distinzione fra i cittadini dell'impero. Ciò era nel collocare nel primo ordine colui che li riunì tutti; era un mettere Gian Giacomo Rousseau in un posto dove non potesse avere chi lo superasse. L'assemblea prenderà in considerazione la vostra domanda, e v'invita ad assistere alla sessione » (13).

Eymard richiede che l'assemblea decida immediatamente. «Presentateci, dice egli, ad imitazione degli antichi, oggetti di emulazione; presentateci quelle ricompense che sopravvivono a coloro che le hanno ottenute » (14). Una sola difficoltà si oppone al voto dell’assemblea. Il signor Girardin d'Ermenonville sostiene di essere proprietario degli avanzi di Rousseau; ma la difficoltà viene rimossa dal signor Matteo Montmorency: «I fatti, egli dice, di cui si sono intertenuti preopinanti dovevano essere estranei ad una questione che è tutta propria dell'ammirazione e della riconoscenza nazionale. Credo impossibile che il signor Girardin voglia opporsi agli onori che si vogliono rendere a Rousseau, e che voglia contendere alla nazione le ceneri d'un uomo che le appartiene per tanti titoli. L'assemblea, impaziente di rendere in atto il sentimento onde è animata, soddisfarebbe ai sacri diritti della proprietà, e al voto nazionale, se volesse decretare che gli onori destinati ai grandi uomini saranno resi a Rousseau, e rimandare per l’eseguimento al comitato di costituzione» (15).

Questa proposta viene accettata, ed il 21 settembre si promulga il decreto che innalza Rousseau agli onori del Panteon (16). Per meglio accalorare l'entusiasmo, Palloy, al 6 ottobre, viene a fare omaggio all'assemblea del busto di Rousseau, scolpito in rilievo su una pietra della Bastiglia (17). L'assemblea manifesta la viva sua riconoscenza e decreta che il busto di Rousseau sarà collocato nella sala delle sue adunanze. Giuseppe Chénier poi pel giorno della festa compone un inno in cui tutte le condizioni e tutte le età celebrano le lodi del futuro semidio.

Giunge finalmente il 20 vendemmiatore anno III (11 ottobre 1794), giorno stabilito; come dicevasi, per la cerimonia più bella, più greca che mai siasi veduta. Il giorno 18, l’urna funerea che rinchiude le ceneri di Rousseau è tolta via dall'isola dei Pioppi e portata in trionfo dai cittadini d'Ermenonville sino al comune d'Emilio, già Montmorency: e vi stette sino al dì seguente.

Il 19 il corteggiò si mette in cammino per Parigi. Verso le sei ore della sera giunge alla piazza della rivoluzione, e si ferma al ponte Tournant, ai piedi della Fama, che sembra annunziare all'universo l'apoteosi d'un grand'uomo (18). Ivi una deputazione della Convenzione viene a ricevere i resti di Rousseau.

L'urna ceneraria, condotta rispettosamente su un carro ornato di ghirlande, è deposta in mezzo al gran bacino del palazzo nazionale (le Tuileries), in un'isola artificiale, circondata di salici piangenti e di pioppi che ricordano agli spettatori i laghetti d'Ermenonville. lvi, in un tempietto di forma antica riposa l'urna di Gian Giacomo Rousseau. Durante tutta la notte vi riceve gli omaggi del popolo; sino al momento di sua traslazione al Panteon.

Il 20 alle ore nove della mattina tutti i cittadini traggono in folla al giardino nazionale: tutto annunzia la festa d'un popolo libero. Allorché si sono riuniti tutti coloro che debbono comporre il corteggio, la Convenzione nazionale, togliendosi dal luogo delle sue sedute, I comparisce sulla vasta tribuna posta davanti il peristilio del palazzo. In quel momento l'istituto di musica esegue una marcia, seguita dall'aria composta da Rousseau: Ho perduto ogni mia felicità. Poscia, dall'alto di quella tribuna, il presidente legge ad alta voce i decreti resi per onorare la memoria di Rousseau. Questa lettura, spesso interrotta da grandi acclamazioni, viene seguita dall'aria di Rousseau: Nell'oscura mia capanna.

Finalmente il corteggio si mette in cammino così composto:

Primo gruppo. Musici che eseguono i teneri concenti dell’Indovino del villaggio e di altre arie, di composizione di Gian Giacomo Rousseau.

Secondo gruppo. Botanici con piante, fiori e frutti e con questa iscrizione:

Lo studio della natura lo consolava dell'ingiustizia degli uomini.

Terzo gruppo. Artisti ed artigiani di ogni specie, con gli strumenti della loro arte e del loro mestiere, e con l'epigrafe seguente:

Riabilitò le arti utili.

Quarto gruppo. Deputati delle sezioni di Parigi, portanti le tavole dei diritti dell'uomo, con questa leggenda:

Reclamò il primo questi diritti imperscrittibili.

Quinto gruppo. Madri, vestite all’antica, delle quali alcune tenevano per mano i loro figli, e portandoli altre fra le braccia, con quest'iscrizione:

Restituì le madri ai loro doveri ed i figli alla felicità.

E per verità propriamente a Rousseau ed alla sua eloquenza le madri sono debitrici della felicità che fino allora, avevano sconosciuta, la felicità cioè di allattare esse medesime i loro figli e di allevarli sott'esso i loro occhi.

La statua di G. G. Rousseau incoronata dalla libertà. Sul piedistallo leggesi la sua prediletta divisa:

Vitam impendere vero.

Tutta la vita consacrare al vero.

E' sotto questa leggenda:

In nome del popolo francese

La Convenzione Nazionale a G. G. Rousseau Anno Secondo della Repubblica.

Sesto gruppo. Abitanti di Franciade, d'Emilio e di Groslay, con questa iscrizione:

In mezzo a noi compose

Eloisa, Emilio e il Contratto Sociale.

Settimo gruppo. Abitanti d'Ermenonville circondando il carro che porta l’urna cineraria, sulla quale sono scolpite queste parole:

Qui riposa l'amico della natura e della verità.

Ottavo gruppo. Ginevrini con l'inviato della loro repubblica: essi portano questa iscrizione:

Ginevra aristocratica l’aveva a proscritto; Ginevra rigenerata ha vendicato la sua memoria.

Nono gruppo: La Convenzione nazionale circondata da un nastro tricolorato e preceduta dal Contratto sociale, chiamato il Faro dei legislatori.

Tutti questi gruppi camminano a dieci persone di fronte, fra le acclamazioni della folla accalcata sulla via del corteggio.

Nella guisa che Voltaire aveva fatto una stazione al palazzo Villette, Rousseau ne fa una nella contrada. Onorato, rimpetto alla conventicola dei Giacobini. Ivi una corona civica è deposta sul sarcofago del liberatore.

Giunti al Panteon, il sarcofago contenente la bara di Rousseau è portato trionfalmente nell'interno del tempio, e collocato sopra un catafalco eretto sotto la cupola. Intanto l’instituto di musica esegue l'aria composta da Gian Giacomo Rousseau:

Io l'ho piantato, l'ho vista nascere.

Il presidente della Convenzione nazionale (Cambacérès), in un'orazione funebre, in onore di Rousseau passa in rassegna le opere e gli scritti che lo rendono immortale:

«Cittadini: egli dice, gli onori del Panteon decretati ai mani di Rousseau, sono un omaggio che la nazione rende alla virtù, ai talenti ed all'ingegno... Egli profondo filosofo morale, egli apostolo della libertà e dell'eguaglianza, egli il precursore che ha chiamato la nazione nelle vie della gloria e della felicità; e se una grande scoperta spetta in proprio al primo che l'ha segnalata, noi siamo debitori a Rousseau di questa rigenerazione salutare che ha operato cangiamenti tanto avventurati nei nostri costumi, nelle nostre usanze, nelle nostre leggi, nei nostri intelletti, nelle consuetudini nostre...

«Alla sua voce l'uomo è stato libero dalla culla alla tomba. Cittadini, l'eroe di tante virtù doveva pur esserne il martire.... La sua vita segnerà un'epoca nei fasti della virtù; questo giorno, questi onori, quest'apoteosi, tutto ci annunzia che la Convenzione, nazionale vuole saldare ad un tempo verso il filosofo della natura è il debito dei Francesi e la riconoscenza dell'umanità (19)».

Dopo il panegirico, Cambacérès, in abito di cerimonia, s'avvicina al sarcofago, e, a nome dell'intera Francia, spande fiori sulla tomba di quell'uomo celebre.

La cerimonia finisce con l'inno di Chénier, musicato da Gossec, la cui prima strofa è cantata dai vecchi e dalle madri di famiglia: la seconda, dai deputati della Convenzione: la terza, dai fanciulli e dalle donzelle; la quarta, dagli abitanti di Ginevra; e la quinta dai giovani: il coro è ripetuto dal popolo, e da tutti gli spettatori:

I vecchi e le madri di famiglia.

O tu che ritraesti le sembianze ingenue d'Emilio e di Sofia: tu che ristabilisti i diritti sconosciuti della natura avvilita, illumina i nostri figli e le figlie nostre; educa alla virtù i giovani loro cuori, e rendi felici le nostre famiglie per l'onore delle leggi e dei costumi.

Coro

Oh Rousseau! modello de' savi, benefattore dell'umanità. Accetta gli omaggi d’un popolo altero e libero; e dal fondo del tuo sepolcro sostieni l'eguaglianza.

I rappresentanti del popolo.

La tua mano, spezzando i ferri da lungo tempo ribaditi della terra inschiavita, ritrovò gli smarriti titoli della primitiva sua libertà. Il popolo, armandosi della folgore e di quel patto solenne ha posto l'eterno suo trono sulle ruine dei re esinaniti.

Coro

Oh Rousseau, ecc.



I fanciulli e le donzelle.

Tu emancipasti tutti gli schiavi: copristi d'infamia tutti gli oppressori; per opera tua, senza afflizioni e senza impacci i nostri primi giorni scorrono fra le dolcezze. Accogli i voti riconoscenti di coloro cui togliesti a difendere. Rousseau fu l'amico dell'infanzia: Rousseau è caro ai fanciulli.

Coro

Oh Rousseau, ecc.



I ginevrini.

Vedi presso l’augusto tuo cenere i tuoi amici, i tuoi concittadini; filosofo tenero e giusto, i nostri oppressori furono pure i tuoi; e nella seconda tua patria Ginevra agitando la sua bandiera, Ginevra, tua madre diletta, canta il proprio figlio, il buon Rousseau.

Coro

Oh Rousseau, ecc.



Combatti sempre la tirannide, che alla sola tua rimembranza si sgomenta: la morte non spegne il tuo genio; questa face risplende pel futuro. Il limpido e fecondo suo splendore ha rianimato la terra in pianto; e la Francia, in nome dei due mondi, spande fiori sulla tua tomba.

Coro

Oh Rousseau! modello de' savi, benefattore dell’umanità, accetta gli omaggi d’un popolo altero e libero; e dal fondo del tuo sepolcro sostieni l'eguaglianza (20).



Nel giorno appresso, nella seduta della conventicola dei Giacobini, Boissel, vice-presidente, ascende alla tribuna, e parla in questi termini: «Cittadini, vengo a ragguagliarvi dell'eseguimento della vostra ordinanza che decreta una corona civica ai mani di G. G. Rousseau: Allorché il carro che portava il busto di questo filosofo si è fermato all'ingresso di questo edifizio, ed intanto che un giovane cittadino posava la corona sul capo di Gian Giacomo, il vostro vice-presidente, rivolgendosi al popolo, diceva: «Cittadini, la società degli amici della libertà e dell'eguaglianza, seguaci, professori e continuatori invariabili dei principii e della dottrina dell’immortale Gian Giacomo, manifesta, mediante l'offerta d'una corona civica ai mani di quest'ardente amico dell'umanità, la propria determinazione di prenderlo incessantemente per modello e per guida nelle sue opere...»

«Questo discorso, cittadini, è stato accolto con vivi applausi. Il vostro vice-presidente è stato invitato di salire sul carro per rappresentare le quattro età. Egli si è assiso ai piedi della vedova di Gian Giacomo; ed in tal modo è stato condotto sino al Panteon (21)».

L'apoteosi di Rousseau, come si vede, rivaleggia con quella di Voltaire. Parigi non rese mai più solenni omaggi a Gesù Cristo: non fece mai processione più splendida e più pomposa per onorare il Figliuolo di Dio di quella in cui, traendo in trionfo i cadaveri di Voltaire e di Rousseau, li presentò alla pubblica venerazione, e li condusse solennemente in una chiesa cattolica, divenuta loro santuario. Voltaire e Rousseau onorati nella metropoli della Franchi come il Santo de' santi; e dopo sessant'anni la rivoluzione dare all'Europa e al mondo lo scandalo inaudito dei corifei del libertinaggio e della libertà collocati nella chiesa stessa di Gesù Cristo! La rivoluzione non è morta.

Ma lasciamo stare il lato sacrilego di quell’apoteosi. Col dare al patriarca di Ferney ed al filosofo di Ginevra simili testimonianze di pietà figliale, la rivoluzione non dice forse, in un linguaggio che non ammette più dubbio, che non abbisogna più di chiosa: Sì, io sono figlia di Voltaire e di Rousseau?


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CAPITOLO III.

MABLY E GLI ALTRI FILOSOFI.



La rivoluzione è distruzione e ricostruzione. - Voltaire la personifica nella sua opera di distruzione religiosa - Rousseau, nella sua opera di distruzione sociale: ambedue, nella loro opera di ricostruzione religiosa e sociale. - Mably; altro preparatore della rivoluzione. - Suo epitaffio. ­ Domanda, in suo favore, di una statua; degli onori del Panteon.- Parole di Arnoux e di Dussaulx. - La rivoluzione riconosce tutti gli altri filosofi per suoi avi. - Parole di Landine, di Chabroud, di Prud'homme, di Baudin; di Robespierre; di Riouffe. - La testimonianza della rivoluzione giustificata dalla filosofia stessa. - Genesi del Volterianesimo.


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La rivoluzione francese fu distruzione e ricostruzione. Distruzione dell'ordine religioso e dell'ordine sociale stabilito; ricostruzione d'un ordine religioso e d'un ordine sociale fabbricato dall'uomo, da lui diretto e da lui congegnato per assicurarsi la propria sovranità universale. Di che ne conseguita che niente vi è di più conforme alla logica della duplice apoteosi che abbiamo descritta. Voltaire in più special modo personifica la rivoluzione, nella sua opera di distruzione religiosa: Rousseau la personifica in particolar maniera nella sua opera di distruzione sociale: e l'uno e l'altro insieme la personificano egualmente nei suoi principi di ricostruzione, religiosa e sociale. Così, nella guisa stessa che la quercia è tutta intera nella ghianda sepolta sotterra, non altrimenti nel secolo XVIII la rivoluzione è tutta intera in Voltaire e in Rousseau.

Animati dallo spirito medesimo dei loro maestri, gli altri filosofi, sebbene in gradi inferiori, sono essi pure i precursori della rivoluzione. Questa, qual debbe una figlia riconoscente, non dimentica nessuno dei suoi avi, e retribuisce ciascuno secondo le sue opere. Ora, vi è un uomo che per i suoi principi politici, e per la sua ammirazione delle istituzioni repubblicane dell’antichità, cammina a lato di Voltaire e di Rousseau, cui va innanzi con le sue teoriche socialistiche; e quest'uomo è Mably; e se avesse avuto la veste talare di meno ed un po' più di eloquenza, sarebbe entrato nel Panteon come loro.

Fin dal suo nascere, la rivoluzione lo riconosce per uno dei suoi antenati; ed il suo ritratto, copiosamente diffuso, vien presentato alla riconoscenza, pubblica con quest'epigrafe:

«Ecco le sembianze di questo grand'uomo, condotto dalle sue opere all'immortalità; nato degno di Sparla e di Roma; morto ahi! Troppo presto per la Francia e per la libertà» (22)

Poco appresso si chiede per lui una statua (23); poscia se ne ristampano le opere, dicendo: «Ero debitore verso la patria della pubblicazione delle sue opere, in un tempo principalmente in cui si ha bisogno di tante cognizioni sociali e politiche e di tante virtù! Quali opere vi ha delle sue più proprie a fornir le une e ad infondere l'amore delle altre»? (24) Finalmente si domandano per lui gli onori del Panteon. «Mably, dice il deputato Arnoux, ha scritto pei popoli: ho insegnato loro i propri diritti che ignoravano o che avevano dimenticato. Vi è una ricompensa degna di lui e degna di voi: e veniamo a domandarvela. Questa ricompensa è che la sua immagine sia collocata nel monumento che avete eretto ai grandi uomini i quali hanno ben meritato della patria.

«I titoli di Mably a questa gloria si contengono nelle sue opere. Esse hanno servito di fiaccola nella carriera della rivoluzione...

«Voi non sarete gli ultimi, o legislatori, a pagare questo sacro debito, se debbo prestar fede al modo onde poc'anzi accogliete la proposta di uno di noi che in un momento di entusiasmo designava Mably al Panteon. O uomo grande, tutto lo dice al mio cuore, quanto prima suonerà per te l'ora dell'immortalità (25)». L'assemblea applaude e rinvia la proposta ai tre comitati riuniti di salute pubblica, di legislazione e d'istruzione pubblica. I comitati trascurano di fare il loro rapporto, e per Mably non suona l'ora dell'immortalità.

Riguardo poi agli altri filosofi del XVIII secolo, la rivoluzione non lascia sfuggire nessun'occasione di dichiararsene figlia e di pagar loro il tributo della sua pietà figliale. Il 1° agosto 1791, per voce del signor di Landine, essa dice: «Gli autori delle dichiarazioni dei diritti naturali hanno egregiamente stabilito che l'uomo è nato libero ... Io mi compiaccio di adottare e di professare i medesimi principii. Locke, Cumberland, Hume, Rousseau e molti altri li hanno svolti: le loro opere li hanno fatti germogliare fra noi» (26).

Poscia: «Usciti appena dalle foreste, i nostri padri non avevano che il buon senso della natura ... e questi filosofi che pei primi ci hanno insegnato la via della felicità e della libertà, questi filosofi screditati da tutte le tirannidi non debbono finalmente ricevere il premio del loro zelo, vedendoci profittare dei loro lumi»? (27).

Ed altrove: «Se Montesquieu, Rousseau, Mably, Voltaire non avessero rivolte liberamente le proprie riflessioni sopra lo stato di miseria, a cui era ridotta la povera specie umana; se non avessero avuto il nobile ardimento di pubblicare i loro pensieri, a loro gran rischio e pericolo, il popolo non avrebbe mai pensato ai propri diritti, né mai sarebbe insorto. Siate riconoscenti verso coloro fra i nostri contemporanei che coraggiosi alimentano questo fuoco sacro, acceso dai nostri predecessori. Un buon libro é una leva capace di smuovere l'universo intero» (28).

Guidata sempre dalla riconoscenza, aggiunge: «La presa della Bastiglia è il primo degli avvenimenti che aiutarono il conquisto della libertà... La ragione raccoglie questa volta i frutti d'una vittoria che da lungo tempo aveva preparata. Montesquieu, Rousseau, Mably, voi avevate fabbricate le armi dalle quali fu colpita la tirannide, che annoverava fra le chimere i principi che avete rivelati e che noi ci gloriamo di professare» (29).

Ed altrove per voce di Robespierre: «Il mio Dio è quegli che protegge gli oppressi, e che stermina i tiranni: il mio culto è quello della giustizia e dell’umanità... Già la face della filosofia, penetrando fino nelle condizioni più da essa remote, ha dissipato tutti gli spaventevoli o ridicoli fantasmi che l'ambizione dei preti o la politica dei re ci avevano ordinato di adorare in nome del cielo .... Quanto prima, non vi è dubbio, il Vangelo della ragione e della libertà sarà il vangelo del mondo» (30).

«La filosofia, dice Riouffe, è stata la nostra forza motrice...

Che cosa fanno gli scrittori controrivoluzionari? Osteggiano gagliardamente questa filosofia. Se riesce loro di distruggere lo spirito filosofico faranno infallibilmente la controrivoluzione. Si può dunque dire con certezza che un antifilosofo è un antirepubblicano (31)».

Cento altri passi non meno espliciti leggiamo nel Monitore; libro inalterato ed inalterabile, dove la rivoluzione stessa ha fatto deposito liberamente dei suoi più intimi pensieri. Egli è dunque evidente che la rivoluzione si è proclamata figlia di Voltaire e di Rousseau, o della filosofia del XVIII secolo.

Cotal discendenza è poi fondata?

Si può senza timore rispondere affermativamente sulla parola della rivoluzione: perocchè, giova il ripeterlo, la rivoluzione, meglio d'ogni altro conosce la propria genealogia. Tuttavia non vogliamo attenerci soltanto alla sua testimonianza: svolgiamo profondamente il subietto, e non dimentichiamo che ogni rivoluzione si riepiloga in queste due parole: distruggere e ricostruire. Distruggere l'ordine religioso e l'ordine sociale stabilito dal cristianesimo; ricostruire un ordine religioso ed un ordine sociale sul modello della classica antichità, ecco, tutta la rivoluzione nella duplice forma di sua esistenza, se abbiamo fede nella storia. Ora, distruggere e ricostruire non è forse l'essenza del Volterianesimo, e di tutta la filosofia del secolo passato? Risguardata nel suo complesso, nei suoi antesignani, in Francia e in Inghilterra, nelle principali sue elucubrazioni, nei suoi sforzi costanti, la gran lega dei letterati del secolo XVIII è forse altra cosa che un assalto continuo contro il cristianesimo e contro l'ordine sociale stabilito dal cristianesimo? Qual principio cristiano in filosofia, in morale, in politica, in letteratura ha essa rispettato? Quale istituzione nata dal cristianesimo, dal papato sino agli ordini religiosi, alle corporazioni laicali, alla società domestica, alla stessa proprietà non ha essa balestrato di fronte? In una parola, quale persona, qual cosa cristiana ha potuto scamparne i sarcasmi ed i sofismi?

E nel tempo stesso: quali continue tendenze verso la bella antichità! quali lodi della, sua libertà, del suo incivilimento, delle sue virtù, delle sue leggi, delle sue arti, delle sue istituzioni, delle sue usanze, dei suoi filosofi, dei suoi oratori, dei suoi poeti e dei suoi eroi? quali sforzi perseveranti per ricondurre le moderne nazioni verso quel tipo ammirato!

Da questi fatti generali e pubblicamente noti, risulta che la rivoluzione era nella filosofia, come il bambino nel seno della madre: che era già formata, già viva nell'ordine delle idee prima di diventare visibile, e, per così dire, palpabile nell'ordine dei fatti.

Ha dunque buon fondamento l'obiezione che ne si oppone, dicendo: «La rivoluzione francese non è soltanto figlia degli studii di collegio, ma anche del volterianesimo». Ben alieni dal negare il fatto, l'abbiamo anzi confermato.

Ma, e il volterianesimo di chi é figlio? poiché, al postutto esso non è nato appiè d'un albero come un fungo: anch'esso dunque dee avere una genealogia: e quale?

I volteriani ci rispondono anche oggidì: Siamo filosofi e rivoluzionari e ne siamo alteri, ma siamo figli del risorgimento e della filosofia, prima di essere figli della rivoluzione (32).

Nel nostro studio dell'origine del male, quest'asserzione, come, ben si comprende, é di un'estrema importanza: ora rimane a sapere se sia vera e sino a qual punto. Per formare l’opinion nostra, vuolsi interrogare la storia, e domandarle se realmente Voltaire, Rousseau, Mably, Hume, Cumberland, gli enciclopedisti e gli altri filosofi, strascinati nella loro orbita, sono figli del Risorgimento e degli studii di collegio. Lo sapremo con certezza se, da una parte, sino dalla loro tenera età sono stati educati dal Risorgimento, nutriti del suo latte, animati dal suo spirito; e sé dall'altra, le loro opere ed i loro atti per tutto il corso della vita loro, non sono che il riflesso dei loro classici studii.



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CAPITOLO IV.

VOLTAIRE.



Figlio del Risorgimento, e degli studii di collegio perde la fede e la costumatezza.- Suoi primi versi. - Testimonianza dell'educazione classica ricevuta. - Ignoranza e disprezzo del cristianesimo. - Entusiasmo pel paganesimo. -Testimonianza di Condorcet - Di La Harpe. – Di Lefranc di Pompignano. - Analisi della Filosofia della storia. -Tutte le teoriche, tutte le favole dell'antichità classica, ammirate e riprodotte da Voltaire. - Disprezzo costante dei cristianesimo, della sua lingua, delle sue arti, dei suoi uomini. - Elogio del Risorgimento.



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Voltaire è uno dei più terribili esempi dell'influenza degli studii di collegio nello spirito e nel cuore della gioventù. «Studiando Virgilio, diceva Sant'Agostino, ancor giovanetto, perdetti la mia innocenza (33)». «Vivendo in mezzo ai Greci ed ai Romani ed alle loro miriadi di deità ho perduto la fede, diceva Napoleone, e questo mi accadde assai di buon'ora, nell'età di tredici anni (34)». Voltaire ancor più sciagurato, vi perdette l'una e l'altra. Udiamone i biografi.

Voltaire (Francesco Maria Arouet) nacque a Chatenay, presso Parigi, il 20 febbraio 1694. Di dieci anni fu messo nel collegio di Luigi il Grande, diretto dai gesuiti. - «Ho passato sette anni nel collegio di Luigi il Grande… il marchese di Chàteauneuf, ambasciatore all’Aja mi condusse seco in qualità di paggio nel 1713 (35). Molti uomini celebri di quell'ordine, il padre Charlevoix, il padre Tournemine, il padre Lejay e il padre Porée, furono successivamente i maestri di Voltaire, il quale in collegio si distinse fra tutti gli altri. Nel 1710 ottenne il premio di versificazione latina (strictae orationis). Alcuni componimenti in versi francesi ch'ei fece in collegio fanno conoscere di qual alimento si nutriva il giovane suo intelletto. Un epigramma dell'Antologia veniva così da lui tradotto:

«Leandro guidato a nuoto dall'Amore, diceva alle procelle: Lasciatemi toccar riva, e non mi sommergete che al mio ritorno».

Gli veniva dato per compito una composizione in versi sulla statua di Pigmalione: ed ei presentò i seguenti:

«Se Piginalione la plasmò, se il cielo l'animò del suo soffio, Amore fece di più, l’infiammò: senza di lui che varrebbe il nascere?»

Volgarizzava anche Odi di Anacreonte: poi gli, si dava a comporre versi sopra la morte di Nerone, che si uccise da sé stesso; e così esprimendosi:

«Complice della morte d'una madre esecrabile, se muoio di mia mano ben l'ho meritato: e non avendo in mia vita commesso che atti di crudeltà, ho voluto, uccidendomi, commetter un atto di giustizia (36)».

Si vede in qual paese viveva Voltaire, essendo in collegio. L'antichità classica diventa il suo cielo. Togliere dai Greci e dai Romani i loro sentimenti, le loro immagini, lo stesso loro linguaggio fu per esso l'unica fonte del bello e la condizione di sua riuscita: e ne avremo una prova da tutta la sua vita poetica. Intanto alleghiamo un solo componimento che scrisse in età di appena quindici anni. Un dì il professore di Voltaire fu pregato da un vecchio invalido di fargli un memoriale in versi pel Delfino. Il professore rinvia l'invalido al proprio discepolo, e ne ottenne la seguente composizione:

«Nobile sangue del più grande dei re, amor suo e nostra speranza; oh, voi che senza regnare sulla Francia, regnate però nel cuore dei Francesi; potete tollerare che il mio estro, mediante uno sforzo ambizioso, osi presentare una strenna a voi che non ne ricevete che dalla mano degli Dei? La Natura, facendovi nascere, vi fornì delle più belle sue attrattive; e fece vedere nei primi vostri alti che il figlio di Luigi era degno del padre. Tutti gli Dei gareggiarono in farvi i loro doni: Marte vi diè la forza ed il coraggio; Minerva, fin dagli anni vostri giovanili, all’ardente fuoco dell'età aggiunse la saggezza; Apollo, vi diè la bellezza; ma un Dio più potente, cui imploro nelle mie angustie, volle dare a me pure le strenne, dando a voi la generosità.

E questo non è altro che il frasario mitologico come si insegna nei collegi: queste sono le fonti poetiche dischiuse dal Risorgimento all'estro cristiano. Parlando di sé medesimo, Voltaire il quale, come i suoi compagni, prendeva in sul serio quelle leggi del Parnaso, dice che Apolline ha presieduto al nascer suo: che quel Dio potente gli ha aperto il suo santuario, ed altre simili cose non meno classiche (37).

Nell'ode che compose alcuni anni dopo sopra santa Genoveffa, ei parla degli dei ribellati contro i re; di Marte che guida il suo carro attaccato dall'Odio. Ma non essendo stata fatta buona accoglienza alla sua poesia, se ne vendicò con una satira tutta formicolante di nomi poetici del Parnaso, di Febo, di Catullo, di Mecenate, d'Anacreonte, di Virgilio, d'Orazio, d'Omero, di Roma e della Grecia (38).

Intanto l'assidua frequenza della bella antichità non pone indugio ad infondere nel giovane Arouet, di mente più svegliata degli altri suoi coetanei, un profondo aborrimento pel cristianesimo. Il padre Porée ed il padre Lejay s’avvedono di questa mala tendenza, «e si danno ogni maniera di sollecitudini per far gustare al loro discepolo le grandi verità della religione» (39). Inutili sforzi! La fortezza era già conquistata e per sempre!

«Nell'età di dodici anni, il giovine Arouet manifestava i principii; e vomitava i sarcasmi che poscia ha introdotto in moltissime sue opere. È verissimo che il padre Lejay gli predisse fino d'allora ch'ei sarebbe il portinsegna dell'incredulità (40)» Al pervertimento della mente s'aggiunge la corruzione del cuore. Appena uscito di collegio Voltaire ha una amante, figlia di buona famiglia che tenta di rapire. Ciò accadeva nel 1713 ed egli aveva diciannove anni (41).

Se Voltaire, in collegio, ha perduto l'innocenza e la fede, vi trovò un'invincibile passione per l'antichità pagana. Tutta la sua mente è nelle belle lettere, intese al modo che s'intendevano in collegio, modellate cioè sugli antichi, inspirate dal loro spirito, foggiate sulle loro forme, e per quanto era possibile, esprimenti anche i loro sentimenti religiosi e politici: «a tal segno, dicono le Memorie di Servières, che non volle mai arrendersi alle vedute di suo padre che lo destinava al foro» (42).

Anima vuota di cristianesimo e briaca di paganesimo: ecco, Voltaire anche prima che uscisse dal collegio di Luigi il Grande. Come mai quel fanciullo entrato in collegio di dieci anni, col duplice tesoro della fede e dell'innocenza di quell'età, affidato ai maestri virtuosi e dotti, circondato da cure speciali, come mai così presto, è miscredente e libertino, dispregiatore pubblico del cristianesimo, ed appassionato ammiratore del paganesimo? Se Voltaire in collegio non avesse perduto che la fede e la costumatezza, si potrebbe ciò attribuire ai cattivi compagni e ai cattivi libri; la qual cosa per altro saria poco verisimile in un collegio di gesuiti e in un tempo in cui non esisteva per anco la libertà della stampa. Non sarebbe più natural cosa il dire che Voltaire ha trovato lo scoglio di sua innocenza e della sua fede; dove e Sant'Agostino e Napoleone e tanti altri lo trovarono?

Ma come si spiega questo mistero dell'essersi perdutamente invaghito dell'antichità pagana? In aspettativa della risposta, lo stesso Voltaire ci dice con tutta la sua vita intera: «Io sono figlio della mia educazione letteraria: fui educato non a Parigi nel collegio di Luigi il Grande da gesuiti, ma a Roma e in Atene, da Sallustio, da Cicerone, da Tacito; da Virgilio, da Ovidio, da Orazio, da Anacreonte; i padri Porée, Lejay, Tournemine non furono che i miei ripetitori; i veri miei professori furono gli autori pagani».

Ed ei lo proverà sovrabbondantemente deridendo gl'insegnamenti degli uni, e fedelmente praticando quelli degli altri: perseguitando senza posa i suoi ripetitori coll'odio suo, col suo disprezzo e coi suoi sarcasmi, mentre che magnificherà i propri professori, i loro scritti, le loro idee e le azioni loro.

In fatti, quale si mostra Voltaire all'uscir di collegio, tale ei sarà sino alla fine della lunga sua carriera. L'analisi delle sue opere non offre tre idee ma soltanto due: l'ignoranza o l'odio del cristianesimo e l'ammirazione del paganesimo. Ora se si riflette all'impero sovrano che l'alunno del collegio di Luigi il Grande esercitò per più di sessanta anni sopra l'intera Europa, potrà aversi la misura dell'influenza del Risorgimento e degli studi classici sulle idee e sui costumi, in una parola, sulla filosofia del secolo passato, e per conseguenza sulla rivoluzione francese che ne scaturì.

Le opere di Voltaire possono dividersi in due classi: le opere antireligiose e le opere antisociali.

Caratterizzando le antireligiose, Condorcet, uno degli ammiratori di Voltaire, si esprime con queste parole:

«Voltaire nascondendo il proprio nome, ed usando riguardi ai governi, dirige tutti i suoi colpi contro la religione: e induce persino la potestà civile a indebolirne l'impero. Una moltitudine d'opere uscite dalla sua penna si sparsero per l'Europa. Il suo zelo contro la religione ch’ei riguardava come cagione del fanatismo che aveva desolato l’Europa fino dal suo nascere, della sua superstizione che l’aveva imbestialita, e come la fonte dei mali che quei nemici dell'umanità non si ristavano dal fare ancora, pareva che raddoppiasse la sua operosità e le sue forze. «Sono stanco, diceva un giorno, di udirli a ripetere che bastarono dodici uomini a stabilire il cristianesimo: ed ho voglia di provar loro che uno solo basta a distruggerlo (43).

Ogni maniera di disprezzo riversato sui secoli cristiani, sulle glorie e sulle istituzioni cristiane da Macchiavelli, da Ulrico di Hutten, da Erasmo e dagli altri del Risorgimento, abbagliati dalle bellezze dell'antichità pagana; le loro calunnie odiose, i loro sacrileghi motteggi riappariscono in Voltaire condite d'un nuovo sale. Quello che era avvenuto nel secolo XVI, SI rinnova, ma in più vaste proporzioni nel XVIII. La zizzania del paganesimo, seminata a piene mani nel campo dell'Europa, produce una copiosa messe: «I liberi pensatori, aggiunge Condorcet, i quali non esistevano dapprima che in alcune città, dove erano coltivate le scienze e fra i letterati, i dotti, i grandi e i pubblici ufficiali, si moltiplicarono in tutti gli ordini della società e in tutti i paesi (44)».

«Cartesio, continua a dire La Harpe, aveva fatto una rivoluzione nella filosofia: Voltaire ne fece un’altra assai più estesa, nella morale delle nazioni e nelle idee sociali. L'uno ha scosso il giogo della scuola che non si aggravava che sui dotti: l'altro ha infranto lo scettro del fanatismo che opprimeva l'universo» (45).

Settant'anni d'una guerra ad oltranza contro Gesù Cristo che osa chiamare l'infame, contro l'adorabile sua persona, contro i suoi dommi, contro la sua morale, contro i suoi misteri; ecco Voltaire nelle opere sue filosofiche, nel suo epistolario, nelle sue poesie, nelle sue satire, più oscene e più empie le une delle altre. Ei fu poeta, scriveva nel 1781 l'eloquente, arcivescovo di Vienna, per cantare in tutti i metri le dottrine dell'empietà: oratore, per declamare contro la religione e contro i suoi ministri; storico, per adulterare i fatti a danno della rivelazione, della Chiesa e dei santi; filosofo o ambizioso di sembrarlo, per oscurare le verità più preziose con le tenebre dello scetticismo. Per questo titolo più che per i suoi talenti letterari egli è salito, in fama, nel mondo. A tanti eccessi aggiungeremo lo sfrenato amore della libertà popolare, l'avversione di ogni autorità sovrana, lo spirito d'indipendenza, ecco che cosa è cotesta edizione promessa con tanta enfasi: un cumulo di sarcasmi, di massime anarchiche; di sozzure e di empietà (46)».

Questi giudizi generici vogliono però essere giustificati dalle opere medesime di Voltaire per modo che si possa chiaramente stabilire che l’alunno del collegio di Luigi il Grande fu per tutta la sua vita, come abbiamo detto, il figlio della sua educazione letteraria, cioè un'anima vuota di cristianesimo e briaca di paganesimo. Ora nei suoi diversi scritti in prosa e in verso Voltaire, discepolo fedele del Risorgimento, riscalda tutte le favole, e tutte le teoriche dell'antichità pagana; stabilisce l’apoteosi dell'uomo nel duplice aspetto dell'orgoglio e della carne, e balestra tutto quello che nell’ordine religioso e sociale non è l'opera dell’uomo emancipato.

Così nella Filosofia della Storia, nega l'unità del genere umano; insegna che il linguaggio è una invenzione dell’uomo; che conformemente alla credenza dei poeti classici, gli uomini vissero lungo tempo nelle selve nello stato di bruti (47). «I primi uomini, egli dice, con tutta, gravità, non potevano totalmente provvedere ai loro bisogni; e, non intendendosi, non potevano soccorrersi: non potevano difendersi contro gli animali feroci se non lanciando pietre, ed armandosi di grossi tronchi d'alberi; di che é forse derivata quella confusa nozione dell'antichità; che i primi eroi combattevano i lioni ed i cignali con clave» (48).

Se invece d'avere studiato in collegio per parecchi armi; di aver imparato a memoria le Metamorfosi d’Ovidio, le Georgiche di Virgilio, le Epistole d'Orazio le fatiche d'Ercole, Voltaire avesse con la medesima premura studiato la Bibbia e gli autori cristiani, avrebbe avuto di siffatte idee?

Secondo gli autori pagani e secondo Voltaire loro discepolo, l'uomo non ha solamente inventato la società, ma anche la religione. «Primos in orbe deos fecit timor: - Allorché dopo molti secoli alcune società si furono costituite, egli è credibile che vi avesse qualche religione, qualche specie di rozzo culto. Gli uomini allora unicamente intesi alla cura di sostentar la propria vita, non potevano sollevarsi all'Autore della vita. La conoscenza d'un Dio creatore, rimuneratore e vendicatore è frutto della ragione. Tutti i popoli adunque, per secoli, furono quello che sono oggidì gli abitanti di molte coste meridionali dell'Africa; quelli di molte isole e una metà degli Americani (49)».

Seguita poscia in Voltaire, come negli altri classici autori, l’elogio di quell'età dell'oro. Lo storico filosofo dice: «Quelle tribù d'America e dell'Africa sono libere ed i nostri selvaggi d'Europa non hanno neppur l'idea della libertà (50)». I selvaggi sono liberi! liberi cioè di andar nudi, di vivere di caccia e di pesca, d'adorare i loro feticci, d'uccidersi, e di mangiarsi a vicenda! Tale è la libertà dell'età dell'oro! Allorché la rivoluzione, celebrando la festa della dea Natura, canterà: Felici Lapponi! si conoscerà non esser ciò che un eco di Voltaire, il quale non è poi, la a sua volta, che l'eco d'Ovidio e degli antichi.

Per inventare una società, una religione è d'uopo intendersi: ora, secondo Voltaire, gli uomini primitivi non s'intendevano.

La difficoltà è grave, ma non lo sgomenta. «Prima di riuscire a formare una società, egli dice, ci vuole un linguaggio, ed è la cosa più difficile. Si sarà incominciato certamente con le grida che avranno significato i primi bisogni: poscia gli uomini più ingegnosi, nati con organi più flessibili, avranno formate alcune articolazioni, cui i loro figli avranno ripetuto. Ogni linguaggio primitivo sarà stato composto di monosillabi. Con questa brevità si parlava nelle foreste delle Gallie e della Germania. I Greci ed i Romani non ebbero parole più composte se non molto tempo dopo di essersi riuniti in corpo di nazione (51)».

Mediante l'invenzione del linguaggio, il cui segreto ci viene rivelato da Voltaire sull'autorità dei Greci e dei Romani, gli uomini potranno costituire una società. Ma ci vuole, inoltre, una religione. Voltaire, consultatone sulla scelta, non indugerebbe a dire la migliore essere il politeismo fondato sulla metempsicosi, e sul panteismo di Virgilio, di Platone e di Pitagora. E qui pure, quando poi queste teoriche insensate passano nell'ordine dei fatti, la rivoluzione contenderà di ricondurre gli uomini al politeismo, non altro facendo che imitare Voltaire, interprete dei suoi studii di collegio.

«I cristiani primitivi, egli dice, i quacqueri sono tanto pacifici quanto gl’Indiani. La religione cristiana cui letteralmente seguono quei soli primitivi, è anch’essa nemica del sangue, quanto la pitagorica. Ma i popoli cristiani non hanno mai osservata la loro religione, e le antiche coste dell’India hanno praticato sempre la propria. La ragione è che la dottrina pitagorica è l'unica religione al mondo che abbia saputo fare dell'orrore del sangue una pietà figliale ed un sentimento religioso. Tutti quelli che questa religione adottarono credettero di vedere le anime dei loro parenti in tutti gli uomini che li circondavano; si credettero tutti fratelli, padri, madri, figli gli uni degli altri. Quest'idea infondeva necessariamente una carità universale: temevasi di ferire un essere che fosse della famiglia. In una parola, l'antica religione dell'India e quella dei letterati della China sono le sole in cui gli uomini non siano stati barbari (52)»

Popoli dell’Europa, fatevi pitagorici, Indiani o Chinesi, ma soprattutto non rimanete cristiani: tale è la conclusione: parvente di questa pagina di classica filosofia.

Negli autori di collegio tanto ammirati da Voltaire, il paganesimo è a vicenda metempsicosi e panteismo: il loro discepolo non si resta dal preconizzarlo sotto questo duplice aspetto.

Nell'antichità, il giovane esclamava: Io pure sono und porzione della divinità. Quest’opinione è stata quella dei più rispettabili filosofi della Grecia, di quegli stoici che hanno innalzato l’umana natura sopra di se medesima, quella dei divini Antonini: e si deve confessare che nulla era più acconcio ad inspirare grandi virtù (53). Il credersi una porzione della divinità è un farsi una legge di nulla operare, che non sia degno di Dio» (54). Facciamoci adunque panteisti.

Se voi chiedete in qual tempo tutti codesti sistemi di pagana filosofia, sconosciuti o disprezzati in Europa dopo la promulgazione del Vangelo, si sono nuovamente riprodotti, o con clamore ed hanno ripigliato nelle classi letterate il funesto loro impero, la storia vi farà vedere non l’arianesimo, non il medio evo, non il protestantesimo, ma il Risorgimento.




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CAPITOLO V.



VOLTAIRE (Continuazione).



Analisi del Saggio sui costumi.- Elogio costante dell'antichità pagana, delle sue arti, della sua letteratura, della sua libertà del discorso e dei culti. ­ Profondo disprezzo del cristianesimo e del medioevo, del suo linguaggio, delle sue arti, delle sue leggi e del suo sapere. - Ammirazione pel Risorgimento. - Genealogia del libero pensiero. - Apoteosi dell'uomo»



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Il costante disprezzo del cristianesimo, la non meno costante ammirazione del paganesimo, di cui ci ha dato qualche testimonianza la Filosofia della storia, è l'Egeria che continua ad ispirare Voltaire nel suo Saggio sui costumi delle nazioni. Incominciando dalle arti, ei dice: «La bella architettura, la scultura perfezionata, la pittura, la buona musica, la vera poesia, la vera eloquenza, la maniera di scriver bene la storia, finalmente la stessa filosofia, tutto questo non pervenne alle nazioni che dai Greci (55)».

Oh come Voltaire è l'eco fedele della sua classica educazione! Questi errori, divenuti assiomi, non sono ancora le odierne dottrine dei collegi? Che erano, or ha pochi anni, per le classi letterate le glorie dell'Europa cristiana, l’arte cristiana, la musica cristiana? La maggior parte dei collegiali odierni conoscono forse alcuna cosa comparabile a Cicerone per l'eloquenza, a Virgilio per la poesia, a Platone per la filosofia? Appresso a quei giganti, che sono mai, ai loro occhi, san Giovanni Crisostomo, san Basilio, sant'Agostino, san Tomaso, la Bibbia stessa ed i profeti?

Quello che Voltaire ama principalmente nei Greci è il libero pensare. «I Greci, egli dice, avevano tanto ingegno che ne abusarono; ma ciò che torna ad essi in grande onore si è che niuno dei loro governi inceppò i pensieri degli uomini. Atene lasciò una intera libertà non solo alla filosofia, ma a tutte le religioni. Ammetteva tutti gli dèi stranieri; aveva anche un altare dedicato agli dei sconosciuti. Roma fece come Atene. I romani adottarono permisero i culti di tutti gli altri popoli, ad esempio dei Greci. Questa associazione di tutte le divinità del mondo, questa specie di ospitalità divina, fu il diritto delle genti di tutta l'antichità» (56).

Libertà della parola! libertà dei culti! oh le deliziose città che erano Roma ed Atene! Oh dilettevole soggiorno! Rendiamoci dunque Greci e Romani! E tanto maggior ragione abbiamo di determinarvici in quanto che il cristianesimo con la sua intolleranza è stato un flagello pel mondo. «Stantechè in quella saggia antichità non vi aveva dommi, continua Voltaire, non vi ebbe guerre religiose. E anche di troppo che l'ambizione e la rapina versino sangue umano, senza che la religione finisca di esterminare il mondo (57)».

Come Robespierre, altro alunno del collegio di Luigi il Grande, lo volle più tardi, anche Voltaire vuole che, conformemente al modello antico si riconosca un Ente Supremo, e che i letterati moderni, come i Ciceroni e i Cesari d'un tempo, si ridano della religione o se ne servano, come d'un mezzo di governare. I Romani, egli dice, adoravano un Ente, Supremo: Deus optimus maximus. A questa conoscenza d'un Dio, a quest'indulgenza universale, che sono il frutto della ragione colta si aggiunge una folla di superstizioni che sono il frutto della ragione incolta. Perché mai i vincitori e i legislatori di tante nazioni non abolirono queste stolidezze? La ragione è che essendo antiche, erano care al popolo e non nuocevano al governo. Gli Scipioni, i Paoli Emilii, i Ciceroni, i Catoni, i Cesari avevano ben altro da fare che a combattere le superstizioni della marmaglia. Quando un vecchio errore è radicato, la politica se ne giova come d'un morso che il volgo si è messo da sé medesimo in bocca finché non venga un'altra superstizione a distruggerlo, e che la politica faccia di suo pro di questo secondo errore come fece del primo (58)». Tali erano, conclude Voltaire, quelle due nazioni, le più intelligenti della terra, i greci ed i romani, nostri maestri (59)»

A quest'ingenua ammirazione della classica antichità, si aggiunge il più profondo disprezzo del cristianesimo. Uno dei maestri della gioventù del XVII secolo, aveva definito il medio evo: il tempo in cui gli uomini erano mezze bestie: Voltaire è perfettamente dello stesso parere e tutti gli alunni del Risorgimento, lo condividono. «Tutti questi secoli di barbarie, egli dice, sono secoli d'orrori e di miracoli. Le particolarità storiche di quei tempi sono altrettante favole, e quel che è peggio, favole noiose (60). «Tante frodi, tanti errori, tante ributtanti sciocchezze, onde siamo da diciassette secoli inondati non hanno potuto recar offesa alla nostra religione. Essa è senza dubbio divina, poiché diciassette secoli di giunterie e d'imbecillità non hanno potuto distruggerla (61)»

Nel numero di tale giunterie annovera, fra l'altre, il viaggio di san Pietro a Roma, la sua crocifissione sotto Nerone, ed altri fatti capitali della storia del cristianesimo, non omettendo di dire che letterati di collegio non vi credono neppur una parola.

«Queste goffaggini, dice egli, sono in oggi derise da tutti i cristiani istruiti» (62).

Di quelle sciempiaggini e di quelle giunterie Voltaire prende il suo partito; ma quello ch'ei non può perdonare al cristianesimo si è d'avere distrutto quella bella antichità, quel magnifico impero romano, la più grande delle glorie dell’umanità. Con quell'ironia che gli è propria ei dice: «Il cristianesimo apriva i il cielo, ruinava l'impero; perché tutte le sette nate nel suo seno combattevano l'antica religione dell'impero; religione falsa, religione ridicola, non vi è dubbio, ma sotto cui Roma aveva camminato di vittoria in vittoria per dieci secoli (63)».

A queste parole come non si riconoscerà il terribile effetto dell'educazione classica, che, dimostrando sotto una falsa religione la più splendida civiltà fa dire al giovane: Che giova il cristianesimo alla societa?

Voltaire continua: «Quando dalla storia dell'impero romano si passa a quella dei popoli che l'hanno straziato, sembra di essere un viaggiatore che uscendo da una superba città, si trova in deserti coperti di rovi. L'umano intelletto abbrutisce nelle più vili e nelle più stolte superstizioni. L'Europa intera giace nella, dappocaggine sino al XVI secolo (64)»

Quante le parole, altrettante le menzogne. Magnifico era veramente quel romano impero, dove, sovranamente regnava il diritto brutale della forza, e dove tre quarti del genere umano era schiavo! Non erano né vili, né stolte le superstizioni romane; i misteri della dea Bona, le feste di Priapo, i combattimenti dei gladiatori! Non era imbrutito l'umano intelletto che nei sapienti stessi, riusciva al nulla del pensiero! Per verità Voltaire aveva veduto l'antichità sotto le splendide esteriori apparenze che si fanno ammirare in collegio; e non aveva avuto agio o non si era curato punto di rifare la propria educazione.

Continuando il suo viaggio attraverso i secoli, aggiunge: «Nel XIII secolo dall’ignoranza selvaggia si passa all'ignoranza scolastica, peggiore della più vergognosa ignoranza (65)». S. Bernardo, un selvaggio! San Luigi, san Tomaso peggiori dei selvaggi! La cattedrale di Chartrés, la Santa Cappella opere di selvaggi! «montagne di edifizii del medioevo che una curiosità rozza e priva di buon gusto avidamente ricerca! (66)

A giudizio dell'alunno della bella antichità, il linguaggio non è meno barbaro delle opere. Voltaire ne giudica come se ne giudica nei collegi e dice: San Bernardo ed Abelardo nel dodicesimo secolo, avrebbero potuto essere tenuti in conto di alti intelletti; ma il loro linguaggio era un gergo barbaro e pagarono in latino il tributo al cattivo gusto del loro tempo. La rima a cui si contorcevano, quegl'inni latini del XII e del XIII secolo, è il suggello della barbarie» (67).

Il Verbum supernum prodiens, e il Lauda Sion sono il tipo della barbarie? perché? Perché non sono in versi del secolo di Augusto. «Non era in tal modo, esclama Voltaire, che Orazio cantava i giuochi secolari (68)».

Il che vuol dire: l'antichità non versificava in questa maniera: l'antichità sola sapeva verseggiare: e chiunque non verseggia come lei è un barbaro, corre mi hanno insegnato in collegio. La stessa erronea, opinione ha fatto riguardare per tre secoli la Santa Cappella come un monumento barbaro.

Dopo aver giudicato col regolo pagano la lingua, gli uomini, le istituzioni del medioevo, non resta a Voltaire per compiere l'opera, che di giudicare la scienza che dominava quella grande età. Ei se ne sbriga in due parole: «La teologia scolastica, egli dice, offese maggiormente la ragione ed i buoni studi, di quello che non avessero fatto gli Unni ed i Vandali (69)».

Quando dunque ed in qual modo il mondo cristiano uscirà dalla barbarie? Allorché il sole dell’antichità pagana sorgerà sull'Occidente, ed allorché alla gioventù si faranno studiare i buoni autori romani (70). Voltaire saluta con entusiasmo quel giorno di rigenerazione ed esclama: «Che cosa si sapeva in Germania, in Francia, in Inghilterra, in Ispagna e nella Lombardia settentrionale? Le costumanze barbare e feudali, tanto incerte quanto tumultuose, i duelli, i tornei, la teologia scolastica e i sortilegi. Migliaia di scolari si rimpinzavano il capo di chimere e frequentavano sino all'età di quarant'anni le scuole dove venivano insegnate. Coloro, che, nati con prepotente ingegno, coltivato dalla lettura dei buoni autori romani, avevano sfuggito le tenebre di quell'erudizione, dopo Dante e Petrarca, erano in piccolissimo numero.

«Fu veramente mirabil cosa il vedere Lorenzo de' Medici, il padre delle muse, il padre della patria, resistere al papa, coltivare le belle lettere, dar al popolo spettacoli e accogliere tutti i dotti greci di Costantinopoli. Allora Firenze fu veramente comparabile all'antica Atene» (71).

Da quel glorioso tempo, il mondo rinasce, rifioriscono le arti, il libero pensare di Atene e di Roma ripiglia il suo impero; le pregiudicate opinioni spariscono con le tenebre della superstizione: direbbesi che un Dio è disceso nuovamente sulla terra per rigenerarla. «La musica, dice Voltaire, non fu coltivata per bene se non dopo il secolo XVI... La vera filosofia non cominciò a risplendere agli uomini che nello stesso periodo di tempo … I Sofocli, i Demosteni, i Ciceroni ed i Virgilii (rimessi in onore) sono i precettori di tutte le età... Per le belle arti non ci ha che quattro secoli: conviene esser pazzo per dire che cotali arti hanno danneggiato i costumi (72)». Il teatro in cui trionfano tutte le passioni, la musica voluttuosa, la pittura del nudo, la scultura del nudo; nulla di tutto ciò, secondo Voltaire, ha danneggiato i costumi!

Questo sì casto Risorgimento, Voltaire lo contempla con amore, come un figlio la propria madre; con orgoglio lo confronta coi secoli barbari che lo hanno preceduto; e dice: «La Francia, sotto Francesco I, cominciava ad uscire dalla barbarie. Vuolsi confessare che non ostante la favorevole inclinazione di questo principe verso le arti, tutto era barbaro in Francia, come tutto era piccolo a paragone dei Romani. Prima di quel tempo non ci aveva un uomo in Francia, che sapesse leggere i caratteri greci (73)».

Nel XVI secolo i teisti o deicoli, più ligi a Platone che a Gesù Cristo, più filosofi che cristiani, rigettarono temerariamente (74) la divina rivelazione, di cui gli uomini avevano abusato troppo, e l'autorità ecclesiastica di cui si era abusato ancor più. Erano essi sparsi per tutta Europa, e si sono moltiplicati in numero prodigioso. Questa è la sola religione sulla terra che sia stata più plausibile. Composta originariamente dai filosofi che hanno tutti forviato in modo uniforme (75), passando poscia nella classe media di coloro che vivono:in modica ma agiata fortuna, è salita in appresso ai grandi di tutti i paesi, e rare volte è discesa al popolo» (76).

Ecco la vera genealogia del razionalismo o del libero pensare: nato da Platone, rimesso in onore dal Risorgimento, apprendendosi dapprima ai filosofi, poi alle classi mediane, finalmente alle classi alte, diventò finalmente la religione delle generazioni di collegio in tutta Europa.

Intanto il libero pensare non tarda a produrre, nei tempi moderni, gli stessi effetti che produsse nell'antichità pagana. Al tempo medesimo, continua Voltaire, un funesto ateismo che è il contrario del teismo, nacque in quasi tutta l’Europa dalle scissure teologiche. Si vuole che allora ci avesse più atei in Italia che non altrove. Questa specie di ateismo osò mostrarsi quasi apertamente in Italia verso il XVI secolo». (77)

Voltaire, da figlio amoroso ben si guarda dall’accusare il Risorgimento d'avere generato l'ateismo. Al suo solito ne dà carico alla teologia scolastica; come se non vi fossero state scissure teologiche prima del Risorgimento senza che abbiano prodotto atei! come se l'Italia del sedicesimo secolo, dove vi aveva il maggior numero d'atei, non fosse stata più che il rimanente d'Europa scevra di scissure teologiche! Ma alcune linee più giù, Voltaire dà una mentita a sé stesso, e ci fa sapere che l'usare con gli autori pagani, maestri di deismo e di ateismo, ha fatto nascere i deisti e gli atei: ciò non ostante ei non biasima la cosa.

«Quanto ai filosofi, egli dice, che negano l’esistenza d’un Ente supremo o non ammettono che un Dio indifferente alle azioni degli uomini il quale non punisce il delitto che mediante le sue naturali conseguenze, il timore ed il rimorso; quanto agli scettici che, lasciando in disparte queste inestricabili questioni e perciò indifferenti, si sono limitati ad insegnare una morale naturale, essi sono stati assai comuni nella Grecia, in Roma, e cominciano a divenirlo fra noi, ma questi filosofi non sono pericolosi» (78).

Aggiungiamo che il carattere dominante del Saggio sui costumi è, come nell'antichità pagana, l'apoteosi dell’uomo. Per Voltaire, la Provvidenza non è nulla negli avvenimenti di questo mondo: l'uomo fa tutto, con le sue buone o cattive qualità decide di tutto. Signore assoluto ed indipendente, tra Dio e lui non ci ha che un vincolo così debole che Condorcet apertamente diceva: «La storia di Voltaire, ha quest'altro vantaggio che può essere insegnata in Inghilterra, come in Russia, nella Virginia come a Berna e a Venezia. Ei non vi ha posto che quelle verità nelle quali tutti i governi possono convenire: Si lasci all'umana ragione il diritto d'illuminarsi: il cittadino goda della sua naturale libertà, e la religione sia tollerante» (79).

Quello che Voltaire trova inesplicabile nella storia, lo spiega non mediante la Provvidenza, ma mediante il destino; come appunto facevano gli antichi.

Parlando della grandezza e del decadimento dei Romani, dice: «Non vi è visibilmente un destino per cui gli Stati augumentano e ruinano? Chi avesse predetto ad Augusto che un giorno il campidoglio sarebbe occupato da un sacerdote tratto dalla religione giudaica, lo avrebbe reso attonito. E perché cotesto sacerdote si è impossessato finalmente della città degli Scipioni e dei Cesari? Perché la trovò nell'anarchia: ed egli se ne insignorì quasi senza uno sforzo (80)».

Questa maniera di scrivere la storia, divenuta sì comune dopo il Risorgimento, a quale scuola Voltaire l'ha imparata? Forse studiando la Scrittura, i Padri della Chiesa, Vincenzo di Beauvais, o la Città di Dio di Sant'Agostino?



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CAPITOLO VI.



VOLTAIRE (Continuazione).



Il secolo di Luigi XIV. - Continua diffamazione del cristianesimo. - Continue lodi dell'antichità pagana. - Voltaire spinge al cesarismo, al libero pensare degli antichi filosofi. - Effetti del libero pensare. - Costumi del secolo di Luigi XIV. - Camera dei veleni. - Voltaire giudica l'eloquenza, la filosofia, la religione sul regolo dei modelli classici. - Esorta di ritornare alla religione dei grandi uomini dell'antichità. - La mette in pratica. - Le procura molti proseliti. - Progetto di Maupertuis.



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Non altrimenti del Saggio sui costumi, il Secolo di Luigi XIV può riepilogarsi in due parole: diffamazione continua del cristianesimo e dei secoli di fede; lodi continue della, classica antichità riprodotta splendidamente nel secolo di Luigi XIV, il quale, per questo titolo, viene da Voltaire encomiato.

L'autore, eco fedele, della propria educazione, non vede nulla di grande in eloquenza, in poesia, in arte, in sociali istituzioni, in civiltà, in filosofia se non i secoli in cui regnò il paganesimo: secoli antichi in cui regnava da assoluto sovrano: secoli moderni in cui ha regnato pel suo spirito e per l'imitazione delle sue opere. Tutti gli altri secoli con le loro arti, con la loro eloquenza, con la loro filosofia, con le loro istituzioni, con i loro grandi uomini non contano nulla, o non contano che fra le vergogne del genere umano.

Chiunque pensa, egli dice, e, ciò che è ancora più raro, chiunque ha buon gusto non annovera che quattro secoli nella storia del mondo.

Queste quattro felici età sono quelle in cui sono state perfezionate le arti, e che servendo d'epoca alla grandezza dello spirito umano sono d'esempio alla posterità.

«Il primo di questi secoli veramente gloriosi è quello di Filippo e d'Alessandro, o quello di Pericle, di Demostene, di Platone, d'Aristotele, di Apelle, di Fidia, di Prassitele: e quest’onore è stato rinchiuso nei confini della Grecia. Il resto della terra allora conosciuta era barbaro (81).

«La seconda età è quella di Cesare e d'Augusto, designata, ancora dai nomi di Lucrezio, di Cicerone, di Tito Livio, di Virgilio, d’Orazio, di Varrone e di Vitruvio.

«La terza età è quella che seguì la conquista di Costantinopoli fatta da Maometto II. Fu veduta allora in Italia una famiglia di semplici cittadini far quello che far dovevano i re dell’Europa. I Medici chiamarono a Firenze i dotti che i Turchi scacciavano dalla Grecia: era il tempo della gloria dell'Italia. Le arti, trasferite sempre dalla Grecia in Italia, si trovavano in un terreno favorevole, dove subitamente producevano frutto.

«La quarta è quella che nomasi secolo di Luigi il Grande. Tutte le arti, per vero, non sono state portate, più oltre che al tempo dei Medici, di Augusto, di Alessandro; ma l’umana ragione in generale si è perfezionata. La sana filosofia non è stata conosciuta che in questo tempo. Così, per novecento anni, il genio dei Francesi è stato sempre angustiato sotto un gotico governo (82)».

Ora, il più prezioso vantaggio della sana filosofia, nata dal Risorgimento e sviluppata nel secolo di Luigi XIV è di sospingere i re al Cesarismo in maniera da riprodurre il tipo immortale degli Augusti di Roma. Voltaire si chiarì altamente seguace di questa filosofia, la quale abbassando qualunque autorità anche spirituale davanti la regia autorità, e attraendo tutte le libertà al profitto del dispotismo, conduce le moderne società nella via delle rivoluzioni e delle catastrofi ognor rinascenti.

Parlando della religione e del clero, ei dice: «Dar giuramento ad un altro che non sia il proprio sovrano è un delitto di lesa maestà in un laico; e, nel prete è atto di religione. La difficoltà di sapere sino a qual punto si deve obbedire a questo sovrano straniero, la facilità di lasciarsi sedurre, hanno troppo spesso condotto interi ordini di religiosi a servir Roma contro la loro patria. Lo spirito illuminato che regna in Francia da un secolo, e che si è diffuso in quasi tutte le condizioni, è il migliore rimedio a tale abuso. I buoni libri scritti su questo subietto sono veri servigi resi ai re ed ai popoli; ed uno dei più grandi mutamenti che si siano fatti nei nostri costumi sotto Luigi XIV, è la persuasione in cui sembrano esser venuti i religiosi stessi ch'ei sono sudditi del re prima di essere i servitori del papa. Non si credesse che i sovrani ne avessero obbligazione ai filosofi. È vero per altro che questo spirito filosofico, che si è insinuato in tutte le condizioni, ad eccezione del basso popolo, ha giovato assai a far valere i diritti dei sovrani. Se si dice che i popoli sarebbero felici quando avessero filosofi per re, è però verissimo che i re sono più felici quando vi ha molti filosofi tra i loro sudditi (83)». Insistendo poi sulla necessità di ritornare al Cesarismo antico, ei dice in moltissimi luoghi del suo epistolario: «Non si era punto sospettato che la causa dei re fosse quella dei filosofi: è evidente però che quei saggi i quali non ammettono due potestà sono i primi sostegni dell’autorità regia».

Voltaire in altro luogo si lagna degli scarsi avanzamenti fatti dalla filosofia. La pittura ch'ei fa dei costumi delle classi letterate del secolo di Luigi XIV (84) prova però che il figlio primogenito del Risorgimento, il libero pensare, esercitava già un impero atto ad appagare i più difficili. Ei dice: «Intanto che madama della Vallière e madama di Montespan si contendevano il primo posto nel cuore del re, tutta la corte era occupata d'intrighi amorosi. Lo stesso Louvois faceva il sentimentale». (85)

E noi diremo: Intanto che il libero pensierp indeboliva negli intelletti le verità della fede, i cuori si abbandonavano senza ritegno alle loro prave inclinazioni. Sui teatri della corte e dei principi si rappresentavano di continuo gli amori degli dèi dell’Olimpo e degli eroi dell'antichità: nella condotta della vita si praticavano gl'insegnamenti del teatro. Così si faceva a Roma, ad Atene, a Firenze, nei bei secoli di Augusto, di Pericle e dei Medici. Quegli intrighi di cui parla Voltaire produssero i vergognosi e funesti effetti che in tutti i tempi produsse la più violenta e la più crudele delle passioni. «Allora, egli dice, incominciò ad essere comune in Francia l'avvelenamento. Questo delitto, per singolare fatalità (86) infestò la Francia nei tempi della gloria e dei diletti che raddolciscono i costumi, come s’insinuò nell’antica Roma, nei più bei tempi della Repubblica (87).

Dopo aver citato una lunga nota di grandi e di letterati inquisiti per questo delitto, aggiunge: «Prima fonte di quelle orribili avventure fu l’amore (88). Questo delitto diventò tanto comune, che fu d'uopo istituire un tribunale speciale per giudicarne, il quale si chiamò la camera dei veleni» (89).

In Voltaire, il gusto, il giudizio, il modo d'estimare le cose più semplici e più importanti non hanno altra regola che i principi della sua classica educazione: rechiamone qualche altro esempio. A proposito dell'eloquenza del pulpito, egli dice: «Sarebbe forse desiderabile che si sbandisse l’usanza di predicare sopra un testo. Infatti, parlare lungamente sopra una citazione d’una o di due linee, affaticarsi a misurare tutto il discorso sopra quella linea sembra un giuoco poco degno della gravità di quel ministero. Il testo diventa una specie di divisa o piuttosto di enigma cui il discorso svolge (90)».

L'usanza moderna di predicare sopra un testo isolato è sconosciuta dai santi Padri. Venuto il Risorgimento, si prese per modello del discorso cristiano l’orazione ciceroniana. L’omelia fu disdegnata dai solenni oratori. Troppo spesso il pulpito è diventato una tribuna, e la parola di Dio la parola dell'uomo. Tuttavia per conservare al discorso un’impronta religiosa si è ritenuto il testo, il quale, secondo l'osservazione di Voltaire non è più altro che una specie di divisa o d'enimma. Tale osservazione ci sembra giusta; ma è strana la ragione che Voltaire adduce del suo biasimo. Invece di dire: I Padri della Chiesa non facevano in tal modo, ei dice: «I Greci ed i Romani non conobbero mai tale usanza (91)! È probabile adunque che se Greci e Romani l'avessero conosciuta, Voltaire l'avrebbe approvata.

Se gli antichi sono i maestri - dell'eloquenza, lo sono anche della filosofia. Per Voltaire, i filosofi cristiani non sono mai esistiti. Sant'Agostino, sant'Anselmo, lo stesso san Tomaso non esistono. Da Platone, dice egli, sino a Locke non ci ha nulla: niuno in questo intervallo di tempo ha spiegato le operazioni dell'anima nostra. (92)

Per l'eloquenza adunque e per la filosofia aneliamo a cercare i nostri modelli nella classica antichità. Non basta: essa debbe esserci regola anche in materia di religione: «È orribile, dice Voltaire, che la Chiesa cristiana sia sempre stata straziata da contese, e che per mano di coloro che portavano il Dio della pace si sia per tanti secoli fatto sgorgare il sangue umano: questo furore fu sconosciuto al paganesimo. La religione dei pagani non consisteva che nella morale e nelle feste. La morale che è comune agli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi, e le feste che si risolvevano in tripudi, non potevano turbare il genere umano. Lo spirito dommatico portò negli uomini il furore delle guerre di religione» (93). La conclusione è evidente: il paganesimo é più favorevole alla felicità del genere umano ed alla pace delle nazioni che non il cristianesimo. La rivoluzione, figlia di Voltaire, contenderà di mettere in pratica gli oracoli del proprio padre. Infrattanto Voltaire che non osa, come Quinto Nauzio, di predicare apertamente il ritorno al politeismo, invita le nazioni a scuotere il giogo del Vangelo e ad abbracciare la religione della natura. Tale è lo scopo del poema sulla legge naturale. Quest'opera altro non è che la professione d'un deismo vago, senza positiva autorità, senza reale influenza sulla condotta, e tutto somigliante a quello dei filosofi pagani, di Cicerone, di Virgilio, d'Orazio, maestri tutti, ammirati da Voltaire. Oltre a ciò essa è un editto di persecuzione contro ogni religione positiva, «stantechè, dice Condorcet, non vi si parla di religione che per combattere l'intolleranza. Quest'opera the trent'anni dappoi parve un libro quasi religioso, fu fatta bruciare per ordine del Parlamento di Parigi, il quale incominciava a spaventarsi dei progressi della ragione» (94).

Ora la religione della natura, o più veramente il paganesimo filosofico cantato da Voltaire, non consiste soltanto nell'apoteosi della ragione, ma anche nell'apoteosi della carne. Voltaire, discepolo fedele dei suoi maestri, dopo avere deificato l'orgoglio, deifica i sensi cantando la voluttà. Le sue poesie leggere, i suoi Racconti, Candido, la Pulcella, resteranno come svergognati monumenti del culto reso da questo capo dei letterati al più abbietto sensualismo.

Per dar poi maggior autorità alle sue parole, Voltaire mette in pratica quanto insegna. La sua vita non è che una lunga adorazione di Venere. Non vogliamo contaminare la nostra penna narrando quella serie non interrotta d'infamie, le quali incominciano al suo uscir di collegio e si prolungano sino alla sua decrepitezza (95). Basti l'indicare soltanto in qual maniera Voltaire ed i suoi amici praticavano la legge naturale. Dopo di aver detto che, ad imitazione d'Orazio, si cenava dal re di Prussia in una sala in cui erano dipinte le più abominevoli impudicizie pagane, Voltaire aggiunge: «Un sopravvenuto che ci avesse ascoltato, vedendo quelle pitture, avrebbe creduto di udire i sette savi della Grecia in bordello. In nessun luogo del mondo si parlò mai con tanta libertà di tutte le superstizioni degli uomini, e mai non furono esse trattate con maggiori motteggi e disprezzo. Iddio era rispettato; ma non andavano perdonati coloro tutti che in nome suo avevano gabbato gli uomini.... Nel palazzo non entrarono mai né donne né preti; Federico viveva senza corte, senza consiglio e senza culto». (96)

Voltaire non usciva dal tempio di Priapo che per entrare in quello di Guido o di Lesbo. Una delle molte sue amanti, la famosa marchesa del Chàtelet, praticava con lui la religione della natura, a cui i suoi studi i classici l'avevano mirabilmente disposta. «Conosceva il latino, dice Voltaire, come Dacier: sapeva a memoria i più bei brani d'Orazio, di Virgilio e di Lucrezio: a lei erano famigliari tutte le opere filosofiche di Cicerone. Non era contenta della storia universale di Bossuet; ed era indignata ch’essa quasi interamente vertesse sopra una nazione, così spregevole come quella dei Giudei (97)». Meno male se quella storia non avesse riguardato che i Greci i Romani!

Dopo di aver cantato i due dommi fondamentali del politeismo, Voltaire si dichiara apertamente discepolo di questa religione. Alla fine di un dialogo della più ributtante empietà, fa la sua professione di fede in queste parole: Io sono della religione di tutti gli uomini, di quella di Socrate, di Platone, d'Aristotele, di Cicerone, di Catone, di Tito, di Traiano, d’Antonino, di Marco Aurelio, di Gesù … Detesto l'infame superstizione, e aderirò alla vera religione sino all'ultimo sospiro di mia vita». (98)

La religione della bella antichità, cantata, professata., praticata la Voltaire non stette guari a far numerosi proseliti nelle classi letterate. «Voltaire dice la Harpe; vide succedere a coloro che, nudriti nei pregiudizi, avevano reietto la verità, una nuova generazione la quale non chiedeva che di riceverla, che cresceva istruendosi negli scritti di lui. Non vide, è vero, sparire interamente gli avanzi vergognosi della barbarie che tanto ci ha rinfacciato, ma almeno vide assalirli da tutte parti, e dovette sperarne con noi l'annichilamento». (99)

L’entusiasmo di quei giovani filosofi di collegio per l'antichità pagana andava sino alla follia. Uno dei più conosciuti, il presidente dell’Accademia di Berlino, Maupertuis, aveva il progetto di fondare una città latina (100).




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CAPITOLO VII.



VOLTAIRE (Continuazione).



Sue opere teatrali.- Deprimono il cristianesimo ed esaltano il paganesimo. Tragedia di Bruto Primo. - Tragedia di Bruto Secondo, o la Morte di Cesare. - Glorificazione dello spirito repubblicano e dell'assassinio politico. - Tragedia di Maometto; violento assalto contro il cristianesimo. - Lettera di Voltaire a Federico.

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Demolire il cristianesimo e sostituire ai suoi dommi ed ai suoi precetti le utopie pagane della religione naturale, della morale filosofica, ecco quello che ha fatto Voltaire nelle sue opere in prosa. Demolire il monarcato col dichiarar la guerra al dispotismo, col preconizzare le istituzioni della Grecia e di Roma, per esaltare i sentimenti repubblicani, ecco quello che fa soprattutto nelle principali sue produzioni teatrali. Egli, svolgendo questi funesti principi tanto accarezzati dal Risorgimento, sì frequentemente preconizzati nei collegi, ha dato l'urto al suo secolo ed ha guidato il trionfo della libertà rivoluzionaria. Più ardito dei risorgenti del sedicesimo secolo, meno inoltrato dei demagoghi del 1793 ha egregiamente continuato l'opera di quelli e preparato l'opera di questi. «Se Voltaire, dice Condorcet nelle prime sue opere filosofiche avesse posto i principi del vecchio Bruto, né Montesquieu, né Rousseau avrebbero potuto scrivere le opere loro (101)».

Abbiamo detto che Voltaire ebbe continuato l'opera dei risorgenti. Infatti aveva avuto sulla scena illustri d predecessori, i quali presentando all'ammirazione dei Francesi i Greci ed i Romani, avevano potentemente sviluppato negli animi il disprezzo dell'ordine sociale esistente e l'ammirazione per gli uomini per le istituzioni della classica antichità. «Quale relazione, chiede la Harpe, ci ha mai tra la nazione francese, anche del tempo di Corneille e il genio di questo scrittore? Non si è forse detto, con molta aggiustatezza che pareva che Corneille fosse nato romano e che avesse scritto a Roma? ... E più verisimile che Racine non abbia scritto che per la corte di Luigi XIV, Racine, nutrito della lettura degli antichi, idolatra dei Greci, educato evidentemente da essi, innamorato di Euripide e di Sofocle, come Corneille lo era di Lucano e di Seneca»? (102)

Entrando nella via aperta da Racine e da Corneille, Voltaire, nel 1730 produce la tragedia Bruto Primo. «Dopo Cinna, dice Condorcet, il nostro teatro non aveva più ripercorso i fieri accenti della libertà. I diritti d'un popolo oppresso non erano mai stati esposti con più di forza, di eloquenza e di precisione che nella seconda scena del Bruto» (103). Palissot aggiunge: «Nonostante le stupende bellezze della tragedia di Bruto, non ottenne, nella sua novità, tutto quel buon successo che meritava; la nazione non era ancora matura per un'opera siffatta. Conveniva che la Francia diventasse libera per sollevarsi al pari di quella tragedia: laonde fu accolta con entusiasmo quando fu rimessa in teatro lo scorso anno» (1791) (104).

La tragedia di Bruto è piena di massime tutte atte le une più delle altre a rinfocolare l'odio contro i re ed il fanatismo del pugnale; i quali sentimenti la rivoluzione professava di adorare, e la cui espressione dava segno d'intendere sempre con fragorosi applausi.



Sterminatori dei tiranni: in regi

Voi non avete che gli

dèi di Numa,

Le patrie leggi e le virtudi vostre.


Dei re s’avvezzi l'assoluto orgoglio

Trattar da uguale il popolare governo.


E poich’egli (Tarquinio) osa infrangere di Roma

Le sacre leggi, obbedienza a lui

Più non dee Roma, éd ei solo è ribelle.


Nulla ai tiranni omai qui resti, tranne

L'odio di Roma e de' celesti l'ira!


Pei letterati di collegio, Luigi XVI era inevitabilmente Tarquinio: e poiché l'ebbero scoperto infedele alla nazione, lo mandano al patibolo. «Tarquinio ribelle a Roma, dice Palissot, un re ribelle alla nazione, era una espressione di alto intelletto nel soggetto. di Bruto; ma la Francia era allora ben lontana dal sentirne la bellezza e la convenevolezza ». (105) Voltaire però ve la apparecchiava come anch'egli eravi stato preparato dai suoi studi di collegio.

Dopo aver glorificato Bruto Primo che uccide i suoi propri figli, glorifica Bruto Secondo, che uccide il proprio padre per amore della libertà: a Bruto succede la Morte di Cesare (106). Nella Prefazione, indirizzata a Bolingbroke, lo stesso Voltaire rivela i sentimenti demagogici che l’hanno animato nel comporre quella tragedia. Parlando d'una rappresentazione della tragedia inglese di Shakspeare, il Bruto, si esprime in queste parole: «Con qual estasi non vedeva io Bruto, stringere il pugnale ancor tinto del sangue di Cesare, assembrare il popolo Romano; e parlargli così qall'alto dei rostri: «Romani, se v'ha alcuno di voi che abbia amato Cesare, sappia che Bruto non lo amava meno! Sì, lo amava, o Romani; e se mi chiedete perché io ne abbia sparso il sangue, vi risponderò che amavo Roma assai più. (107)»

Ecco quello che Voltaire vede, quello che ode con estasi. E dove aveva egli preso quel fanatismo repubblicano che, sotto colore di libertà, non inorridisce a nessun misfatto? Per comunicarlo agli altri, Voltaire fa ammirare, nella Morte di Cesare, un figlio che per amore della libertà trucida di sua mano, in pieno senato; il proprio benefattore; il proprio padre. E Saint-Just, grande ammiratore di Bruto e di Voltaire, nel processo di Luigi XVI, dirà: «Il miglior modo di giudicare un tiranno ed il più sbrigativo è quello di Bruto che uccise Cesare senz'altra formalità che di ventitrè colpi di coltello».

Di fronte a questa breve analisi; i versi più repubblicani sono pure la sbiadita cosa! Alleghiamone però alcuni:

Siete Romani; e un re chiedete? oh quale Romano avvi sì vil che voglia un rege? Bruto, tu dormi, e Roma è in ceppi ...


No, non sei Bruto! Oh la crudel rampogna!

Cesare trema; ecco, tiranno, il colpo

Che ti dà morte …


No non se' Bruto! - Il sono ed esser voglio.


La vita abbiamo a vil: in abominio

Cesare abbiamo, e amiam la patria: tutti

Vendicarla giuriamo: e Bruto e Cassio

D'ogni Romano infiamman le virtudi.


Repubblica verace

Padre non ha, né figli altri che i Numi,

La virtude, le leggi e il Patria suolo.


Bello è 'l morir in tanto alto disegno!

Bello il veder sgorgare il proprio sangue

A quel commisto de' tiranni!


Roma, il senato e voi, tutti mia fede

Avete: contro ai re l’util mi parla

Dell'universo. Orror mi prende al duro

Dover, ma pur lo seguo: al vostro sguardo

Abbrividisco, ma in mia fe' rimango.


Cesar fu un prode; ma virtude niuna,

Poiché si fe' tiranno, in lui non era.

Sì, Bruto e Cassio approviam tutti ...




E poi si stupisce dei regicidi commessi in nome di Bruto e, degli orribili giuramenti pronunciati col pugnale in mano dagli affiliati delle società segrete!

La Morte di Cesare, che i rivoluzionari dovevano rappresentare sulla piazza di Luigi XV, dopo averla rappresentata in collegio ed applaudita nei teatri pubblici, è il complemento della tragedia di Bruto Primo. All’orribile pittura d'un popolo oppresso dai tiranni, alla splendida pittura di libertà, era nell'ordine della ragione, per condurre alla ribellione, il far succedere la pittura del dispotismo; e per glorificare il regicidio, il mostrare, giusta il detto di Condorcet, «la forza e la grandezza dei caratteri; il senso profondo che domina nei discorsi degli assassini di Cesare. Questi ultimi Romani occupano ed investono gli spettatori, principalmente i giovani ancora pieni di quegli oggetti che l'educazione ha posto sotto i loro occhi (108).

In questa tragedia tutti i personaggi si danno del tu come eguali, e Bruto tratta Cesare in simile maniera, nonostante che lo riconosca per proprio padre. «Per gustare la sublime eloquenza di questa tragedia, diceva nel 1785 il marchese di Luchet, ci vorrebbero spettatori romani e non bellimbusti effeminati » (109). Abbiate un po’ di pazienza, e coll’aiuto dell'educazione e del teatro, avrete quanto prima spettatori romani che applaudiranno il Bruto, che ne gusteranno la sublime eloquenza; che, uccideranno Cesare, e che repubblicanamente ghigliottineranno i bellimbusti effeminati, tra i quali figurerete anche voi, signor marchese, che scrivete simili cose.

Nel Bruto Voltaire ha esaltato il fanatismo della libertà: nella Morte di Cesare ha glorificato l’odio della tirannide e l'uccisione dei tiranni. Per mostrare poi che, scalzando il monarcato, ei non perde di veduta il cristianesimo la cui ruina ha giurato, lo accaneggia con inaudita violenza nel Maometto, ovvero il Fanatismo. Questa tragedia rinfocola l'odio contro la religione, contro i pregiudizi, contro le astuzie sacerdotali, contro i preti, contro tutto ciò che vi è di sacro. «La forsennata rabbia del fanatismo, gli eccessi dell'ambizione e della vendetta non sono forse mai stati dipinti con maggior vigoria » (110). Come la Morte di Cesare, questa tragedia fu per la prima volta rappresentata nell’anno 1742.

«Maometto, aggiunge Palissot, uno dei più importanti lavori di Voltaire, è una tragedia diretta contro il fanatismo, pericolosissima fra le malattie dello spirito umano, e principalissima fra le cagioni delle umane sventure. E questa malattia ha prodotto i maggiori guasti principalmente negli Stati dove domina una religione esclusiva ed intollerante. Il Maometto si deve dunque riguardare come un vero servigio reso alle nazioni, come un benefizio fatto al genere umano.

«Se l'autore lo avesse osato, avrebbe scelto un argomento nella nostra propria storia che sventuratamente gliene avrebbe offerto in gran numero. Ma nella schiavitù in cui il dispotismo teneva incatenate tutte le arti, l'autore fu costretto a sviarsi apparentemente dal suo scopo per poter appunto raggiungerlo.

«Non ostante tutte queste precauzioni, e per quanto sia stata grande la cura adoperata dall'autore per velare il proprio intendimento, non evitò la persecuzione. Appena rappresentata, la sua tragedia fu denunciata come opera scandalosa ed empia» (111).

Voltaire, usando di un'astuzia degna di lui, per evitare la persecuzione manda la propria tragedia al pontefice Benedetto XIV, con una lettera rispettosamente filiale. Il sommo pontefice che, alla distanza di 400 leghe, non poteva conoscere le perfide intenzioni di Voltaire, come si conoscevano in Francia, non vede nel Maometto che una censura dell'islamismo, e fa rispondere a Voltaire una lettera piena di cortesia. Questi, come ben si può pensare, non manca di prevalersene. Nel tempo medesimo scrive al re di Prussia, per rivelargli l'intimo suo pensiero. Nella sua lettera, scritta da Rotterdam il 20 gennaio 1742, dice a Federico, cui dedica il Maometto: «Vostra Maestà sa quale era lo spirito che mi animava nel comporre quest'opera. L'amore del genere umano e l’orrore dal fanatismo, le quali virtù fatte per rimanersi sempre a lato, del vostro trono; hanno guidato la mia penna.

«Mi crederei bene rimunerato della mia fatica, se alcuna di quelle anime deboli, sempre pronte a ricevere le impressioni di un furore straniero, può ravvalorarsi contro quelle funeste seduzioni mediante la lettura di quest'opera, e se dice a sé medesima: Perché obbedirò io da cieco a ciechi che mi gridano: Odiate, perseguitate, ruinate chi è tanto temerario da non essere del nostro parere nelle cose anche indifferenti e che non intendiamo

Il pubblico in Francia non s'ingannò; e la polizia proibì di rappresentare il Maometto, il quale non ricomparve sulla scena che dieci anni dopo.

Del resto nel Maometto vi sono versi, dirò così, trasparenti, che i letterati sapevano scernere meravigliosamente, e di cui facevano altrettanti assiomi: richiamo soltanto questo, in cui il fanatismo fa la sua professione di fede:

Sull’error poggia il mio trionfo ognora!




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CAPITOLO VIII.



VOLTAIRE (Continuazione e fine).


Tragedia di Merope. - Massime pericolose.- Lettera del P. Tournemine, gesuita. - Tragedia d'Olimpia. - Essa rende popolare l'antichità nell'aspetto religioso. - Tragedia di Catilina o Roma. salvata. - Esaltazione dei sentimenti repubblicani. - Voltaire vuole che anche le giovani conoscano Cicerone. - Elogio. - Si lamenta che non si vada a veder quant'è d'uopo gli spettacoli per studiarvi i Greci e i Romani. -Elogio completo dei Greci e dei Romani. – Voltaire si palesa qual esso è. – Muore come ha vissuto.


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L’alunno del collegio di Luigi il Grande che aveva imparato dal P. Porée l'arte di far versi (112), nel 1743 mette fuori la sua tragedia la Merope. Preludio di questa fu l'Edippo (1724), nella quale insegna il fatalismo, e fa dei preti e dei fedeli altrettanti ipocriti, o bricconi:

Qual li figura il popol vano, i preti

Nostri non sono; lor saver consiste

Nell'ignoranza altrui

Col Bruto (1730), con la Morte di Cesare (1730), col Maometto (1742) le cui tendenze anticristiane ed antisociali abbiamo fatto, conoscere; per molte condanne vuoi all'esilio, vuoi alla Bastiglia, e per una vita notoriamente scorretta, ei si palesò quale fosse.

Nella Merope, che si ritiene una delle sue migliori tragedie, Voltaire spande massime con le quali scava sotto i fondamenti della religione e del monarcato. Ora, preludendo all'eguaglianza repubblicana della rivoluzione, assonna la nobiltà e si fa piaggiatore dell'orgoglio plebeo: ora balestra di fronte il regio diritto d'eredità; in altro luogo predica il suicidio; e, dopo avere in tal modo squassato l’ordine religioso e l'ordine sociale nella riverenza del popolo, fa un appello alla ribellione. Rechiamo alcuni di quegli assiomi:

Fu primo re un soldato cui la sorte

Propizia arrise. Chi alla patria giova,

D’uopo non ha di lungo ordine d’avi.


Quando ogni cosa si è perduta, e quando

Neppur rimane la speranza, l’obbrobrio

È allor la vita, ed è dover la morte.


D'Alcide io prole, e di catene io stretto!


Ben, sè t’è in grado, d'impostura colpa

Dar mi puoi tu; ma di natura il grido

I tiranni sentir unqua non ponno.



Nel 1792 Palissot non dimentica di aggiungere: «Non vi ha alcuno che non abbia saputo ritenere a memoria questi versi (113)».

Continuando l'opera sua, Voltaire, ad esempio di tutti i poeti del risorgimento, pone ogni cura in rendere popolare sul teatro l'antichità classica nell'aspetto religioso. Dopo gli eroi e le eroine, compariscono sulla scena francese i sacerdoti e le sacerdotesse del paganesimo: «Olimpia, dicono le Memorie di Servières, inspirò una pietà ed un terrore commovente. Ma di tutti i colpi di pugnale che si danno sulla scena, niuno intenerì maggiormente della fine di Olimpia. Magnifico era l'apparato; il rogo, disposto con arte, faceva fremere; erano fiamme vere. L'altare su cui era Olimpia faceva vedere tutto lo spettacolo. I sacerdoti e le sacerdotesse, schierati discosto da lei in semicircolo, lasciavano alla principessa tutta la libertà di precipitarvisi. Questa tragedia produsse grande effetto.

«I letterati accolsero con favore una produzione che rappresentava quanto l'antichità aveva di più augusto e di più grave (114). Non era dato che al signor di Voltaire d'introdurre sulla scena francese alcuni riti degli antichi misteri del paganesimo con sacerdoti e sacerdotesse nei propri loro vestimenti, e con l'apparato del rogo che costituiva lo scioglimento del dramma» (115).

Persuaso dalla sua educazione che la classica antichità è tutto ciò che di più bello c’è al mondo, Voltaire trapassa tutta la propria vita nel paese dove è stato allevato. Da Atene si reca a Roma; poi ritorna ad Atene per ricondursi quanto prima a Roma. Nel 1752, la metropoli dello spirito repubblicano gli fornì un altro soggetto di tragedia. Ciò è Catilina, ovvero Roma salvata. Lo scopo di Voltaire in questa tragedia è di rendere popolare Cicerone, che ha tanto ammirato in collegio come oratore, e di farne il più grand'uomo fra i politici, il più virtuoso fra i cittadini. I giovani non hanno bisogno dei suoi ammaestramenti, ei ben lo sa, ma teme che le loro sorelle non conoscano abbastanza il liberatore della Repubblica, e nella loro stima non lo collochino sopra tutto ciò che al mondo vi è di più grande. Nella prefazione Voltaire medesimo discorre così: «Si è avuto specialmente in mira di far conoscere Cicerone alle giovani che frequentano gli spettacoli. Le passate grandezze dei Romani tengono ancora attenta tutta la terra (116); e l'Italia moderna ripone una parte della sua gloria in discoprire alcune ruine dell'antica. Si fa vedere con riverenza la casa già abitata da Cicerone. Il suo nome è nelle bocche, i suoi scritti sono nelle mani di tutti. Coloro che nella loro patria ignorano chi era alla testa dei tribunali cinquant'anni addietro, sanno in qual tempo Cicerone era al governo di Roma» (117)

Quest'è la più sanguinosa censura che si possa fare del sistema di studi introdotto dal Risorgimento. Noi cristiani saremmo imbarazzati a nominare gli apostoli, i dottori della Chiesa, i padri della moderna società; noi, Francesi, ignoriamo persino le nostre glorie nazionali; e sappiamo a memoria i nomi e i fatti dei pagani di Atene e di Roma! Invece però di combattete questo mostruoso controsenso, Voltaire vi fa plauso, e vuole renderlo eterno, compiendo, mediante il teatro, l’opera dei collegi.

«Le opere di questo grand'uomo, soggiunge, servivano alla nostra educazione; ma non si sapeva sino a qual punto ne fosse rispettabile la persona. Le cognizioni che abbiamo acquistate, (118) ci hanno insegnato a non paragonare con lui alcuno degli uomini che si sono occupati di governo e che hanno aspirato al vanto di eloquenti ... Cesare era un grand'uomo; ma Cicerone era un uomo virtuoso … Quello che in questa tragedia si è voluto rappresentare non è tanto l’anima feroce di Catilina, quanto l’anima generosa e nobile di Cicerone».

Ecco in qual modo Voltaire parla dei suoi maestri: riguardo ai suoi ripetitori ne ha egli mai parlato che per farne argomento dei suoi sarcasmi?

Perciò insiste che si vada a teatro dove si veggono gli antichi Greci, l'antica Roma, l'antica Atene: e si lagna della poca assiduità con cui si frequenta la loro scuola. «Coloro, dice egli, i quali sono pieni dello studio di Cicerone e della Repubblica romana non sono quelli che frequentano il teatro. Essi non imitano Cicerone che vi era assiduo (119). È cosa strana che pretendano di essere più gravi di lui. Gli uomini distinti che hanno coltivato le arti non hanno ancora comunicato questo vero gusto a tutta la nazione; ed il motivo è che siamo nati in condizioni meno felici dei Greci e dei Romani .... Se quest'opera fa conoscere alquanto l'antica, Roma, è tutto quello a cui si è mirato, è tutto il premio che si aspetta (120)».

Ora, per Voltaire, il far conoscere l'antica Roma è il glorificare i sentimenti e gli atti d'un selvaggio spirito repubblicano, che investendo le menti, prepareranno alla Francia i Catoni e i Bruti della rivoluzione. Alleghiamo alcuni dei suoi versi:

Virtù sparisce, libertà vacilla,

ma avvi Catoni in Roma, e io spero, ancora.


Per questa spada, che del sangue intrisa;

Sarà ben tosto de' tiranni, il giuro,

Degni Quiriti, profferite or meco

Di perir tutti o conseguir vittoria.




63



La patria è un nome senza forza: ancora

Ripeter s'ode; ma di senso vuoto.

Oh splendor de' Quiriti! oh conculcata

Maestade di Roma! oh ti riscuoti

O patria già sull’orlo della tomba!


Cesare è ognor di dubbia fè. Mertate

Voi di Cato l’amore l’alta stima.



Figlio della sua classica educazione, e simile sempre a sé stesso Voltaire, alla fine della sua carriera, manifestò la medesima ammirazione per l’antichità pagana; per, le sue istituzioni, per le sue idee, per suoi grandi uomini di cui dava saggio nell’età di dodici anni. Tanto è vero quel detto divino: che il giovane, anche invecchiando, camminerà per quella via nella quale si sarà messo da principio.

«Perciò Voltaire mandando la sua tragedia di Oreste alla duchessa del Maine, le dice: «Il signor di Malezieu nella sua declamazione metteva tutta l'anima dei grandi uomini di Atene. Permettetemi, madama, che richiami qui quanto egli pensava di quel popolo inventore, ingegnoso e sensitivo, che ha servito a cavare l'Europa moderna dalla supina sua ignoranza... Ben egli era lontano dal pensare come quegli uomini ridicolosamente austeri, e quei falsi politici che biasimano ancora gli Ateniesi di essero stati troppo sontuosi nei loro pubblici giuochi».

Loda poscia la duchessa d'aver fatto tradurre e rappresentare l'Ifigenia in Tauride d'Euripide; poscia aggiunge: «Io fui testimonio di quello spettacolo .... E mi abbandonai ai costumi ed alle usanze della Grecia con tanto maggior facilità in quanto che appena non ne conosceva d'altri.

«Non ho copiato l'Elettra di Sofocle, ma poco meno; e vi ho preso per quanto ho potuto tutto lo spirito e tutta la sostanza. Le feste che celebravano Egisto e Clitennestra, l'arrivo d'Oreste e di Pilade, l’urna in cui si finge siano chiuse le ceneri di Oreste, l'anello di Agamennone, il carattere di Elettra, quelle d'Ifisa, che è precisamente la Crisotemi di Sofocle, e principalmente i rimorsi di Clitennestra, tutto, è attinto dalla tragedia greca».

«Spetta a voi, madama, di conservare le scintille che ancora rimangono fra noi di quella luce preziosa che gli antichi ci hanno trasmessa. Di tutto ciò siamo debitori ad essi. Niun’arte è nata fra noi, ma la terra che produce i suoi frutti stranieri esaurisce per stanchezza la propria fecondità; e l'antica barbarie spunterebbe ancora non ostante la coltura. I discepoli di Atene e di Roma diventerebbero Goti e Vandali, senza questo luminoso patrocinio delle persone del vostro grado» (121).

Questo brano di epistola, in cui si chiarisce tutta l'anima di Voltaire; non è forse il più esatto riepilogo del Risorgimento e dell'educazione di collegio che n'è scaturita? Il cristianesimo come non avvenuto nella civiltà del mondo; l’Europa senz'arti, senza letteratura, senza luce, sprofondata nella più rozza barbarie, sino al Risorgimento del paganesimo letterario: le moderne nazioni esser debitrici di tutto non agli apostoli, ai padri della Chiesa, ai grandi intelletti del medioevo, ma ai Greci e ai Romani: la necessita di rimanere alla loro scuola, di prenderli costantemente per modelli di coltivarli con amore, sotto pena di ritornar Goti o vandali. Voltaire non vedere nulla di bello e di buono che in Atene e in Roma; sprezzare dispettosamente tutto quello che non veniva di là; Voltaire confessare che egli, nato cristiano, in paese cristiano, educato da gesuiti, non conoscere altri costumi ed altre usanze che quelle della Grecia! Questa strana, questa deplorabile, questa lunga aberrazione di un bell'intelletto ha una causa. E se questa causa non è l'educazione di collegio, quale sarà?

Fino all’ultimo sospiro, Voltaire rimase quale l'abbiamo veduto durante tutta la sua carriera, dall'età di dodici anni: un'anima vuota di cristianesimo ed ebbra di paganesimo. Al momento di comparire davanti a Dio, risponde al parroco di San Sulpizio, che gli domanda s'ei crede alla divinità di Gesù Cristo: Io credo che si debbano lasciar morire le persone in pace. Nel tempo stesso si tuffa nell'antichità pagana; ciò che restagli di forze, le impiega a comporre la sua tragedia Irene, ben felice se, come Sofocle, ei può, in età di ottant'anni, sollazzare ancora Atene (122).

Qual esempio per tutti! quale avviso ai padri di famiglia! Quale lezione per i maestri della gioventù!


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CAPITOLO IX.



ROUSSEAU.



Parte che ha nella filosofia del sec. XVIII. - Assalisce l'ordine sociale esistente per surrogarvi le istituzioni dell'antichità. - Rousseau discepolo di Plutarco. - Sue parole. - Elogio del Risorgimento - Necessità per le nazioni di attingere alle fonti antiche. - Mezzi. - Stato di natura e governo di Lacedemone. - Analisi del Contratto sociale. - Sistema della più mostruosa schiavitù. - Comunismo e socialismo di Licurgo riprodotto da Rousseau


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I due patriarchi della filosofia del XVIII secolo sono Voltaire e Rousseau. Distruggere l'ordine religioso e l'ordine sociale esistenti è lo scopo comune dei loro sforzi: ma la storia o ci fa vedere che in questa guerra insensata ciascun di loro ha la parte sua speciale. A Voltaire, il carico di scalzare il cristianesimo; a Rousseau quello di squassare la società. Abbiamo veduto che Voltaire era uscito di collegio, armato di tutto punto per quest'empia lotta; l'abbiamo veduto, figlio della sua educazione, perseguitare senza posa, nella lunga sua carriera, il cristianesimo, in nome dei Greci e dei Romani, dal cui spirito è animato, i cui esempi e le cui massime invoca di continuo, e per cui professa un’ammirazione esclusiva che dura sino alla morte.

Riguardo a Rousseau chi l'ha formato? In quale età ha ricevuto i principi repubblicani, di cui è apostolo instancabile? a quale scuola ha attinto le utopie sociali, ch'egli cerca costantemente di far prevalere per tutta la sua vita; che, lui morto, finiscono per trionfare mediante la rivoluzione, ed anche in oggi sono il punto d'appoggio di tutti i nemici della società? Tali sono le questioni che ci facciamo ad esaminare.

Gian Giacomo Rousseau, figlio di un oruiolaio di Ginevra, nacque in quella città il 28 giugno 1721. Orbato della madre al suo nascere passò i primi suoi anni in compagnia del padre che, col latte della nutrice, gli lasciò suggere il latte del paganesimo. (123)

Ascoltiamo lo stesso Rousseau: «All'età di otto anni dice egli, Plutarco diventò la mia lettura prediletta. Il diletto che io gustava in rileggerlo continuamente mi guarì alquanto dei romanzi, e ben presto preferii Agesilao, Bruto, Aristide, ad Orondate, Artamene e Giuba. Per quelle attraenti letture, e pei colloqui che esse davano luogo tra mio padre e me si formò quello spirito libero e repubblicano, quell'indomabile e fiera indole, impaziente di giogo e di servitù, che mi ha tormentato per tutto il tempo di mia vita anche nelle condizioni meno acconce a darle carriera.

Immerso continuamente nel pensiero di Roma e di Atene, vivendo, per così dire, coi loro grandi uomini... mi credeva greco o romano. Io diventava quel personaggio la cui vita leggeva. La narrazione degli atti di fermezza o intrepidezza che mi avevano fatto impressione, mi rendeva scintillanti gli occhi, e più forte la voce. Un dì che raccontavo a tavola il fatto di Scevola, tutti furono spaventati al vedermi sporgere innanzi e tener la mano sopra uno scaldavivande per rappresentare l'azione di lui (124)»

Che, mai si può aggiungere a questa testimonianza? Rousseau è un discepolo di Plutarco. In età di otto anni ha ricevuto dal proprio maestro i sentimenti repubblicani che lo hanno animato per tutta la vita. Madama Roland si gloria essa pure di aver attinto, nell'età di nove anni, alla medesima scuola i principi medesimi. E poi si vorrà negare l'influenza degli autori pagani sopra la gioventù! Né l'educazione in monastero, né le calamità pubbliche, né le private sventure, né la prigionia, né il patibolo possono fare di madama Roland una cristiana, né sanarla delle sue utopie repubblicane. Similmente anche in Rousseau la prima piega resta immutabile. Nella guisa che la quercia esce dalla ghianda, tutta la vita di Rousseau non sarà che lo svolgimento della prima sua educazione. Sarà religioso, senza cristianesimo, come i grandi uomini di Plutarco; filosofo come Platone; politico come Solone; legislatore come Licurgo, e si potrà dire di lui, essere egli uno Spartano nato nei tempi moderni. Consultiamone gli scritti.

Ad esempio di Voltaire, anche Rousseau comincia col fare l'elogio del Risorgimento che è padre suo, padre dei lumi, del libero pensare, e della moderna civiltà. «Gli è un bello e grande spettacolo, esclama, il veder l'uomo uscire in certa guisa dal nulla mediante i propri sforzi, dissipare, mediante i lumi della propria ragione, le tenebre in cui la natura lo aveva inviluppato. Tutte queste meraviglie si sono rinnovate da poche generazioni in qua.

«L’Europa era ricaduta nella barbarie delle prime età. I popoli di questa parte del mondo, oggidì tanto illuminata, vivevano, or fa alcuni secoli, in uno stato peggiore che d'ignoranza … Ci voleva una rivoluzione per ricondurre gli uomini al senso comune. Ed essa ci venne dalla parte donde meno si sarebbe aspettata.

«Lo stupido musulmano, il flagello perpetuo delle lettere, le fece rinascere fra noi: La caduta del trono di Costantino portò in Italia gli avanzi dell'antica Grecia: la Francia si arricchì, poi a sua volta di quelle preziose spoglie. Ben presto lo scienze tennero dietro alle lettere: all'arte di scrivere si aggiunse l'arte di pensare: la qual gradazione sembra strana, ma pur naturalissima; e si cominciò a sentire il principale vantaggio del commercio delle muse, quello cioè di rendere più socievoli gli uomini (125).

Non è forse questi, in tutta la sua schiettezza, l'alunno, della classica antichità? Per lui il cristianesimo non è avvenuto; esso ha lasciato cadere il mondo nella barbarie: è stato necessario il ritorno del paganesimo per cavarnelo fuori: la moderna Europa, coi suoi lumi, con la sua arte di scrivere, e con la sua libertà di pensare è nata dai Greci, espulsa da Costantinopoli ed accolta in Italia.

Per conseguenza, Rousseau sostiene che le moderne società non hanno altro mezzo per ringiovanire che di bere continuamente alle fonti antiche, poiché la virtù, vitale condizione delle nazioni, è patrimonio esclusivo dei Greci e dei Romani. «Allorché si legge la storia antica, egli dice, si crede di essere trasportato in un altro mondo, e fra esseri diversi da noi. Che mai hanno di comune i Françesi, gl'Inglesi, i Russi coi Greci e coi Romani? Nulla se non le sembianze. Le anime forti di questi sembrano agli altri esagerazioni della storia. Come mai essi che sentono di essere così piccoli potrebbero pensare che vi siano stati uomini così grandi? Eppure esistettero ed erano uomini come noi. Che è dunque che ci toglie d'essere uomini come loro? I nostri pregiudizi, la nostra bassa filosofia, e le passioni meschine ed interessate concentrate con l'egoismo in tutti i cuori da istituzioni inette che il genio non dettò giammai (126)».

Popoli moderni, da piccoli che siete volete divenire grandi? Fatevi Greci e Romani. Ai vostri pregiudizi, alla bassa vostra filosofia, sostituite le loro pure credenze, la loro nobile filosofia; e le loro sagge istituzioni prendano il luogo delle inette istituzioni vostre.

Rousseau si affretta di giustificare quest'audace provocazione alla distruzione dell'ordine sociale fondato dal cristianesimo. Magnificando con lodi Licurgo e Numa, fondatori di Sparta e di Roma, ei dice: «Tutti gli antichi legislatori cercarono vincoli che legassero i cittadini sì alla patria e sì vicendevolmente gli uni agli altri, e li trovarono in usanze particolari, in cerimonie religiose, le quali di loro natura erano sempre ed esclusivamente nazionali: nei giuochi che tenevano assai tempo radunati i cittadini; negli esercizi che aumentavano col vigore e le forze la loro fierezza e la stima di sé medesimi; negli spettacoli che, richiamando la storia dei loro antenati, le loro sventure, le loro virtù, le loro vittorie, parlavano al cuore, l'infiammavano di viva emulazione, e fortemente li vincolavano a quella patria, di cui si tenevano continuamente occupati.

«Cotali vincoli trovarono anche nelle poesie d'Omero recitate ai Greci solennemente adunati, non in un luogo chiuso, sopra tavole, e mediante pagamento, ma all'aperto cielo, e alla nazione in corpo: nelle tragedie di Eschilo, di Sofocle e d'Euripide alla loro presenza rappresentate; nei premii di cui, con plauso di tutta la Grecia s'incoronavano i vincitori, nei giuochi, i quali accendendoli continuamente d'emulazione e di gloria, recarono il loro coraggio e le loro virtù a quell’alto grado d'energia di cui niuna cosa oggidì ci dà l'idea, e che i moderni non possono neppur credere (127)».

Tutto ciò prova vittoriosamente la nostra tesi: perché tutto ciò prova che gli antichi legislatori avevano bene inteso che per formare dei Greci e dei Romani devoti alla loro patria occorrevano istituzioni greche e romane: spettacoli greci e romani per ricordare continuamente alle giovani generazioni la storia dei loro antenati, le loro sventure, le loro virtù, le loro vittorie: poesie greche e romane per mantenere negli animi lo spirito nazionale, in una parola un'educazione veramente greca e veramente romana. La conclusione è evidente: volete formare cristiani e francesi? abbiate istituzioni, spettacoli, poesie, educazione non già greca o romana, ma istituzioni, spettacoli, poesie, educazione cristiana e francese. Domandiamo noi forse altra cosa?

Come Ovidio, Virgilio, Orazio, Cicerone e gli altri autori pagani, suoi maestri e suoi modelli, Rousseau pone per principio delle sue teoriche sociali l'esistenza di uno stato di natura. Questo stato, in cui gli uomini, dispersi nei boschi, vivevano senza leggi, senza città, senza governo; sembra a lui la perfezione dell’umanità (128). Ivi è d’uopo risalire, secondo lui, per trovare i diritti primitivi dell'uomo e per spiegare l'origine delle società. Per Rousseau come per gli altri pubblicisti alunni della bella antichità, Dio non ha a far nulla nella formazione delle società umane: esse sono il risultamento d'un patto o d'un contratto sinallagmatico: circolo vizioso in cui l'uomo si dà autorità sovra sé medesimo. «Il Contratto sociale, dice Rousseau, consiste in questo, che ciascuno di noi mette in comunione la propria persona e tutta la propria potenza sotto la suprema direzione della volontà generale, e riceviamo ciascun membro, come parte indivisibile del tutto (129)».

Movendo sempre dalla sua ipotesi, o più veramente dalla sua vagheggiata chimera, Rousseau continua a dire gravemente: «Questo passaggio dallo stato di natura allo stato civile produce nell'uomo un mutamento notevolissimo, sostituendo, nella sua condotta, la giustizia all'istinto, e dando alle sue azioni la moralità che prima vi mancava. Allora solamente succedendo all'impulso fisico la voce del dovere, all'appetito il diritto, l'uomo che fino allora non aveva riguardato che sé stesso, si vede costretto ad operare sopra altri principi ed a consultare la propria ragione prima di obbedire alle proprie inclinazioni (130)».

Dal Contratto sociale Rousseau logicamente deduce la più formidabile teorica della nostra età, il comunismo spartano di Licurgo. «Ciascun membro della comunanza (dice egli), ad essa, al momento che si forma sé stesso e tutte le sue forze, di cui fanno parte i beni ch'ei possiede ... lo Stato, riguardo a questi membri, è padrone di tutti i loro beni, in virtù del contratto sociale... Le terre dei privati riunite e contigue diventano il territorio pubblico, e questo diritto di sovranità, estendendosi dai sudditi al terreno che occupano, diventa ad un tempo reale e personale: il che mette i possessori nella massima dipendenza, e rende le loro forze garanti di loro fedeltà: il qual vantaggio non pare sia stato conosciuto per bene dagli antichi monarchi i quali, non chiamandosi che re dei Persiani, degli Sciti, dei Macedoni, pareva si riguardassero come i capi degli uomini piuttosto che come i padroni del paese. Quelli d’oggidì più avvedutamente si chiamano re di Francia, di Spagna, d'Inghilterra, ecc., tenendo così il terreno sono ben certi di tenerne gli abitanti» (131).

Con gli occhi fissi in Lacedemone, il discepolo di Plutarco continua:

«Il diritto che ciascun privato ha sul proprio suo fondo è sempre subordinato al diritto che la comunanza ha sopra tutti... Invece di distruggere l'eguaglianza naturale, il patto fondamentale sostituisce per lo contrario un'eguaglianza morale e legittima (132), a quanto la natura aveva potuto mettere d'ineguaglianza fisica fra gli uomini; e potendo essere ineguali o nelle forze del corpo e dell'ingegno, diventano tutti eguali per convenzione e di diritto. Sotto i cattivi governi quest'eguaglianza non è che apparente ed illusoria; non serve che a mantenere il povero nella sua miseria, ed il ricco nella sua usurpazione. Nel fatto, le leggi sono sempre utili a coloro che possiedono e nocevoli a coloro che non hanno nulla. Di che conseguita che lo stato sociale non è vantaggioso agli uomini se non in quanto sono tutti qualche cosa, e che nessuno d'essi non ha nulla di soperchio (133)».

E stanteché non è possibile verun governo con questa eguaglianza chimerica, ne seguita che tutti sono cattivi; che si debbono modificare o distruggere, dando qualche cosa a quelli che non hanno nulla, e togliendone a coloro. che n'hanno di troppo; finalmente che la proprietà è un'usurpazione. «Il primo, dice Rousseau che, avendo assiepato un terreno, si avvisò di dire: Questo è mio! e trovò persone così semplici da crederlo, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, e guerre, e uccisioni, e miserie e orrori non avrebbe risparmiato al genere umano colui che schiantando i termini e colmando il fosso, avesse gridato ai suoi simili: Guardatevi dall'ascoltare quest'impostura; siete tratti a perdizione se dimenticate che i frutti sono di tutti e che la terra non è di nessuno! (134)

Con queste massime spartane, che distruggono il diritto di proprietà, che consacrano tutte le spoliazioni, e conducono difilato alla legge agraria, mettete il mondo in combustione. Ora cotali massime di Licurgo, interpretate da Rousseau, sono anche oggidì la spada di Damocle spspesa sull’Europa:nuovo beneficio della nostra ammirazione per gli antichi!



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CAPITOLO X.



ROUSSEAU (Continuazione).



Fa l'apoteosi dell'uomo o del popolo nell'ordine sociale. - Gli attribuisce l'infallibilità, la sovranità. - Questi attributi, essendo divini, non sono comunicabili. - Il governo del popolo governo degli dei. - Applicazione di questi principi. – Il popolo solo proprietario dei beni - Solo proprietario delle persone. - I figli di proprietà dello Stato.- Educazione comune ed uguale come presso gli Spartani: - Autorità sovrana del popolo sulla religione. - Modello fornito dall'antichità. - Il cristianesimo che ricusa di riconoscere questa autorità, debba essere sbandito dalla società. - Esso rompe l'unità politica. - Predica la schiavitù. - Non può far che vili e renderci inferiori ai Greci e ai Romani



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La classica antichità era l'apoteosi dell'uomo nell'ordine religioso e nell'ordine sociale. Voltaire, ammiratore di quell'antichità, fa l’apoteosi dell'uomo nell’ordine religioso; Rousseau, nell’ordine sociale. All'uomo e al popolo questi attribuisce l'infallibilità, la sovranità assoluta, indivisibile ed inalienabile.

«Il corpo politico dice egli, è un ente morale che ha una sua volontà, e questa volontà generale è la fonte delle leggi. Essa è per tutti i membri dello Stato la regola del giusto, e dell’ingiusto; la qual verità, per dirlo di passaggio, mostra con quanto buon senso tanti scrittori hanno tacciato di furto la industria prescritta ai fanciulli di Sparta per guadagnarsi il loro pasto frugale, come se tutto quello che ordina la legge potesse non essere legittimo » (135)

Tutti i timori che cotali massime sociali o più veramente antisociali possono suscitare, vengono da Rousseau dissipati dicendo a nome del gran Licurgo che il popolo, distruggendo qualunque superiorità gerarchica, concilia infallibilmente la giustizia con l'eguaglianza. La volontà generale, scrive egli, é sempre retta, e mira sempre all'utilità pubblica: per conoscere poi perfettamente la manifestazione della volontà generale, importa che nello stato non vi sia società parziale, e che ciascun cittadino non opini che per sé medesimo: tale fu l’unica e sublime istituzione del gran Licurgo (136)».

Quando la rivoluzione francese, figlia di Rousseau, distruggerà tutti gli ordini dello Stato, tutte le corporazioni, tutte le franchigie provinciali, tutte le libertà municipali per non lasciare che individualità senza forza davanti ad un potere centrale, ci ricorderemo allora ch'essa altro non fa che applicare alla Francia l’unica e sublime istituzione del grande Licurgo, e benediremo di nuovo il Risorgimento e gli studi di collegio.

Dall'infallibilità dell’uomo rampolla, con l'inalienabilità del potere e con la facoltà esclusiva di fare leggi, il diritto sacro di ribellione. «La Sovranità, continua Rousseau, è inalienabile, indivisibile (137)» Non è più necessario il domandare a chi appartenga il far leggi, poiché esse sono atti della volontà generale, né se il principio sia superiore alla legge, poiché egli è membro dello Stato; né se la legge può essere ingiusta, poiché niuno è ingiusto verso sé medesimo, né come si è libero e sottoposto alle leggi, poiché esse non sono che registri delle nostre volontà» (138)

Da questi stupendi principi, la cui splendida applicazione gli occhi suoi, abbagliati hanno veduto nella pagana antichità, Rousseau conclude con un'esclamazione d'entusiasmo, e con una provocazione diretta a distruggere l'ordine sociale esistente: «Se vi avesse (così egli) un popolo di dèi, esso si governerebbe democraticamente. Avvi tali malaugurate condizioni nelle quali non si può conservare la propria libertà che a danno dell'altrui, ed in cui il cittadino non può essene perfettamente libero senza che lo schiavo estremamente schiavo: tale era la condizione di Sparta. Per voi, popoli moderni, non avete schiavi, ma lo siete voi stessi: con la vostra pagate la loro libertà. Avete un bel vantare quella preferenza, nella quale io veggo più viltà che umanità (139)».

In altro luogo, chiaramente spiegandosi, aggilunge: «Ogni società che non poggia sopra un patto sociale è una tirannide. Se considerassi che la forza e il diritto che ne deriva, direi: Finché un popolo è costretto ad obbedire ed obbedisce, fa bene: ma tosto che può scuotere il giogo, e lo scuote, fa ancor meglio (140)». All'esposizione dei principi succede l'applicazione.

Abbiamo di già veduto che, nell'ordine sociale rigenerato, il cui tipo gli ha fatto vedere Plutarco, Rousseau vuole che la proprietà del suolo appartenga, come a Sparta, esclusivamente allo Stato. Alla proprietà dei beni, imitando sempre Lacedemone, aggiungerà la proprietà delle persone. Non altrimenti della società, anche la famiglia non è un fatto divino ed indipendente; ma è lo Stato che la costituisce: i parenti sono produttori; ed i figli, prodotti a vantaggio dello Stato cui appartengono fino dal nascere e che solo ha il diritto d'improntarli della sua effigie (141).

«Siccome, dice Rousseau, non si lascia la ragione individuale di ciascun uomo arbitra unica dei suoi doveri; tanto meno si dee abbandonare ai lumi ed ai pregiudizi dei padri l'educazione dei loro figli, in quanto che essa importa ancor più allo Stato che non ai padri. Che se l’autorità pubblica, prendendo il posto dei padri, ne acquista i diritti, adempiendone i doveri, essi hanno minor motivo di lamentarsi, in quanto che su questo argomento non fanno che mutar nome, poiché avranno in comune, sotto il nome cittadini, la stessa autorità sui loro figli che esercitavano divisamente sotto il nome di padri. L'educazione pubblica, sotto regole prescritte dal governo, e sotto magistrati stabiliti dal sovrano è dunque una delle massime fondamentali del governo popolare, o legittimo. Se i figli sono educati in comune in seno dell’eguaglianza, se essi sono imbevuti delle leggi dello Stato e delle massime della volontà generale, punto non dubitiamo che imparino ad amarsi scambievolmente come fratelli, a non volere mai se non quello che vuole la società e a diventare un giorno i difensori e i padri della patria della quale sì debitamente saranno stati figli (142)».

Oh qual solenne mentita l'esperienza, ha dato, a queste utopie dell'alunno di Plutarco! Quanto vi è di più deplorabile si è che cotali massime funeste non sono disusate: da Rousseau sono passate nei rivoluzionari, da questi si sono incarnate nelle leggi: e ravvivate sempre dall'educazione, si mantengono in vigore in tutta Europa, da Napoli a Lisbona. Se lo Stato ha diritto sulle proprietà e sulle persone, a maggior ragione ha un potere sovrano sopra la religione, la quale, nel concetto di Rousseau, non dee né può essere, come nell'antichità, che uno strumento di regno: Presso i Greci, il senato o l'areopago; presso i Romani, gli Imperatori s'erano fatti sommi pontefici: erano per così dire, i zar d'allora. Capi supremi della società e della religione: cerimonie, feste, sacerdoti, gli stessi Iddii dipendevano dalla loro volontà. Il culto si amministrava come ogni altra parte del pubblico servigio. Dopo Machiavelli ed Hobbes, dei quali parleremo altrove, niuno, prima della rivoluzione francese ha formulato questo principio pagano così recisamente quanto il filosofo ginevrino.

«I Romani, dice egli, col loro impero avevano esteso il loro culto ed i loro iddii: avevano anche alcune volte adottato i numi dei popoli vinti, concedendo agli uni e agli altri il diritto di cittadinanza: perciò i popoli di quel vasto impero si trovarono insensibilmente nella condizione di avere moltitudini di dèi e di culti, presso a poco (143) eguali da per tutto: ed ecco come il paganesimo non fu alla fine in questo che una sola e medesima religione.

«Erano in cotale condizione le cose, allorché, Gesù venne a stabilire sulla terra un regno spirituale: il che separando il sistema teologico dal sistema politico, fece che lo Stato cessò d'essere uno e cagionò le scissure intestine che non hanno mai cessato d'agitare i popoli cristiani. Ora quest'idea nuova d'un regno spirituale non poté mai entrare nelle teste dei pagani; e perciò riguardarono sempre i cristiani come veri ribelli che, sotto l'ipocrita sembianza di sommissione, non cercavano che il momento di rendersi indipendenti e signori è di usurpare destramente l’autorità che fingevano di rispettare nella loro debolezza. Tale fu la cagione delle persecuzioni (144)».

La conclusione è che il paganesimo, il quale mantiene l'unità nello Stato, è preferibile al cristianesimo che dà motivo a continue scissure. In nome di questo principio un discepolo di Licurgo e di Rousseau, Quinto Auclero, chiederà formalmente il ritorno sociale al politeismo.

«Quello che i pagani avevano patentato, continua Rousseau, è avvenuto: allora ogni cosa ha mutato d'aspetto: gli umili cristiani hanno cangiato, linguaggio, e si è ben presto veduto quel preteso regno dell'altro mondo, divenire sotto un capo visibile il più violento dispotismo in questo. Però siccome vi è sempre stato un principe e leggi civili, risultò da questa duplice potestà un perpetuo conflitto di giurisdizione che ha reso impossibile ogni buona politica negli stati cristiani: e non si è mai potuto venir al punto di sapere a chi, se al principe o al prete si fosse in obbligo di obbedire (145)».

Nazioni moderne, volete spezzar il giogo del più violento dispotismo? volete rendere possibile il regno della buona politica? Sbandite il cristianesimo! La difficoltà consiste nel riuscirvi: Rousseau se ne affligge e aggiunge: «Molti popoli però, anche in Europa o nelle sue vicinanze, hanno voluto conservare o ristabilire l’antico sistema, ma senza buon successo: lo spirito del cristianesimo ha invaso tutto. Maometto ebbe vedute sanissime, e collegò bene il suo sistema politico, e finché la forma del suo governo sussistette sotto i Califfi, suoi successori, questo governo fu costantemente uno e buono in ciò.

«Fra noi, i re d'Inghilterra si sono eretti in capi della Chiesa; altrettanto hanno fatto i zar; ma con questo titolo se ne sono resi meno i padroni che i ministri. Dovunque il clero fa un corpo, esso è padrone e legislatore nella sua patria.

«Fra tutti gli autori cristiani, il filosofo Hobbes è il solo che abbia veduto il male e il rimedio, che abbia osato proporre di riunire le due teste dell'aquila, e di rimenar tutto all’unità politica, senza la quale nessuno stato o governo non sarà mai bene costituito. Ma ha dovuto accorgersi che lo spirito dominatore del cristianesimo era incompatibile col suo sistema. Non è tanto quello che di orribile e di falso vi è nella sua politica, quanto quello che vi è di giusto e di vero che l’ha resa odiosa.

«Ci ha una religione la quale, dando agli uomini due legislazioni, due capi, due patrie, li sottomette a doveri contradditori ed impedisce loro di essere ad un tempo e devoti e cittadini. Tale è la religione dei Lama; tale quella dei giapponesi, tale il cristianesimo romano. Esso è sì evidentemente cattivo, che gli è un perdere tempo a dimostrarlo: tutto ciò che rompe l'unità sociale non vale nulla (146)».

Il cattolicismo rompe la beata unità che regnava nelle nazioni pagane, primo motivo di escluderla dalla società. Un nuovo sguardo sul mondo d'un tempo, tipo della perfezione, fa scoprire a Rousseau un secondo motivo di sbandeggiare il cristianesimo dall’ordine sociale; perché è una religione di schiavi.

«Il cristianesimo, egli dice, è una religione tutta spirituale, unicamente intesa alle cose del cielo: la patria del cristiano non è di questo mondo. Purché non abbia nulla che lo rimorda, poco a lui importa che tutto vada bene o male quaggiù. Se fra i cristiani si trova un solo ambizioso, un Catilina, per esempio, un Cromvello, questi se la farà assai bene coi suoi compaesani. Dal momento che esso avrà trovato con qualche astuzia l'arte di recare a sé l'autorità pubblica, eccolo un uomo costituito in dignità: Iddio vuole che sia rispettato. Eccolo una potenza: Iddio vuole che sia obbedito. Il depositario di questa potenza ne fa abuso: è la verga con cui Dio punisce i suoi figli; e ben si guarderebbero dal cacciar l'usurpatore (147).

In qual teologo veramente ortodosso Rousseau ha mai trovato la consacrazione della tirannide? Il cattolicismo è la religione della libertà. In quella bella antichità, oggetto dell'ammirazione di Rousseau, tre quarti parti del genere umano erano schiave: chi ne ha infranto i ferri? Nella persona degli arconti, degli èfori, dei cesari il più duro dispotismo pesava sul mondo: chi lo ha distrutto, intimando ai sovrani questo nuovo dogma: che il loro potere non è che un deposito; di cui renderanno severa ragione al Giudice comune dei re e dei popoli? Quando poteva farlo, il paganesimo uccideva i despoti, e camminava d'una in altra rivoluzione; il cattolicismo fa assai meglio: impedisce che nascano; e quando la sua voce era ascoltata, terminava i conflitti senza effusione di sangue. Anche oggidì, se qualche despota perviene ad impossessarsi del supremo potere, i principi di libertà deposti nel fondo delle società cristiane lo obbligano a regnare con equità, o il suo regno non è che passeggero. Ecco per qual motivo, dice Montesquieu il dispotismo non ha mai potuto stabilirsi permanentemente nelle nazioni cristiane. Ma Rousseau non s'intende punto delle dottrine sociali del cattolicismo; Infatuato del sistema antico, vuole che i popoli oppressi si ribellino; e, giudici e parti, che ricorrano ai soli mezzi conosciuti a Roma e nella Grecia, alla sollevazione e al tirannicidio: Il mondo moderno, educato come Rousseau alla scuola del Risorgimento, da molti secoli mette in pratica le dottrine sociali del paganesimo: e per avere risarcimento dei torti veri o supposti, che pretende essergli fatti, impiega il pugnale degli assassini, o il cannone delle barricate. E’ più libero con ciò?

Rousseau trova un altro motivo di sbandire il cattolicismo dalla società, perché, secondo lui, ci rende in ordine alla milizia, inferiori ai Greci e ai Romani. E al cospetto degli splendidi annali militari dell'Europa cristiana, e principalmente della Francia, il filosofo di Ginevra osa scagliare una simile ingiuria in fronte al cristianesimo! Ecco le sue parole: «Se sopraggiunge qualche guerra straniera, i cristiani marciano senza difficoltà alla battaglia; fanno il proprio dovere, ma senza passione per la vittoria: essi sanno piuttosto morire che vincere. Pensate voi qual partito può trarre per sé un nemico feroce, impetuoso, appassionato dal loro stoicismo! Supponete la vostra repubblica cristiana a fronte di Sparta o di Roma; i pii vostri cristiani, saranno rotti, sconfitti, schiacciati, sperperati prima d'aver il tempo di riconoscersi. Era, a mio avviso, un bel giuramento quello dei soldati di Fabio; i quali non giurarono di morire o di vincere, ma giurarono di ritornar vincitori e mantennero il giuramento. I cristiani non ne avrebbero mai fatto uno simile, perché avrebbero creduto di tentar Dio.

«Ma io mi inganno dicendo una repubblica cristiana: ciascuna di queste parole espelle l'altra. Il cristianesimo non predica che schiavitù e dipendenza; i veri cristiani sono fatti per essere schiavi.

Sotto gli imperatori pagani, i soldati cristiani erano prodi. Tutti gli autori, cristiani l'affermano, ed io lo credo: ciò era una emulazione d'onore. contro le soldatesche pagane. Dal momento che gli imperatori furono cristiani, quest’emulazione più non sussistette; e quando la croce ebbe scacciato l'aquila, tutto il valore romano disparve (148)

Si può egli dire in più chiare parole: Cessiamo di essere cristiani: facciamoci, Greci o Romani, per essere prodi e liberi, com’essi? Quali studi, quale educazione, quali autori hanno condotto Rousseau ad una simile aberrazione?



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CAPITOLO XI.



ROUSSEAU (Fine).



Attuazione del sistema sociale sul modello dell’antichità. Il popolo debbe trattare i propri affari da sé stesso. - E non con rappresentanti. - Questa dottrina giudicata impraticabile dagli stessi rivoluzionari.- Parole di Vergniaud e di Robert. - Disprezzo dell'ordine sociale cristiano e del monarcato.-Ammissione di tutti i cittadini a tutti gl'impieghi civili. - Obbligazione per tutti d'essere soldati, come nelle antiche repubbliche. - Fine delle società rigenerate sul modello di Sparta e di Roma. – Conclusione.


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Escludere il cristianesimo dalla società, e per conseguenza rovesciare, l'ordine sociale che gli è debitore della propria esistenza, far rivivere le politiche istituzioni delle repubbliche antiche, ecco in brevi parole il sistema governativo di Rousseau, ed il principio rigeneratore delle nazioni moderne. Tutte le ruote di questa meravigliosa macchina sono congegnate e disposte nel loro ordine rispettivo: non altro rimane che di metterle in movimento. L'antichità classica che ha dato a Rousseau l'idea dell'opera, gli fornisce anche i mezzi di esecuzione.

Il popolo è sovrano, ma in qual modo eserciterà esso la propria sovranità? Con l'occhio fisso sopra Sparta, sopra Atene e sopra Roma, Rousseau risponde: Da sé medesimo. «Non essendo le leggi, dice egli, che atti autentici della volontà generale, il sovrano non può agire che quando il popolo (il sovrano) è assembrato. Il popolo assembrato? si dirà: che chimera! È una chimera in oggi: ma non era, or ha duemila anni. Gli uomini hanno forse mutato natura?

«I limiti del possibile nelle cose morali sono meno ristretti di quello che pensiamo: le nostre debolezze, i nostri vizi, i nostri pregiudizi li ristringono Le anime basse non credono ai grandi uomini: schiavi vili sorridono di un ghigno beffardo a quella parola di libertà.

«Da quello che si è fatto facciamo ragione di quello che si può fare. Non parlerò delle antiche repubbliche della Grecia; ma la repubblica romana era, a quanto parmi, un grande Stato, e la città di Roma una grande città. Ciò nonostante poche settimane passavano, che il popolo romano non fosse assembrato ed anche più volte. Non solamente, esso esercitava diritti della sovranità; ma una parte anche di quelli del governo, e tutto quel popolo, sulla piazza pubblica, era così spesso magistrato come cittadino. Dall'esistente al possibile la conseguenza mi pare legittima » (149).

La conseguenza è eccellente! s'affrettò a rispondere il popolo sovrano, il popolo dei collegi formato, come Rousseau, alla scuola dei Greci e dei Romani. La prima sua fantasia fu di assembrarsi in comizi, in assemblee primarie, in assemblee elettorali. L'esperienza non tardò a dimostrare che il sistema di Rousseau era impraticabile: stantechè era impossibile di applicare ad una nazione di venticinque milioni di uomini liberi un ordinamento fatto per alcune piccole repubbliche come Atene o Sparta, ed anche per Roma, dove quello che chiamavasi popolo era poco numeroso e possedeva, schiavi incaricati delle cure e delle faccende domestiche, intanto che i cittadini adempivano sulla piazza pubblica le funzioni di elettore o di magistrato.

I più grandi ammiratori di Rousseau e dell'antichità resero a quest'utopia, soltanto ammirabile in collegio, la giustizia che meritava: «Credete voi, diceva Vergniaud alla tribuna della Convenzione, che quelle massime applicate soltanto dai loro autori a Stati circoscritti in limiti angusti, come le greche repubbliche, debbano essere rigorosamente e senza modificazione applicate alla Repubblica francese? In tal caso, siate consentanei come Licurgo: come lui, spartite le terre fra tutti i cittadini... Gli uomini a cui avrete concesso titolo di cittadino non paghino più imposte. Gli altri a cui negherete questo titolo siano tributari e sopperiscano alle vostre spese. Facciano gli stranieri il vostro commercio; gl'iloti coltivino le vostre terre, e fate dipendere la vostra sussistenza dal lavoro dei vostri schiavi (150)».

Questo per la Francia in generale .. Per parte sua poi il convenzionale Robert, parlando in nome di Parigi di cui era deputato, si esprimeva in questi termini: «I Romani avevano i loro schiavi: i Lacedemoni i loro iloti. La qualità di cittadino di Roma e di Sparta era una vera e reale aristocrazia: Oggi tutto è cangiato: il gran libro dell'eguaglianza è aperto, e non ci ha più schiavi da quelli, in fuori del vizio e del delitto. Se, come a Roma, non vi avesse in Francia che alcune migliaia di cittadini, vi direi: Ordinate frequenti adunanze dei corpi aristocratici, dei cittadini privilegiati e avrete, fatto tutto.

«Io non so che vogliano dire le continue declamazioni di alcuni oratori i quali, in un territorio di ventisettemila leghe quadrate, in uno Stato popolato da ventisei milioni di uomini chiamano incessantemente quest'immensa moltitudine di cittadini all'esercizio quasi quotidiano dei loro diritti.

«Ah! per fermo era cosa agevole nelle antiche repubbliche di convocare perpetuamente il popolo. Se fossimo cittadini romani, se avessimo schiavi, se tutte le proprietà della Repubblica appartenessero ad una sola classe d'uomini; se esistesse un'altra classe che facesse tutte le bisogne domestiche, tutte le operazioni del commercio, tutte le opere dell'agricoltura, tutti i lavori delle arti e dei mestieri, io pure direi essere d'uopo consultare il popolo sopra tutti i negozi pubblici; proporrei lo stabilimento del Foro in tutte le città, in tutte le borgate, e fino nei più piccoli casali. Ma la nostra condizione politica è poi veramente tale? Ed allorché si propongono codeste troppo frequenti adunanze del popolo non è lo stesso che il proporre l'abbandono del commercio e dell'agricoltura e per conseguenza la ruina dello Stato (151)?»

Ma Rousseau, il quale altro non vede che Sparta, e che traccia il disegno della sua società chiuso fra le pareti del suo gabinetto, sostiene intrepidamente il proprio sistema. Principio ed eseguimento, tutto egli vuole nella classica sua perfezione. Non più industria, non più commercio incompatibili con le funzioni di cittadino. Per sé stesso, e non per mezzo dei suoi mandatari il popolo eserciterà il proprio potere: la salute della Repubblica, si può ottenere soltanto a questo prezzo. Se veramente è degno della libertà, il cittadino non tituberà punto a trasandare i suoi personali interessi per intendere alla cosa pubblica. «Tostoché, dice egli, il servigio pubblico cessa di essere l'affare principale dei cittadini, e che essi amano meglio di servire col loro scrigno, che non colla loro persona, lo Stato è già vicino alla propria ruina. S'ha da andare in battaglia? essi pagano truppe e rimangono a casa. S'ha da andare in consiglio? nominano deputati e rimangono a casa. A forza di pigrizia e di danaro hanno finalmente soldati per inschiavire la patria e rappresentanti per venderla.

«La farragine della mercatura e delle arti, l'avido interesse del lucro; la mollezza e l'amore degli agi mutano in danaro i pubblici servigi. Si cede una parte di lucro per aumentarlo comodamente. Date pur danaro e ben presto avrete ferri. Questa parola finanza è una parola da schiavo; ed è sconosciuta, nella città. In uno stato veramente libero, i cittadini fanno tutto con le loro braccia e nulla col danaro. Ben alieni dal pagare per esimersi dai loro doveri, pagherebbero anzi per adempirli essi medesimi. «L'idea dei rappresentanti è moderna: essa ci viene dal governo feudale, da quell'iniquo ed assurdo governo nel quale la specie umana è digradata, ed in cui il nome d’uomo è un disonore (152)».

Tale è la lusinghiera definizione che i discepoli del Risorgimento non mancano mai di dare del sistema governativo dei popoli cristiani del medio evo. Con quale superbo disdegno lo paragonano allo Stato sociale dell’antichità! Come sono mai insistenti per distaccare il mondo da quello e ricondurlo a questo! «Nelle antiche repubbliche, così Rousseau, il popolo non ebbe mai rappresentanti: questa parola non si conosceva neppure (153)».

Non solamente cittadini erano ammissibili a tutti gl'impieghi che occupavano per sé stessi: ma tutti avevano anche l'onore e il dovere d'essere soldati. Perciò, il discepolo di Plutarco che a qualunque costo vuole rigenerare l'Europa rendendola greca e romana, aggiunge: «Ogni cittadino debba essere soldato per dovere; niuno debba esserlo per mestiere. Tale fu il sistema militare dei Romani: tale debba essere quello di qualunque Stato libero» (154).

L'Europa adunque avrà la coscrizione.

Da tutto questo risulterà infallibilmente l'amore della patria: questo amor patrio, riscuotendo lo spirito repubblicano di Roma e di Atene, salverà il mondo degradato dal cristianesimo e dal monarcato. «È certo, dice gravemente Rousseau, che i più grandi prodigi di virtù (155) sono stati prodotti dall'amore della patria. Egli produsse tante azioni immortali il cui splendore abbaglia i deboli nostri occhi, e tanti grandi uomini, le cui antiche virtù si hanno in conto di favole, dappoichè l'amore della patria è volto in derisione.

«Osiamo opporre lo stesso Socrate a Catone; l'uno era più filosofo, l'altro più cittadino. La virtù di Socrate è quella del più saggio fra gli uomini; ma tra Cesare e Pompeo, Catone sembra un semidio fra i mortali. Un degno discepolo di Socrate sarebbe il più virtuoso dei suoi contemporanei; un degno emulo di Catone ne sarebbe il più grande. La virtù del primo renderebbe felice lui; il secondo cercherebbe la propria nella felicità di tutti. Vogliamo che i popoli siano virtuosi? Cominciamo col far loro amare la patria »! (156) Quale sarà il fine delle società moderne così rigenerate? Lo stesso che delle società antiche: la prosperità materiale. A qual segno si riconoscerà cotale prosperità che il cristianesimo non ha saputo procurare al mondo? Fedele discepolo di Platone e di Licurgo, Rousseau risponde: Alla propagazione della specie. Il governo che maggiormente la favorisce é il migliore; quello che la consegue, il più felice. A questi conti, la Cina è il paese più perfetto e più felice del mondo! «Qual è, dice Rousseau, il fine dell’associazione politica? La conservazione e la prosperità dei suoi membri. E qual è il segno più sicuro che si conservano e prosperano? Il loro numero e la loro popolazione. Il governo sotto cui i cittadini popolano e moltiplicano di più è infallibilmente il migliore. Un tempo la Grecia fioriva in seno alle guerre più crudeli; il sangue vi scorreva a rivi, e tutto il paese era coperto di uomini. Un po' d'agitazione, dice Machiavelli, dà impulso agli animi; e la cosa che fa veramente prosperare la specie è non tanto la pace quanto la libertà (157)».

La conclusione diretta di questo passo ò che si dee sbandire il celibato: la conclusione indiretta e più estesa si è che si dee escludere il cattolicismo, poiché esso, consacra il celibato e costituisce le società sopra basi sconosciute dagli antichi legislatori: finalmente, che il vero mezzo di rigenerazione pei popoli moderni è di ridivenire repubblicani alla foggia dei Romani e dei Greci.

Laonde, considerata nel suo complesso, la dottrina politica di Rousseau viene formulata negli articoli seguenti:

Iddio non ha parte veruna nella fondazione delle società, le quali sono un fatto puramente umano: lo stato di natura è lo stato primitivo dell'uomo: sentendo il bisogno d'associarsi gli uomini, isolati nelle foreste, hanno stretto tra loro un contratto sociale; questo contratto è la base di tutti i diritti e di tutti i doveri. Le società sono giunte, all'apogeo di loro gloria nell'antichità classica a Sparta, in Atene e in Roma; il cristianesimo ed il monarcato le hanno fatte degenerare; il ritorno del paganesimo nel XV secolo ha cominciato, a trarle dalla barbarie in cui il cristianesimo ed il governo monarchico le aveva sprofondate; per compierne la guarigione si dee continuare questo movimento salutare e rivivere in Europa l'antichità classica, il suo spirito, le sue usanze, le sue istituzioni sociali, le sole che siano capaci di produrre ancora grandi uomini e grandi virtù.

Come ben si vede due cose sole si trovano nello spirito di questo sistema: l'ignoranza e l'odio del cristianesimo nelle sue relazioni con la società, e l'ammirazione fanatica delle istituzioni sociali del paganesimo. Predicando il più assoluto naturalismo, Emilio ripete sott'altra forma la medesima dottrina. E così si dica delle altre opere di Rousseau.

Rousseau quindi, non altrimenti di Voltaire, si può definire un'anima vuota di cristianesimo ed ebbra di paganesimo.

Ad esempio di Cicerone, di Licurgo, di Plutarco e degli altri grandi uomini dell’antichità, suoi maestri e suoi modelli, Rousseau, visse da libero pensatore. Di che i suoi ragionamenti favorevoli e contrari al duello, l'apologia e la riprovazione del suicidio; la facilità di palliare l'adulterio, e le ragioni proprie a farne sentire l'orrore; la negazione e l'affermazione dell’esistenza di Dio.

Passando con eguale facilità dal Protestantesimo al cattolicismo, e dal cattolicismo al protestantesimo, osteggia e difende successivamente il cristianesimo, volendo una religione pel popolo. Riguardo a lui, il suo culto è il culto antico, il culto dell'orgoglio e dei sensi. La sua vita è uno scandalo pubblico di cui si fa gloria nelle sue Confessioni; e la sua morte, quella d'un eroe di Plutarco.

Essa avvenne cinque settimane incirca dopo quella di Voltaire, il 3 luglio 1778 ad Ermenonville, nella terra del marchese di Girardin.



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CAPITOLO XII.



MONTESQUIEU


Precursore di Rousseau. - Formato alla stessa scuola. -Assalisce il cristianesimo. – Lettere persiane. Tempio di Guido. - Esalta l'antichità pagana. - Grandezza e decadenza dei Romani. - Spirito delle leggi, inspirato principalmente da Tacito e da Plutarco. - Morte di Montesquieu. - Analisi dello Spirito delle leggi.- Diffamazione del monarcato. - Elogio continuo del governo repubblicano di Sparta, d'Atene e di Roma



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«Quello che Montesquieu aveva fatto leggere ai padroni, Rousseau lo fece leggere ai servi». In questo detto, divenuto celebre, si trova il vincolo di affinità che unisce i due pubblicisti del passato secolo. Essendo usciti dalla medesima famiglia, sono animati dal medesimo spirito. Ma Montesquieu, più timido, ovvero, come si direbbe oggidì, meno spinto di Rousseau, copre con molto artificio il proprio pensiero, sia che osteggi il cristianesimo, sia che esalti l'antichità. Può anche darsi che egli non abbia veduto le conseguenze remote, né le finali applicazioni dei suoi principi. Checché ne sia ciò ch'ègli non dice che a mezzo, Rousseau lo dichiara apertamente. Sì l'uno come l'altro essendo figli del risorgimento giudicano la società sopra gli insegnamenti del loro padre. Tanto per Montesquieu come per Rousseau, il tipo delle istituzioni sociali è nella classica antichità, e il miglior governo è il governo repubblicano di Sparta, d'Atene e di Roma.

Come mai Carlo di Secondat, barone della Brede e di Montequieu, nato di nobil casato, nutrito d'un latte cristiano, educato in una monarchia, nella quale occupa un posto eminente, come mai, dico, diventa ammiratore costante delle repubbliche dell'antichità pagana, nonostante tanti motivi per non esserlo? Ogni effetto ha una cagione. Ora, in Montesquieu, la cagione dell’anomalia da noi segnalata, non è già sopravvenuta con gli anni, ma esisteva, sin dall'entrante giovinezza. Nato nel castello della Brède nel 1689, Montesquieu esordisce nel mondo letterario con le sue Lettere persiane, pubblicate nel 1721. Quest'opera, ispirata dallo spirito del Risorgimento, è un continuo assalto, sebbene più o meno coperto, contro il cristianesimo. L’eroe del romanzo, Usbek, è un libero pensatore nel duplice aspetto della morale e della fede. Non ostante le rimostranze del cardinale di Fleury, le Lettere persiane aprirono a Montesquieu le porte dell’Accademia. Il carattere anticristiano di questa produzione è il subbietto principale degli encomi che ne fa d'Alembert. Allegheremo le parole di quest'accademico, il quale ben si conosceva di queste materie, aggiungendo che per essere nel vero, si vuole dar loro doppia forza di quella che non hanno alla lettura.

«Montesquieu, dice il suo encomiatore, parla qualche volta con molta libertà, non sulla sostanza del cristianesimo, ma sopra materie che assai persone si studiano di confondere col cristianesimo stesso: sullo spirito di persecuzione onde tanti cristiani sono stati animati; sulle usurpazioni temporali della Potestà ecclesiastica; sulla moltiplicazione eccessiva dei monasteri che rapisce sudditi allo Stato senza dare adoratori a Dio; sopra alcune opinioni che si è tentato di erigere in dommi; sopra le nostre dispute di religione, sempre violente e spesso funeste» (158).

Quello che vi è nel senso occulto di queste frasi, artificiosamente indecise, si è che Montesquieu, come tutti i figli del risorgimento, adora il libero pensare in fatto di religione, ammira il dispotismo cesariano, e consiglia di star in pace con l’errore.

Il primo idolo del paganesimo era l’orgoglio: il secondo, la carne. Dall'altare dell'uno Montesquieu passa a quello dell'altra.

Il Tempio di Guido è un licenzioso ditirambo in onore della voluttà.

Nella Storia della Grandezza e della Decadenza dei Romani, Montesquieu attrae gli sguardi verso la bella antichità. Il romano impero è presentato nazioni cristiane e monarchiche, come il capolavoro dell'uomo e il modello della perfezione. «Il signor di Montesquieu, continua a dire d’Alembert, trova le cagioni della grandezza dei romani nell’amore della libertà, della fatica e della patria che si instillava in essi sino dall'infanzia: in quelle dissensioni intestine che concitavano gli spiriti, e che cessavano d’un tratto alla vista dei nemici: ... nell'onore del trionfo, subbietto di emulazione per i duci supremi; nel patrocinio che accordavano ai popoli ribellati contro i loro re; nell’eccellente politica di lasciare ai vinti i loro dèi, e le loro usanze. (159)»

Senza tema di cader in errore, tutto ciò è come un dire alle nazioni moderne: «Volete prosperare e ingrandire? rivolgete gli occhi sopra il magnifico impero romano: amate la libertà, la fatica e la patria come le amarono i Romani; fate di avere intestine dissensioni che valgono a concitare i vostri spiriti ed incoraggiate principalmente la ribellione dei popoli contro i re.

«Ora, le nazioni dell'Europa potevano rispondere a Montesquieu col rettore Dumouchel, nel 1790: Noi non abbiamo né libertà né patria, come possiamo dunque amarle? Non abbiamo né rostri, né foro per esercitarci in quelle intestine dissensioni che fortificano gli animi. Proteggere i popoli contro i re, sarebbe un contraddirci: perché siamo sudditi d'una monarchia e non repubblicani».

La conclusione è evidente; e se Montesquieu avesse vissuto, l'avrebbe vista messa in pratica dalla rivoluzione. Avrebbe visto la Francia inebriata dell’amore della libertà e della patria, ricca d'intestine dissensioni, dar il segnale della ribellione universale dei popoli contro i re, e, per rigenerarsi, volere a tutto prezzo risuscitare la repubblica romana.

Nello Spirito delle Leggi in particolare modo, sua opera principale Montesquieu si mostra figlio del risorgimento e della sua educazione di collegio. Qui le espressioni diventano più chiare, i ravvicinamenti più numerosi, le preferenze più spiccate le tendenze più manifeste e meglio caratterizzate. «Ciò che sarebbe oscuro per i lettori volgari, dice il suo encomiatore, non lo è per coloro che l'autore ha avuto in mira. Il signor di Montesquieu dovendo talvolta presentare verità importanti, la cui enunciazione assoluta e diretta avrebbe potuto offendere senza frutto, ha avuto la prudenza d'invilupparle, e, mediante quest’innocente artificio le ha velate a coloro a cui sarebbero nocive, senza che andassero perdute pei saggi (160).

Montesquieu, come tutti i suoi predecessori dopo il risorgimento va ad attingere nell'antichità pagana le sue teoriche politiche e sociali. Per lui il Vangelo, come elemento politico, è non avvenuto; la missione sociale della Chiesa non esiste.

«Fra le opere, aggiunge d'Alembert, che gli hanno fornito per la sua o sussidi o talvolta anche vedute, si scorge aver egli in principal modo profittato dei due storici che hanno maggiormente pensato: Tacito e Plutarco (161)».

D'Alembert continua con l'elogio del Tempio di Guido e termina raccontando così la morte del suo eroe «Dopo aver decorosamente soddisfatto tutti i suoi doveri, pieno di fiducia nell'Ente eterno al quale andava a congiungersi, morì con la tranquillità di un uomo dabbene che non aveva mai consacrato il proprio ingegno che a vantaggio della virtù e dell'umanità. (162)»

Attaccate finché vorrete il cristianesimo nei suoi dommi e nella sua morale, scalzate l'ordine religioso e sociale da esso stabilito, purché abbiate, esaltato l'antichità classica predicate l’onore e della libertà e della patria, sarete agli occhi di tutti i figli del Risorgimento, uomo dabbene, e potrete morire tranquillo con la speranza d'andare, secondo il pensiero di Virgilio, a ricongiungervi all'Ente eterno!

Non parliamo né delle Lettere Persiane, né del Tempio di Guido, occupiamoci solamente dello Spirito delle leggi, e vediamo sino a qual punto questa opera è giovevole alla virtù ed all'umanità.

In quest’opera si cercano invano le grandi idee cattoliche sull'origine e sull’ufficio del potere. Iddio non interviene in nessuna maniera nella formazione delle società. L'uomo le ha fatte come si edifica una casa: con sovrana autorità esso crea, dispone, regola tutto secondo il proprio interesse, i suoi bisogni o i suoi piaceri.

Rimossi Dio e il cristianesimo, non rimane più per spiegare l'origine delle società che la favola pagana dello stato di natura e del contratto sociale. Moutesquieu, come tutti i politici del Risorgimento, muove da cotal favola. Ei pretende che in quel felice, stato, gli uomini dispersi nei boschi, e non sentendo che la propria debolezza, non cercavano di assalirsi scambievolmente, talché la pace è la prima legge naturale. Quest'è l'età dell'oro di Virgilio e di Ovidio. Montesquieu dimentica la caduta originale. Hobbes, dal canto suo, ha veduto l'uomo naturalmente cattivo, appassionato, despota; per conseguenza nemico del suo simile, e per lui la guerra è la prima legge naturale.

Questa dottrina non piace a Montesquieu, il quale così ragiona: «Il desiderio che Hobbes, attribuisce dapprima agli uomini di soggiogarsi scambievolmente, non é ragionevole. Egli chiede perché, se gli uomini non sono naturalmente in stato di guerra, sono sempre armati, perché hanno chiavi per chiudere le loro case. Ma non sentesi che si attribuisce agli uomini prima dello stabilimento delle società ciò che non può accader loro che dopo tale stabilimento, che fa loro trovare motivi per assalirsi e per difendersi». (163)

Altrove aggiunge: «Nello stato di natura gli uomini nascono bensì nell'eguaglianza, ma non vi possono rimanere. La società gliela fa perdere, e non ritornano eguali che per le leggi. (164)»

Questa teorica dello stato di natura e del contratto sociale che ne è la conseguenza non si trova né nel Genesi, né nei Padri, né nella tradizione cattolica: essa è falsa cristianamente, storicamente, filosoficamente, ma è vera mitologicamente. Ciò basta a Montesquieu e a tutti coloro che a suo esempio furono abituati fino dall'infanzia a non vedere di là dall'orizzonte della classica antichità.

Dopo aver rivelato le basi delle società umane, Montesquieu passa alle forme ch'esse hanno adottato. Paragona fra loro i diversi governi; e, come ben si può credere, la sua preferenza è pel governo repubblicano. «La virtù, egli dice, è il gran movente delle repubbliche, dovecchè l’onore soltanto ed il timore sono gli stimoli principali dei governi monarchici e dispotici (165).

Ben si comprende che siffatto privilegio è idoneo a lusingare la fibra democratica. Quello poi che Montesquieu vi aggiunge è idoneo a lusingarla ancor più gradevolmente. «Il popolo, egli dice, è ammirabile per eleggere coloro a cui dee commettere qualche parte della propria autorità (166). Egli non ha a determinarsi che sopra cose che non può ignorare e sopra fatti che cadono sotto i sensi. Egli sa benissimo che il tal uomo è stato spesse volte alla guerra; che ha conseguito le tali e tali altre vittorie: dunque è capacissimo d'eleggere un generale. Sa che un giudice é è assiduo; che molte persone: partono dal suo tribunale contente di lui: che non è accusato di corruzione: eccone quanto basta per eleggere un pretore. È stato abbagliato dalla magnificenza o dalle ricchezze, di un cittadino: ciò basta perché possa eleggere un edile». (167)

Secondo le buone tradizioni del Risorgimento, Montesquieu conferma la propria argomentazione con l'inevitabile esempio dei Greci e dei Romani. «Se si potesse dubitare, così egli, della capacità naturale che ha il popolo per discernere il merito, non sarìa a far altro che rivolgere gli sguardi sopra quella serie continua di scelte stupende che fecero gli Ateniesi ed i Romani (168). Come Rousseau, come Mably, come tutti i teorici della stessa scuola, Montesquieu dimentica sempre che Roma, Atene, Sparta annoveravano alcune migliaia appena di elettori; e, ciò che poteva convenire ad una città vogliono applicare a Stati che contano milioni di uomini liberi! L’esperienza sola poteva fare giustizia di queste pericolose utopie.

Quest'esperienza però non si era ancor fatta nel XVIII secolo. Allora, come il desiderio di vivere in repubblica non sarebbe venuto a coloro che udivano i regolatori dell’opinione dire con Montesquieu: «Nelle repubbliche dove le ricchezze sono egualmente, divise, non può esservi lusso. Quest'eguaglianza costituiva l'eccellenza di una repubblica: ne conseguita quindi che in una repubblica quanto meno di lusso ci ha, tanto più essa è perfetta. Non ve n'aveva presso i primi Romani; non ve ne aveva presso i Lacedemoni. Le leggi del nuovo spartimento dei campi, chieste con tanta istanza in alcune repubbliche erano salutari di loro natura: esse non sono pericolose che come azione subitanea» (169).

Questo appello al rimpasto della proprietà non è andato perduto. Montesquieu lo rende ancor più chiaro aggiungendo: «Le ricchezze private non hanno aumentato se non perché hanno tolto ad una parte dei cittadini il necessario fisico: è d'uopo dunque che loro sia restituito. Perché si sostenga lo stato monarchico, il lusso dee andare crescendo dall'agricoltore all'artigiano, ai mercatanti, ai nobili, ai magistrati, ai grandi signori, agli appaltatori principali, ai principi: senza di che, tutto sarebbe perduto (170)».

I ragionamenti repubblicani di Montesquieu fanno più che rendere odioso il governo monarchico: essi lo stringono in un angiporto. Da una parte la monarchia non può sussistere senza incoraggiare il lusso: dall’altra, il lusso, per opinione dello stesso Montesquieu, crea mille bisogni fittizi, concita tutte le passioni e conduce infallibilmente lo Stato alla sua rovina per la corruzione dei costumi. La prima conclusione che ne scaturisce è evidentemente questa: lo Stato repubblicano, dove il lusso non è necessario, è preferibile allo Stato monarchico. La seconda, energicamente dedotta dalla rivoluzione, è l'abolizione del monarcato, lo stabilimento della Repubblica con la massima spartana: Ai repubblicani non è bisogno che di pane, di polvere e di ferro (171).


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CAPITOLO XIII.



MONTESQUIEU

(Continuazione e fine).



Ammirazione per l'antichità. - Diritto di ribellione. - Regicidio.- Purezza dei costumi. - Bella usanza matrimoniale. - Buona polizia dei Romani sull'esposizione dei figli. - Lodi delle greche istituzioni. - Disprezzo delle arti e del commercio. - Elogio dei Romani. - Parole di Senofonte, di Plutarco, di Diodoro Siculo. - Indebolimento della ragione cristiana in Montesquieu. – Ignoranza, errori, pregiudizi. - La punizione del Sacrilegio.- La potenza e i beni del clero. - Fatalismo. - Il protestantesimo e il suicidio. - Conclusioni



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O Montesquieu non ha rifatto la sua educazione di collegio, il che non si può ammettere; o, rifacendola, non ha saputo cancellare le proprie sue impressioni; il che è più verisimile. Tanta è infatti la sua ammirazione per l'antichità classica che non trova quasi nulla da biasimare e che giustifica eziandio una moltitudine di massime e d’usanze delle quali qualunque uomo imparziale scopre alla prima occhiata i vizi ed i pericoli. Così parlando dei Cretesi, egli dice: «I Cretesi per tenere i primi magistrati nella dipendenza delle leggi, impiegavano un mezzo assai singolare, ed era quello della ribellione .... L'amore della patria corregge tutto» (172).

Alcuni anni dopo la morte di Montesquieu, la rivoluzione, accogliendo per amor della patria l'innocente principio di Creta, diceva in suo linguaggio: «La ribellione è un mezzo dichiarato dal Creatore, il quale ha dato la forza all'uomo come gli artigli all’aquila per rintuzzare il proprio nemico. Ti ho dato le braccia, raccogli i ciottoli. La sollevazione di un popolo è il colpo di coda della balena che sommerge lo schifo del Fiociniere. È il primo; il più bello, il più irrepugnabile diritto dei popoli oltraggiati. (173)»

Montesquieu va più oltre e giustifica il regicidio: «Vi avea, dice egli, un certo diritto delle genti, un'opinione stabilita in tutte le repubbliche della Grecia e dell'Italia, che faceva tener conto d’uomo virtuoso l'assassino, di chi avesse usurpato il supremo potere. A Roma principalmente, dopo l'espulsione dei re, la legge era precisa; gli esempi non contestati: la Repubblica armava il braccio di ciascun cittadino, lo faceva magistrato momentaneamente e lo aveva per sua difesa. Bruto ben osa dire ai suoi amici che quand’anche suo padre ritornasse sulla terra, ei l'ucciderebbe egualmente. Era questa una passione dominante per la patria, che uscendo dalle regole ordinarie dei delitti e delle virtù, non ascoltava che lei sola, e non vedeva né cittadino, né amico, né benefattore, né padre: la virtù parea dimenticasse sé stessa per superare sé stessa; e quell’azione che non poteva approvare perché atroce, la faceva ammirare come divina». (174)

Ma non ostante nell’ordine politico, il governo repubblicano della Grecia e di Roma abbaglia Montesquieu; sì veramente anche in ordine ai costumi, alle virtù ed alle civili istituzioni. «Le donne, egli dice, hanno poco ritegno nelle monarchie … Ciascuno si serve dei loro vezzi e delle loro passioni per sospingere innanzi la propria fortuna ... Nelle repubbliche le donne sono libere per le leggi e schiave pei costumi: il lusso vi è sbandito e con esso la corruzione ed i vizi.

«Nelle città greche, la purezza dei costumi è una parte della virtù: nelle città greche dove un turpe vizio regnava sfrenatamente, dove l’amore non avea che una forma che non oso dire, la virtù; la semplicità, la castità delle donne, vi erano a tal segno che non si è mai veduto nessun popolo che, per questo riguardo, abbia mai avuto una polizia migliore (175)».

Checché ne sia, come si può dubitare della purezza dei costumi in uno Stato repubblicano dove si trovano istituzioni e costumi per cui Montesquieu è rapito in ammirazione? «I Sanniti, dice egli, avevano una consuetudine la quale, in una piccola repubblica, doveva produrre mirabili effetti. Radunavansi tutti i giovani e si giudicavano. Quegli che era dichiarato migliore di tutti prendeva in donna la fanciulla che voleva. Sceglieva poi chi aveva più suffragi più dopo di lui, e così di seguito …

«I Sanniti discendevano dai Lacedemoni; e Platone, le cui istituzioni non sono che il perfezionamento delle leggi di Licurgo, diede pressappoco la medesima legge» (176).

Con questa, bella consuetudine che diventa il consenso del padre e la libertà della donna? Abbia essa o no antipatia od avversione od altri motivi, è necessario che la fanciulla accetti per sposo colui che le è imposto! Oh l’alta moralità veramente in questa consuetudine! oh quali mirabili effetti produrre dovevano quei maritaggi contratti sotto tali auspici! Dalle istituzioni matrimoniali che gli sembrano stupende, Montesquieu passa ai doveri della paternità, la cui polizia gli sembra egregia. «I primi Romani, egli dice, ebbero un'egregia polizia sopra l’esposizione dei figli. Romolo, per fede di Dionigi d'Alicarnasso, fece obbligo a tutti i cittadini di allevare tutti i figli maschi e le primogenite delle fanciulle. Se i figli erano deformi o mostruosi, permetteva di esporli, dopo averli fatti vedere a cinque dei più prossimi vicini». (177)

Il diritto legale di esporre, cioè d'abbandonare a certa morte tutti i figli deformi, e tutte le figlie, ad eccezione delle primogenite, viene chiamato da Montesquieu polizia egregia! È come mai si può spiegare in un’anima onesta una simile aberrazione, se non mediante il cieco fanatismo che l'educazione aveva infuso nell'animo di Montesquieu pei Romani, per quel popolo cioè, com'egli dice, il quale seppe accordar meglio le sue leggi coi suoi disegni»? (178)

Ed altrove: «Sento di essere ben forte nelle mie massime, quando ho in mio favore i Romani (179)».

Al vedere un sì peregrino ingegno sì tristamente forviato, si continuerà ancora a sostenere che non vi è nessun inconveniente ad educare la gioventù nell’ammirazione della classica antichità?

Dall'Italia Montesquieu si riconduce in Grecia, e ci spiega il segreto della gloria e della prosperità incomparabile delle repubbliche di Atene e di Sparta. Condotto a parlare dell'educazione e delle istituzioni sociali così discorre: «Gli antichi Greci, penetrati della necessità che i popoli i quali vivevano in un governo popolare fossero educati alla virtù (180), fecero speciali istituzioni per infonderla. Allorché vedete nella vita di Licurgo, le leggi ch'ei diede ai Lacedemoni, credete di leggete la Storia dei Sevarambi. Le leggi di Creta erano l'origine delle Spartane, e quelle di Platone n'erano la correzione.

«Prego che si ponga ben mente al vasto ingegno che fu necessario a quei legislatori per vedere che cozzando contro tutte le consuetudini ammesse, confondendo tutte le virtù, mostravano all'universo tutta la sua saggezza. Licurgo mescolando il ladroneccio con lo spirito di giustizia, la più dura schiavitù con l’estrema libertà, i sentimenti più atroci con la più grande moderazione rese stabile la propria città.

«Sembra ch'ei le tolga tutti i mezzi, le arti, il commercio, il danaro, le meraviglie. Vi è ambizione senza speranza d'esser meglio: vi sono sentimenti naturali e non vi si né figlio, né marito, né padre: anche il pudore è tolto alla castità. Per queste vie Sparta è condotta alla grandezza e alla gloria .... L'isola di Creta e di Laconia furono governate da queste leggi … I Sanniti ebbero le medesime istituzioni». (181)

E noi pure preghiamo che si ponga mente che questo strano encomio emana da Montesquieu: ch'esso, con autorità del suo nome, lo indirizza a uomini maturi, ad uomini che per la sociale loro condizione diverranno un giorno i regolatori dell'opinione: che saranno magistrati, giureconsulti, legislatori, e faranno la società a propria immagine. La Francia avrà forse motivo di stupire, allorché, in meno di 40 anni, dopo la morte di Montesquieu, vedrà sorgere una generazione intera di letterati e di giuristi che ad ogni costo vorranno applicarle, le ammirabili istituzioni dei Cretesi, dei Sanniti, degli Ateniesi e degli Spartani?

Montesquieu, il quale per fermo non prevedeva lo conseguenze delle sue dottrine, continua a magnificare i governi repubblicani dell'antichità classica, a danno delle monarchie moderne. «È d'uopo, aggiunge, persuadersi che, nelle città greche, in quelle principalmente che avevano per principale obbietto la guerra, tutte le opere e le professioni che potevano condurre a guadagnar danaro erano riguardate come indegne di un uomo libero. La maggior parte delle arti, dice Senofonte, corrompono il corpo di coloro che le esercitano; obbligano a star seduti all'ombra o presso al fuoco; non si ha tempo né per gli amici, né per la repubblica. Nella corruzione soltanto di alcune democrazie gli artigiani giunsero a diventare cittadini. Aristotele sostiene che una buona repubblica non dà loro giammai il diritto di cittadinanza.

L'agricoltura era anch’essa una professione servile e di solito, veniva esercitata da qualche popolo vicino; dagli Iloti presso gli Spartani, dai Periccii presso i Cretesi; dai Penesti, presso i Tessali; e da altri popoli schiavi presso altre repubbliche. Finalmente tutto il basso commercio era infame appo i Greci. Sarebbe stato d’uopo che un cittadino avesse reso servigi ad uno schiavo, ad un locatario, ad uno straniero; e quest’idea distruggeva l'idea della greca libertà. Perché Platone vuole nelle sue leggi che si punisca un cittadino che si desse alla mercatura (182)».

Tutte codeste idee sono esse in armonia col nostro stato sociale? Oggidì il desiderio che sente ciascuno d'uscire dalla propria condizione, il rimestarsi delle classi che ne consegue, sono divenuti un grave imbarazzo ed anche una minaccia pei governi. Si può affermare che questa spiacevole tendenza non proviene in alcun modo dal disprezzo dell'agricoltura, del commercio, delle arti meccaniche, la cui espressione i figli dei coloni, dei mercatanti e degli artigiani trovano così spesso nei loro autori scolastici, e specialmente in Cicerone, il più ammirato di tutti?

Finalmente Montesquieu termina il lungo suo encomio dell'antichità con queste parole le quali palesano tutto intero l’anima sua: «Non si può lasciar mai i Romani. Così anche oggidì, nella loro capitale si lasciano i nuovi palagi per andare in ricerca delle ruine! (183)». Montesquieu avrebbe potuto aggiungere: Anche le chiese e i monumenti cristiani.

Per compiere quest'encomio mostrando quanto esiste di vero nel ritratto che l'educazione di collegio ci ha fatto di quegli ammirabili Greci e di quegli ammirabili Romani, rechiamo, poiché ne si presenta l'opportunità, alcune testimonianze di autori non sospetti:

«Avendo Lisandro, dice Senofonte (184), sconfitto gli Ateniesi, si giudicarono i prigionieri. Furono accusati gli Ateniesi d'aver precipitati in mare tutti i prigioni di due galee e risoluto in piena assemblea di far tagliare il pugno ai prigionieri che, farebbero.

Essi furono tutti trucidati. - «Una volta, dice Plutarco (185), gli Argivi fecero morire 1500 dei loro concittadini».

Or via, facciamoci dunque Greci!

I Romani, dice Diodoro Siculo, compravano armenti di schiavi per coltivar le terre e per aver cura delle loro mandrie: e negavano di alimentarli. Questi disgraziati erano costretti a andare a rubare sulle strade, armati di lance e di clave, coperti di pelli di bestie, ed accompagnati da grossi cani. Fu questa una delle cagioni della guerra degli schiavi (186) Facciamoci dunque Romani.

Presso all'ammirazione per l'antichità pagana, di cui è pieno l’animo suo, Montesquieu come tutti i figli del Risorgimento, lascia vedere l'indebolimento del sentimento cristiano. Questo male negativo dell’educazione di collegio nell'autore dello Spirito delle leggi si manifesta per mezzo di errori, di ignoranze, di pregiudizi sconosciuti agli scrittori del medioevo. Così egli ignora completamente la missione sociale della Chiesa; ne impugna la sua potenza coattiva e l’obbligo imposto ai principi cristiani di farne rispettare le leggi. «La pena del delitto, egli dice, debb'essere tratta dalla natura del delitto stesso: Perché la pena dei sacrilegi semplici (187) sia tratta dalla natura della cosa, dee consistere nella privazione di tutti i vantaggi che dà la religione: l’espulsione fuori dei templi ecc., ecc:, pene puramente ecclesiastiche.»

«Che se il magistrato, confondendo le cose, inquisisce anche il sacrilegio semplice, distrugge la libertà dei cittadini. Il male è venuto da quest'idea, che si dee vendicare la Divinità; ma la Divinità si dee onorarla e non mai vendicarla. (188)

Bel ragionamento! E che fa il magistrato che manda alla galera o al patibolo il ladro o l'assassino, se non per vendicare la Divinità che, vieta il ladroneccio e l'assassinio? Il delitto non è se non perché Iddio lo dichiara e non già l'uomo.

Altrove chiede la separazione della società e della Chiesa, ed attribuisce una barbarie dei popoli la potenza del clero: (189).

Facesse il clero almeno un uso buono dei beni che gli vengono dati! ma ei se ne serve per vivere e per far vivere il popolo nell’oziosità (190). Nel medioevo il clero aveva riempito l'Europa di monumenti d’ogni ragione, incoraggiato tutte le scienze, favoreggiato tutti i legittimi progressi; alleviato magnificamente tutte le miserie. Tutto ciò non è nulla per Montesquieu, il medioevo non esiste.

Stantechè nella bella antichità ei non ha veduto né conventi: né ospedali, non può comprendere il loro posto nel suo disegno di ordinamento sociale. «Arrigo VIII, dice egli, volendo riformare, la chiesa d'Inghilterra, distrusse i monaci, pigra generazione, la quale manteneva anche la poltroneria altrui. Tolse anche gli spedali, dove il basso popolo trovava la propria sussistenza, come i gentiluomini trovavano la propria nei monasteri. Dopo quel mutamento, in Inghilterra si stabilì lo spirito di commercio e d'industria (191). A Roma gli spedali fanno sì che tutti siano agiati, eccetto quelli che lavorano, eccetto quelli che sono industriosi, eccetto quelli che coltivano le arti, eccetto quelli che posseggono terre, eccetto quelli che fanno il commercio» (192). Questo giudizio di Montesquieu giustifica anticipatamente tutte le spoliazioni della Chiesa eseguitesi in Europa da 60 anni. Ma si badi bene che se è permesso di spogliare i preti oziosi, il popolo ben non potrà non intendere sempre che sia vietato di spogliare i cittadini fannulloni.

L'indebolimento della ragione cristiana manifestasi in Montesquieu in modo ancora più grave. Alcune delle sue opinioni rasentano il fatalismo pagano. Vogliamo parlare, fra le altre, della famosa sua teorica dei climi, il cui influsso sembra togliere all'uomo la libertà a tal segno da scusare gli atti più riprovevoli. Il mezzodì dell'Europa è rimasto cattolico; il settentrione è divenuto protestante: sapete perché?

«Allorché la religione cristiana, risponde Montesquieu, pativa or ha due secoli, quella malaugurata scissura che la divise in cattolica ed in protestante, i popoli del settentrione abbracciarono la protestante, e quelli del mezzodì la cattolica. La ragione è che i popoli del settentrione hanno ed avranno sempre uno, spirito di indipendenza e di libertà che non hanno i popoli meridionali; ed una religione che non ha capo visibile conviene meglio all'indipendenza del clima di quello che ha un capo» (193). Se il clima fa che l’uomo sia protestante o cattolico, la religione dipende dunque dai gradi di latitudine.

Anche il suicidio è determinato dalla stessa cagione. «Egli è chiaro, continua Montesquieu, che le leggi civili d'alcuni paesi hanno avuto motivi per infamare l'omicidio di sé stesso; ma in Inghilterra non si può punirlo, come si puniscono gli effetti della demenza (194)». Dietro questa teorica, e perché un altro moralista non potrebbe dire: «Egli è chiaro che le leggi civili di alcuni paesi hanno avuto motivi d'infamare il furto, l’adulterio, il veneficio; ma in Russia, in Spagna, in Francia, in Africa non si può punirlo come non si puniscono gli effetti, della demenza»?

Dallo studio delle opere di Montesquieu risulta che l'ammirazione per l'antichità e il disprezzo dei secoli cristiani, almeno sotto l'aspetto sociale, sono i due sentimenti che dominano nell’animo di lui; che l'autore dello Spirito delle leggi, nato in una monarchia, è repubblicano di desiderio e di convincimento; che, sia a motivo delle tradizioni di classe e famiglia, sia a motivo delle persone in mezzo a cui ha vissuto, Montesquieu è meno ardito nelle sue opinioni di Voltaire e di Rousseau, suoi, contemporanei; che nei suoi scritti si trova la maggior parte dei desideri, delle insinuazioni, e dei principi che vennero attuati nei fatti della rivoluzione francese. Se dunque il Risorgimento, propugnato dall'educazione, non fu altra cosa nel suo spirito che il disprezzo dei secoli cristiani e la esaltazione dell'antichità pagana, non si è forse in obbligo di concludere che Montesquieu, come gli altri filosofi del secolo XVIII, è figlio nel Risorgimento e della sua educazione di collegio?


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CAPITOLO XIV.



MABLY.



Mably, uno dei principali autori della rivoluzione. - Sua nascita. - Sua educazione presso i Gesuiti. - Entra nel seminario di S. Sulpizio ed è ordinato suddiacono. - Lascia il seminario e la teologia per darsi allo studio degli autori pagani. - Vi passa sessant'anni. - Suo culto per l'antichità. - Sua morte. - Elogio che ne fa l'abate Brizard. - Mably, anima vuota di cristianesimo e briaca di paganesimo. - Analisi del Focione. - Voto in favore della rivoluzione



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Si deputarono uomini agli Stati generali: e noi letterati, vi deputammo libri; e questi libri sono cagione che ebbevi una assemblea nazionale e che poscia esso ha prosperato (195).

Nulla è più vero di quest'omaggio di pietà filiale reso dalla rivoluzione alla letteratura. Nelle loro opere tutti i letterati, filosofi, pubblicisti, enciclopedisti furono presenti, agli Stati generali: anzi essi stessi li presiedettero, come fecero di tutte le altre assemblee rivoluzionarie. Fra quei deputati, la storia vuole che dopo Voltaire, Rousseau e Montesquieu si assegni un posto onorevole all'abate Mably. «Fra coloro cui la nostra rivoluzione dee il suo principio, Mably è il solo che sia degno di camminare sulle orme di Rousseau: se vivesse, ei sarebbe cittadino (196).

Gabriele Bonnot di Mably, di nobile famiglia del Delfinato, nacque a Grenoble nel 1709. Assai giovane ancora, fu mandato al collegio di Lione, diretto dai gesuiti. Ne uscì appassionato pei Greci e pei Romani. Finiti gli studi venne a Parigi, invitatovi dal cardinale di Tencin, suo parente, che l'indusse ad abbracciare lo stato clericale.

Mably entrò nel seminario di San Sulpizio, cominciò il corso teologico e fu ordinato suddiacono.

L'ordinazione però non gli fece perdere né le sue inclinazioni né le su rimembranze di collegio. Trascinato dal suo amore per l'antichità, lascia il seminario ed abbandona i libri di teologia per le Vite di Plutarco.

Le legge avidamente, come fa degli altri autori antichi, di Tucidide, di Platone, di Cicerone che sapeva quasi a memoria; e da questa lettura attinge quello spirito d'indipendenza, quell’entusiasmo per le repubbliche della Grecia e dell’Italia che si riflettono da tutti i suoi scritti e che egli professa per tutta la vita (197).

Nella stessa guisa abbiamo veduto Voltaire, strascinato verso le belle lettere, delle quali erasi invaghito in collegio, resistere a suo padre:e ricusare d’intraprendere lo studio della giurisprudenza.

Nella coltura delle lettere Mably cercava non tanto ciò che esse offrono di gradevole e di seducente, quanto ciò che hanno di solido e di utile. Vi cercava non solamente modelli di stile e di locuzione, ma lezioni ed esempi di morale e di virtù. Addentrandosi nelle bellezze morali degli antichi e dei grandi modelli, passava dalle parole alle cose; e, secondo il detto di Montaigne, dalla corteccia al midollo, e nutrivasi di verità più sostanziali e di quei sentimenti sublimi che accalorano le loro opere (198). Come vedremo, ciò è alla lettera quello che fece anche Lutero.

L’indole sua lo inclinava all'austerezza: le severe virtù di Lacedemone lo inebriarono … Egli si fece uno spirito, un carattere, virtù che appartenevano a secoli remoti: ed i leggeri Parigini videro con stupore comparire in mezzo a loro un giovane Spartano, raddolcito alquanto dalla famigliarità con Platone (199). Il giovane suddiacono Lacedemone ostenta un tenore di vita conforme ai suoi principi. Ritirato in un modesto appartamento vive solo in mezzo agli antichi. Se va in casa della sua parente madama di Tencin, se parla, se scrive, sostiene sempre, da vero discepolo di Licurgo e di Platone (200), che le ricchezze, inutili agli Stati, sono un veleno pei cittadini; che le arti, figlie del lusso, non sono meno perniciose del padre loro; ed altre simili massime della bella antichità. Di tutti gli uomini che hanno vissuto da Adamo sino a lui, quello che venera di più, è Catone: il governo che ammira pienamente ed esclusivamente è quello di Lacedemone. Di che avviene che, lodandolo una dama di spirito colto ch’egli mostrasse carattere fermo: «In certi paesi risponde Mably, non si può aver carattere; ma se fossi nato a Sparta, sento che sarei stato qualche cosa» (201).

Le sue opinioni, il suo modo di vivere diventato per lui un tema di encomio: «Se fra noi, dice uno dei suoi panegiristi, Mably era singolare, non ostentava però di esserlo: ciò, accadeva perché il suo carattere, il suo spirito, il suo modo di pensare, le sue virtù non erano del nostro secolo; poiché erasi foggiato sopra modelli che non sono più i nostri. Nei bei giorni di Atene, ... ei sarebbe stato confuso nella folla dei cittadini stimabili; perché tutti avrebbero rassomigliato a lui Nei bei giorni di Sparta sarebbe stato ancor meno notato. Ma fra noi egli era come quelle figure antiche la cui saggia posa e la severa bellezza fanno contrasto con le statue manierate dei moderni (202)»

Niuna cosa modifica i sentimenti, il cui germe ha attecchito in collegio e che ha sviluppato mediante le sue letture. «Era cosi costante nei principi che aveva adottato e che erano divenuti una parte inseparabile di lui stesso, che non poteva lasciarli più di quello che sarebbesi potuto scompagnare alcune delle sue membra o mutarne le sembianze (37)».

Dopo aver vissuto 76 anni ed averne passato più di 60 nella famigliarità esclusiva degli antichi, l'abate Mably, assai meno francese che spartano e ateniese andò a render conto a Dio di quella vita ecclesiastica, spesa a fare ed a rifare sotto tutte le forme il paragone dei Greci e dei Romani coi popoli moderni; a stabilire la preminenza di quelli su questi, ed a somministrare senza saperlo, alcune delle armi più terribili che abbia la rivoluzione impiegato per distruggere la religione e la monarchia.

Secondo uno dei suoi biografi, la sua morte fu degna della sua vita: ei ne racconta i particolari nel modo seguente «Negli ultimi suoi momenti ebbe la fermezza di Socrate e non il ciarlatanismo dei nostri moderni peregrini che innalzano ancora i loro catafalchi sul letto mortuario. Mably cessò di vivere con la tranquillità che infonde una vita senza rimprovero, ed una giusta fiducia in Colui che ha promesso alla virtù ricompense incorruttibili (204).

È vero però, e siamo ben lieti di poterlo dire, che Mably vedendosi in pericolo di morte, chiese i sacramenti e li ricevette con edificazione; morì a Parigi il 23 aprile 1785.

L’abate Brizàrd scrisse l'elogiò del defunto: l'Accademia delle iscrizioni lo coronò. Richiamiamo questa circostanza e citiamo l’esordio, dell'oratore come una nuoca prova dello spirito generale della letteratura del secolo XVIII. Brizard discorre così: Per quindici secoli una fitta notte stese il suo velo sopra l’intera natura: ogni lume fu spento: ogni fonte di morale, corrotta: la virtù non fu che un nome vano, ed i buoni costumi, caduti in dimenticanza, parvero subbietto di disprezzo e di beffa: Ma venne un uomo che, nutrito della lettura degli antichi, trovò nei loro scritti le tracce di quel tipo celeste, di quel bello i cui sentimenti avevamo perduto (205)».

Dopo la caduta dell'antico paganesimo sino al Risorgimento, una buia notte distendere il negro suo manto sull'Europa: ogni lume spento: corrotte le fonti della morale: il mondo, per uscire dalla barbarie, aspettare un uomo nutrito alla scuola dei pagani: questo nuovo Messia rigenerar le nazioni cui il Vangelo ha lasciato sprofondare nell’abisso della corruttela e dell'errore, spiegando loro gli scritti di Licurgo e di Platone, depositario, del bello celeste, di cui il mondo cristiano ha perduto il sentimento!

Che s'ha da dire di così stravagante demenza? come si può spiegare la spaventevole buona fede con cui uomini, d’altra parte stimabili, pronunziano siffatte bestemmie! oh educazione di collegio, quanto male non ci hai tu fatto!

Vedendo l'attuazione dei principi repubblicani dell'antichità, ch'egli avea sì lungo tempo ammirati, Brizard morì di dolore il 23 gennaio 1793, due giorni dopo la decollazione di Luigi XVI. Riguardo all'abate Mably ei non vide quello che aveva fatto; ma quello, che vedevasi allora, era in parte opera sua. Le sue opere, come, quelle degli altri filosofi contemporanei si riducono a dire: «...Il cristianesimo, come elemento sociale, non merita di occupare i pensieri dei saggi: esso, ha lasciato cadere il mondo nella barbarie; i veri principi sociali si trovano nell’antichità classica: studiare Sparta, Atene, Roma, la loro legislazione e la loro politica è un contemplare il bello, il vero nella sua fonte, è un trovare il segreto della rigenerazione dei popoli moderni». Mably passa cinquanta e più anni a ripetere questo ritornello, ch'egli stempera in ventitré volumi; e noi lo mostreremo nella rapida analisi delle principali sue opere. Cominciamo da una delle più importanti, i Trattenimenti di Focione.

In questo dialogo, imitato da quei di Platone, Focione detta insegnamenti di politica pei re e specialmente pel popolo. Passa a rassegna le glorie e le sventure della Grecia: trova la cagione di quelle nelle virtù patriottiche e di queste nelle arti, nella ricchezza e nell’obblivione delle leggi di Licurgo.

In questa opera Mably, da vero figlio del Risorgimento, getta a piene mani l’ingiuria in viso ai secoli cristiani, e depone ai piedi del proprio padre tutta la sua ammirazione e tutta la sua figliale riconoscenza. Udiamone le parole: «Il cristianesimo abbracciato dai barbari, li lasciò nella loro primiera ignoranza .... Non si avea nessuna legge politica, ne civile ... La sola forza decideva del diritto ... Vuolsi avere un’idea della morale di quei secoli barbari? non si dimentichi che la stessa pietà assunse una tinta del brigantaggio, accreditato dal governo dei feudi. Le crociate, furono avute in conto di un atto di religione, proprio ad onorar Dio ... Si fecero leggi assurde od ingiuste; si sospettò che la società avesse bisogno d'una potenza legislativa … Abbrevio la vergognosa storia della nostra barbarie.

«L'Europa non prese finalmente un nuovo aspetto che quando … le lettere (206), riparatesi a Costantinopoli, passarono in Italia, dopo la ruina dell'impero d'Oriente. S'incominciò a leggere gli antichi; e con rapidi progressi si poterono coltivare le scienze che illuminando l'intelletto prepararono il cuore ad amar l'ordine, le leggi e la morale ... La lettura di Platone e di Cicerone dovea mettere i padri nostri sulla via della verità; ma i pregiudizi erano troppo antichi e troppo diffusi da poter essere in breve tempo dissipati». (207)

Focione esalta poscia le repubblichette della Grecia che gli sembrano preferibili alle grandi potenze: vuole che si rimettano in vigore le leggi di Licurgo e di Platone; che si avvezzino dall’infanzia tutti i cittadini alla corsa, alla danza, alla frugalità, all’esercizio delle armi: che ogni cittadino sia successivamente soldato e magistrato, e che finalmente si sbandisca severamente il danaro ed il commercio.

«Le persone, dice Mably, che non parlano che di ampliare il commercio e di arricchire lo Stato, hanno esse pesato per bene, come Focione, i vantaggi e gli inconvenienti annessi alle ricchezze? In tal caso io le invito a farci partecipi delle loro scoperte. Ma, prima confutino Platone, Aristotele, Cicerone e tutti i politici dell'antichità (208)».

Mably è talmente convinto che il ritorno alle leggi ed alle istituzioni sociali della classica antichità è il solo mezzo di salute per le nazioni cristiane, ch'esso esprime un voto di cui (amiamo crederlo) ei non aveva la coscienza; ma che dieci anni appresso i giacobini dovevano prendere come regola di condotta ed attuare con la selvaggia energia degli antichi Spartani.

« Vorrei, dice Mably, che foste stati testimoni dei sentimenti che il discorso di Focione faceva nascere nel cuore di Aristia … Ei non parlava che per frasi interrotte: che non posso? O Licurgo! Tenterei… oserei… La salute della patria non è ancora disperata ... Tu, Focione, per pietà dei tuoi miseri concittadini, impedisci ch’ei periscano. Sii il nostro Licurgo. Perché non farsi oggi in Atene il miracolo ch'egli operò un tempo in Lacedemone? ... Troverete ancora, come Licurgo, trenta cittadini capaci di secondarvi ... Quando la legge regna, ogni cittadino dee obbedire: ma quando per sua ruina la società è disciolta, ogni cittadino diventa magistrato: egli è investito di tutto il potere che gli dà la giustizia, e la salute della repubblica debba essere la sua legge suprema.

Trasibulo meritò una gloria immortale per averci liberato dal giogo dei trenta tiranni (209).



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CAPITOLO XV.



MABLY

(Continuazione).



Mably non vede che l'antichità classica.- È Spartano.- Parole di Brizard. – Di Mably. - Analisi delle Osservazioni sui Greci. - Stato di natura. - Contratto sociale. - Espulsione dei re, principio della gloria e della libertà della Grecia. - Predicazione dell'eguaglianza e del comunismo. - Pittura menzognera di Sparta. - Disprezzo per le società formate dal cristianesimo. - Elogio dei Greci. - Analisi delle Osservazioni sui Romani. - Disprezzo della Francia



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Mably non muta mai il punto di veduta in cui lo ha collocato la sua educazione per studiare le società umane è come un astronomo il cui cannocchiale è sempre rimasto fisso verso lo stesso punto del cielo. Per apprezzare meglio, dice Brizard, i governi dell'Europa, ei si trasporta agli antichi: ivi va a cercare i suoi termini di confronto, e alla scuola d'Atene, di Sparla e di Roma studia le cagioni cui gli Stati debbono la propria grandezza ed il proprio decadimento.

«Scorrendo i bei secoli della Grecia e di Roma, Mably aveva veduto virtù e uomini straordinari. Le loro istituzioni, le loro leggi, il loro amore dell'eguaglianza, della patria, della virtù; il loro disprezzo della morte e delle ricchezze, tutte quelle azioni di eroismo, di disinteresse, d'amore del pubblico bene, quegli slanci della libertà che abbelliscono ciascuna pagina della loro storia, sollevarono l'animo suo e lo riempirono d'ammirazione per i legislatori che sapevano formar tali uomini e ispirare tali sentimenti nei loro cuori. Il rispetto religioso che fin d’allora concepì per le leggi di Licurgo e pel governo di Roma nei bei giorni della Repubblica lasciarono nel suo spirito tracce che non si cancellarono mai; e di quelle belle istituzioni ne fece come il modello comune sul quale misurò tutti i governi moderni». (210)

Né le osservazioni dei suoi amici, né i loro consigli, né la stanchezza del pubblico, nulla sgomenta Mably: egli è Greco, e rimane Greco. Vuole che tutti lo diventino, altrimenti la società è spacciata. «Eh, lasciate stare i vostri Greci mi è stato detto una volta; la loro storia è rancida. Chi non conosce Lacedemone, Licurgo, Atene, Solone, Tebe, Epaminonda, la lega degli Achei ed Arato? Sì è stanco d'udire a parlare della battaglia di Salamina e della guerra del Peloponneso. Potevo io arrendermi a siffatti consigli? Sarebbe una grande sventura se si fosse stanchi di studiare i Greci e i Romani» (211).

Tale è la dichiarazione che Mably pone in fronte delle sue Osservazioni sui Greci. In questa nuova opera, l’autore ad esempio degli altri filosofi del suo secolo, prende le mosse dell’umanità dal mitologico stato di natura. Ci rappresenta i primi Greci vivere isolati nei boschi, non camminare che armati e non conoscere altro diritto che quello della forza. «Tali sono stati, dice egli, tutti i popoli al loro nascere: tali sono ancora i selvaggi dell'America, cui l'usanza con gli Europei non li ha ancora inciviliti (212)».

Questi alunni di collegio non fanno conto veruno né della Bibbia, né della storia, né del buon senso. Ovidio, Virgilio, Lucrezio, Orazio sono i loro oracoli: lo stesso ridicolo non scrolla la loro fede, tanto è vero che nell’educazione i libri non sono nulla!

Da questa prima utopia ne scaturisce un'altra, quella dico, di un contratto sociale. Avendolo i re dell'Ellenia violato, i Greci ripigliarono i loro diritti primitivi. Così, fecero i francesi nel 1789. «Senza quella rivoluzione, (dice gravemente Mably, la Grecia dispoticamente governata non avrebbe prodotto né le leggi, né i talenti, né le virtù che la libertà e l’emulazione vi fecero nascere (213).

Come mai non si doveva crederlo, e come mai i contemporanei di Mably non avrebbero desiderato il governo democratico di brama uguale al loro odio all'autorità regia, quando leggevano la seguente pittura della repubblica di Licurgo? «La sovranità che vi fruiva il popolo lo portava senza sforzo a tutto ciò che l'amore della libertà e della patria può produrre di grande e di magnanimo in uno stato puramente popolare ... «Per rendere i cittadini degni di essere veramente liberi, Licurgo stabilì una perfetta eguaglianza nelle loro fortune... Proscrisse l'uso dell'oro e dell'argento, e mise in corso la moneta di ferro. Stabilì i pubblici conviti, ove ciascun cittadino fu costretto di dare un esempio continuo di temperanza e di austerità. Volle che i mobili degli Spartani non fossero lavorati che con la scure e con la sega: limitò, in una parola, i loro bisogni a quelli che la natura indispensabilmente richiede ... I figli formati da una pubblica educazione s'avvezzavano dal loro nascere alla virtù dei loro padri. Le donne erano fatte a Sparta per animare e sostenere la virtù degli uomini. I più violenti esercizi formando in esse, un temperamento robusto, le innalzavano di sopra al loro sesso, e preparavano l'animo loro alla pazienza, al coraggio e alla fermezza degli eroi. Ogni cittadino era soldato (214)».

Riducendo a fatti le dottrine di Licurgo e di Mably suo interprete, la rivoluzione decretò l'eguaglianza spartana, i conviti pubblici, l'educazione comune: esercitò le fanciulle alla ginnastica ed al nuoto: creò la coscrizione e la guardia nazionale: colpì il lusso dell'imposta progressiva, e invece della moneta di ferro, mise in corso una moneta di carta.

Quello che principalmente dee ispirare nelle nazioni cristiane e monarchiche il desiderio di diventare spartane e repubblicane si è che risolutamente non vi ha coraggio militare che fra i repubblicani. Riproducendo le idee o piuttosto le ingiurie di Rousseau, «noi non conosciamo più, soggiunge Mably, che cosa sia il soggiogare una nazione libera. Dappoichè la monarchia è il governo generale dell'Europa, dappoichè tutti sono sudditi e non cittadini … la disperazione non può più creare prodigi, e non si dee più sperare di trovare popoli che preferiscano la propria ruina alla perdita della loro libertà. Gli Spartani e gli Ateniesi volevano morir liberi (215)».

Dopo aver lodato lungamente l'arte militare dei Greci, dopo aver descritto con compiacenza la falange macedonica e gli uffizii dei falangiari; dopo aver esaminato sotto l'aspetto della più profonda politica, se Alessandro operasse ragionevolmente lasciando l'abito greco per vestire alla persiana, dopo averne giudicato le marce, le soste, le spedizioni, Mably vuole avanti tutto che le moderne nazioni conservino la memoria di quei Greci ai quali siamo debitori di tutto.

Laonde, ei compone una specie di calendario, in cui nomina fra gli altri: «I Lacedemoni, gli Ateniesi, i cretesi, i Tebani, gli Etoli, i Tessali, i Ftioti, i Melesi, i Dori, i Focesi, i Lecresi, gli Eniani, gli Alissi, i Dòlopi, gli Atamanti, i Leucadi, i Molossi, gli Argivi, i Sicioni, gli Elei, i Messeni, e gli Attei».

Prostrato innanzi a questi Greci, la nazione più illustre dell’antichità, Mably invita l'intero universo ad ammirarlo con lui stesso, e soprattutto ad imitarlo: «La Grecia, dice egli, non ha avuto quasi nessuna Repubblica che non si sia resa celebre. Non parlerò d'Atene, di Corinto, dell'Arcadia, della Beozia. Ma qual società offrì mai alla ragione uno spettacolo più nobile, più sublime di Lacedemone? Qual popolo più degli Spartani fu tenace di tutte le virtù? Leggendone la storia ci sentiamo infiammare: se rechiamo ancora in cuore, qualche germe di virtù, l’animo nostro s'innalza e pare voglia trascendere gli angusti confini in cui ci ritiene la corruttela del nostro secolo (216)».

E ciò per le istituzioni: ora per gli uomini.

«Un encomio tutto speciale che merita la Grecia è di aver prodotto i più grandi uomini di cui la storia debba serbar memoria: non faccio eccezione neppure per la Repubblica romana. Chi si opporrà ad un Licurgo, ad un Temistocle, ad un Cimone, ad un Epaminonda? (216a)»

Chi ci renderà Greci, chi ci renderà i Spartani? Contendiamo almeno di avvicinarci a quei non imitabili modelli. Tale è il voto di Mably, l’alunno dei gesuiti di Lione, il suddiacono di San Sulpizio.

Nelle sue Osservazioni sui Romani, ne forma un altro; ed è di vedere, per la salute del mondo, le nazioni moderne ritornare alla scuola della Repubblica di Romolo e di Numa. Mably si congratula coi Romani di essersi avvantaggiati dei suoi ammaestramenti dei Greci. Vi è però una istituzione che egli non tollera in nessun paese, stantechè era sconosciuta in Lacedemone; dico la nobiltà.

Mably la definisce: «Un corpo la cui propria qualità è, in tutti i tempi ed in tutti i luoghi, di sprezzare il popolo» (216b). Se essa non fece perire la repubblica romana per le contese che suscitò, il motivo è che i Romani erano liberi e virtuosi; ma presso le nazioni cristiane, che non sono né libere né virtuose, tale istituzione sarebbe funesta. Se di ciò dubitate, Mably vi arreca un'autorità a cui non c’è nulla da rispondere: «Machiavelli, dice, ha provato, nei suoi discorsi sopra Tito Livio, non potere la libertà lungamente sussistere in una repubblica dove vi sono nobili: questo è un tarlo che rode insensibilmente la libertà (216c)».

Non terremo dietro all’abate Mably nel lungo encomio di più di 500 pagine ch'egli impiega in magnificare la saggezza, la giustizia, la virtù dei Romani: ché già ne abbiamo conoscenza, da quello dei Greci, essendo la stessa, mutati soltanto i nomi, la sostanza (217). Alleghiamo soltanto un brano che mostra sino a qual grado fosse giunta l'ammirazione di Mably pei Romani, ed il disprezzo per la propria sua nazione. Parlando di una storia di Francia, ch'ei, suppone fatta per bene, dice: «Non avrei forse avuto minor diletto in conoscere come un popolo rimanga in una perpetuale infanzia, che a svolgere i moventi della grandezza romana». L’ingiustizia di Mably, parve così grande, che uno dei suoi ammiratori non poté tenersi dall'esclamare: «La perpetuale infanzia della nazione francese! E il popolo virile, il popolo dato in esempio a tutte le nazioni è quello cui i talenti, le arti, la filosofia, il lusso hanno ammollito senza poterlo ingentilire: i cui giuochi stessi erano sanguinosi: che faceva plauso al gladiatore che moriva con grazia, ed esasperava con urli atroci gli ultimi momenti di quello che spirava contro le regole dell'arte: che trascinava in trionfo i re vinti e le regine il cui coraggio e la cui sventura avrebbe dovuto rispettare, che non avendo più bisogno di aumentare la propria popolazione, vendeva all’incanto i popoli soggiogati, come i selvaggi dell'America ricevono fra loro il vinto nemico se hanno una capanna vuota, e lo fanno morire nei tormenti se non hanno capanne da riempire. Quali fanciulli Carlo il Saggio, Luigi, Padre del popolo, Arrigo IV, Luigi XIV, Sully, Colbert, Duguesclin, Condé, Turenna! Quali fanciulli Bossuet, Fénelòn, Corneille, Racine, La Bruyére, Pascal, giganti della letteratura, seguiti da uomini che furono loro eguali, senza esserne imitatori, e che con un genio differente brillarono dello stesso splendore! (218)

Il disprezzo del proprio paese, il disprezzo delle sue leggi, delle sue, usanze, delle sue arti, delle sue lettere, delle sue glorie, dei suoi grandi uomini, questo è che si acquista con l'educazione di collegio. E quando si è ripetuto: Gli autori pagani non sono pericolosi, poiché essi non faranno rivivere il culto di Giove, di Mercurio o di Venere; si crede d'aver detto tutto!


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CAPITOLO XVI.



MABLY

(Continuazione e fine).



Sempre fuori del cristianesimo.-Analisi dei Principii di morale.- Mably opposto al Vangelo. - Disprezzo delle virtù cristiane. - Mably non conosce che le virtù pagane. - La sua morale è quella dell'interesse. ­ Approva un passo scandaloso di Cicerone.- Analisi dei Diritti del cittadino. - Mably sospinge allo sconvolgimento dell'ordine sociale.- Predica la repubblica. - Mably tratto a perdizione dalla sua educazione di collegio. - Parole di Brizard.



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Se abbiamo letto bene nei 23 volumi del suddiacono di San Sulpizio, l'ufficio sociale della Chiesa non vi è indicato, il nome stesso di nostro Signore Gesù Cristo non vi è menzionato neppure una sola volta. Quello che possiamo affermare si è che questo nome adorabile brilla per la sua essenza in un libro di Mably dove avrebbe dovuto tenervi il primo posto; vogliamo parlare dei Principi di morale. A motivo della sua origine questa opera è una delle più scandalose predicazioni del materialismo in materia di religione. L'autore, tenendosi sempre fuori del cristianesimo, cerca i principi delle virtù nell'uomo e gli esempi di essa non nella storia dei santi, ma nei Romani e nei Greci. Per lui le virtù cristiane non sono nulla, e neppur si degna di nominarle. La prudenza, la fortezza, la giustizia, la temperanza, l'amor della patria l'amor della gloria, virtù tutte umane, praticabili, in un certo grado, senza il lume della fede e il sussidio della grazia; quali in una parola sono insegnate all'infanzia nel libro intitolato: Selecta e profanis scriptoribus, costituiscono tutta la perfezione.

A giudizio del discepolo di Licurgo e di Catone, il cattolicismo non ha saputo classificare le virtù e i doveri. In cima delle nostre obbligazioni, la teologia pone quanto dobbiamo a Dio: Mably, riguarda questo ordine come funesto. «Questo metodo, dice egli, che a prima veduta sembra il solo ragionevole è precisamente ciò che ha prodotto una gran parte dei nostri pregiudizi e delle nostre sventure, perché non è proporzionato alla natura dell’uomo» (219).

E nostro Signore ha detto: «Amerete il Signore Iddio vostro con tutto il vostro spirito, con tutto il vostro cuore e con tutte le vostre forze: questo è il primo e maggior precetto: Il secondo è simile al primo: Amerete il vostro prossimo come voi stessi».

Mably, che forse non ha mai letto il Vangelo, non è arrestato da queste parole; e sostiene la propria tesi, annoverando, sulla fede di Giovenale, gli eccessi a cui la superstizione condusse gli abitanti di Ombo e di Tentira (220). «I cristiani stessi, soggiunge poi, non sono andati esenti da questi errori. Si è perseguitato talora il prossimo senza piacere a Dio: si è creduto che Iddio avesse bisogno delle nostre braccia per difendere la verità, ed i popoli sono stati il zimbello dello zelo fanatico o dell'ambizione o dell'avarizia dei grandi che li conducevano alla battaglia (221)».

Popoli, lasciate oltraggiare il vostro principe: figliuoli, lasciate oltraggiare il vostro padre: uomini, lasciate oltraggiare il vostro Dio: ei non abbisogna di voi per difendersi. Chi altramente adoperasse, si renderebbe zimbello del vostro fanatismo personale o dell'ambizione e dell'avarizia altrui. All'indifferenza in materia di religione Mably aggiunge il disprezzo delle virtù cristiane. I popoli migliori sono quelli dove filosofi meno sottili dei teologi hanno predicato virtù più umane: «Quei savi, dice egli recisamente, insegnavano ai loro concittadini che le virtù che fanno i buoni cittadini, i buoni padri di famiglia, i buoni amici, i buoni padroni e i buoni servitori, sono le prime virtù, e che il mezzo migliore di meritare i favori del cielo è d'esser utile agli uomini... Questa filosofia più umana di cui parla, farà degli Aristidi, degli Epaminonda, dei Socrati, dei Decii, dei Fabricii, dei Camilli e degli Scipioni (222)».

Questi sono per Mably i veri santi, cui il cristianesimo non ha nulla da paragonare. Come mai questi bei frutti sono cresciuti nell'antichità pagana? Il motivo è che ivi tutto portava alla virtù. Le antiche repubbliche fondate dai filosofi erano meglio istruite delle nostre, fondate da Gesù Cristo, dagli apostoli e dai Padri della Chiesa. Le loro leggi, il loro governo, la loro polizia erano disposte per maniera che ciascun cittadino non poteva rendersi felice se non in quanto pareva dimenticasse sé stesso per non occuparsi che della prosperità degli altri.

«Ciascuna virtù, dice Mably, aveva una ricompensa certa, e tali erano i pubblici costumi, che ciascun cittadino praticava pel suo vantaggio particolare, per quanto lo permettevano le sue forze, quelle virtù eroiche che ci levano a stupore, e che quasi ci sembrano menzogne (223)».

E questa è la teorica della morale dell'interesse, che, durante la rivoluzione, prenderà nella bocca di Làvicomterie, il nome di morale calcolata e darà alla Francia una generazione d'Epaminonda, di Socrati e di Fabricii.

Questo codice di morale è fondato sopra due contratti sociali: il primo, che mette fine allo stato di natura: il secondo, che ne fu l'immediata conseguenza e che l'uomo così formulò al suo vicino: «Tu sei uomo, ma lo sono io pure e i nostri diritti sono uguali: se tu mi batti, io ti batterò: veniamo dunque, a patti: io difenderò la tua felicità, e tu difenderai la mia! Ecco il trattato d’alleanza perpetua che la Natura ha reso necessario; perché voleva riunirci in società ...» Da questo adunque, conclude Mably, debbo trarre tutte le regole della morale (224)».

Le principali virtù che scaturiscono da questo decalogo sono l’amore della patria, l'amor del pubblico bene e l'amor della gloria; esse non furono perfette che a Sparta (225). Ora, l'amor della patria non impediva nei santi del paganesimo, un altro amore. Per un fanatismo che ci dee far tremare, Mably scusa quel vizio e reputa lodevole una delle pagine più immorali di Cicerone.

«Prego, dice egli, i miei censori di ricordarsi come Cicerone, perorando a favore di Celio, ne scusa le galanterie con Claudia. Quel savio Consolare, tanto dotto nel conoscimento del cuore umano, non avea per fermo una morale rilassata.

«Concediamo, dice egli, qualche cosa all'età (226), purché l’errore non sia che momentaneo».

«Ecco, mio caro Aristo, checché possano dire i tuoi censori, i principi d'una morale che vuole profittare in parte dei nostri figli per correggerci. Codesti censori dalla buona apparenza avrebbero forse l’impudenza di voler essere più saggi di Catone? Quest'uomo cui tutti i secoli ammireranno, approvava assai un giovane che preferiva di andare in un luogo poco onesto alla pretesa nostra gloria di sedurre una cittadina e di turbar l'ordine e la pace di una famiglia virtuosa. Lo sappiamo da Orazio, al quale questo giudizio di Catone sembra il giudizio di un Dio: Dia sententia Catonis».

Al vedere tanta perfezione nei Romani, e tanto imbrutimento nei Francesi, Mably esclama dolorosamente: «Noi non siamo degni di governarci come i romani (227)».

Poscia, sollevando la corrugata sua fronte, lascia trascorrere queste parole degne di un Romano, e che la rivoluzione ha tante volte ripetuto, sino ai piedi del patibolo reale: la Francia parlando al re gli dice: Chi sei tu? La nazione ti ha fatto quello che sei. La Francia non appartiene a te, ma sì tu ad essa: tu sei il suo uomo d'affari: il suo procuratore, il suo intendente. O per errore, o per destrezza, o per ambizione i tuoi padri si sono impossessati dell'autorità legislativa. Un'usurpazione fortunata è dunque un titolo così rispettabile che i tuoi popoli non possano più rivendicare le leggi imperscrittibili della Natura, quando non vorrai più riconoscere altra regola delle tue azioni che il tuo beneplacito? (228)».

Pochi anni appena separano quest'apostrofe dalla sollevazione degli Stati generali; e tra gli Stati generali, l'abolizione del monarcato, lo stabilimento della repubblica, ed il 21 gennaio, quanti anni annoverate? Tale è dunque l'effetto delle dottrine greche e romane seminate fin dall’infanzia nell'animo di Mably e da lui sparse nella società letterata. Senza parer di convenirne, egli stesso confessa che la sua educazione di collegio gli ha fatto dar volta al cervello: Nei suoi Diritti del cittadino, riconoscendo di essersi avanzato più di quello che fa prudenza permetta, dice: «Con più amore della patria e della libertà che non ve ne mostro, sarei tenuto per un visionario. La testa ha dato volta a questo povero uomo, gli è peccato, dicevano i suoi amici, ché pareva avesse buon senso: ei s'è guastato la testa leggendo la storia dei Greci e dei Romani cui amava e che non sono più buoni a null’altro che a fare eroi da romanzo e da teatro» (229).

La testimonianza seguente è ancor più diretta: «Mably, scrive l'abate Blizard, si è nutrito in tutti i tempi della lettura degli antichi: sapeva quasi a memoria Platone, Tucidide, Senofonte, Plutarco e le opere filosofiche di Cicerone. Ei fu sempre loro ammiratore appassionato. E veramente gli antichi sono ancora e saranno sempre i nostri maestri (230)».

«A questa scuola degli antichi e principalmente nella storia e negli scritti dei popoli liberi si attingono, col loro genio, ammaestramenti di morale, di grandezza d'animo, di amore della patria, delle leggi e delle libertà. Coloro che in questo studio non vedono che greco e latino s'ingannano grandemente: finché si potrà attingere a questa pura sorgente, l'ignoranza e la servitù non si impossesseranno totalmente dell'universo, e sempre vi sarà speranza.

«Ivi si è formato Mably, ed in quelle sante emanazioni ha forse cercato più le tracce delle loro virtù, che il fuoco del loro genio» (231).

Richiamando le biografie precedenti di Voltaire, di Rousseau di Montesquieu, si trova che fra i filosofi del XVIII secolo, Mably, è la quarta vittima del Risorgimento e degli studi di collegio.


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CAPITOLO XVII.



CONDORCET.



Sua nascita. - Sua educazione presso i Gesuiti. - Anima vuota di cristianesimo ed ebbra di paganesimo. - Sua professione di fede. – Sua Memoria sull'ordinamento delle accademie. - Suoi discorsi pieni di memorie classiche. - Suo disprezzo dei suoi maestri e suo odio del Cristianesimo. - Lettere a Voltaire, a Turgot. - Suo odio dell'ordine sociale. - Suo fanatismo repubblicano. - Fa ardere tutti i titoli di nobiltà. - È proscritto coi Girondini. - Repubblicano e pagano sino alla morte. - Ei muore come Socrate.



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Intanto che, i gesuiti di Parigi vedevano uscire dalle loro mani Voltaire, quelli di Tolosa, Cerutti; quelli di Lione, Mably; i loro confratelli di Réims facevano l'educazione d'un nuovo filosofo che, dall’infanzia appassionato come gli altri per l'antichità pagana, andava a prendere posto fra i più ardenti nemici della religione e della società: Questa nuova vittima degli studi di collegio chiamasi Gian Antonio Caritat, marchese di Condorcet.

Condorcet, nato il 17 settembre 1743 nella piccola città di Ribemont in Piccardia, perdette suo padre in età di quattro anni.

Per sottrarre l’unico suo figlio ai primi pericoli dell’infanzia, la pia sua madre lo votò alla Vergine Santissima, e lo, mandò vestito di bianco sino ad otto anni. Venuto l'undecimo anno e con esso il tempo di cominciare gli studi classici, il vescovo di Lisieux, zio di Condorcet, affidò il proprio nipote ad un gesuita. Questi lo preparò ad entrare nel collegio di Reims, diretto dai Padri della sua Compagnia. Nel mese d'agosto 1756, Condorcet, allora di tredici anni, conseguì il premio d'umanità.

«Il giovane Condorcet, appena apri gli occhi, dice Arago, videsi circondato d'una famiglia composta dei più alti dignitari della Chiesa, e d'uomini di spada, fra i quali regnavano esclusivamente le idee di nobiltà: prime sue guide, primi suoi istitutori furono gesuiti. Quale fu il frutto di un concorso di circostanze così poco ordinarie? In materia politica, la più aperta avversione da qualunque idea di prerogativa ereditaria: in materia religiosa lo scetticismo spinto agli estremi confini (232)».

Strano fenomeno! Ecco un fanciullo, uscito di nobile famiglia, nato da una madre di profonda pietà che nulla pretermette per salvare l'innocenza e la fede dell’unico suo figlio, che lo tiene sotto le ali materne fino a undici anni, che ricco del duplice tesoro dell'innocenza e della fede lo affida ai Padri della compagnia di Gesù, e che, in età di 17 anni quando esce di collegio, è democratico e scettico. La professione di fede ch’ei fece in quella età e che quanto prima analizzeremo, giustifica tristemente le parole del suo biografo.

Ora, ogni fatto ha una cagione: come si spiega questo in Condorcet? Come si spiega in Voltaire, in Cerutti, in Mably, in Condillac e negli altri filosofi che avremo occasione di nominare ancora?

Partito da Reims, Condorcet venne ad incominciare a Parigi i suoi studi matematici nel collegio di Navarra. Era già molto lontano dalle idee cristiane, alle quali per mala sorte non doveva mai ritornare. «Uscendo di collegio, continua Arago, Condorcet era già un pensatore profondo. Trovo in una lettera del 1773, scritta a Turgot, e intitolata Mia professione di fede, che in età di 17 anni il giovane scolaro aveva, rivolte le sue riflessioni sulle idee di giustizia a di virtù, e cerca (lasciando stare considerazioni d'un altro ordine), come il nostro proprio interesse ci ordina di essere giusti e virtuosi (233)».

Ciò significa che, disdegnando gli insegnamenti del cristianesimo, e cercando nella propria sua ragione le basi della morale, il giovane Condorcet suppone, che l’uomo basti a sé medesimo per essere virtuoso e per attuare in tutti i i secoli i tipi gloriosi che ha lungamente ammirato in Cornelio, in Plutarco o nel libro Selecta e profanis scriptoribus. Naturalismo in materia di religione, e perciò indifferenza di qualunque religione rivelata. Condorcet stesso si fa sollecito di dirlo.

In una Memoria sull'ordinamento delle società scientifiche in Europa, e, particolarmente in Ispagna, Condorcet esorta le autorità spagnole a non investigar mai per la scelta dei candidati, i loro principi religiosi, e fa questa domanda: «Credete che un'accademia composta dell'ateo Aristotele, del brama Pitagora, del musulmano Alhaseh, del cattolico Cartesio, del giansenista Pascal, dell'oltramontano Cassini, del calvinista Uigenie, dell'anglicano Bacone, dell’ariano Neutono, del deista Leibnizio non varrebbe quanto un'altra? (234)

E questo riguardo al domma. In altro luogo facendo professione di non conoscere che le virtù greche o romane, così discorre delle evangeliche: «Io penso che stabilendo un ordine nelle virtù, si debba collocare la giustizia, la beneficenza, l’amor della patria, il coraggio, l'odio dei tiranni, molto di sopra alla castità, alla fedeltà coniugale, alla sobrietà (235). Un cristiano perderà a rintuzzare gli stimoli della carne il tempo che avrebbe potuto impiegare in cose utili all'umanità» (236).

Ad esempio di Cornelio Nipote, egli crede doversi distinguere, in fatto di costumi, quello che non è che locale da quello che è di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Così la fornicazione è permessa o vietata secondo i diversi gradi di longitudine: ciò non é che locale (237).

Al libero pensare, Condorcet aggiunge l'amore delle lettere, il cui tipo, a suo avviso, si trova soltanto nei modelli dell’antichità e nei loro imitatori.

Rispondendo al conte di Choiseul-Gouffier, allorché il 26 febbraio 1784, fu ricevuto all'accademia francese, Condorcet gli dice: «Voi avete offerto un grande esempio ai giovani, cui la sorte fa il pericoloso dono d'una grande dovizia … Ardente amatore dell’antichità e delle arti, avete lasciato tutto per andarne a studiarne i ruderi in mezzo alle macerie d'Efeso e d'Atene, ed interrogare i monumenti di quel popolo così grande e così amabile, al quale siamo debitori di tutto, poiché gli siamo debitori delle nostre cognizioni (238)».

E il Vangelo? E gli alti intelletti cristiani dell’Oriente e dell'Occidente? Condorcet non li conosce o li disprezza: chi gliene ha parlato? chi glieli ha fatti studiare, ammirare?

Lo spirito, il cuore, la fantasia, tutto in lui vive nell'antichità. Il 4 settembre 1784 egli apre la tornata dell'accademia delle scienze con questo discorso:

«Questo giorno glorioso per noi sembra che ravvivi ai nostri occhi i tempi ognora celebri in cui gli eroi di Atene, reduci dalle loro vittorie, non isdegnavano di entrar nelle scuole ad udire la voce di Anassagora e di Socrate, oppure quei Cesari, così grandi in senato, così formidabili alla testa delle legioni, deposti gli allori raccolti sulle sponde dell'Eufrate e del Reno, discutere i principi della filosofia con Apollonio, con Plinio e con Massimo …

Ma quei tempi che furono quelli della gloria o della felicità delle nazioni governate da quei grandi uomini, non segnano nella storia che un breve periodo di giorni sereni, che hanno brillato di distanza in distanza in mezzo una lunga serie di secoli condannati all’errore e alla miseria (239).

Niuno per fermo potrà negare che l'educazione di collegio non si manifesti tutta intera in questa diceria da retore sì nella sostanza e sì nella forma. Questo amore per le lettere trascina Condorcet verso colui che ne è l’oracolo: egli idolatra Voltaire. In compagnia di d'Alembert va a recargli i propri omaggi a Ferney, ed incomincia col Dalai-Lama del XVIII secolo, come dice Arago, un epistolario seguito, in cui l'alunno dei gesuiti palesa il suo disprezzo per la religione ed il suo odio per i suoi maestri, e più veramente per i suoi ripetitori.

Il 10 aprile 1772 scrive a Voltaire: «Perché mai, mio illustre maestro non mi avete mandato il nono volume dell’Enciclopedia? Credete che niuno più di me partecipi alla sorte di Gargantua? Io non ho mai amato i mangiatori di uomini; e dappoichè ho veduto nelle vostre opere ch'egli avea mangiato dieci pellegrini in insalata, l'ho preso in avversione, e con lui, la sua abazia e tutti coloro che ne vivono ...

«Il signor Bergier (240) ha avuto la bontà di scrivere che noi eravamo enciclopedisti i quali in un dopo pranzo avevano fatto tre o quattrocento versi empi per assicurare il buon successo della tragedia (i Druidi). Questo Bergier l’aveva approvata l’anno scorso; ma essendo parsa cosa irreligiosa a tutte le pinzochere titolate quando fu rappresentata a Vérsailles, ed avendogliene fatti rimproveri, egli ha risposto che la non era più la stessa. Noi l'abbiamo convinto d’aver mentito; ed ecco che nella sua fazione egli è riguardato come un confessore. Lo hanno paragonato ai Santi Padri i quali mentivano, così sfacciatamente in favore della fede; ed avrà una grassa pensione sull'abazia di Teléme alla prima promozione ...

«I mercanti di ciambelle azime si lagnano che il commercio va decadendo tutti gli anni.

«Eccovi le notizie della, giornata: non ne ho di migliori da mandarvi.

«Martedì, detto volgarmente martedì santo (241).

Condorcet non aveva 29 anni quando scriveva queste linee, degne di un pagano, degne principalmente di colui cui erano indirizzate.

In altro luogo, ei dice a Voltaire: «Gli amici dei gesuiti hanno già mutato disegno tre o quattro volte: «Chi facil cangia o è fiacco o è ingannatore.

«Dovete dunque diffidarvi: che abbiavi una congregazione di frati incaricati d'imbestialire la gioventù con gesuiti o senza gesuiti, è cosa sempre egualmente detestabile. Lo spirito è il medesimo ... Non sembra anche a voi come a me, che, in tutte le nazioni, la razza d’uomini più spregevole e la più esosa non sia quella dei preti cattolici?

«Addio, mio caro ed illustre maestro. Conservatevi sano: vivete per la buona causa: Voi siete come il Giove Omerico: solo in uno dei piattelli della bilancia date il tratto sopra tutta la turba degli stolidi, dei bricconi, degl'imbroglioni, dei fanatici ed anche degli atei» (242).

L'odio che porta alla religione ed ai gesuiti non è superato che dal suo amore per i filosofi e per la filosofia. Questa anima, vacua di cristianesimo e briaca di paganesimo non può tollerare che sia a lui ed ai suoi soci d’armi sia impedito di demolire a loro talento l'edificio religioso e sociale per rizzarne uno sul modello antico, nel quale non vi avrà più né superstizione né servitù. Il 16 di gennaio 1774. Condorcet scrive a Turgot: «Il parlamento ha condannato il Buon senso (del barone d’Holbach) ed il libro di Elvezio (Dello spirito) ad essere al solito lacerati ed arsi, ad esempio di Tiberio imperatore, di gloriosa memoria (243)».

Quando Condorcet sarà divenuto membro della Convenzione, vedremo quale sarà la sua condotta in materia di libertà.

Frattanto aggredisce con nuova rabbia il cristianesimo ed i suoi difensori, e per venire a riva di questa empia lotta implora l'influenza del ministro Turgot: Nelle sue lettere del luglio 1774 e gennaio 1775, ei dice: «Se non si può dare la caccia alle bestie feroci, è almeno necessario di fare strepito per impedire che si scaglino sopra gli armenti. Il vostro ingresso al ministero è un colpo di fulmine ... Quante cose sono da farsi pel bene pubblico! Proscrivere il fanatismo e far giustizia degli assassini di Labarre …

«Dopo il male d'una religione intollerante, la cui morale diretta dai preti è necessariamente abietta e crudele, il maggior male è di vedere i principi della morale pubblica essere ludibrio di tutte le persone illuminate. Ora noi siamo appunto a questo. Il colosso è mezzo distrutto; ma conviene spezzarlo totalmente, perché importa mettere qualche cosa in luogo di esso (244).

In Condorcet, come in tutti i fanatici ammiratori del Risorgimento, il disprezzo dell'ordine sociale esistente si congiunge con l'odio dell'ordine religioso. Tutto quello che non si può giustificare con un esempio della bella antichità è per lui inutile e ridicolo. Così, a proposito della consacrazione di Luigi XVI, scrive a Turgot (22 settembre 1774): «Non credete voi che fra tutte le spese inutili, la più inutile e la più ridicola, non fosse quella della consacrazione? Trajano non è stato consacrato (245).

Scoppia la rivoluzione e con essa l'entusiasmo repubblicano di Condorcet: L’agguagliamento dell'ordine sociale, l'emancipazione della ragione umana, in una parola: l’apoteosi dell'uomo che gli ricorda i bei giorni della classica antichità lo riempiono di beatitudine. Il 12 giugno 1790, si presenta con l’accademia delle scienze alla sbarra dell’Assemblea nazionale e pronunzia un discorso nel quale dice: «Ciascuno di noi, come uomo, come cittadino, vi debba eterna riconoscenza per quella dichiarazione dei diritti, che vincolando i legislatori medesimi coi principi della giustizia universale, rende l'uomo indipendente dall’uomo, e non ne sottomette la volontà che all'impero della ragione.

Avete esteso i vostri benefizi a tutti i paesi, a tutti i secoli, e consacrato tutti gli errori e tutte le tirannidi ad una rapida distruzione (246).

Divenuto legislatore, Condorcet non si lascia sfuggire di mano alcuna occasione di adoperarsi efficacemente al rapido annientamento di tutti gli errori e di tutte le tirannidi.

Non riparleremo del progetto d'istituzione pubblica da esso proposto alla Convenzione: Rammentiamo che Condordet fonda lo sviluppo morale dell’uomo sull'ateismo, e per dare una mentita al Vangelo, vuole che una volta alla settimana i maestri delle scuole primarie facciano qualche miracolo alla presenza dei loro discepoli e di tutto il villaggio adunato.

Con zelo non minore, il marchese di Condorcet aggredisce, l'ordine sociale. Il 19 giugno 1792 ascende la tribuna e spingendo i suoi sentimenti repubblicani sino al vandalismo fa questo discorso:

Oggi é l'anniversario di quel giorno memorando in cui, l'Assemblea costituente, distruggendo i gingilli della nobiltà, le cui prerogative aveva già cancellate, ha posto l'ultima mano all'edifizio dell'eguaglianza politica. Solleciti ad imitare un così preclaro esempio, l'avete proseguita sino nei depositi che servano di rifugio all'incorreggibile sua vanità. Oggi, in questa capitale, la ragione, abbrucia appiè della statua di Luigi XIV quegl'immensi volumi che facevano testimonianza della vanità di quella setta.

«Altri vestigi sussistono ancora nelle biblioteche pubbliche, nelle camere dei Conti, negli archivi dei capitoli delle prove in cui richiedevansi prove, e nelle case dei genealogisti: è d’uopo involgere quei depositi in una distruzione comune. Non farete custodire a spese della nazione quella ridicola speranza che sembra minacciare l'eguaglianza. Vi proporrò quindi il decreto seguente:

«Art. 1. Tutti i titoli genealogici che si troveranno in un deposito pubblico, qualunque sia, saranno abbruciati.

«Art. 2. I direttori di ciascun dipartimento sono incaricati dell'esecuzioni del presente decreto».

Esso venne, adottato nella stessa sessione e senza discussione (247).

Sotto i colpi di Condorcet e di tutti i giovani letterati di collegio, è caduta la nobiltà, è caduta la monarchia, è caduta la testa d'un re di Françia, è proscritta la religione, la repubblica è inaugurata. Ma tosto la ragione, dichiarata indipendente si personifica ora in una fazione, ora in un'altra; ed il primo uso che fa della propria sovranità, è di stritolare senza pietà i suoi devoti adoratori; e lo stesso Condorcet non doveva evitare l’impero della terribile deità.

Proscritto coi Girondini, va errando e per qualche tempo, e finalmente trova rifugio presso la vedova Vernet, nella contrada Servandoni n. 21. Dopo alcuni mesi non tenendosi ivi sicuro, gli riesce d'uscir di Parigi.

Il 5 aprile 1794, in abito e berretto grossolano, si avvia verso Clamart, si presenta verso le 10 di sera a casa dei signori Suard, che, invece di ospitalità, gli danno per consolarsi le Epistole d'Orazio!

Non sapendo ove ripararsi, Condorcet si rifugia nelle cave di marmo, dove passa la notte e il giorno seguente. Il giorno 7, stimolato dalla fame, entra in un'osteria di Clamart: vi è arrestato ed è condotto a Borgo la Regina, la cui prigione doveva servirgli di sepolcro.

Sino alla morte è dominato dalle sue rimembranze di collegio. Nelle ultime parole che scrive, manifesta la sua volontà che la propria figlia; venga educata nell'amore della libertà, dell'eguaglianza, nei costumi e nelle virtù repubblicane; e per aggiungere alle parole l'autorità dell'esempio: «Riguardo a me, dice, morrò come Socrate (248)».

Infatti, allorché il giorno 8, alla mattina, il custode della prigione di Borgo la Regina aprì la porta del carcere, non trovò che un cadavere. Condorcet si era avvelenato con una forte dose di veleno concentrato che da qualche tempo portava in un anello. Così dalla cicuta in fuori, la sua morte fu quella di Socrate.



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CAPITOLO XVIII



D'ALEMBERT.



Sua nascita. - Sua educazione - S'innamora dell'antichità. - Suo discorso all'Accademia. - Suo elogio ai Mani di madamigella di Lespinasse. ­ Suoi omaggi al Risorgimento. - Gli attribuisce la rigenerazione del mondo, le lettere, le arti, la filosofia. - Riflessioni sulle lettere e sulle arti.


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Il 16 novembre 1717, il commissario del quartiere di Nostra Signora, a Parigi, raccoglieva sulla scaléa di San Giovanni le Rond, un bambino esposto di recente. Sia che avesse segrete istruzioni, sia che la vita di questo bambino gli paresse così delicata da richiedere cure assidue, il commissario lo affidò alla moglie di un povero vetraio, che lo allevò con materna sollecitudine. Questo fanciullo, che si seppe in seguito essere, figlio naturale di Destouches Conon, commissario provinciale d'artiglieria e di madama Tencin, fu chiamato Giovanni le Rond d'Alembert.

Di quattro anni fu messo in una pensione. Di dieci anni conosceva così bene gli autori classici che il suo maestro dichiarò non aver più nulla da insegnargli. Entrò nel collegio Mazarino, invaghito delle belle lettere; e specialmente della poesia latina a cui dava tutti i momenti che gli lasciavano le altre occupazioni scolastiche (249). I suoi maestri erano giansenisti fanatici i i quali, cercando di tirarlo nella loro setta, contendevano di persuadergli che la poesia inaridiva il cuore. D'Alembert passò cinque anni sotto di essi, e tutto quello che ottennero da lui fu un commentario sull'Epistola ai Romani, che scrisse durante il suo primo anno di filosofia.

Nell’anima del giovane d'Alembert il posto era già preso; ed il giansenismo dei suoi professori non vi ebbe maggior accesso di quello che la dottrina cattolica del P. Porée in quella di Voltaire e di Elvezio. Uscito appena di collegio, d'Alembert si collega strettamente con questi due filosofi, come pure con Condorcet e con Diderot. Questo è il luogo di domandare come mai quei giovani sottoposti ad influenze così contrarie, venuti da collegi così diversi, armonizzano senza sforzo, e in maniera naturalissima, di sentimenti e di pensieri? Chi s’assomiglia s’acconta. Facile è il vedere nonostante gli ammaestramenti contraddittori dei loro professori: la loro educazione è stata la stessa: ch'essi amano, ammirano, riguardano come maestri ed oracoli i grandi uomini dell'antichità: che poca o niuna fiducia hanno nella parola dei loro ripetitori; niuna stima, niun amore della loro persona. Essi non tarderanno molto a manifestare tutti questi sentimenti, e l'intera loro vita non sarà che un encomio continuo della pagana antichità; dei suoi grandi uomini e dei suoi grandi fatti, un disprezzo e un odio non meno continuo dei gesuiti, dei giansenisti e del cristianesimo stesso.

Dopo essersi fatto ricevere avvocato, poi medico, d'Alembert si diede con ardore alle matematiche, senza però porre in dimenticanza Tacito, di cui era appassionato ammiratore (250).

Le sue opere di matematica sono senza dubbio il vero fondamento della sua gloria, e lo collocano, con Eulero, fra i più celebri geometri del suo secolo: Nel 1754 gli aprirono le porte dell'accademia francese, e d'Alembert occupò il seggio lasciatovi vacante dalla morte del vescovo di Vence. Nel suo discorso di ricevimento, dove trova luogo di parlare di Cicerone, di Demostene, di Pompeo, di Cesare, di Mitridate, dei Lacedemoni, di tutte le sue ricordanze di collegio, trova anche modo di annicchiarvi una requisitoria contro la religione e in favore della filosofia.

Facendo l’elogio del suo predecessore, ei dice: «Fu egli principalmente assai lontano da quel cieco e barbaro zelo che cerca l’empietà dove non è, e che, meno amico della religione che nemico delle scienze e delle lettere, oltraggia e denigra gli uomini irreprensibili nella loro condotta e nei loro scritti ... La religione è debitrice alle lettere, ed alla filosofia del rassodamento dei suoi principi, i sovrani, del rassodamento dei loro diritti combattuti e violati in secoli d'ignoranza, i popoli di quella luce generale che rende più dolce l'autorità e più fedele l’obbedienza (251)».

L'educazione di collegio che non aveva armato lo spirito di d'Alembert contro la miscredenza, aveva, a più forte ragione, lasciato il suo cuore senza difesa contro gli allettamenti della voluttà. Né le egloghe, né l'Eneide di Virgilio, né le poesie d'Orazio, o d'Ovidio, né le stesse opere di Cicerone, sanno mettere un freno, alle sue passioni nascenti. D'Alembert amò perdutamente madamigella di Lespinasse. Nei teneri versi che le indirizza sembra di udir Tibullo, tanto il pensiero e le forme sono degne del bel secolo d'Augusto.

Essa muore, e il 22 luglio 1776, d'Alembert le consacra un elogio che s'intitola: Ai mani di madamigella di Lespinasse.

«O tu! che più non puoi udirmi, tu che ho con tanta tenerezza amata ... che ho preferito a tutto, oh se ancora hai qualche sentimento in cotesto soggiorno della morte (252), che ben presto sarà anche il mio, vedi la mia sventura e le mie lacrime ... Ohimè! Nessuno ne verserà sulla mia tomba, ed io vi discenderò quanto prima dietro a te, sclamando con Bruto al momento che dà morte a sé stesso: O virtù! nome sterile e vuoto, a che mi hai giovato nei sessant'anni che mi ho trascinato sulla terra! oh natura, oh destino! mi sottopongo a questa fatale sentenza della mia sorte: veggo con Orazio, il fato conficcare i ferrei suoi chiodi nell'infelice mio capo» (253).

La stessa assenza di cristianesimo si scorge nelle opere letterarie e filosofiche di d'Alèmbert: in esse l’odio del cristianesimo cammina del pari con l'ammirazione della classica antichità. Il suo Epistolario, il suo Discorso preliminare dell'Enciclopedia, i suoi Elementi di filosofia ne danno prova, ad ogni pagina.

«Nella prima di queste opere, dice il signor Lecretelle, autore poco sospetto, d'Alembert e Voltaire fanno una pompa deplorabile di disprezzo per la religione cristiana. Un gran poeta e un gran geometra, sembra che si sollazzino a rappresentare una cospirazione ... Un solo pensiero domina nelle loro lettere, ed è di riunire contro la rivoluzione tutte le forze dello spirito filosofico (254)».

D'Alembert, ammesso in tutte le conversazioni, tiene, informato Voltaire di tutto ciò che avviene a Parigi, gli dà consigli utili alla loro causa, gli accenna gli argomenti da trattare, gli uomini da mettere in ridicolo, ne applaudisce i sarcasmi e si mostra l'apostolo ardente della filosofia. Scrivendo al degno suo amico, il re di Prussia, gli raccomanda giovani filosofi, e lo supplica di chiedere al sultano la riedificazione del tempio di Gerusalemme, per gli imbarazzi della Sorbona ed i minuti piaceri della filosofia». Questa riedificazione, dice, è la mia mania, come quella della distruzione della religione cristiana è quella del patriarca di Ferney (255).

Il Discorso preliminare dell'enciclopedia occupa il primo posto fra le opere letterarie di d'Alembert. Esso è il programma scientifico del materialismo e del naturalismo pagano. Voltaire, dopo averlo letto, batte le mani e manda congratulazioni all'autore. Tutti i filosofi fecero eco al loro capo ed esclamarono: Il Discorso preliminare dell'enciclopedia è nel novero di quelle opere preziose che due o tre uomini, tutt'al più, in ciascun secolo, sono in grado di eseguire (256).

Nella prima parte, dove espone la genealogia delle scienze, d’Alembert stabilisce, come principio di tutte le umane cognizioni il sensualismo di Locke, rozzamente rinnovato dai filosofi pagani. «Alle nostre sensazioni, egli dice, siamo debitori di tutte le nostre idee … Così pensavano gli antichi, e si conviene generalmente che gli antichi avessero ragione: né questa è la sola questione sulla quale incominciamo ad avvicinarci a loro» (257).

Dalle sensazioni piacevoli e dolorose nasce il conoscimento del bene e del male, del giusto e dell'ingiusto, e per via di conseguenza, il conoscimento di Dio e delle altre verità fondamentali della morale.

«È evidente, conclude, che le nozioni puramente intellettuali di vizio e di virtù, il principio e la necessità delle leggi, la spiritualità dell’anima, l'esistenza di Dio e nostri doveri verso di lui, in una parola le verità di cui abbiamo il più pronto bisogno ed il più indispensabile, sono il frutto delle prime idee riflesse cui occasionano le nostre sensazioni» (258).

Dalla medesima fonte venne ai primi uomini, e forse in brevissimo tempo, la scoperta della medicina, dell’agricoltura di tutte le arti necessarie, della geometria, delle matematiche, dell’astronomia, e di tutte le scienze ad esse attinenti (259). Dalle sensazioni nacquero anche le società, e con le società, il linguaggio. La comunicazione delle idee, di cui il linguaggio è il veicolo, ha dato origine alla storia (260).

La storia è d'invenzione umana. Perciò essa narrerà unicamente le opere dell’uomo. Le buone o cattive qualità di lui decideranno di tutti gli avvenimenti: egli solo, egli sempre, egli dappertutto, e la Provvidenza in nessun luogo. Un coperchio di piombo steso sul capo del genere umano impedirà a qualunque, raggio del cielo di giungere sino a lui, e l'uomo si troverà libero in questo mondo di cui è il moderatore supremo.

L'uomo nulla scorgendo di là dal tempo e dalla materia, non vedrà nelle arti che l'imitazione della bella natura. Le arti nate dalla continuazione delle idee primitive; e queste dalle sensazioni, non avranno e non potranno aver altro obbietto che l'imitazione della natura tanto conosciuta e tanto raccomandata dagli antichi (261). Non esistendo più il bello ideale, celeste, soprannaturale, uffizio delle arti sarà d'investigare in tutte le parti della natura il bello sensibile, palpabile, materiale: il riprodurlo fedelmente qual ch'esso sia, sarà loro gloria; e il lusingare i sensi, il loro termine finale.

«In prima linea delle cognizioni che consistono nell'imitazione debbono essere annoverate la pittura e la scultura, perché fra tutte sono quelle in cui l'imitazione s'approssima di più agli oggetti che rappresenta, e più direttamente parla ai sensi. Queste arti esprimono indifferentemente e senza restrizione tutte le parti della bella natura, e la rappresentano quale essa è (262). In ciò è l'apologia del nudo sotto tutte le forme, e in tutte le sorte di obbietti; in ciò il materialismo dell'arte; e di sacerdozio divino ch'essa era, la sua trasformazione in banditrice d'iniquità. Così troppo bene l’hanno intesa gli artisti del Risorgimento. Tali, secondo d’Alembert, sono l'origine, la genealogia, l'ufficio delle scienze e delle arti. Quale ne è la storia? Il letterato filosofo la espone nella seconda parte del suo discorso. Questa storia non ha che due pagine: la prima è l'antichità greca e romana: la seconda, l’età moderna posteriore alla presa di Costantinopoli nel 1453. Prima e dopo tutto è barbarie. Qui d’Alembert, il quale ha pianto la sua Lidia in stile tibulliano, piglia il volo di Pindaro per cantare il Risorgimento, suo glorioso padre, padre delle scienze, delle arti, della filosofia: Alma parens, alma virum! Gli è il risorgimento che ha tratto il mondo dalla barbarie in cui l'ha lasciato il Vangelo per ben mille anni: e mediante il salutare suo influsso ogni cosa è ritornata in vita. Primo suo beneficio è lo spirito letterario: lo spirito artistico è il secondo, ed il terzo è lo spirito filosofico. Questo poi è il regno della ragione che nei tempi moderni ricondurrà i lumi, la libertà, la felicità, in una parola i bei giorni di Roma, d' Atene e di Sparta. Il suo ditirambo, come quello di tutti gli alunni del Risorgimento, esordisce con un oltraggio obbligatorio contro il cristianesimo, il cui regno è inevitabilmente quello della barbarie, della superstizione e della schiavitù. D'onde vengono questi tre flagelli? Dall'aver cessato i secoli cristiani di studiare i grandi modelli dell’antichità pagana, di cui seriamente crede non potere il mondo dispensarsi.

La maggior parte (così egli) dei bei spiriti di quei tempi tenebrosi si facevano chiamare poeti o filosofi. Infatti, che mai costava loro l’usurpare due titoli di cui si fregiavano a sì buon mercato, e che si lusingavano di non dovere ad estranee cognizioni? Essi credevano fosse inutile il cercare modelli della poesia nelle opere dei Greci e dei Romani, e prendevano per vera filosofia degli antichi una barbara tradizione che la sformava.

A questo disordine si aggiunga lo stato di schiavitù in cui quasi tutta Europa era sprofondata, le devastazioni della superstizione che nasce ed è riprodotta dall'ignoranza; e si vedrà che nulla mancava agli ostacoli che tenevano lontano il ritorno della ragione e del gusto; perché non vi è che la libertà di operare e di pensare che sia capace di produrre grandi cose (263).

Laonde, per uscire dalla barbarie ci volle al genere umano una di quelle rivoluzioni che fanno prendere alla terra un nuovo aspetto: l’impero greco è distrutto: la sua ruina fa rifluire in Europa le poche cognizioni che ancora restavano al mondo e da tutte le parti rinasce la luce.

Si divorò senza distinzione tutto quello che in ogni genere ci avevano lasciato gli antichi: si volgarizzarono, si chiosarono; e, per una specie di riconoscenza, si adorarono» (264).

Tutte le arti fanno tempo dalla stessa epoca e rampollano dalla stessa vena. Le belle arti, continua a dire d'Alembert, sono totalmente connesse con le belle lettere, ché il medesimo gusto che coltiva quelle conduce anche a perfezionare queste ... Dappoichè si cominciò a studiar le opere degli antichi in ogni genere, i capolavori dell'antichità che in gran numero erano scampati alla superstizione e alla barbarie, ferirono tosto gli occhi degli artisti illuminati. Non si poteva imitare Praesitele e Fidia se non facendo esattamente com’essi; e l'ingegno non avea bisogno che di vedere per bene (265): perciò Raffaele e Michelangelo non stettero guari a recare a tal punto di perfezione la loro arte che non sono per anco stati superati dappoi (266)».

Agli omaggi che rende al Risorgimento, d'Alembert ha cura di aggiungere i suoi ringraziamenti all'Italia che ne fu nutrice. «Saremmo ingiusti, egli dice, se, in occasione che abbiamo riferito questi particolari, non riconoscessimo quello di che siamo debitori all'Italia: da essa abbiamo ricevuto le scienze, le quali hanno dappoi sì copiosamente fruttificato in tutta Europa: da essa, abbiamo ricevuto le belle arti ed il buon gusto di cui ci ha dato gran numero di modelli impareggiabili (267)».

Voltaire, Rousseau, Melantone, Mably, d'Alembert, tutti i letterati filosofi, eretici e rivoluzionari a voce unanime recitano le stesse lodi alla cristiana Italia. Ed essa, tanto più debba esserne lusingata, in quanto che ad essi non accade mai di congratularsi a lei per essere il fuoco donde raggia sul mondo la luce evangelica e la civiltà cristiana. Da che proviene cotesto mistero? Non forse da questo che a loro giudizio il Risorgimento è tutt’altra cosa che la luce evangelica, tutt'altra cosa che lo svolgimento della civiltà cristiana, in una parola, tutt'altra cosa che il cristianesimo nelle lettere, nelle arti, nella filosofia: cristianesimo ch'ei detestano, ed il cui influsso non credono di poter scemare e prepararne la ruina in modo più efficace, che rendendosi gli encomiatori e gli apostoli devoti del Risorgimento?

Checché ne sia, d'Alembert non cessa dal ripetere con tutte le generazioni di collegio, da tre secoli sino ai giorni nostri, che il medioevo è un tempo di barbarie, che il cristianesimo non ha né letteratura, né arti, né filosofia. Queste maiuscole menzogne, a lungo ripetersi alla gioventù, sono in oggi ribadite nei cervelli. Eppure il vero è che il cristianesimo ha la sua propria letteratura, la sua pittura, la sua scultura, la sua musica, le sue arti, la sua filosofia incomparabilmente più ricche, più variate, più belle, più in armonia coi nostri bisogni intellettuali e morali di quelle della bella antichità: il solo obietto è differente. La letteratura pagana o quella del Risorgimento che ne è scaturita, si esercitano su gli obbietti del mondo materiarle: esse hanno per obbietto l’uomo materiale o semplicemente ragionevole, i suoi interessi, le sue gioie, i suoi dolori, e le sue passioni in ispecie, senza mai collegare queste condizioni o questi fatti della vita terrestre alla vita soprannaturale: tutto è circoscritto come nel paganesimo, nell'augusto orizzonte del tempo.

L'arte pagana e l’arte del Risorgimento, senza ispirazione soprannaturale, si esercitano unicamente a riprodurre ciò che chiamasi la bella natura. In virtù di questo principio, l'ideale celeste è stato messo totalmente in disparte: e poiché la bella natura trovasi principalmente nell'uomo e nella donna l’arte si è studiata di riprodurre, non solo senz'arrossire, ma anche come una specie d'obbligo verso sé stessa, tutte le più oscene nudità. E per copiare in tutti i suoi particolari la bella natura, ci vollero modelli vivi! E ogni giorno milioni di vittime vendono il proprio pudore alle asserite esigenze dell’arte! E le infamie che si consumano nel segreto dello studio vengono poi a sfoggiare in pittura, in scultura, in incisione, in bronzo, in legno, in marmo, nelle botteghe, nelle case, sulle piazze pubbliche, nei giardini, nei palazzi, e talvolta anche nelle chiese! E si è giunti a scusare tutto col dire: È un oggetto d'arte!

Sì, ma d'arte corrompitrice, d'arte infernale, i cui guasti tanto più sono terribili che per sperimentarne i mortiferi effetti basta avere occhi.


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CAPITOLO XIX.



D'ALEMBERT

(Continuazione e fine).



Nuovo beneficio del Risorgimento, lo spirito filosofico. - Opposizione che trova. - Lodi di coloro che lo propagano. - Ritratto morale di Bacone. - Giudizio sopra Cartesio. - Elementi di filosofia di d'Alembert. - Il sensualismo sua base. - La morale dell'egoismo. - Il comunismo n'è la conseguenza. - Ultimi momenti di d'Alembert. - Muore leggendo Tacito.



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Le lettere e le arti quali da tre secoli le vediamo nell'Europa cristiana sono, secondo d'Alembert, i frutti del Risorgimento. Ad esso però siamo anche debitori dello spirito filosofico. Ora, lo spirito filosofico, di cui ci parla d'Alembert, e ch'ei pone in cima di tutti i benefizi del Risorgimento, altra cosa non è che la sovranità assoluta della ragione, o, secondo il linguaggio odierno, il razionalismo. Nei secoli cristiani, l'umanità era parimente il suo spirito filosofico; né, come vogliamo sperare, lo si negherà né in Sant'Agostino, né in sant'Anselmo, né in San Tomaso. Ma quello era lo spirito filosofico ispirato e diretto nelle sue investigazioni dal cristianesimo, rispettosamente sommesso alla fede, come il figlio alla propria madre. La gloria del Risorgimento è di avere emancipato la ragione, come ha emancipato la società.

«Intanto che le arti e le belle lettere, dice d'Alembert, erano in onore, a grande stento la filosofia faceva uguali progressi. La maggior parte delle opere degli antichi filosofi erano state distrutte ... La scolastica che componeva tutta la pretesa scienza dei secoli d'ignoranza, opponevasi ancora ai progressi della filosofia in quel primo secolo di lumi … Finalmente, alcuni teologi osavano combatterla, abusando della sommessione (268) dei popoli. Erasi permesso ai poeti di cantare nelle loro opere le divinità del paganesimo, perché si aveva la ragionevole persuasione che i nomi di quelle divinità non potevano essere che un gioco da cui nulla si aveva a temere (269).

«Ma si temeva .. (270) o si faceva sembianza di temere i colpi che una cieca ragione poteva scagliare contro il cristianesimo: come mai non si vedeva ch'esso non poteva paventare una così debole aggressione? ... D'altra parte, per quanto una religione possa essere assurda, rimprovero che la sola empietà può fare alla nostra, non cono i filosofi quelli che la distruggono: anche quando essi insegnano la verità, si contentano di mostrarla, senza costringere nessuno a conoscerla: cotal potere non è proprio che dell'Onnipotente (271)».

Questi sofismi non ingannerebbero un fanciullo: ma questo hanno di prezioso che definiscono lucidamente il nuovo spirito filosofico, provano l'opposizione degli uomini chiaroveggenti dei secoli XV e XVI al libero pensare inaugurato dal Risorgimento, e svelano, la via tenebrosa seguita dal razionalismo pagano per invadere di nuovo il mondo intellettuale.

Segue poi uno splendido encomio dei principali apostoli della nuova filosofia: di Bacone, di Cartesio, di Locke, di Neutono. Tali sono, conclude d'Alembert, i principali intelletti che lo spirito umano dee riguardare come suoi maestri ed a cui la Grecia avrebbe innalzato statue, quand'anche fosse stato, d'uopo per dar loro luogo, di abbattere quelle di alcuni conquistatori (272).

A compimento di quest'elogio, tracciamo di passaggio il ritratto morale di quello fra i prementovati illustri personaggi cui d'Alembert chiama il più grande, il più universale ed il più eloquente dei filosofi, cioè di Bacone (273). Vile adulatore della regina Elisabetta, giustificò la condanna del conte d'Essex, suo benefattore, e si fece aborrire da tutta l’Inghilterra. Più vile ancora presso Giacomo I, ricevette in premio delle sue adulazioni la carica di cancelliere. Screditare i suoi emuli, strisciarsi dietro i grandi, non vi ha bassezza, per fede della storia, che non abbia commesso per sollevarsi a quella dignità.

La filosofia del risorgimento non era allora più di quello che sia oggidì un freno potente alle passioni. In Bacone lasciava sciolta la briglia all’ambizione ed alla cupidigia. Accusato dal parlamento di venalità e di corruzione, l'illustre filosofo, si vide in obbligo di presentare una risposta particolareggiata a tutti i capi dell'accusa intentata contro di lui: comparve davanti la corte il 1° maggio 1621, e confessò in termini bene espliciti il delitto di corruzione di cui era imputato, in 28 diversi articoli; il che vuol dire ch'ei si riconosceva per un illustre briccone.

Tale era l’evidenza dei fatti che Bacone s'abbandonò interamente alla discrezione dei suoi giudici. Fu condannato ad un’ammenda di quarantamila lire di sterlini, ad essere rinchiuso, nella torre di Londra per rimanervi a volontà del re: dichiarato inoltre incapace per sempre di sostenere veruna carica, né verun impiego nel regno, con divieto di seder mai più in parlamento, e di comparire per tutta la sua vita nella giurisdizione della corte. Nella guisa che Sallustio, dopo avere scorticato l'Africa, si ritirò nelle sontuose sue ville del Pincio dove scriveva i suoi trattati di morale; non altrimenti Bacone, ritiratosi nelle sue terre; scrisse i suoi libri di Filosofia morale e politica (273). Figli della stessa madre tutti i filosofi si rassomigliano.

Riguardo a Cartesio, la cui filosofia è stata condannata ad un tempo dalla Sorbona, da Roma e dal sinodo Protestante, di Dordretéh, d'Alembert che lo riconosce per uno dei suoi avi ne parla in questi termini: «Al cancelliere Bacone successe l'illustre Cartesio. Questo raro uomo aveva quanto è d'uopo per mutare l'aspetto della filosofia ... Cartesio ha osato di far vedere ai buoni ingegni a scuotere il giogo della scolastica, dell'opinione, dell'autorità, in una parola, dei pregiudizi e della barbarie; e mediante questa ribellione, di cui oggidì noi raccogliamo i frutti, ha reso alla filosofia un servigio più essenziale forse di tutti quelli ch'essa dee ai suoi illustri predecessori. Si può riguardarlo come un capo di congiurati che ha avuto il coraggio di sollevarsi pel primo contro un potere dispotico arbitrario, e che, preparando una solenne rivoluzione, ha poste le fondamenta di un governo più giusto e più felice che non ha potuto vedere stabilito (274).

D'Alembert si consola dicendo: «La filosofia che costituisce il gusto dominante del nostro secolo, pare, dai progressi che fa da noi, che voglia riparare il tempo che ha perduto, e vendicarsi del disprezzo in cui l'avevano tenuto i nostri padri (275)».

Per affrettarne il trionfo, d'Alembert stesso compone Elementi di Filosofia.

Ogni verità viene dalla sensazione: la sensazione è dunque il principio universale delle nostre cognizioni: il più prezioso dei nostri sensi, è il tatto: per esso discerniamo il giusto, l'ingiusto, le cui sensazioni sono necessariamente differenti: sentire è quanto l’essere uomo; sentir bene è quanto l'essere filosofo: condursi in maniera di non far mai provare ad altri sensazioni spiacevoli è proprietà dell'uomo onesto ed il criterio della virtù (276). Tale è la filosofia di d'Alembert, o più veramente di Locke degli altri sensualisti, educati dal Liceo e dal Portico.

Tra filosofia e religione, divorzio completo. D’Alembert esclude dagli Elementi di Filosofia non solamente la religione rivelata, ma anche la religione naturale (277). Ei non ha bisogno, né dell'una né dell'altra: senza di esse ei può, mediante il tatto, fondare una metafisica, una logica ed anche una morale perfetta.

«La morale, dice egli, è una conseguenza necessaria dello stabilimento delle società ... A motivi puramente umani le società dovettero il proprio nascimento: la religione non ha avuto parte alcuna alla primitiva loro formazione.

«Mediante i sensi veniamo a conoscere quali sono le nostre relazioni con gli altri uomini e i nostri bisogni reciproci; e mediante questi bisogni reciproci veniamo a conoscere quello che noi dobbiamo alla società, è quello ch'essa deve a noi. Sembra dunque che si possa definire esattissimamente l'ingiusto, o, ciò che vale lo stesso, il male morale: Ciò che tende a nuocere alla società turbando il ben essere fisico dei suoi membri (278).

Il sacrificio del nostro ben essere fisico ai bisogni fisici dei nostri simili è l'eroismo della virtù. «Questo sacrificio non è nella natura, soggiunge d'Alembert, ma è nell'amore illuminato della nostra propria felicità, la quale consisté nella pace con noi medesimi e nell'affezione dei nostri simili: Così l’amore illuminato di noi stessi è il principio di ogni sacrificio morale (279)».

Questo è la morale dell'egoismo, così ben insegnata da Mably e sì logicamente dimostrata alla tribuna della Convenzione, da Lavicomterie, sono il nome di morale calcolata. Nobile morale che è quella veramente e proprio capace di mettere un freno alle passioni! Quanto era meschina la ragione in quel XVIII secolo, in cui i più distinti intelletti sciorinavano simili fanfaluche alle menti volgari che le accettavano siccome oracoli!

Quel secolo però fu educato unicamente da preti! Non accusiamo né i gesuiti né il clero secolare, ma riconosciamo che nei collegi vi ha sopra l'insegnamento sacerdotale, un altro insegnamento più potente che aveva sedotto quella gioventù sfortunata, e che essa, propagava con ardore, come, propagherà in appresso le idee repubblicane, attinte alla stessa sorgente.

Dal ben essere fisico posto come principio generatore della morale, d'Alembert dedusse logicamente come obbligatoria l’elemosina, in aspettativa che la rivoluzione, più logica ancora, ne deduca il comunismo, sogno prediletto di tutti gli ammiratori della bella antichità. «Tutti coloro, egli dice, che hanno più del necessario relativo debbono allo Stato almeno una parte di quanto posseggono di più (280)

Segue una requisitoria contro il lusso, di cui d’Alembert chiede l'abolizione come a Sparta e a Roma: poscia, il desiderio di vedere cotesta morale ridotta a catechismo da qualche filosofo (281).

Se d’Alembert avesse vissuto di più, avrebbe veduto gli ultimi suoi desideri essere attuati dalla rivoluzione. Avrebbe assistito all'abolizione del lusso ed alla resurrezione della semplicità spartana; avrebbe potuto leggere il Catechismo dei Diritti dell'uomo e morire in pace avanti allo spettacolo delle virtù repubblicane generate dall'insegnamento della morale di Licurgo e di Platone. Ma la morte non aspetta. Essa trovò d'Alembert fin mezzo al mondo pagano dove era entrato fin dall'infanzia, dove aveva passato la vita (282), ed in cui doveva morire. L'ultimo suo passatempo fu d'indovinare gli enimmi del Mercurio; la sua ultima occupazione fu di correggere la sua versione di Tacito. Tale fu la sua preparazione alla morte. La sua raccomandazione dell'anima consiste in queste ultime parole diretta a Pougens, suo confratello dell’Accademia: Udite il petto che si riempie? Era il 29 ottobre 1783.

«Non ha voluto, aggiunge Condorcet, pagare verun tributo, neppur esterno, ai pregiudizi del suo paese, né rendere omaggio morendo a ciò che per tutta la sua vita aveva professato di disprezzare» (283).


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CAPITOLO XX.



ELVEZIO.



La filosofia attuale tende al paganesimo. - Parole di monsignor vescovo di Poitiers. - Questa filosofia viene dal XVIII secolo. - Parole di Guizot. - La filosofia del XVIII secolo viene dal Risorgimento. - Elvezio. ­ Sua educazione presso i gesuiti. - Suo entusiasmo per Quinto Curzio. - Per Locke. - Anima vuota di cristianesimo ed ebbra di paganesimo. - Esordisce con versi. - Analisi dello Spirito. - È razionalista e sensualista. - Analisi dell'Uomo. - Disprezzo del Medio Evo. - Elogio dell'antichità classica. - Odio del clero, e soprattutto dei gesuiti. - Una quistione.



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In un'Istruzione sinodale pubblicata, nel 1855, monsignor vescovo di Poitiers combatte vigorosamente la filosofia attuale, i cui principi conducono alla distruzione di ogni religione e di ogni società. Poscia, l’eloquente prelato mette un grido di spavento e stabilisce con le prove alla mano, che «la filosofia, ai nostri giorni, ha tolto di farci ritornare, sotto pretesto di religione, sino al paganesimo.

«Sì, o signori, io punto non esagero; la filosofia di questo tempo, ha una predilezione spiegata pel paganesimo, pei suoi dommi e per la sua morale. Questi non esita a desiderare le antiche divinità della Gallia: quegli ci propone con tutta serietà, di abbandonare un domma, che, secondo lui, non è proprio dell'essenza della rivelazione cristiana, il domma dell'eternità delle pene e delle ricompense, per ritornare, sotto l'azione dello spirito progressivo della Francia, alla credenza dei druidi, cioè all'antica metempsicosi, interpretata col soccorso dell'astronomia, della geologia, e della filosofia moderna (284).

«Altri si lamentano che al Vangelo manchi l'estetica, al Crocefisso il grazioso. Il maestro principale non vuole che si abbia troppa fretta d'accusare l'antropomorfismo né l'idolatria che ha diffuso: quest'è la prima conquista della libertà e dell’intelletto; esso maggioreggia immensamente sopra tutto ciò che lo ha preceduto (285)».

Finalmente un insigne pubblicista ci assicura che, dove regna lo spiritualismo, potrebbesi dire senza temerità, non considerando che gli atti, che non vi ha grande differenza tra un onesto filosofo ed un onesto cristiano. E questa conclusione ei l’appoggia sopra una recente lezione di un famoso professore, il quale stabilisce: Che i filosofi antichi erano eccellenti direttori spirituali dell'umanità; che la loro morale non difettava di nessuna delle guarentigie desiderabili; che era quasi altrettanto precisa quanto quella dei Padri della Chiesa; che era popolare e pratica; adattata a tutti, fornita di sanzione sufficientissima; avere finalmente il suo impulso quasi soprannaturale, e trovarvisi la dottrina della grazia in tutta la sua severità (286). Così i santi del cristianesimo sono messi naturalmente in compagnia con gli eroi pagani: Oh! sclamasi, se l'anima dell'ultimo Bruto, se l’anima di San Luigi avessero da sé medesime narrato la propria storia, che bella psicologia morale avremmo noi mai! (287).

Ora, questa filosofia; la cui applicazione ricondurrebbe il mondo al caos non è nata da sé medesima. Gli uomini che la professano hanno antenati; e per tali si gloriano di riconoscere i filosofi del XVIII secolo. Ascoltiamo il signor Guizot nel suo discorso di ricevimento all'Accademia francese, in surrogazione di Destutt di Tracy. «Un gran secolo, dice egli, un secolo che ha conquistato il mondo, s'allontana appena da noi: un gran filosofo, l’ultimo d'una generazione di grandi filosofi è appena steso nella sua tomba, ed eccomi chiamato a dire il mio pensiero sopra quell’immensa età; e sopra il degno suo rappresentante. Ed è conveniente ai figli di giudicare pubblicamente il loro padre? Il decimottavo secolo ci ha fatto ciò che siamo. Idee, costumi, istituzioni, tutto ricevemmo da lui, a lui siamo, debitori, e per parte mia gli porto un affetto figliale: questo affetto penetri, comparisca nelle mie parole anche più libere. Se le nostre parole sono libere, a chi lo dobbiamo? Il XVIII secolo ha fatto la nostra libertà. In questo recinto, fuori di questo recinto, dappertutto, ogni pensiero che si svolge, ogni voce che s'innalza senz'inciampo rende testimonianza della gloria del XVIII secolo e del suo benefizio. Montesquieu, Voltaire, Rousseau, potenti ingegni, nomi immortali, saremo liberi come ci avete voluto (288)».

I filosofi poi del secolo XVIII sebbene istruiti dal clero, si dichiarano a loro volta apertamente figli del Risorgimento e dei loro studi di collegio. Quelle stesse lodi che ricevono dai loro discendenti, le rivolgono ai loro avi. Abbiamo udito quelle di Voltaire, di Rousseau, di Mably, di Condorcet: ecco un nuovo fratello la cui parola merita di essere ascoltata, poiché esso non occupa l'ultimo posto nella filosofica famiglia; e questi è Elvezio.

Claudio Adriano Elvezio, nato a Parigi nel 1715, fu posto in età assai tenera età nel collegio dei gesuiti. La giovane sua immaginazione fu ben tosto colpita al racconto delle battaglie narrate da Quinto Curzio e da Omero. Questi due autori ne mutarono l'indole. Era assai timido e divenne ardimentoso. La sua propensione per lo studio disparve: ei non respirava che guerra, ed a ogni costo voleva seguire la carriera dell'armi. Una nuova prova qui si vede degli effetti prodotti dai primi studi. In età fanciullesca Carlo XII, re di Svezia si era anch'egli invaghito di Quinto Curzio. Lo portava sempre in tasca: a questa lettura, dice Federico re di Prussia, si vogliono attribuire le stravaganze di quel principe, e il desiderio che ebbe in tutta la sua vita di somigliare ad Alessandro. «È Quinto Curzio, aggiunge egli, quei che ha perduto la battaglia di Pultava (289)».

Elvezio, dominato dalla sua inclinazione per l'arte militare, giunse, trascinandosi sugli ultimi banchi della scuola, sino alla rettorica. In collegio erano assai in voga le amplificazioni. Il p. Porée trovando in quelle di Elvezio più idee e più, immagini che non in quelle dei suoi condiscepoli, lodò i primi suoi tentativi, e ne prese cura speciale. Leggeva con lui stesso i grandi modelli dell'antichità. Elvezio ripigliò il gusto dello studio delle lettere. Ma tosto una nuova passione diede al suo intelletto una direzione che non doveva mutare più. «Essendo ancora in collegio, studiò la Filosofia di Locke. Quel libro operò una rivoluzione nelle sue idee: ei diventò un fervoroso discepolo del filosofo inglese (290).

L'entusiasmo per questa filosofia razionalistica e sensuale, l'ammirazione, esclusiva per l'antichità pagana e l'ignoranza o il disprezzo della letteratura e della filosofia cattoliche, tali sono le disposizioni in cui Elvezio uscì dalle mani dei suoi maestri, e queste disposizioni bastarono in lui quanto la vita. Nave senza stiva e senza bussola la vedremo navigare all'avventura e rompere a tutti gli scogli.

Uscito appena di collegio, suo padre che lo destinava alle finanze, lo mandò dal signor d'Armancourt, suo zio materno e direttore delle regalie a Caen. Ivi il giovane Elvezio si occupò delle lettere e della filosofia più che delle finanze; e più delle donne, che delle lettere e della filosofia. Ciò nonostante, per la protezione della regina fu nominato a ventitré anni, appaltatore generale (291).

Questo posto gli recava opulenza ed ozi. Ne profittò per collegarsi con Fontenelle, Montesquieu, Condorcet, Voltaire, ed aumentare quella famiglia di letterati filosofi di cui i collegi di allora riempirono le alte classi sociali, l’amministrazione, le finanze, la magistratura, la corte, i castelli, le accademie ed i parlamenti.

Secondo la moda d'allora, Elvezio esordì con alcuni componimenti in versi, in cui fece entrare le sue idee filosofiche. Voltaire gli fa coraggio e gli scrive: «La prima vostra epistola è piena di una arditezza di ragione ben superiore alla vostra età, e più ancora dei nostri fiacchi scrittori che si rannicchiano sotto la sesta d'un regio censore ... Non temete d'abbellire il Parnaso delle produzioni del vostro ingegno .... Come! perché siete appaltatore generale, non avrete la libertà di pensare! Anche Attico era appaltatore generale: i cavalieri romani erano appaltatori generali. Continuate dunque Attico (292)

Alla voce del maestro Elvezio continua. Nel 1758 venne in luce il suo libro dello Spirito: La filosofia batte le mani ed esclama: «Gli è un buon libro ..... La sua maggior colpa mi sembra che sia di aver declamato contro il dispotismo in modo di far credere non ai despoti che poco leggono, né ai loro visir, che leggono ancor meno, ma ai sotto-visir o alle loro spie, che tutte le persone di spirito sono loro nemici implacabili; la qual cosa può suscitare una persecuzione contro le persone di spirito (293)».

Ecco in brevi parole l'analisi di cotesto buon libro:

1° Tutte le facoltà dell'uomo si riducono alla sensività fisica, e noi non ci differenziamo dagli animali che per l’organizzazione esterna; 2° il nostro interesse fondato sull'amore del piacere o sul timor del dolore è l’unico movente dei nostri giudizi e delle nostre azioni, il principio d'ogni morale; 3° le nozioni del giusto e dell’ingiusto variano secondo le consuetudini; 4° tutti gli uomini sono suscettivi delle stesse passioni, cui l'educazione sviluppa più o meno. Questo è precisamente senza nulla aggiungere né togliere l'abbietto materialismo, quale si intendeva e si praticava nei bei giorni d'Atene e di Roma.

Allo Spirito succede il trattato dell'uomo e della sua educazione, pubblicato soltanto dopo la morte dell'autore.

Per Elvezio, come per tutti gli alunni del Risorgimento, il medioevo, le sue arti, le sue istituzioni, la sua filosofia sono la vergogna dell'umanità: questo per loro è un assioma. Ecco in quali parole viene da Elvezio formulato: «Che cosa sono gli scolastici? I più stupidi ed i più orgogliosi tra tutti i figli di Adamo. Il puro scolastico occupa in fra gli uomini, il posto che occupa fra gli animali quello che non lavora come fa il bue, che non porta il basto come il mulo; che non abbaia al ladro come il cane, ma che, simile alla scimmia, imbratta tutto, rompe tutto, morde chi nassa, e nuoce in mille maniere. Lo scolastico, possente in parole, è paralitico in ragionamenti. Perciò che forma egli? Uomini dottamente assurdi e orgogliosamente stupidi. I secoli d'oro degli scolastici furono quei secoli d'ignoranza le cui tenebre, prima di Lutero e di Calvino, inviluppavano la terra. Allora, gli uomini, mutati in bestie, in muli come Nabucco, erano sellati, imbrigliati, caricati di enormi pesi, e gemevano sotto la soma della superstizione: ma finalmente alcuni di quei muli impennatisi rovesciarono ad un tempo il carico ed il cavaliere (294)».
Ma quello che principalmente viene in uggia al giovane pagano sì è il pensare che la scolastica, la teologia, in una parola il cristianesimo, hanno falsato la nozione della vera, virtù e reso la terra vedova dei Minossi e dei Codri, suoi grandi santi del collegio.

«Al momento, dice egli, che si stabilì il cristianesimo che cosa predicò?... Che il cielo è la vera patria degli uomini. Questi discorsi intiepidirono nel laico l'amor della gloria, del pubblico bene e della patria. Gli eroi divennero più rari. Il prete recò a sé l'autorità, e per conservarsela screditò la vera gloria e la vera virtù, e più non sostenne che si onorassero i Minossi, i Codri, i Licurghi, gli Aristidi, i Timoleoni, finalmente tutti i difensori e i benefattori della loro patria. O venerabili teologi! O bruti! (295)

Il più grande ostacolo al ritorno della bella antichità, sola feconda di lumi e di virtù, è dunque il clero. Con un’arte e con una virulenza non minore Elvezio lo aggredisce dapprima nelle sue ricchezze. «Uno dei maggiori servigi da rendersi alla Francia dice egli, sarebbe d'impiegare una parte delle rendite troppo considerevoli del clero ad estinguere il debito nazionale» (296). Docile agli insegnamenti dei suoi maestri, la rivoluzione cominciò col far questo, e finì col darsi per fallita.

Passando poi all'autorità del clero, l’alunno del collegio di Luigi il Grande continua: «È d'uopo che il clero non abbia nessun potere sul cittadino. Il timore del prete degrada lo spirito e l'anima: imbrutisce quello ed invilisce questa ... Lo spirito religioso fu sempre incompatibile con lo spirito legislativo, ed il prete sempre nemico del magistrato. Quegli istituì le leggi canoniche, questi, le leggi politiche. Lo spirito di dominazione e di menzogna presiedette alla compilazione delle prime; esse furono funeste all'universo (297)».

Nel clero Elvezio non conosce nulla di più formidabile degli antichi suoi maestri. «Vede il loro generale nell'oscurità della sua cella, come il ragno nel centro della sua tela: egli stende le sue fila in tutta l'Europa, e, mediante questi medesimi fili è avvertito di tutto quello che accade ... Quest'uomo comanda ad una società i cui membri sono nelle sue mani quello che è il bastone nelle mani del vecchio: e parla per loro bocca, colpisce col loro braccio. Despota quanto il Veglio della Montagna ha sudditi altrettanto sommessi. Al suo cenno vedonsi precipitare nei più grandi pericoli, eseguire le più ardite imprese» (298).

Intanto che Elvezio, Condorcet, Voltaire, educati dai gesuiti trattano in tal modo i loro professori, esaltano a Cielo i veri loro maestri, i filosofi cioè, gli oratori ed i poeti dell'antichità. Donde proviene questo fatto, che nel passato secolo si manifestò in tutta Europa, e che, ai giorni nostri si è riprodotto in Ispagna, nella Svizzera e in Italia?



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CAPITOLO XXI.



ELVEZIO

(Continuazione e fine).



Stabilimento d'una religione filosofica. - Suo programma. - Suoi caratteri. - Intanto s'ha da distruggere il cristianesimo. - Far rifiorire la religione pagana. - Migliore del cristianesimo. - Il mezzo di farla rifiorire è l'educazione classica. - Morte di Elvezio.



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Le aggressioni d'Elvezio contro il clero non sono che un primo passo per giungere alla distruzione dello stesso cristianesimo. A giudizio del discepolo di Anassagora e di Epicuro, la ragione umana non ha bisogno né di Dio né di rivelazione per creare una religione e una morale. Elvezio, con tutta modestia, pretende di attuare questo problema, e ne raccoglie gli elementi. Alcuni anni dappoi si vedrà la rivoluzione francese, formata alla stessa scuola, metter l'ultima mano a quest'opera ed inaugurare solennemente una religione ed una morale di fattura umana.

Ecco il Simbolo ed il Decalogo di Elvezio: «Iddio ha detto all'uomo: Io t'ho creato, t'ho dato cinque sensi, ti ho dotato di memoria, e, per conseguenza di ragione: ho voluto che la tua ragione, stimolata primieramente dal bisogno, illuminata poscia dall'esperienza, provvedesse al tuo nutrimento, t'insegnasse a fecondare la terra, e finalmente tutte le science di prima necessità. Ho voluto che, coltivando cotesta stessa ragione, tu pervenissi al conoscimento delle mie volontà morali, cioè dei tuoi doveri verso la società, dei mezzi di mantenervi l'ordine; finalmente al conoscimento della migliore legislazione possibile. Ecco il solo culto cui voglio sia educato l'uomo, il solo che divenir possa universale, il solo che degno sia d’un Dio e che sia marchiato del suo suggello e di quello della verità. Ogni altro culto porta il marchio dell’uomo, della furberia e della menzogna. La volontà d'un Dio giusto e buono si è che i figli della terra siano felici, e che fruiscano tutti i piaceri compatibili col bene pubblico. Tale è il vero culto, quello che la filosofia deve rivelare alle nazioni» (299).

I filosofi dei nostri giorni che preconizzano la morale di Socrate chiamandola la vera morale di questo mondo, che fanno un sorriso di compassione, al nome di rivelazione e di morale evangelica, che limitano tutti i doveri dell'uomo ai doveri sociali, tutte le virtù alle virtù puramente umane; tutti i dommi alla fede nella ragione; in una parola, che si dicono inviati per sollevare l'umanità, facendola passare dalle braccia del cristianesimo in quelle della filosofia, questi filosofi non sono novatori né capiscuola: sono nient'altro che i discepoli di Elvezio, come esso era dei filosofi pagani. E ben a ragione da Guizot è stato detto: «Il secolo XVIII ci ha fatti quello che siamo».

Conosciamo l'essenza della religione filosofica: Elvezio ci rivelerà i segni o caratteri esterni che da tutte le false religioni la discernono.

La religione filosofica sarà gioconda, tollerante, economica, politica, pacifica e pacificante.

«Magistrati illuminati, dice egli, saranno come a Roma ed a Sparta, insigniti dal potere temporale e spirituale, il che impedirà qualunque conflitto, rimovendo qualunque contraddicenza tra i precetti religiosi ed i precetti patriottici. (300)

Qual potere non avrà sugli animi un'istruzione morale data da un senato! Con qual rispetto i popoli non ne riceveranno le decisioni! Dal corpo legislativo si può unicamente attendere una religione benefica e che, d'altra parte poco costosa, non offrirà che idee grandi e nobili della Divinità, non accenderà negli animi che l'amore dei talenti e delle virtù e non avrà finalmente per obietto, come la legislazione, che la felicità dei popoli» (301).

Se il creare una religione sulla carta non è per Elvezio che negozio di brevi momenti, lo stabilirla nel mondo gli sembra intrapresa il cui successo chiede un tempo lunghissimo. Questo pensiero lo rattrista ed esclama: «Che avverrà sino a questo momento? Gli uomini non avranno che idee confuse della morale» (302). Intanto che tutti i popoli teneri della propria felicità, abbiano abbracciato il vero culto che la filosofia dee rivelare ad essi. Elvezio esamina le due grandi religioni fra le quali, in mancanza di migliori, il mondo è costretto a scegliere. Queste religioni sono: da una parte, il cattolicesimo ch’ei chiama papismo; e, dall’altra, il paganesimo.

La prima deve essere assolutamente abbandonata ed immediatamente distrutta. Essa è nocevole al genere umano perché non ha alcuno dei caratteri della religione filosofica. «Il Papismo non è a giudizio di un uomo sensato che una pura idolatria» (303).

Ed è costosissimo: «Duecentomila preti costano dugento milioni all’anno ... Noterò anche a questo proposito che la potestà temporale, essendo specialmente incaricata d'invigilare alla felicità temporale dei popoli, ha diritto d'incaricarsi essa stessa dell'amministrazione dei legati fatti all'indigenza, e di metter mano in tutti i peculi che i frati hanno rubato ai poveri» (304).

È intollerante. «Esso ha dogmi. Ora ogni dogma è un germe di discordia e di delitto seminato fra gli uomini. Qual è la religione veramente tollerante? Quella che, come la pagana, o non ha verun dogma; o quella che si riduce, come quella dei filosofi, ad una morale sana e sublime, la quale, senza fallo, sarà un dì la religione dell'universo (305).

Non è ne umano, né dolce, né giocondo. «Esso soffoca le passioni; ed ogni culto che attuta le passioni non produce che bertuccioni, bonzi, bramini e non mai eroi, grandi uomini, né grandi cittadini: Comprime gli animi sotto il peso del timore, fa degli uomini schiavi vili e pusillanimi. A suo giudizio l’uomo giusto, umano verso i suoi simili non è assicurato del favore del cielo (306).

Non è politico. «Esso non divinizza il bene pubblico. Perché mai questo dio non ha ancora il suo culto, il suo tempio ed i suoi sacerdoti? Il papismo preferisce di venerare l'umiltà. Ma quest'umiltà che favoreggia l'abiezione e la pigrizia dee essere la virtù d'un popolo? No: il nobile orgoglio fu sempre la virtù di una celebre nazione. Il disprezzo dei Greci e dei Romani per popoli schiavi in concorso con le loro leggi sottopose ad essi l’universo mondo» (307).

Finalmente non è né pacifico né pacificante. Esso dispone della potestà spirituale in favore del clero. «Ora, non si é fatto nulla contro il corpo sacerdotale quando lo si è soltanto umiliato. Chi non lo annichila, ne sospende e non ne distrugge l'autorevolezza» (308).

Quest'ignoranza e quest'odio del cristianesimo, comuni a tutte le generazioni letterate degli ultimi secoli ed anche del nostro, non è che un lato della medaglia. Al disprezzo del cristianesimo e delle sue istituzioni, l’alunno del Risorgimento aggiunge un'ammirazione spesse volte inconsiderata, ma sempre costante per l'antichità pagana: Elvezio ne è una nuova prova.

Intanto che si stabilisce la religione filosofica, la seconda cosa che i popoli debbono fare, è di ritornare al paganesimo. Questa religione, non essendo la religione filosofica, non è, a vero dire, la religione buona. «Ma stantechè ha molte attinenze con essa, Elvezio dice che il paganesimo, fra tutte le false religioni, è la meno nocevole alla felicità degli uomini. «Infatti la religione pagana non era che il sistema organizzato della natura. Saturno era il tempo: Cerere, la materia, Giove lo spirito generatore. Tutte le favole della mitologia non erano che i simboli di alcuni principi della natura. Era forse poi tanto assurdo l'onorare sotto diversi nomi i differenti attributi della Divinità?

«Del resto, voglio ammettere che la religione pagana sia stata assurda. Questo difetto, per una religione, non è il più grande di tutti; e se i suoi principi non sono interamente disruttivi della pubblica felicità, e se le sue massime possono accordarsi con le leggi, e con l’utilità generale, è la meno cattiva di tutte. Tale era la religione pagana. Essa non pose mai ostacoli ai disegni d'un legislatore patriota: era senza dogmi e per conseguenza umana e tollerante (309). Niuna disputa, niuna guerra tra i suoi seguaci, cui non potesse prevenire la più piccola veggenza dei magistrati. Il suo culto poi non richiedeva molti sacerdoti: non era necessariamente a carico dello Stato.

«Gli dei lari e domestici bastavano alla divozione giornaliera dei privati. Alcuni templi innalzati nelle grandi città, alcuni collegi di sacerdoti, alcune feste pompose bastavano alla divozione nazionale. Queste feste, celebrate nei tempi in cui la cessazione delle opere campestri permette agli abitanti delle ville di recarsi nelle città, divenivano per essi un diletto. Per quanto tali feste fossero magnifiche, erano però rare e per conseguenza poco dispendiose. La religione pagana non aveva dunque essenzialmente nessuno degli inconvenienti del papismo. «Questa religione dei sensi era d'altra parte la meglio acconcia per gli uomini, la più idonea a produrre quelle forti impressioni che talvolta è necessario al legislatore di eccitare in essi.

«Gli dei e le dee vivevano in società coi mortali, partecipavano alle loro feste, alle loro guerre, ai loro amori. Nettuno andava a cena in casa dei re d'Etiopia: le belle e gli eroi sedevano fra gli dèi: Latona aveva altari; Ercole deificato sposava Ebe. Gli eroi meno celebri abitavano i Campi e i boschetti dell'Eliso. Ivi Achille, Patroclo, Ajace, Agamennone e tutti i guerrieri che pugnavano ad Ilio si occupavano ancora di fazioni militari. Ivi ancora Pindaro ed Omero celebravano i giuochi Olimpici e le imprese dei Greci. Quella specie di esercizio o di Canto che, sulla terra era stata l'occupazione degli eroi e dei poeti, tutte le inclinazioni finalmente che vi avevano contratto li seguivano anche nell'inferno. La loro morte non era propriamente che un prolungamento della vita.

Data questa religione, quale esser doveva il più vivo desiderio, il più potente interesse dei pagani? Quello di servire la loro patria coi loro talenti, col loro coraggio, con la loro integrità, con la loro generosità e con le loro virtù. Che si può trovare in un popolo senza desiderio? dei mercatanti, dei capitani, dei soldati, dei letterati, dei ministri abili? no: ma soltanto dei frati (310)».

Quello poi che, a giudizio di Elvezio, costituisce la superiorità della religione pagana, è il disprezzo suo della castità: e il suo odio della tirannide. Il saggio legislatore d'Atene, Solone, dice egli, faceva poco conto della castità monacale. Se nelle sue leggi, dice Plutarco, vietò espressamente, agli schiavi di profumarsi e di amare i garzoni si è che anche nell'amore greco Solone nulla vedeva di disonesto!

«Ma quei fieri repubblicani che senza vergogna si gettavano in braccio ad ogni sorta d'amori, non si sarebbero però abbassati al vile mestiere di spia. Un Greco od un Romano non avrebbe, senza arrossirne, ricevuto i ferri della schiavitù. Un vero Romano non sosteneva neppure senza arrossirne la vista di un despota dell’Asia. Ai tempi di Catone il Censore, venne a Roma Eumene. Tutta la gioventù si stringe intorno a lui; il solo Catone lo schiva. Perché mai gli si domanda, Catone sfugge un sovrano che lo cerca, un re così buono, così amico dei Romani? Buono quanto vorrete, risponde Catone: ogni re è un mangiatore d'uomini cui ogni cittadino virtuoso dee fuggire (311): Chi ha maggiore venerazione pel fondatore di un ordine di oziosi che per un Minosse, un Mercurio, un Licurgo, ecc., non ha per fermo idee giuste della virtù».

Ma qual è il mezzo di far rifiorire la religione pagana di tanto superiore al cristianesimo? Senza titubare, Elvezio risponde: L'educazione di collegio: essa riempie l'anima di ammirazione, per la classica antichità ed emancipa la ragione. «Un giovane, egli dice, nutrito delle vite dei santi avrà della virtù, idee diverse da quello che informato da studi più onesti e più istruttivi, avrà tolto a modelli i Socrati, gli Scipioni, gli Aristidi, i Timoleoni. Non è possibile che la propria virtù non risvegli in noi idee diverse, secondo che si legge Plutarco o la Leggenda dorata. Dai pagani gli onori divini sono resi agli Ercoli, ai Castori, alle Cereri, ai Bacchi, ai Romoli; dai cattolici questi stessi onori sono tributati a frati vili, ad un Domenico, ad un Antonio (312). Riconoscendo che egli stesso é stato così educato, soggiunge:

«Mi si presenti nella storia o sul teatro un grand'uomo greco o romano, ed io l'ammirerò. I principi di virtù ricevuti nella mia infanzia mi vi costringeranno (313).

Fare studiare ed ammirare fin dall’infanzia i Greci ed i Romani, ecco secondo Elvezio, il mezzo di dare nobili idee della virtù e di rimettere in onore la religione che le produce. L'educazione modellata su quella dei Greci e dei Romani ha un altro vantaggio: essa forma corpi vigorosi e robusti; di guisa che per renderci fisicamente e moralmente Greci e Romani, non vi è niente di meglio che di ripristinare senza eccettuar nulla la educazione di Roma e di Sparta. «Convinti, egli dice, dell'importanza della fisica educazione, i Greci avevano in onore la ginnastica. Taluno forse potrebbe desiderare che descrivessi qui i giuochi e gli esercizi degli antichi Greci. Ma che posso mai dire su questo subietto che non si trovi già nelle Memorie dell'Accademia delle Iscrizioni, in cui è descritto persino il modo onde le nutrici di Lacedemone allevavano gli Spartani e ne cominciavano l'educazione? ...».

Noterò solamente che l'educazione fisica è negletta da quasi tutti i popoli europei ... Però non ci ha legge che nei collegi vieti la costruzione di un’arena dove gli alunni di una certa età possano esercitarsi alla lotta, alla corsa, al salto; apprendano a volteggiare, a) nuotare, a lanciare il cesto, a sollevar pesi, ecc. Ora, in questa arena costruita ad imitazione di quella dei Greci si decretino premi ai vincitori, né v'ha dubbio che tali premi non accendano ben presto nella gioventù il naturale desiderio che ha per tal fatta di giuochi. Una buona legge produrrà quest'effetto (314)». La rivoluzione ci darà cotal legge.

Avvezzi fino dall'infanzia ad ammirare le virtù, le massime, le splendide azioni dei Socrati, degli Aristidi, dei Catoni, che non erano cristiani, che non si confessavano, che non si comunicavano, che non digiunavano, che non ascoltavano la messa, i giovani entrano nel dubbio della necessità di tutti quei precetti e della verità della religione che gli stabilisce: la loro ragione si emancipa.

Cotal emancipazione della ragione mediante l'insegnamento classico è tanto più inevitabile, in quanto che questo insegnamento, secondo Elvezio, è la negazione permanente dell'influenza delle religioni sulle virtù e sulla felicità dei popoli.

«Alcuni uomini, dice egli, più pii che illuminati, hanno immaginato che le virtù delle nazioni dipendessero dalla purezza del loro culto. Che importa la fede? Sotto Costantino la religione cristiana diventa la religione dominante. Essa però non rendeva i Romani alle loro primiere virtù. Allora non si videro i Deci a sacrificarsi per la patria, né i, Fabrici preferire sette acri di terra alle ricchezze dell’impero. I re più cristiani non furono i grandi re. Pochi fra loro mostrarono sul trono le virtù di Tito, di Traiano, di Antonino. Qual principe devoto, fu a loro paragonabile? Il male che fanno le religioni è reale ed il bene immaginario (315).

Per incredibile che sembri, la tesi d'Elvezio in favore dèl politeismo sarà alcuni anni dopo, ripresa con pompa da Quinto Auclero. Non ci affrettiamo troppo di gridare alla follia. Allo stringere dei conti non vi sono che due religioni nel mondo: il cattolicismo e il paganesimo: il culto di Dio o il culto dell'uomo, schifavo e zimbello di Satana. Quando l’uomo si toglie all’impero della redenzione, ei cade inevitabilmente e proporzionalmente sotto l'impero del demonio. Quello che è vero per l’uomo, è anche vero per le società. Teniamo per certo, che se l'abbandono del cattolicismo potesse divenire completo, le nazioni moderne non adotterebbero né il protestantesimo, né il giudaismo, né l'islamismo, ma sì il paganesimo sotto l'una o l'altra forma. Quando la rivoluzione francese si staccò dal cristianesimo, verso qual religione piegò?

Per compiere il ritratto d'Elvezio aggiungiamo ch'ei si mostra da per tutto repubblicano democratico (316).

Ora, se è vero che dai frutti si conosce l’albero, domandiamo ad ogni uomo imparziale che sia Elvezio. Per chi sono i suoi disprezzi ed i suoi odi? Per chi i suoi encomi, le sue affezioni, le sue tendenze. Rimane a sapere come questo filosofo pagano, questo cittadino di Roma e di Sparta il cui tipo non trovasi per fermo in Europa dallo stabilimento sociale del cristianesimo sino al Risorgimento, apparisca con molti altri in mezzo al secolo XVIII, nonostante la pietà dei suoi maestri?

Né gli anni, né le sventure, né la malattia modificano le idee che Elvezio ha ricevuto nella sua gioventù.

Ritirato nella sua terra di Voré passa gli ultimi suoi momenti a mettere in versi le dottrine sensuali e razionaliste di Locke e di Epicuro.

In mezzo a quest'occupazione il 26 dicembre 1771, un attacco di gotta risalita al petto gli tolse subitamente la vita.



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CAPITOLO XXII.



D'HOLBACH.



Sua nascita. - Sua educazione. - La comunanza d'idee lo ravvicina agli altri filosofi. - Sue cene. - Analisi del suo Sistema della natura. - È in tutta la sua estensione il naturalismo pagano.- Eternità della materia. - Lo prova con gli autori classici. - Fatalità; stesse prove. - La natura Dio; stesse prove. - Negazione di Dio e della Provvidenza; stesse prove. - Dell'immortalità dell'anima; stesse prove. - Movente della virtù, la gloria umana; stesse prove. - Legittimità del suicidio; stesse prove. - Morte pagana di d'Holbach.



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Un’altra vittima dell'educazione di collegio, Paolo Thiry, barone d'Holbach, nato nel 1723 nel Palatinato, fu condotto a Parigi in età fanciullesca ed educato alla stessa scuola dei giovani suoi contemporanei. Non colse altro frutto dai suoi studi che una passione sviscerata per la bella letteratura, per la bella filosofia, per le belle arti, cioè per la letteratura, per la filosofia e per le arti quali sono insegnate dai grandi maestri e realizzate nei modelli dell’antichità greca e romana. Fuori di questo cielo, il giovane d'Holbach non vede nulla, o piuttosto non vede che tenebre e barbarie. Il mondo soprannaturale è nulla per lui, o se esiste, è come un non so quale fantasma importuno di cui s'ha da liberare al più presto per la prosperità del mondo. A questo incarico perfettamente pagano d'Holbach impiega tutta la propria vita.

Uscito appena di collegio, la segreta affinità, che esiste tra tutti i figli d'una stessa madre gli fa cercare la compagnia dei letterati, dei filosofi e degli artisti non meno pagani di lui. Le sue dovizie gli lasciano comodità di fare della propria casa il convegno generale dei letterati di professione e di un gran numero di giovani signori che, come lui, gustano ed incoraggiano le tendenze religiose e politiche di cui la rivoluzione francese esser doveva la terribile manifestazione.

Tutte le domeniche, il giovane barone che il famoso Galiani chiamava il primo maggiordomo della filosofia, convita a cena i suoi amici. Quei banchetti sontuosi richiamano quelli di Socrate in Atene, di Ficino a Firenze, di Callimaco a Roma, di Federico a Potsdam; di Voltaire a Ferney. Con una licenza che di nulla arrossisce, vi si discutono i principi più sacri della religione e della società; si mettono in ridicolo, si balestrano: l'ateismo e il paganesimo menano trionfo. Il giovane d'Holbach vi paga il proprio debito, pubblicando successivamente una moltitudine di libercoli l’uno più empio dell'altro. Staremo contenti di analizzare brevemente quello che meglio rivela la sua filosofia e la scuola dove l’aveva appresa: ognuno intende che vogliamo parlare del Sistema della natura.

Questo libro, del quale si trovano molti simili nella classica antichità, e niuno così infame in tutto il medio-evo, ed in assai numero ne sono apparsi dopo il risorgimento, è l'apoteosi la più svergognata della ragione e della carne. L'ateismo, il materialismo, il fatalismo, tutti quei mostruosi errori che il Risorgimento, al suo apparire, riprodusse nel mondo sotto il manto degli antichi filosofi, e che Leone X stesso, nel concilio di Laterano anatematizzò, nel 1512, con tanta vigoria, dichiarando che quella filosofia nuova era infetta sin nelle radici: tutti questi errori sistematicamente esposti, compongono il libro di D’Olbach.

«L'uomo, dice egli, è l'opera della natura; esiste nella natura, è sottoposto alle sue leggi, non può emanciparsene, non può neppure col pensiero, uscirne. Per un essere formato dalla natura e da questa circoscritto, nulla esiste fuori del Gran Tutto di cui fa parte: gli esseri che si suppongono superiori alla natura o da essa distinti saranno sempre chimere» (317).

Alla negazione del mondo soprannaturale, succedono, come conseguenza logica, il fatalismo ed il materialismo. «L'uomo, continua d'Holbach, si pieghi senza lamentarsene ai decreti di una forza universale che non può retrocedere, o che non può mai scostarsi dalle regole cui la sua essenza l'assoggetta... L'uomo è un essere puramente fisico; l'uomo morale non è altro che quest'essere fisico considerato relativamente ad alcune sue maniere di operare, dovute al peculiare organismo ...

L'uomo è debitore della propria esistenza al moto necessario della materia che si produce, si aumenta e si accelera, senza il concorso di verun agente esterno … La creazione non è che una parola … L'uomo perfetto é quegli che segue le leggi della natura (318).

Queste animalesche dottrine non sono quello che ci spaventa di più. Ciò che fa tremare si è che l’influenza degli studi pagani sullo spirito del giovane filosofo: A quelle mostruose asserzioni occorrono prove. Dove mai le va a cercare d’Holbach? Nel solo mondo che ei conosce, ai soli maestri che egli ammira. Di balzo ei si slancia nella classica antichità, e ne ritorna accompagnato dai filosofi della Grecia e di Roma. Poscia con aria di trionfo, esclama:

Quasi tutti gli antichi filosofi sono stati d’accordo in riguardare il mondo come eterno. Ocello Lucano dice formalmente parlando dell’universo: Esso è sempre stato e sempre sarà. Cicerone soggiunge che la perfezione dell’uomo consiste a seguire le leggi della natura (319)», che avete a dire?

Continuando la propria tesi in favore dell'eternità della materia e del moto necessario, principio generatore degli esseri, d'Holbach viene a questa conclusione: «Così contentiamoci di dire che la materia ha esistito sempre, che si muove in virtù della sua essenza, che tutti i fenomeni della natura sono cagionati dai diversi movimenti delle varie materie che in sé contiene, e che fanno sì che, simile alla fenice, rinasca continuamente dalle sue ceneri (320)»

Come farà passare cotesti nuovi errori? Mettendoli al solito sotto il patrocinio dei suoi autori classici.

«Il poeta Manilio espone cotal dottrina della classica antichità in questi bei versi:

Tutte si mutan le create cose,

E al volgersi degli anni e terra e mari

Più gli stessi non son: diverso aspetto Vestono ancor co’ secoli le genti.

Ma integro il mondo si rimane, e tutta

Serba la sua sustanza, né s'aumenta

Per lunghezza di tempo, o per vecchiezza

Punto si scema: sempre in moto e sempre

instancabile al corso; e poiché ognora

Lo stesso fu, sempre il medesmo mia» (321).



«Tale fu anche il sentimento di Pitagora, com'è espresso da Ovidio nel XV delle Metamorfosi:



«Tutto si muta, nulla muor: sospinte

Di qua, di là, di su, di giù soltanto

Sono le cose … (322).



Chi dunque oserebbe impugnare il sentimento di Manilio, di Pitagora e d'Ovidio?

Puntellato da tali autorità, d'Holbach continua intrepidamente il suo cammino e ci spiega come il Gran Tutto, e la natura, adoperi nella formazione degli esseri. Poscia aggiunge:

«Il pretendere che la natura sia governata da un’intelligenza, è un pretendere che sia governata da un essere fornito di organi, stantechè senz'organi non vi può essere né percezione, né idee, né intuizione, né pensieri, né volontà, né concetto, né operazioni (323)».

Popoli cristiani, se tale non è la vostra credenza, peggio per voi! Quello ch'io v'insegno è la dottrina del divino Platone, e del suo discepolo Aristotele, quasi divino quanto il suo maestro. Ascoltate. «La materia, dice Platone, e la necessità sono la stessa cosa; e questa necessità è la madre del mondo (324) ... Si dice che Anassagora fosse il primo che suppose l'universo sia stato creato e governato da un'intelligenza. Aristotele gli faceva rimprovero di aver impiegato questa intelligenza alla produzione delle cose, come un dio-macchina, cioè quando tutte le buone ragioni gli mancavano (325)».

Negazione della libertà, negazione dell'anima, negazione della virtù, negazione dei miracoli, negazione del peccato originale, in una parola negazione universale dell'ordine divino, tali sono le conseguenze che d'Holbach trae direttamente dalle sue dottrine, fondandosi costantemente ed unicamente, sopra l'autorità degli autori pagani (326).

Ma va più oltre, e tenta di giustificare cotesti mostruosi errori e di mostrar l'influenza disastrosa delle verità contrarie.

Se in quest'incredibile polemica egli allegasse almeno una volta Lutero, Calvino, Zuinglio o qualche altro riformatore, sarebbe una consolazione per quelli che pretendono che la filosofia del secolo XVIII sia figlia del protestantesimo: ma no: d'Holbach attiensi tenacemente ai suoi autori classici.

Vuole che si sappia per bene non aver egli avuto e non conoscere altri maestri. Stabilitasi da lui la mortalità dell'anima, aggiunge: «Allorché il domma dell'immortalità dell'anima, uscito dalla scuola di Platone, si diffuse fra i Greci, esso cagionò le più grandi sciagure ed indusse una turba d'uomini malcontenti della loro sorte a terminare la propria vita. Tolomeo Filadelfo, re d'Egitto, vedendo gli effetti che questo domma, che oggidì si riguarda per così salutare, produceva nei cervelli dei suoi sudditi, proibì d'insegnarlo sotto pena di morte (327). Molte persone, persuase dell’utilità, del dogma dell’altra vita, riguardano quelli che osano impugnarlo come nemici della società ... È facile però il convincersi che gli uomini più dotti dell’antichità hanno creduto non solo che l’anima fosse, materiale e peritura col corpo; ma hanno anche apertamente impugnato l'opinione dei castighi della vita futura. Questo sentimento non era proprio degli epicurei; ma lo vediamo ammesso dai filosofi di tutte le sette, dai pitagorici, dagli stoici, finalmente dagli uomini più santi, è più virtuosi della Grecia e di Roma.

Fra questi gran santi d'Holbac annovera Ovidio, Pitagora, Timeo Locrese, Zenone, Cicerone, Seneca filosofo, e Seneca tragedo; finalmente, i più santi di tutti, Epitetto e M. Aurelio.

«Epitetto, egli dice, ha le stesse idee in un passo degnissimo d'osservazione, riferito da Ariano: eccolo fedelmente tradotto: «Dove, andate? non in un luogo, io credo, di tormenti; non fate che ritornare al luogo donde siete venuti; sarete di nuovo pacificamente assimilati con gli elementi donde uscite. Quello che nel vostro composto era della natura del fuoco, ritornerà all’elemento del fuoco: quello che era della natura della terra, si riunirà alla terra, e quello che era aria si riunirà all'aria, e quello che era, acqua si risolverà in acqua: non vi ha punto inferno (328).

«Finalmente il saggio e pio Antonino dice: Colui che teme la morte, o teme di essere privato d'ogni sentimento, o teme di provare sensazioni penose. Se perdete ogni sentimento più non sarete soggetti né a pene né a miseria. Se siete fornito d'altri sensi d’una natura diversa; diverrete un creatura di natura differente. La morte non è che la dissoluzione degli elementi di cui è composto ciascun animale (329).

La conseguenza di queste dottrine della bella antichità, è, secondo d'Holbach, che ci dobbiamo astenere dal parlare agli uomini ed ai fanciulli specialmente, delle favole di un avvenire inutile a conoscersi e che nulla ha di comune con la presente loro felicità. Per eccitarli, alla virtù è d’uopo, ad esempio dei santi della Grecia e di Roma, ed, in modo particolare di Cicerone, parlar loro dell'immortalità delle anime coraggiose che, poco contente di risvegliare l'ammirazione dei loro contemporanei, vogliono rapire eziandio gli omaggi delle future generazioni (330).

«Non reputiamo insensato l’entusiasmo di quei vasti e benefici ingegni che hanno scritto per noi, che ci hanno guarito dei nostri errori: tributiamo loro gli omaggi che hanno aspettato da noi, mentre glieli hanno rifiutati gl’ingiusti loro contemporanei. Bagniamo delle nostre lacrime le urne dei, Socrati e dei Focioni: laviamo col nostro pianto la macchia onde il loro supplizio ha bruttato il genere umano. Spandiamo fiori sulla tomba d'Omero: Adoriamo le virtù dei Titi, dei Trajani, degli Antonini, dei Giuliani (331)».

Discepolo sino all'estremo del paganesimo classico, d'Holbach, annovera il suicidio fra i titoli all'immortalità, e dice; «I Greci, i Romani ed altri popoli cui tutto tendeva a rendere coraggiosi e magnanimi, riguardavano come eroi e come dèi coloro che recidevano volontariamente il filo di loro vita (332). E con qual diritto si biasima chi si uccide per disperazione? La morte è il rimedio unico della disperazione. Allora un ferro è l'unico amico, l'unico consolatore che rimane allo sventrato. Quando niuna cosa non sostenta più in lui medesimo l’amore del proprio essere, la vita è il massimo dei mali, e il morire è un dovere per chi vuole liberarsene (333)».

Non vi sgomenti questa sconfortante dottrina: sappiate ch'essa è quella d'uomini più saggi di voi, e specialmente del virtuoso Seneca: «Vivere infelice è un male: ma niente obbliga a vivere infelice: mille vie brevi e facili ci sono aperte per metterci in libertà (334)».

D'Holbach termina questo trattato di religione, fedelmente copiato dall'antichità greca e romana, con questa invocazione che si crederebbe scritta duemila anni addietro: «O Natura! Sovrana di tutti gli esseri, e voi figlie sue adorabili, Virtù, Ragione, Verità! Siate mai sempre le sole nostre divinità. A voi sono dovuti gl'incensi e gli omaggi della terra. Raccogliete, o divinità soccorrevoli! il vostro potere per sommettere i cuori. Cavateci fuori dall'abisso in cui ci sprofonda la superstizione. Spezzate nelle mani insanguinate della tirannide lo scettro con cui ci stritola: che l'uomo osi una volta di emanciparsi; sia felice e libero, schiavo soltanto delle vostre leggi (335)».

Dopo pochi mesi, la rivoluzione metteva in atto i desideri del barone d'Holbach. Riguardo a lui, giustificando, come gli altri filosofi, quel detto divino che si muore come si è vissuto, e che si vive come si è stato educato, morì il 21 gennaio 1789, dicendo che, come tutti gli animali, andava a ricadere nel nulla.



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CAPITOLO XXIII.



GENEALOGIA DEL VOLTERIANESIMO.



Tutti i filosofi del XVIII secolo si definiscono in due parole: anime vuole di cristianesimo ed ebbre di paganesimo - Particolareggiato confronto delle loro dottrine con quelle degli autori classici. - Sul mondo. - Su Dio. - Sull'anima - Sulla morale. - Sulla virtù. - Sulle pene eterne. - Sulla società. - Sulla forma di governo. - Sui mezzi di governare i popoli e di renderli buoni e felici. - Il dispotismo cesariano, gli onori, il carnefice, il divorzio, le cortigiane, l’abolizione della proprietà e il comunismo. - Tutte queste dottrine tratte letteralmente dagli autori insegnati in collegio.



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Gli stessi studi resterebbero a farsi sopra Diderot, Piron, Robinet, Boulanger, Lalande, Toussaint, Lamettrie, Maupertuis, Buffon, de Maillet, Locke, Cumberland. Bolingbrocke, Condillac, d'Argens, Brissot, Raynal ed alcuni altri la cui riunione forma ciò che si chiama filosofia del XVIII secolo ossia il Volterianesimo.

Ma i limiti che ci siamo prefissi non ci permettono di ampliare di più l'opera nostra. Basta il sapere che i risultamenti sono gli stessi: cioè che la vita intellettuale e morale degli uni e degli altri non è che lo svolgimento della loro educazione di collegio: intendiamo dire dell’educazione non già data dagli uomini, ma dai libri. La stessa ammirazione per l'antichità pagana, la stessa ignoranza e lo stesso disprezzo del cristianesimo.

Per una parte, affinché niuno sia obbligato a prestare fede sulla nostra sola asserzione; e per l'altra, al fine di rimuovere totalmente il velo che a certi occhi potrebbe ancora occultare la genealogia del Volterianesimo, metteremo, in un rapido quadro, a confronto tutti i filosofi del XVIII secolo con gli autori pagani. Il lettore deciderà in qual grado di parentela siano uniti.

L'ordine religioso e l'ordine sociale sono i principali obbietti delle dottrine filosofiche del passato secolo: della letteratura e delle arti non parliamo: e noto a tutti che agli occhi del Volterianesimo non vi ha né arti né letteratura fuorché presso i Greci e i Romani, o presso i loro imitatori presso il Risorgimento.

Nell'ordine religioso vuolsi distinguere il domma e la morale. Sul domma, Diderot, d'Holbach, Buffon, de Maillet, Robinet, Lamettrie ed altri negano la creazione ed insegnano che il mondo è stato formato dalle sole forze della natura: che l’acqua è il principio di tutte le cose; che il mondo è il grande animante, il gran tutto da cui escono tutti gli esseri per rientrarvi un giorno: che questo mondo è eterno.

Questa maniera di fabbricare l'universo mediante le sole forze della natura non è nuova: Anassimandro, Anassimene, Talete, Epicuro e molti altri filosofi riferiti nella classica opera di Diogene Laerzio e di Cicerone lo fabbricavano come i filosofi del secolo XVIII, mediante le sole forze della natura (336).

Buffon, de Maillet ed altri moderni fanno, uscire il mondo dall'acqua che, secondo essi, contiene il germe di tutto ciò che esiste, delle piante, degli animali, dell'uomo, che fu dapprima pesce, carpione, luccio, merluzzo. «L'acqua è il principio di tutte le cose, ci dice de Maillet: essa contiene tutti i semi … Perciò il settentrione, carico di parti acquose, sarà il luogo che gli uomini marini hanno incominciato ad abitare: per questo motivo le moltitudini innumerevoli di uomini di cui sono state inondate le parti meridionali dell’Asia e dell'Europa, sono uscite dalle regioni settentrionali ... In tutti gli uomini vi avrà sempre un segno indelebile che traggono la propria origine, dal mare. Osservatene la pelle col microscopio, e la vedrete tutta coperta di piccole squame come quella d'un giovane carpione» (337).

Questa dottrina fu pur quella di Talete che vide parimenti nell’acqua pura il principio di tutte le cose; d'Anassimandro che vide l'uomo-pesce guizzar nell'oceano prima di edificare palazzi; di Omero che cantando l'eccidio di Troja, vide gli uomini e gli dèi uscire dal seno di Teti, cioè dalle acque dell'oceano, (338).

Il mondo, grande animante, gran tutto, tutto producente e tutto assorbente, questo mondo favorito di Diderot, d’Holbach, d'Elvezio è precisamente, il mondo di Zenone, di Platone, di Speusippo, di Virgilio, di Seneca, e dei migliori autori del collegio (339).

Intorno all'esistenza di Dio, vi è divergenza fra i filosofi del XVIII secolo: affermano alcuni, negano altri: ed altri ancora ora affermano ed ora negano. Voltaire e d'Alembert dicono sì: d’Holbach e de Maillet dicono no: Robinet, Lamettrie, Raynal, Diderot, dicono ora sì ora no. Queste variazioni dipendono dal maestro da cui sono iti a scuola. Prodico, Simonide, Stilpone, Teodoro, Lucrezio sono contro Dio: Platone, Cicerone, Tacito a favore: Diagora, Protagora ed assai altri non meno spettabili sono ora a favore ora contro (340).

Intorno alla natura di Dio, le stesse opinioni tra i maestri e i discepoli. Voltaire insegna il dio grande anima, ed anima unica: gli è il dio di Virgilio, di Platone; di Pitagora, e di Zenone (341). D’Holbach insegna il dio gran tutto: gli è il dio di Senofane, il quale dice in espresse parole, che tutto ciò che esiste non fa che uno e che quest'uno è dio (342). Diderot, Boùlanger, Raynal, Voltaire e molti altri insegnano il dio tranquillo: Gli è il dio di Epicuro ed anche d'Aristotele, che non si prende pensiero di quello che qui avviene, e che ben si guarderebbe dar curare le nostre azioni per tema di disturbare il proprio riposo (343).

Intorno all’anima c’è perfetto accordo fra i moderni e gli antichi. Fréret, Lamettrie, d'Holbach, d'Argens, talvolta Voltaire ne negano l'esistenza. Allora ei ripetono gl'insegnamenti di Epicuro, d’Anassimene, di Anassagora e di Senofane (344). Poscia si ricredono e mantengono che hanno un'anima metà corpo e metà spirito: che ne hanno due, ed anche tre di specie diversa. Perché no? Aristotele ha detto ad essi ch'egli ha un'anima metà materia e metà spirito: Platone che ne ha tre, la prima delle quali ha sede nel cervello, la seconda nel petto e la terza sotto al cuore (345). Anche d’Argens riconosce di aver un'anima, ma tenuissima, sottilissima, e tutta di materia. Quest'è l’anima di Democrito, la quale altro non era che un globetto rotondo e leggiero come una piuma (346).

Diderot, la volta sua, per spirito d'emulazione vede in sé un'anima Dio, emanazione di Dio, particella di Dio: Egli ha riletto i suoi classici e vi ha veduto che tale fu l'anima di Pitagora, di Platone, d'Aristotele, di Seneca, d'Epitteto e di Virgilio cui sa a memoria (347).

Robibet che ha studiato alla stessa scuola, conta tante anime quanti ha cavoli e rape nel suo orto: ne trova nel sole, nella luna, nella terra, nei ciottoli, e sino nella sua selce che sa benissimo il momento in cui dee far fuoco. Così gli ha insegnato Talete (348).

L’anima è mortale? Elvezio, Fréret, Lamettrie, Voltaire rispondono con Lucrezio ed Epicuro affermativamente (349), Diderot protesta di non voler morire tutto intero. «Fui cane, dice egli, fui gatto, fui uomo. Perché non ritornerò un giorno sotto la tonaca di un cappuccino o sotto il soggolo d'una monachella»? Lode dunque a Diderot, il quale ci dà saggio d'avere studiato per bene Virgilio e Diogene Laerzio, in cui ha veduto che Pitagora fu dapprima Atalide figlio di Mercurio; poscia Euforbio, ferito all'assedio di Troja: poscia, Ermotimo; poscia, povero pescatore sotto il nome di Pirro; e finalmente, dopo la quinta sua morte, filosofo sotto il nome di Pitagora; senza tener conto delle altre morti dopo le quali era ora cane, ora gatto e principalmente fava (350).

Dal dogma passiamo alla morale. Esiste egli un bene o un male morale? Le virtù e i vizi sono vane parole oppure realtà? Su questo subbietto, Diderot, Fréret, Lamettrie, Voltaire, d'Holbach non sono d'accordo né fra loro né con sé medesimi. Niuna meraviglia: i discepoli non sono superiori ai loro maestri, né ad essi inferiori. Socrate, Platone, Pitagora, Zenone rispondono affermativamente; Pirrone, Aristippo, Stratone, Epicuro, negativamente (351).

Ammettiamo la virtù ed ai filosofi del XVIII secolo domandiamone la natura. - L'utile, rispondono Raynal Elvezio e molti altri. Tutto riducesi all'interesse privato o all'interesse pubblico. Questa è la pura dottrina di Aristippo, il quale diceva ai suoi discepoli: Il savio non fa nulla che per sé: di Cicerone, che soggiunge: La vera misura della virtù è nell'utilità pubblica (352).

Per tutti i Volteriani indistintamente i castighi dell'inferno e la ricompensa del cielo sono pregiudizi e chimere, buone per tenere in freno il popolo, ma di cui il filosofo ha diritto di beffarsi. Quest’è l'idea prediletta di tutti i più celebri autori dell'antichità. Converrebbe non aver letto né Cicerone, né Orazio, né Virgilio, né Plinio, né Seneca, né i tragici greci e romani, né lo stesso Platone, per ignorare che gl'iddii degli antichi non andavano in collera e non punivano; che la dottrina sui Campi Elisi e sul Tartaro non era che pel popolo e che i liberi pensatori la deridevano. Chi non sa che quegli stessi i quali credevano alla permanenza dell'anima dopo la morte, la distinguevano dalla nostra immortalità e che erano principalmente ben lontani dal credere, a motivo della metempsicosi, le pene eterne? (353)

Per Elvezio, per d’Holbach e per gli altri filosofi, il pudore, la mortificazione, l'umiltà, la castità sono virtù scaturite dai pregiudizi; e questa dottrina essi impararono in Diogene, in Epicuro, in Crate (354).

Dopo questa rapida corsa nell’ordine religioso, entriamo nell'ordine sociale.

Tutta la scuola volteriana è repubblicana e democratica: tutti gli autori classici sono repubblicani e democratici: tutto il secolo XVIII predica l'odio del monarcato e preconizza il regicidio politico: tutta l'antichità classica greca e romana predica l’odio del monarcato, e preconizza il regicidio politico.

Dopo di avere abolito la cristiana religione, negano tutti i motivi di virtù ch'essa propone e che assicurano la quiete e la felicità della società, la filosofia popone i suoi mezzi di governo: il dispotismo, gli onori, il boia, il divorzio, le cortigiane, l'abolizione della proprietà.

Il dispotismo. «Un sovrano, dicono Boulanger ed Elvezio, ha più potenza degli dèi per ristabilire e riformare i costumi. spetta dunque al sovrano di predicare: spetta a lui il riformare i costumi. .. Spetta a lui il definire l'istante in cui ciascuna azione cessa d'essere virtuosa e diventa viziosa (355). Ecco letteralmente il sistema antico in cui l'uomo, sotto il nome di Cesare, d'arconte o di areopago, raccogliendo in sé la potestà temporale e la spirituale, curvava le teste e le anime sotto il suo scettro di ferro.

Gli onori. «I titoli, dicono Elvezio e d'Holbach, gli onori, le ricompense, la stima pubblica e tutti i piaceri rappresentati da cotale stima sono le ricompense più proprie a far rinascere l’amore della virtù» (356). Così ragionava tutta l'antichità classica, e così ragionerà la rivoluzione.

Il boia. Elvezio prosegue: «Non gli anatemi della religione, ma la spada della giustizia disarma gli assassini nei civili consorzi: il boia è quegli che trattiene il braccio dell'omicida. Il timore del supplizio può tutto nei campi, e può tutto anche nelle città ... Esso rende i cittadini onesti e virtuosi … Le virtù sono dunque opera delle leggi e non della religione (357)». Quando nel 1793 i discepoli di Elvezio non riconobbero che virtù legali inaugurarono il sacerdozio del boia.

Il divorzio. Con gli occhi tenacemente fissi sui grandi legislatori di Sparta e di Atene, i filosofi del XVIII secolo preconizzano un nuovo mezzo di rigenerare le società cristiane; e questo è il divorzio, tanto conosciuto dall'antichità. E dicono: «Due coniugi cessano d'amarsi? perché condannarli a vivere insieme?... Il divorzio è una conseguenza delle leggi dei contratti... Col vietarlo si fa l'infelicità delle persone che non possono vivere insieme, e spesso le si sospingono ai più grandi delitti (358)».

Le cortigiane. Il primo apostolo di questo mezzo di governo nei tempi moderni è Voltaire: nel suo Discorso sulla felicità, esclama: «La Natura sollecita a satisfare i nostri desidèri. Vi chiama al suo dio mediante l’allettamento dei piaceri.

«Si apra la storia, soggiunge l’amico suo Elvezio, e si vedrà che in tutti i paesi dove certe virtù erano incoraggiate dai piaceri dei sensi, cotali virtù sono state le più comuni, ed hanno brillato del più grande splendore ... I piaceri dell’amore, come notano Plutarco e Platone, sono i meglio acconci ad innalzare l’animo dei popoli e la più degna ricompensa degli eroi... Essi formarono il carattere di quei virtuosi Sanniti, presso i quali, la più grande bellezza era il premio della più grande virtù ... Ricordiamoci di quelle feste, solenni, in cui le belle e giovani Spartane si presentavano seminude danzando nell'assemblea o del popolo. Qual trionfo pel giovane eroe che riceveva la palma della gloria dalle mani della bellezza! ... Si può dubitare che allora quel giovane guerriero non fosse inebriato della virtù»? (359)

L'abolizione della proprietà. Questa laida dottrina che confina con la promiscuità è letteralmente copiata dalle leggi di Licurgo e dalla repubblica di Platone: ed i moderni discepoli dell’antichità non dubitano punto di proporla siccome l'ultimo termine della sociale perfezione. «Supponiamo se si vuole (dicono) un paese in cui le donne siano in comune. In cotal paese quanti maggiori mezzi esse inventassero di seduzione tanto maggiormente moltiplicherebbero i piaceri dell’uomo ... La loro civetteria nulla avrebbe che fosse contrario alla prosperità pubblica ... I loro favori diverrebbero un incoraggiamento ai talenti ed alle virtù (360) ... Togliete la proprietà: più non vi sono passioni furiose, non più azioni feroci, non più idee, di male morale. Laonde, per troncare dalla radice i vizi e tutti i mali di una società senza darmi pensiero dei dileggi di coloro che temono la verità, la prima legge che pongo sarà concepita in queste parole: Nulla nella società apparterrà singolarmente né in proprietà a veruno, se non le cose di cui farà uso abitualmente, sia pel suo bisogno, sia pei suoi piaceri o pel suo lavoro giornaliero (361)».

Brissot, che ci spiace di non poter citare, è ancora più esplicito e fura a Proudhon il merito delle sue scoperte (362). Mably, il catechista della rivoluzione voleva appartenere ad una società che prendesse la generosa risoluzione d'obbedire alle leggi di Platone: «Non posso, sclamava, abbandonare questa gradevole idea della comunanza dei beni (363). Tutti finalmente, infatuati di paganesimo, sognavano il ristabilimento puro e semplice dell'ordinamento delle società antiche.

È tempo di por fine a questa storia genealogica del Volterianesimo, cui sarebbe facile il continuare nelle più piccole sue particolarità.

Quanto, abbiamo detto basta per autorizzarci a concludere con l'autore delle Elviane: «La pretesa filosofia moderna non è che una barbogia di oltre duemila anni che ricomparisce impiastricciata di bracca e di minio, per ringiovanire la sua pelle offuscata dai secoli ... I suoi apostoli non sono che pagani risuscitati (364)».

Tutto ciò è evidente; e quello che non lo è meno si è la risposta ai quesiti seguenti: Come mai la filosofia pagana con tutti i suoi mostruosi errori sulla religione e sulla società, è ricomparsa viva nel secolo XVIII dell'era cristiana? Come mai cotale filosofia, combattuta, disprezzata, disdegnata, aborrita durante tutto il medioevo, dopo la caduta di Costantinopoli, ha ripigliato il deplorabile suo impero in Occidente? Chi l'ha rimessa in onore? Dove mai la gioventù degli ultimi secoli ha imparato ad ammirarla? Chi ha esaltato davanti ad essa i grandi nomi di Licurgo, di Platone, di Virgilio, d'Omero e di tutti quegli uomini le cui dottrine riunite costituiscono il complesso del Volterianesimo, padre della -rivoluzione?



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CAPITOLO XXIV.



SECOLO DECIMO OTTAVO.



Quadro generale e definizione. - Memorie di Bachaumount. - Predizione dell'avv. generale Séguier. - Il paganesimo generale nel secolo XVIII. - Nelle arti, sale di Diderot. - Nelle lettere, traduzioni continue degli autori classici. - Nelle scienze, soggetti di premio proposti dall'Accademia delle iscrizioni. - Al teatro, titoli d'opere, tragedie e componimenti drammatici. - Nei costumi, Memorie di Bachaumont. - Nell'educazione, parole del P. Grou. - Cagione del male. - Passo dell'Apologia dell'Instituto dei gesuiti. -Manifestazione dello spirito pagano, espulsione dei gesuiti, scacciati dai propri loro discepoli. - Lista dei filosofi educati da essi e dagli altri ordini religiosi. – Conclusione.



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Dai fatti superiormente narrati risulta la seguente definizione del Volterianesimo e della filosofia del secolo XVIII; nell'ordine filosofico, il volterianesimo è il razionalismo: nell'ordine religioso, il naturalismo; nell'ordine morale, il sensualismo; nell'ordine sociale, il repubblicanesimo; o, in altre parole è lo sforzo perseverante di un secolo per liberarsi dell’ordine religioso e sociale fondato dal cristianesimo, per stabilire un ordine religioso e sociale fondato sull'umana ragione.

Ora, l'esercito filosofico si divide in tre corpi, ciascuno dei quali è incaricato di compiere sopra un punto speciale l’opera di distruzione e di ricostruzione: gli enciclopedisti, gli economisti, i patrioti.

Il duce supremo Voltaire combatte successivamente con questi diversi corpi, senza appartenere esclusivamente a nessuno.

«Gli enciclopedisti, perfezionando la metafisica, mezzo il più proprio a dissipare le tenebre in cui la teologia l'aveva involta, hanno distrutto il fanatismo e la superstizione.

«A costoro sono succeduti gli economisti, i quali essenzialmente occupandosi della morale e della politica pratica hanno cercato di rendere i popoli più felici, applicando l'uomo allo studio della natura, madre dei veri godimenti.

«Finalmente, i tempi di turbolenza e di oppressione hanno prodotto i patrioti, i quali risalendo all'origine delle leggi e della costituzione dei governi, hanno dimostrato gli obblighi reciproci dei sudditi e dei principi, penetrato profondamente nella storia, e fermato i grandi principii dell'amministrazione (365)».

Questo morbido linguaggio nasconde un senso nascosto. Ecco l'interpretazione veramente profetica che ne dava l'avvocato generale Séguier, nella sua requisitoria contro il Sistema della natura del barone d'Holbach. «L'empietà, dice quel magistrato, non limita i suoi disegni d'innovazione a dominare sugli spiriti ed a strappare dai nostri cuori ogni sentimento della divinità; il genio suo inquieto, intraprendente, nemico d'ogni dipendenza, aspira a sconvolgere tutte le istituzioni politiche. I suoi voti non saranno pieni se non quando avrà distrutto quell'ineguaglianza necessaria di grado e di condizione, quando avrà invilito la maestà del re, resa precaria la sua autorità e subordinata ai capricci di una turba cieca, e quando finalmente, coll’aiuto di questi strani mutamenti, avrà precipitato l'intero mondo nell’anarchia ed in tutti i mali, che ne sono inseparabili (366)». Abbiamo passato in rassegna l'esercito filosofico ed abbiamo dimostrato che tutte le sue dottrine antireligiose ed antisociali si trovano letteralmente ed esclusivamente negli autori pagani di cui era stato nutrito. Così, a meno che si voglia negare che il loglio proviene dal loglio, a meno che si voglia negare ai filosofi una genealogia di cui si fanno gloria, e che conoscono meglio di ogni altro, non si può dubitare che il Volterianesimo sia nato dal Risorgimento e dagli studi di collegio.

«Sì, dicono ancora ai nostri giorni, siamo filosofi e rivoluzionari e ne siamo orgogliosi; ma siamo i figli del Risorgimento prima di esserlo della filosofia e della rivoluzione (367)». Una nuova prova s'aggiunge a puntellare questo discorso. Cadrebbe in inganno chi riguardasse Voltaire, Rousseau, Elvezio, Mably ed i principali loro commilitoni come eccezioni. Nel secolo XVIII la gioventù letteraria, presa in generale, era, a diversi gradi, imbevuta degli stessi principi, detestava le medesime cose, partecipava alle stesse ammirazioni e manifestava le stesse tendenze. Dal collegio, il paganesimo raggiava sopra tutta la società, la investiva del suo spirito e la trasformava attivamente nell'immagine della classica antichità.

Che facevano nel secolo XVIII quella folla di pittori, di scultori, d'incisori, d'artisti in ogni genere i cui nomi sono appena giunti sino a noi? Se vuolsi saperlo, si faccia una corsa nella sala di Diderot (368). Si vedrà che la costante loro occupazione è di riprodurre all'infinito i subbietti della storia e della mitologia pagana, o di trasformare in dei e in dee dell'Olimpo re, nostre vergini ed i nostri martiri. Visitandone le gallerie, l’abitante di Roma, d’Atene e di Pompei si troverebbe nel proprio paese, Augusto che chiude il tempio di Giano, le Grazie, le Vestali, Giove cangiato in pioggia d'oro, Traiano, Ippomene, ed Atalanta, Marcaurelio, Achille, Artemisia alla tomba di Mausolo, Minerva, il gran sacerdote Coreso, che si sacrifica per Calliroe; pastorali degne dei freschi di Pompei e riflessioni di Diderot degne delle pastorali: ecco quello che da tutte le parti si dispiega. Osservate anche i mobili, i bronzi, le tappezzerie, le decorazioni degli appartamenti e ditemi se tutto ciò non è il paganesimo in tutta la sua disinvoltura!

Che cosa facevano gli umanisti? Tradurre, chiosare, postillare, illustrare per la centesima volta gli autori pagani e specialmente Tacito, nemico dei despoti, per preparare, scienti o no, il terribile scoppio che doveva scrollare tutti i troni e abbandonare allo spregio dei popoli o al ferro del carnefice i re ed i principi trasformati in tiranni (369).

Che facevano i corpi scientifici, i principi della letteratura? Il miglior modo di saperlo è il leggere le Memorie dell'Accademia delle iscrizioni, relative quell’età. Ecco alcuni soggetti di premio proposti dal 1736 al 1789 dalla grave assemblea.

Nel 1736: «Quali erano le leggi comuni ai popoli della Grecia, che costituivano il corpo ellenico?»

Nel 1738: «Quali erano le leggi dell'isola di Creta? Se Licurgo ne fece uso in quelle che diede a Sparta».

Nel 1739: «Quali erano il mese e il giorno dell'anno romano in cui i consoli entravano in carica?

Nel 1744: «Quante volte il tempio di Giano è stato chiuso?

Nel 1744: «Quali erano nella Grecia i sacerdozi annessi a certe famiglie?»

Nel 1745: «Quali erano i diritti delle metropoli greche sulle colonie?»

Nel 1750: «Quale fu l'autorità del senato romano sulle colonie romane?

Nel 1753: «Quali furono l'origine, il grado e i diritti dei cavalieri romani?

Nel 1754: Quale fu il sistema religioso che Dionigi d’Alicarnasso accerta essere stato speciale ai Romani?»

Nel 1755: «Quali erano gli attributi d'Osiride, d’Iside e di Oro?»

Nel 1756: «Quali erano gli attributi di Giove Ammone?»

Nel 1757: «Quale era lo stato delle città e delle repubbliche situate nel continente della Grecia europea?»

Nel 1758: «Quali erano gli attributi d'Arpocrate e di Auuhi? Nel 1759: Se Serapide era una divinità originaria d'Egitto?»

Nel 1760: «Quali idee gli Egiziani si formavano di Tifone?»

Nel 1761: «Quali sono i nomi che l'antichità ha dato al Nilo?»

Nel 1762: «Quali erano le divinità inferiori dell'Egitto?».

Nel 1763: «Quali erano i diritti e le prerogative del pontefice massimo di Roma sui sacerdozi della città e delle province?»

Nel 1764: «Quali erano le diverse classi dei sacerdoti egiziani, i loro segni distintivi, le loro funzioni e i loro sacrifizi?»

Nel 1765: «Per quali ragioni le leggi di Licurgo si sono alterate presso i Lacedemoni?

Nel 1766: «Quale educazione gli Ateniesi davano ai loro figli nei secoli fiorenti della Repubblica?»

Nel 1766: «Quale era il vestimento dei due sessi, presso gli Egiziani prima del regno dei Tolomei?»

Nel 1767: «Quali erano gli attributi di Saturno e di Rea?»

Nel 1768: «Quali erano gli attributi di Giove in Grecia e in Italia?

Nel 1770: «Far l'esame critico degli storici d'Alessandro»

Nel 1771: «Quali erano i nomi e gli attributi di Giunone nella Grecia e in Roma? »

Nel 1772: «Quali erano i nomi e gli attributi di d'Apollo e di Diana nella Grecia e in Italia? » Nel 1773: «Quali erano i nomi e gli attributi di Minerva nella Grecia e in Italia? ».

Nel 1774: «Qual era lo stato dell'agricoltura presso i Romani sino a Giulio Cesare?»

Nel 1775: «Quali erano i nomi e gli attributi di Venere nella Grecia e in Italia?».

Nel 1776: «Qual era lo stato dell'agricoltura presso i Romani da Cesare fino a Teodosio?

Nel 1777: «Quali erano i nomi e gli attributi di Cerere e di Proserpina nella Grecia e in Italia?»

Nel 1779: «Quali erano i nomi e gli attributi di Plutone e delle diverse divinità infernali, eccettuata Proserpina?»

Nel 1787: «Quali furono l'origine, i progressi e gli effetti della pantomima presso i Romani?»

Nel 1789: «Se l'ostracismo ed il petalismo hanno contribuito al mantenimento o alla decadenza delle repubbliche della Grecia? (370)»

Ecco quali erano, alla vigilia della rivoluzione, gli studi di cui si occupavano e di cui occupavano la letterata Europa i più gravi fra gli uomini di lettere del XVIII secolo!

Che facevano gli altri? E di che occupavano quella parte frivola ed oziosa della società che chiamasi il bel mondo? Per unica risposta, riferiamo i titoli delle principali produzioni teatrali, rappresentate dal 1712 al 1743.

Balli: Idomeneo, Creusa, gli Amori di Marte e Venere, Medea e Giasone, gli Amori mascherati, Adone, le Feste di Talia, Calipso, Teoneo, Aiace ed Ipermnestra, Arianna e Teseo, il Giudizio di Paride, Semiramide, gli Amori di Proteo, Piritoo, le Feste greche e romane, Telegono, gli Stratagemmi dell'Amore, Piramo e Tisbe, gli Amori degli Dei, Orione, gli Amori delle Dee; Endimione, il Ballo dei sensi, l'Impero dell'Amore, Achille e Deidamia, … ed altri.

A lato dei balli, specialmente riservati per la corte e l’alta nobiltà, prendono luogo le rappresentazioni drammatiche, a cui la nobiltà e la borghesia assistevano con eguale interessamento:

I Giuochi dell'Amore, Callistene, l'Innamorato senza sapere di esserlo, il Divorzio, l’Isola del Divorzio, Bruto, … e ne omettiamo tante altre e delle migliori. Intanto il paganesimo che aveva invaso il mondo letterato, che parlava per organo dei filosofi, che si svolgeva in articoli scientifici nelle memorie delle accademie, che dall’alto dei teatri si introduceva per tutti i sensi sino al midollo delle anime, produsse costumi consonanti con le sue dottrine. Che cosa erano le cene del reggente? le veglie di Luigi XV? Le riunioni dei grandi signori nei loro palazzi in città e nelle loro castella? Qual parte rappresentavano le cortigiane e le attrici? (371)

I più illustri nomi della Francia congiunti coi nomi delle Arnoux, delle Deschamps, delle Leclerc, delle Guimard, delle Mazzarelli e d'una turba di altre (372).

Ratti, scandalose fughe, più scandalosi matrimoni; e Parigi spendere ogni anno cinquanta milioni per stipendiare illustri infamie (373).

Poscia tutta quella corrotta - nobiltà, tutta quell’oziosa borghesia, tutta quella classe di letterati, ad imitazione dei Romani degenerati al tempo di Tiberio: recitar la commedia in città e in campagna, comporre a gara versi galanti e madrigaletti screziati di Venere e di Cupido, recitarli come intermezzi nelle loro cene in casa le Tencin, le Graffigny, le Geoffrin, ed altre dame più o meno filosofesse (374).

La stessa morte non la trae quasi più dalla vita sibaritica in cui è tuffata. Allora incomincia il suicidio; allora è in voga il morire come gli stoici e gli epicurei dell'antichità, con l'insensibilità nel cuore e col motteggio sulle labbra. È nota, la fine di Voltaire, di d'Alembert e dei principali modelli di quel secolo. Ecco, in fra gli altri qual fu il fine d’uno dei molti loro discepoli.

Versi del conte di Maugiron, luogotenente generale, un'ora prima della sua morte:

Suona già l'ora estrema!

Pastori e pastorelle.

Le mie palpebre a chiudere venite.

De' vostri baci al mormorio soave

Placidamente l'alma mia si spenga.

Nelle braccia d'Amore

Finir così la vita

Non è sentir la fredda man di morte

Ma un addormirsi d'un bel dì al tramonto»



Il signor di Maugiron abitava in casa del vescovo di Valenza: il clero rendevasi sollecito di recargli i soccorsi spirituali, allorché egli si voltò e disse al suo medico: «Li burlerò bene io! e credono di agguantarmi, ma io me ne vado». Ciò detto morì (375).

Il clero stesso, poiché vuolsi ricercare la piaga fino al vivo, il clero in assai dei suoi membri paga il proprio tributo allo spirito classico del secolo XVIII. Lo si vede a svolgere gli autori pagani molto più delle Scritture (376), esaltare i Greci e i Romani, e renderli in ogni guisa popolari; e, per conseguente, arrossire del cristianesimo, come quel gran Vicario di Cahors, di cui Bachaumont narra il fatto seguente:

«28 Agosto 1765. Il panegirico di San Luigi recitato il 25 di questo mese nella cappella del Louvre dall'abate Bassinet gran Vicario di Cahors, fa grande rumore. Gli vien fatto rimprovero d'aver convertito in cerimonia assolutamente profana quest'elogio consacrato specialmente al trionfo della religione. Ha soppresso persino il segno di Croce. Nessun testo, nessuna citazione della Sacra Scrittura; neppur una parola di Dio e dei suoi santi. Ei non ha riguardato Luigi IX che dal lato, delle virtù politiche, guerresche e morali (un eroe di Plutarco). Ha vituperato le crociate ed ha urtato di fronte la corte di Roma (377)».

Altrove l'abate Legendre, prozio della duchessa di Choiseul, scrive commedie, l'abate di Prades, aiutato dall'abate Yvon, nel 1751, in piena Sorbona sostiene una tesi in favore del materialismo (378). L’abate di Bernis mette in rima le Georgiche francesi e le quattro parti del giorno (379).

L'abate Corné, canonico d'Orléans, nel giorno di Pasqua 1772, predicando a Versaglia davanti il re, sdegna di fare il segno di croce.

«Sua Maestà si rivolse verso il duca d'Ayen, suo capitano delle guardie, e gliene dimostrò il proprio stupore: «Vedrete, Sire: rispose il motteggiatore, che gli è un sermone alla greca». L'oratore infatti incominciò: «I Greci ed i Romani, ecc.» Il re non si poteva tenere dal ridere, ed il predicatore confuso, provò in tutto il suo discorso l'effetto di quel motteggio (380)».

Perciò, filosofia, arti, scienze, teatri, idee, costumi, spirito generale tutto quel secolo ha un colorito ben carico di paganesimo.

«Panem et circenses; pane e giuochi del circo, questo era, esclama, un testimonio oculare, la divisa del popolo romano, e tale è quella del popolo francese (381)». In termini più espliciti lo dice uno degli educatori di quel secolo, il quale non ha potuto non riconoscere il fatto e segnalarne la cagione.

La nostra educazione è tutta pagana, esclama dolorosamente P. Grou della Compagnia di Gesù. Non si fa leggere ai fanciulli nei collegi e nelle case che poeti, oratori e storici profani ... Non so qual confuso miscuglio si formi nelle loro teste delle verità del cristianesimo e delle assurdità della favola, dei veri miracoli della nostra religione e delle ridicole meraviglie raccontate dai poeti, e principalmente della morale del Vangelo e della morale umana e tutta sensuale dei pagani. Non dubito che la lettura degli antichi, sì poeti e sì filosofi, non abbia contribuito a formare quel gran numero di increduli che sono comparsi dopo il Risorgimento delle lettere.

«Questo gusto del paganesimo contratto nell'educazione pubblica o privata si spinge poscia nella società ... Non siamo idolatri, è vero, ma non siamo cristiani che al di fuori, seppure la maggior parte dei letterati oggidì lo sono, e in sostanza, siamo veri pagani e per lo spirito e pel cuore e per la condotta. (382)

Sotto un altro aspetto Voltaire provava il fatto medesimo: «Veggo con piacere, scriveva egli, che in Europa si forma un’immensa repubblica di spiriti colti: la luce si comunica da tutte le parti. Da circa quindici anni si è fatta una rivoluzione negli intelletti che segnerà un'epoca. Le grida dei pedanti annunziano questo gran mutamento, come il crocidar dei corvi annunzia il bel tempo ...» E altrove: «Fra vent'anni Iddio avrà bel giuoco (383)».

Tutto ciò pur troppo era vero. Ora, all’avvicinarsi della procella il cui cupo brontolio si faceva udire di lontano, al cospetto di quella società che cadeva a brandelli, rosa dal razionalismo e dal sensualismo, cioè dal paganesimo nella duplice sua manifestazione intellettuale e morale, che si faceva nei collegi? Invece, d'agguerrire fortemente la gioventù nello spirito cristiano mediante lo studio profondo del pensiero cristiano, sociale, storico, letterario e nazionale, la si nutriva quasi unicamente di autori pagani: la si faceva vivere coi Babilonesi, con gli Egiziani, coi Greci, e coi Romani; le si facevano rappresentare commedie e tragedie pagane; le s'infondeva con ogni mezzo l’amore della bella antichità, dei suoi grandi uomini e dei suoi grandi fatti (384)

E se ne menava vanto! Per ottenere grazia avanti a quel secolo, uscito quasi interamente dai loro collegi, i gesuiti minacciati nella loro esistenza credono di dover richiamargli a memoria che la loro compagnia non la cede a niuno nell’ammirazione degli autori pagani, e che niuno ha posto maggior cura d'insegnarli.

Il loro difensore, P. Cerutti, discorre così: «I fatti che l’Istituto vuole scolpire nella memoria della gioventù sono di loro natura i più interessanti (385). È il Quadro dei Romani tratteggiato, o dal pastoso pennello di Tito Livio, o dall’ardita mano di Sallustio, o dal profondo bulino di Tacito. È la storia greca, scritta con tanta forza e rapidità da Tucidide, con tanta amenità e abbondanza da Senofonte, con tanta erudizione e con tanto senno da Plutarco.

«Le belle lettere sono il pascolo che l’istituto presenta all'immaginazione .. Per belle lettere si dee intendere in particolar modo l’eloquenza e la poesia. L’una e l’altra in Roma e in Atene, come nel terreno più proprio e più profondo, misero le più profonde radici, e s'innalzarono alla più alta cima di loro grandezza. Quali oratori Demostene e Cicerone! Quali poeti Omero, Pindaro, Virgilio, Orazio! Quali ornamenti pel loro secolo! Quali modelli pei secoli futuri! Questi sono che l'Istituto vuole si propongano alla gioventù (386).

Il che vuol dire: Ecco quello che siamo: ecco la manna squisita di cui vi abbiamo nutrito: e voi ci discacciate! Ingrati figli!

Giunge infatti il momento di raccogliere quello che si seminato; allora si manifestano i risultati dell'educazione, piamente pagana, data alla gioventù. L'elemento pio svanisce, e l’elemento pagano scoppia con estrema violenza. La gioventù letterata proclama, al cospetto dell'Europa, coloro ch'essa riconosce nei suoi veri maestri, ed i cui insegnamenti vuol mettere in pratica; come pure coloro ch’essa riguarda come suoi maestri di studi; di cui detesta l'abito e il nome e ch’essa disprezzerebbe, se le loro virtù non ne rendessero impossibile il disprezzo. Si stupisce al vedere che nel secolo XVIII i gesuiti furono espulsi dalla Francia, dalla Spagna, dal Portogallo, e da Napoli dai propri loro alunni, come lo furono ai giorni nostri da Friburgo, da Torino e da Roma. Per non parlare che della Francia, la lista seguente, sebbene assai incompleta, sembra che contenga un grave ammaestramento.

L'antesignano della crociata contro la compagnia di Gesù e contro la religione, Voltaire fu educato dai gesuiti: Elvezio, dai gesuiti; Condorcet dai gesuiti; Diderot, dai gesuiti; d'Argenson, dai gesuiti; Raynal, dai gesuiti; Turgot, dai gesuiti; Dupuy dai gesuiti; De la Porte, dai gesuiti (387); Millot, dai gesuiti; Chauvelin dai gesuiti (388); Ripper di Monclar, dai gesuiti; Prévost, dai gesuiti; d'Olivet, dai gesuiti; Morellet, dai gesuiti; Marmontel, dai gesuiti; Piron; dai gesuiti. Tutti i parlamenti che ne pronunziarono l'espulsione erano composti dei loro alunni, e la maggior parte dei letterati che li perseguitarono con le loro satire uscirono dai loro collegi (389).

Al vedere questo fatto doloroso si chiede da che mai era originata quest'avversione verso maestri rispettabili in una generazione per le loro cure allevata? E come mai questa stessa avversione si è manifestata ai giorni nostri laddove avrebbe dovuto esistere meno? Come accade, per esempio, che i gesuiti sono stati espulsi da Friburgo, da Torino, e da Roma dai loro propri discepoli, non con le grida di Giansenio, di Lutero o di Calvino, ma con le grida di Viva la Repubblica, viva Cicerone, viva Bruto?

Dagli educatori degli altri ordini religiosi, barnabiti, oratoriani, dottrinari, canonici regolari di Santa Genoveffa e del clero secolare uscirono: d'Alembert, d'Holbach, Boulanger, il cardinal Dubois a Parigi: Volney, ad Angers; Condillac a Grenoble; Parny a Rennes; ed altrove: Duclos, Toussaint, d’Argens, Andra, l'abate di Prades, che Federico chiamava il suo piccolo eretico; Chastellux, Brissot; ed una turba di molti altri che vengono a dar la mano a Robespierre, a Saint-Just, a Camillo Desmoulins, a Billaud- Varennes, a Grégoire, a Talleyrand, a Couthon, a Chazal, a tutta la progenie rivoluzionaria del 1793, uscita dai medesimi collegi.

Finalmente tutti i libertini della Reggenza, tutti gli enciclopedisti, tutti i filosofi pagani del XVIII secolo, tutti gli avvocati, letterati, medici, giornalisti che prepararono e compirono la rivoluzione, furono educati in istituti ecclesiastici da istitutori religiosi.

«Di che è d'uopo concludere che per fare buoni cristiani non bastano i buoni professori.

«E vuolsi concludere eziandio: o che l'educazione e l'istruzione non hanno veruna influenza nell'intelletto e nel cuore dei giovani; oppure che l'educazione e l’istruzione che si è data alla gioventù cristiana nel secolo XVIII era detestabile.

«Sotto qual aspetto cotal educazione ed istruzione erano cattive? non già dal lato dell'insegnamento religioso: ché se ciò si sostenesse, si calunnierebbe la Chiesa; neppur dal lato dell'esempio dato dai maestri; chi osasse dir questo ingiurierebbe tutte le congregazioni religiose, ed in particolar modo i gesuiti, i cui costumi, per confessione dello stesso d'Alembert, erano immuni, da qualunque rimprovero (390).

«Ora, tutta l'educazione consiste in tre cose: nella purezza dell'insegnamento religioso, nella moralità dei maestri e nell’insegnamento letterario. Se non è possibile di accusare l'insegnamento religioso, e neppur la moralità dei maestri del XVIII secolo, conviene ben concludere che fu il loro insegnamento letterario che cagionò e la loro ruina e la corruzione della società (391)».

La prova che la corruzione delle idee e dei costumi nel XVIII secolo proviene dall'insegnamento letterario, e non proviene che da esso, l’abbiamo dimostrata scritta in ciascuna pagina della storia di quella vergognosa età; in ciascun verso della vita e delle opere dei sedicenti filosofi; in ciascun atto della risoluzione: in ciascuna frase degli oratori della Convenzione; in tutte le deposizioni dei testimoni oculari a favore o contro di quella terribile catastrofe.

Questa prova è stata da noi dimostrata e tutti possono come noi vederla ancor viva a Versaglia, a Compiègne, a Fontainebleau, al Lovero, ad Anet, in tutti i castelli reali o principeschi, nei giardini e nelle piazze pubbliche, ornati, unicamente, nel XVIII secolo, delle statue e delle pitture degli eroi delle divinità del paganesimo: Essa è ancor viva e l'abbiamo veduta nei titoli e nell'argomento delle produzioni letterarie, delle produzioni delle opere drammatiche, degli studi storici e scientifici, dei o lavori delle arti meccaniche e liberali dello stesso tempo.

Ora se nel sistema d'insegnamento seguito e seguito di buona fede dai suoi religiosi istitutori quello sciagurato secolo ha preso quella sua tendenza al paganesimo, scongiuriamo qualunque uomo imparziale a dire se sia cosa saggia, lecita, dopo la fattane esperienza di continuare un simile sistema?

«Si spera forse oggidì di essere più esperto del P. Porèe, maestro di Voltaire e d'Elvezio; degli abati Proyart e Royon, maestri di Camillo Desmoulins e di Robespierre; più esperto, più previdente e principalmente più fortunato dei de La Rue, dei Jouvency, dei Brumoy, dei Cervier, dei Rollin, maestri tanto pii, tanto istruiti e tanto esercitati nella difficile arte di educare la gioventù? Si ha forse fiducia di prendere precauzioni da essi trascurate, di amministrare antidoti da essi non conosciuti? Si ha un mezzo sicuro, efficace, sperimentato d'ammorzare gli effetti dell’insegnamento classico e pagano sull'intelletto e sul cuore dei giovani?

«Se si è ritrovato cotal mezzo, è un delitto il tenerlo occulto; o se non si è trovato, come mai si osa dire: Continuate ad insegnare come hanno insegnato i padri nostri; continuate ad insegnare come se i pii istitutori dalle cui mani sono usciti tutti i volteriani e tutti i rivoluzionari: non c'è da mutar nulla (392).

Si risponderà certamente:

1° Che uno spirito maligno soffiava sul secolo XVIII: che cotale spirito anticristiano ed antisociale pervertiva giovani all'uscita di collegio, e che questa è la cagione vera del volterianesimo;

2° che l'insegnamento letterario della fine del XVI secolo e di tutto il XVII, tanto pagano quanto quello del secolo XVIII, ha però prodotto una generazione cristiana e virtuosa.

L’esame di cotal questione sarà obbietto di altre nostre investigazioni.


FINE DELLA PARTE QUINTA


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LA RIVOLUZIONE



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PARTE SESTA

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PROEMIO



Nella parte quinta di questa opera è stato evidentemente provato:

1° Che il Volterianesimo, o la filosofia del secolo XVIII, ha gagliardamente contribuito alla rivoluzione francese, nell'ordine religioso e nell'ordine sociale;

2° Che anzi, per parlare esattamente, il Volterianesimo altro non è che la rivoluzione attuatasi nelle menti, aspettando tempo di manifestarsi nei fatti;

3° Che il Volterianesimo ha costantemente sostenuto che i veri lumi, la vera libertà, la vera civiltà, non si trovavano che nelle repubbliche di Sparta, d'Atene e di Roma; che il regno, sociale del Cristianesimo era stato un periodo di barbarie, di schiavitù e di superstizione; e che quest'età di ferro non era cessata in Europa che facendo tempo dal Risorgimento.

4° Che il Volterianesimo non ha cessato di prendere per tipo della perfezione l'antichità pagana, la sua filosofia, la sua morale, i suoi grandi uomini, le sue arti, la sua letteratura, le sue istituzioni sociali: che ha messo in opera tutti i suoi sforzi per persuadere alle, nazioni che il vero mezzo di rigenerazione era il rifarsi, per quanto fosse possibile, a somiglianza dei Greci e dei Romani;

5° Che il Volterianesimo é uscito tutto intero, dai collegi cattolici, sì riguardo alle persone e sì riguardo alle dottrine. Riguardo alle persone, tutti i volteriani sono stati educati dal clero secolare e regolare: riguardo alle dottrine, tutte, senza eccezione, trovansi letteralmente negli autori classici, e soltanto in essi.

6° Che il Volterianesimo non è stato prodotto né dall'insegnamento dei professori, che era ortodosso, né dai loro esempi che erano irreprensibili, ma unicamente dall'insegnamento letterario;

7° Che il Volterianesimo ha provato egli stesso tale genealogia, adorando gli autori pagani, e, discacciando i suoi maestri ecclesiastici.

8° Che il Volterianesimo non può essere riguardato né come un'aberrazione momentanea, né come un eccezione malaugurata, composta soltanto di alcuni individui: ma tutto il XVIII secolo, nella generalità delle classi letterate, era volteriano, cioè pagano nelle idee, nel linguaggio, nei costumi, nella vita e in morte:

Per evitare la conseguenza che scatta da questi fatti, e per difendere gli studi classici, si dice:

«Nel XVIII secolo spirava sull'Europa un soffio d'empietà che pervertiva la gioventù all'uscir di collegio. Questa è la terribile cagione del Volterianesimo; l'educazione letteraria non vi ha parte, oppure assai piccola».

Questa risposta allontana, ma non risolve la difficoltà. Si tratta di sapere quale fosse cotesto spirito d'empietà e donde venisse.

Si ripiglia: «Era nell’ordine sociale, lo spirito di indipendenza, lo spirito repubblicano provocato dal Cesarismo, cioè dall'assolutismo dei re, e specialmente di Luigi XIV, contro cui, già da lungo tempo, nelle alte classi formavasi una terribile reazione.

Nell’ordine religioso era il libero pensare, nato dal Protestantesimo. Ecco per qual motivo il Volterianesimo non è stato altro, che una guerra incessante contro la società e contro il cattolicismo».

Da una parte il Cesarismo, dall'altra il Protestantesimo, sarebbero questi adunque gli antenati del Volterianesimo o della filosofia del XVIII secolo. Nonostante le difficoltà ond'è inviluppata questa soluzione, non la ripudiamo però. Ma il Cesarismo ed il Protestantesimo non sono nati da se stessi; anch'essi hanno le loro cause. Per muovere innanzi un passo nella nostra storia genealogica del male, è d'uopo dunque che ci rivolgiamo al Cesarismo ed al protestantesimo, e che loro domandiamo, come abbiamo fatto pel Volterianesimo e per la rivoluzione: Di chi siete figli? qual è la vostra genealogia? La risposta del Cesarismo darà materia a questa sesta parte: quella del protestantesimo sarà, subbietto della seguente.

Nelle gravi contingenze in cui versa l'Europa, al cospetto di eventualità forse più gravi per l'avvenire, ci sembra difficile il trattare un suggetto più imperlante, sotto il duplice aspetto della religione e della società. L’avvenire sarà figlio del presente, come il presente è figlio del passato: se non sappiamo donde veniamo è impossibile il sapere dove andremo.




IL CESARISMO

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CAPITOLO I.





IDEA DEL CESARISMO.



Importanza della questione.-Definizione del Cesarismo. - Sua origine. ­ Sua storia nell'antichità - Esso fonda l'ordine religioso e sociale sulla sovranità dell'uomo. - Questa sovranità dal popolo passa a Cesare.­ La legge Regia. - Diritti e prerogative di Cesare. - Parole di Gravina, di Terrasson. - Articolo della legge Regia. - Risultamenti del Cesarismo nell'antichità.



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Il male, entrando nel mondo, ha prodotto il dualismo: da ciò, due uomini nell'uomo e due città sulla terra: da ciò parimente, due filosofie, due letterature così opposte fra di loro quanto gli spiriti che le animano, i principi da cui partono, i mezzi che impiegano e lo scopo a cui tendono. Da ciò, per una conseguenza non meno assoluta, due politiche: la politica del bene e la politica del male; la politica cristiana e la politica pagana. Col farle conoscere amendue, si mette avanti agli occhi delle nazioni la vita e la morte, perché è un mostrare ad esse le due vie, l'una delle quali conduce alla felicità, l’altra all'abisso.

Il mezzo più sicuro di riuscirvi e ad un tempo più conforme al disegno della nostra opera è di delineare a grandi tratti la storia di queste due politiche, e dei loro generali risultamenti nel mondo, nelle diverse età del loro regno. Incominciamo dalla politica pagana, che noi chiamiamo cesarismo.

Una medaglia rappresentante un imperatore con questa leggenda: Divus Cesar, imperatore et summus pontifex: il divo Cesare, imperatore e sommo pontefice, ecco il Cesarismo.

In fatto, il Cesarismo è la riunione della sovranità temporale e della sovranità spirituale in mano dell'uomo, cui l’uomo chiama popolo, senato, imperatore o re, In diritto, è la dottrina che pretende di fondare un ordine di cose sopra una tal base.

In questo sistema, l’uomo sociale, emancipato dalla tutela delle leggi divine, regna senza sindacato sulle anime e sui corpi. La sua ragione è la regola del vero, la sua volontà è la fonte del diritto. Lo scopo supremo della sua politica è la prosperità materiale, senza relazione alcuna con la prosperità morale.

I futuri destini dell'umanità non entrano punto nei suoi computi: per lui la religione non è che uno strumento di regno: egli l'ha in mano e la governa come qualunque altro ramo della pubblica amministrazione, mediante sacerdoti suoi funzionari ed agenti. Finché il suo interesse lo richiede e dentro i limiti in cui lo richiede, la fa rispettare; altrimenti l'abbandona ed anche la perseguita. Purché rassodino la sicurezza del godimento, contenendo il popolo nel dovere, tutte le religioni, per quanto siano contraddittorie, sono buone ai suoi occhi: le protegge tutte senza aver fede in nessuna.

La medesima supremazia anche nell'ordine sociale. Tutto viene dall'uomo, all'uomo ritorna tutto. Egli mediante un contratto steso da lui, soscritto da lui, fondò le società. Crea e delega il potere col diritto di ripigliarlo e misura a ciascuno la libertà, e, se è d'uopo, la proprietà; costituisce la famiglia; dà l'educazione; governa le fortune: nulla sfugge alla sua sovranità.

Come ognun vede, il Cesarismo, abbozzato nelle sue grandi linee è l’apoteosi sociale dell'uomo. In principio è la promulgazione dei diritti dell'uomo contro i diritti di Dio; e, nel fatto, il dispotismo innalzato all'ultima sua potenza. Tale fu il sistema che resse il mondo antico.

Questo sistema ebbe cominciamento quel giorno in cui l'uomo, con un solenne di ribellione, proclamando la propria indipendenza, divenne a sé medesimo il proprio dio: eritis sicut dii, secondo il detto profondo del sacro testo. Invece di governare sé e di governare le cerature a norma dei divini voleri, governò tutte le cose secondo gli arbitrari suoi voleri. Lo stato sociale, fondato sopra un’audace ribellione, ne fu il castigo: schiavitù uguale non si aggravò mai sopra il mondo. Sotto i diversi nomi di Popolo e di Cesare l'uomo la impose e vi soggiacque a vicenda.

Lasciando di esaminare se i pagani ammettessero o no, in teorica, l’origine divina del potere, egli è certo che, nella pratica generale, si attenevano pel no. Al principio tutte le loro storie ci rappresentano l'uomo sotto nome di popolo, come fonte dell'autorità, operante pel proprio interesse e non per l'interesse della divinità. Non già per praticare più perfettamente la legge di Dio, ma per satisfare più agevolmente ai propri i desideri e per meglio provvedere a sue necessità instituisce società. Se gli dei, e quali dèi! Intervengono, non è che pura formalità; la religione non è un fine, ma un mezzo di governare. Sparta, Atene, Roma, le altre repubbliche della classica antichità non muovono da diverso principio, non hanno altra regola di condotta (393). Ivi, in principio, ogni cosa s'inchina non davanti alla maestà degli dei, ma davanti alla maestà del popolo. Re, fa le leggi, crea i magistrati, i senati, gl'imperatori: li giudica, gli assolve o li condanna. Pontefice, interpreta a suo senno la legge naturale, di cui conserva alcuni frammenti: instituisce sacerdozi, adotta e fabbrica dii, stabilisce feste, prescrive riti, ordina sacrifici e sceglie le vittime; dà, toglie, divide la proprietà; regola i maritaggi; proscrive o comanda la poligamia e il divorzio. S'impossessa del fanciullo appena nato, gli lascia o gli toglie la vita, lo alimenta per proprio conto; e lo educa a proprio profitto; in una parola, sotto il nome di Popolo, l'uomo ribellato s'arroga tutti i diritti di Dio e li esercita senza sindacato.

Tale è, finché sussistettero le repubbliche, il ferreo giogo che pesò su quelle città famose che una mendace educazione e bieca ci rappresenta da quattro secoli, siccome, il tipo della perfezione sociale ed il paradiso della libertà.

Col tempo, le nazionalità del mondo antico vanno a perdersi nell'impero fondato da Romolo. Allora il popolo romano, signore di tutti i popoli, diviene per eccellenza il Popolo-Re che poi personifica sé stesso in un uomo chiamato il divo Cesare. A quest’uomo individuale si trasferiscono tutti i diritti, tutte le prerogative religiose e sociali dell'uomo collettivo o del popolo, cioè del popolo romano e insieme degli altri popoli, di cui questi è il dominatore e l'erede. Re, pontefice e dio, Cesare regna sovranamente sul mondo. Re e pontefice, fa nell'ordine sociale e religioso tutto quello che faceva il popolo: esso è la legge viva e suprema: questa legge obbliga gli altri, non lui. Come dio, si attribuisce i titoli e le prerogative della divinità; parla della propria eternità e delle divine sue orecchie (394). Da vivo, si fa offrire sacrifici, e condanna all'estremo supplizio coloro che ricusano di parteciparvi; da morto, ha templi ed altari (395)

Un ordine di cose si stabilisce sul domma dell'onnipotenza e della divinità di Cesare. Se non che se un tempo si adorava il popolo, ora si adora il divus imperator. La maestà di quello si tramuta nella maestà di questo (396). Mentre gli antichi legisti dicevano: «Ogni volontà del popolo è legge», i giuristi imperiali dicono: «Ogni volontà, di Cesare è legge: quidquid placuit principi legis habet vigorem (397)».

Questo assioma, divenuto così famoso, e la base legale del Cesarismo: esso promulga l'apoteosi dell'uomo, principio fondamentale a cui devesi sempre risalire. se vuolsi fare un giusto concetto della storia religiosa e sociale dell'antichità pagana, come pure del tempo moderno, condotto dalla rivoluzione a promulgare il medesimo domma.

Questo punto importantissimo richiede prove e schiarimenti; e noi gli attingeremo alla storia.

Allorché Augusto, vincitore dei suoi emoli, rientrò in Roma dopo la battaglia di Filippi, i poeti, il dì innanzi suoi nemici, e dopo suoi adoratori, furono i primi ad incensarlo: il senato che lo avrebbe condannato alle gemonie, se fosse stato vinto, lo gridò padre e salvatore della patria, ed il popolo, le cui urla avrebbero accompagnato al supplizio l’antico triunviro, gli fece omaggio: né basta: ché fecegli anche géttito della propria libertà. In favore di lui si spogliò di tutti i suoi diritti civili e politici di qualunque natura; ed in ricambio non domandò al nuovo suo padrone che piaceri e la pace per goder dei piaceri: panem et circenses. Questo trasferimento dell'onnipotenza religiosa e sociale si fece mediante la Legge Regia (398), che ha avuto tanta celebrità nella storia del diritto romano.

In virtù di cotal legge, Cesare succede in tutti i diritti del senato e del popolo. Nell'ordine politico, egli è il capo supremo delle forze di terra e di mare: ha il supremo governo della Repubblica col diritto assoluto di pace e di guerra, nell’ordine amministrativo, è console, console perpetuo, proconsole, proconsole perpetuo, senatore; capo del senato che convoca e discioglie, tribuno del popolo, e tribuno perpetuo: Nell'ordine civile e legislativo, egli è censore; é pretore. I suoi editti, i suoi decreti; i suoi pareri, le sue lettere, i suoi rescritti, le sue decisioni hanno forza di legge (399). Così, nell'ordine sociale, Cesare ha in mano il potere in tutti i gradi, sotto tutti i nomi e sotto tutte le forme.

Lo stesso avviene nell'ordine religioso. Egli è sacerdote, è augure, è sommo pontefice, capo assoluto di tutti i sacerdozi e di tutte le religioni. «I Cesari, dice il giureconsulto Gravina, ben compresero che la pienezza della civile potestà sfuggirebbe loro di mano se anche non vi aggiungessero la pienezza della potestà religiosa, e se investendo sé medesimi del sommo pontificato, non divenivano arbitri supremi delle cose divine, dalle quali tutte le umane sono rette e governate. Laonde, per avere a propria balia tutte le umane cose, non presero solamente né l'augurato né il quindicemvirato dei sacrifici, che erano i due maggiori sacerdozi; ma, ad esempio d'Augusto, assunsero il sommo pontificato; in virtù del qual diritto, comandavano a tutti i pontefici, ed a tutti gli altri sacerdozi, decidendo sovranamente della religione, delle cerimonie, dei riti e del culto degli déi; ed interpretando il diritto religioso in tutto ciò che vi ha di oscuro, e la loro interpretazione aveva forza di legge (400)».

Questo trasferimento di potestà avviene in favore di ogni nuovo Cesare: e gli imperatori mettono assai cura in far constare questo fatto principalissimo, facendolo incidere nelle loro medaglie, nelle quali si trova invariabilmente, da Augusto sino a Graziano, il titolo di divino, d'imperatore, di sommo pontefice, di console, di proconsole, di tribuno del popolo, e tutti quelli che proclamano l'assoluta loro potenza nell'ordine religioso e nell'ordine sociale.

Di tal fatta è la legge Regia (401) che costituisce la base dell'ordine sociale dell'antichità, ed il cui testo, alquanto prolisso si riepiloga tutto intero nell'articolo seguente: «Tutto ciò che per uso della Repubblica, ei crederà essere conforme alla maestà delle divine ed umane cose, delle pubbliche e delle private, avrà egli il diritto e la potestà di farlo (402)».

È forse d'uopo il dire che l'abbrutimento delle anime, la snervatezza dei caratteri, l'universale degradazione, le rivoluzioni ognor rinascenti, le crudeltà e le lascivie più mostruose, furono gli effetti d'un sistema politico che di Nerone, di Caligola, di Domiziano facendo un dio, ne trasformava i pazzi capricci, in leggi religiose e sociali, obbligatorie in tutto l’impero?


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CAPITOLO II.



IDEA DELLA POLITICA CRISTIANA



Abolizione della legge Regia. - Divisione del potere. - Parole del papa San Gelasio all'imperatore Anastasio. - La politica cristiana seguita da Costantino, da Carlomagno, dai re cristiani. - Esposizione che ne fa San Bernardo. - San Tommaso. - Sorgente del potere - Origine e scopo delle società. - Magnifico quadro della politica e della società cristiana che ne fa San Tommaso



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Da venti secoli, l'uomo schiavo dell'uomo si agita nei ferri onde da sé medesimo si è inceppato. Iddio ha pietà del mondo: ed il suo Figliuolo discende dal cielo per rigenerare tutte le cose, sì l'ordine sociale come l'ordine religioso. Afferrando la legge Regia, la lacera e ne appende i brani alla croce: poscia, a quel patto della più mostruosa schiavitudine, sostituisce il gran patto della libertà universale. Per inaugurare un nuovo monarcato ed una nuova politica, DIVIDE IL POTERE (403): a fianco di Cesare crea il pontefice: a Cesare lascia la potestà dei corpi, al pontefice dà il dominio delle anime. La società spirituale e la società temporale, unite senza confondersi non altrimenti che l'anima ed il corpo, cammineranno con passo sicuro nella via della loro perfezione. L'umana libertà è salva, perché il dispotismo cesareo è reso per sempre impossibile.

Nella politica cristiana, il potere in luogo di salire dalla terra, discende dal cielo. Ministro di Dio, e non mandatario del popolo, Cesare cessa d'essere autonomo per divenire il primo suddito delle leggi divine. Il pontefice, rivestito dell'infallibilità di Dio stesso, conservane le leggi, le interpreta, le promulga; e, se è d'uopo, Cesare, con la sua spada le fa eseguire.

Mentre che nel Cesarismo non si contano per nulla i futuri destini dell'uomo; mentrechè la materiale prosperità è lo scopo supremo della politica e la religione non altro che uno strumento di regno; nella politica cristiana, i futuri destini dell'uomo sono il perno delle costituzioni; la prosperità morale, lo scopo supremo della politica; e la religione il fine ulteriore a cui si riferisce l'intero ordine sociale. In una parola, mentre che il Cesarismo è la promulgazione dei diritti dell'uomo, la politica cristiana è la promulgazione dei diritti di Dio.

Laonde il Cesarismo non è che la rivoluzione, poiché colloca in alto quello che giacer dovrebbe in basso; e deprime al basso quello che dovrebbe essere posto in alto: la politica cristiana non è che l'ordine, poiché mette ciascuna cosa a suo luogo, in alto cioè quello che debba stare in alto, ed in basso quello che debba stare in basso.

Nella stessa guisa che la semente deposta in un terreno fecondo, ben presto si svolge con vegetazione vigorosa, la divina parola, che contiene tutta la politica cristiana: Rendete a Cesare quello che è di Cesare, e a Dio quello che è di Dio, dà origine ad una nuova società piena di forza e di speranze.

Al cospetto dei tribunali e negli anfiteatri, sotto le zanne dei leoni ed in mezzo ai roghi, gli apostoli ed i martiri, dicendo agli imperatori ed ai loro carnefici: Non possiamo, non possumus, rivelano l'esistenza di questa giovane società e ne rassodano i fondamenti.

Il perché dovranno i Cesari spogliarsi della loro divinità, e lo loro orecchie udiranno ben presto dalla voce dei pontefici l'esposizione del gran codice della libertà umana. «Avvi due cose, Augusto imperatore, da cui questo mondo è governato: l'autorità sacra del pontefice e la potestà di Cesare. L'autorità, dei vescovi tanto più è formidabile in quanto che debbono render conto a Dio, nell'estremo giudizio, anche della salute dei re. Non ignorate che, quantunque la vostra dignità v'innalzi sopra gli altri uomini, dovete però piegare umilmente il capo davanti ai pontefici, incaricati della dispensazione delle divine cose, e che dovete essere loro sottomessi in ciò che concerne l'ordine della religione e l'amministrazione dei santi misteri. Sapete che in tutte queste cose dipendete dal loro giudizio e che non avete diritto di assoggettarli ai vostri voleri. In tutto ciò che si attiene all’ordine pubblico, questi stessi vescovi alle vostre leggi obbediscono; e voi, la volta vostra, dovete obbedir loro in tutto ciò che concerne le cose sante di cui sono i dispensatori (404).

Fra le parole del pontefice cristiano ed i discorsi dei flamini dell'antica Roma a Cesare vi ha distanza infinita. Il gran patto dell'ordine e della libertà che i papi hanno ricevuto in deposito, la trasmettono, per serie non interrotta, ai propri successori: i Padri della Chiesa ed i dottori lo spiegano ai popoli ed ai re; ed esso diventò la base del diritto pubblico.

Nel concilio Niceno, Costantino vi rende omaggio con queste nobili parole: «Iddio vi ha fatto suoi pontefici, dice egli ai vescovi; e vi ha dato la potestà di giudicare i nostri popoli e noi medesimi. È dunque giusto che ci sottomettiamo ai vostri giudizi e non già che pretendiamo di essere giudici vostri. Iddio vi ha costituiti per essere come nostri dii; e come mai gl'iddii potrebbero essere dagli uomini giudicati? (405)».

Riconosciuto solennemente da Carlomagno e dai suoi successori all'impero, il gran patto della libertà è già popolare nel secolo XI.

L'illustre fondatore di Chiaravalle, San Bernardo, scrivendo a Corrado re dei Romani, gli espone in queste parole il concetto della politica cristiana: «Iddio solo, dice egli, è propriamente sovrano. Il Figliuolo di Dio fatto uomo è stato investito da suo Padre di questa sovrana potestà. Fra gli uomini non vi ha potere o diritto di comandare, se non derivante da Dio e dal suo Verbo. Il Figliuolo di Dio fatto uomo, Gesù Cristo, è ad un tempo, sommo pontefice e re sovrano. Nella propria persona e perciò nella sua Chiesa, riunisce e il sacerdozio e la regia autorità.

«Ma il sacerdozio è uno, come uno è Dio, come una è la Fede, una la Chiesa, una l'umanità.

«L'autorità regia è molteplice come le nazioni: essa è divisa in re diversi ed indipendenti gli uni dagli altri. Ma queste così diverse nazioni in cui si divide l'umanità, sono ricondotte all'unità umana ed all'unità divina mediante l'unità della fede cristiana, mediante l'unità della Cattolica Chiesa, e mediante l'unità del suo sacerdozio.

«Il dovere, l’onore, la prerogativa del primo re cristiano, qual è l'imperatore, è di essere il braccio destro, la spada della cristianità per difendere tutto il corpo e specialmente il capo, e secondarne l'influente civiltà di dentro e di fuori (406)».

Dalle labbra dell'abate di Chiaravalle, questa dottrina passa su quelle dei più grandi teologi.. Nel suo opuscolo De regimine principum, San Tommaso dichiara in tal modo l'organamento cristiano delle società:

«Il fine della comunità, dice egli, è il medesimo di quello degl'individui. Ora, se chiedete ad un cristiano: Per qual fine Iddio vi ha creato e messo al mondo? ei risponde: Iddio mi ha creato e messo al mondo per conoscerlo, per amarlo, per servirlo e con questo mezzo giungere alla vita eterna che è il mio fine.

«Interrogata sul medesimo punto ogni comunità cristiana debba dare la medesima risposta: niun'altra può sostenersi (407)»

Partendo da questo principio, luminoso come il sole, il dottore angelico svolge magnificamente le leggi che reggono l'ordine sociale fondato dal cristianesimo, doveri reciproci dei re e dei sudditi, come pure le relazioni dei reami temporali col regno di Gesù Cristo che è la Chiesa. Sembra che l'ordine e l'armonia fluiscano dalla penna dell'ammirabile filosofo.

Per San Tommaso, ciascun regno particolare è una nave fornita del suo equipaggio e di tutti i suoi attrezzi. Il re ne è il nocchiero. Lanciata in alto mare la nave veleggia verso il porto: tal porto è il fine per cui il regno è stato creato. Con la sua consueta lucidezza San Tommaso prova che cotal fine non è né può essere né l'opulenza, né i piaceri, ma soltanto l'acquisto della virtù; ed anche questa non ha obbietto se non conduce al possedimento del Sommo bene che è Dio stesso (408).

«Ora, soggiunge l’illustre teologo, se l'uomo potesse con le naturali sue forze pervenire a questo fine ulteriore, spetterebbe al re il condurvelo; poiché nell'ordine umano, essendo il re il superiore, a lui solo spetterebbe di dirigere al fine supremo tutto ciò che è sotto a lui. Così in tutte le cose vediamo che colui che presiede al fine e all'uso d'una cosa, dirige coloro che preparano i mezzi acconci per giungere a questo fine: l'uomo di mare dirige la costruzione dei navigli: l'architetto dirige il muratore, il capo delle armi, l'armaiolo.

«Ma non potendo l'uomo, con virtù puramente umane pervenire al proprio fine, che è il possedimento di Dio, ne risulta che il condurvelo debba essere opera di una direzione divina e non già umana.

«Il re cui appartiene questa direzione suprema è Colui che non è soltanto uomo, ma Dio nel tempo stesso, nostro Signore Gesù Cristo, che facendo gli uomini figliuoli di Dio li conduce al regno celeste.

«Ed affinché le cose temporali e le spirituali non si confondessero insieme, questa suprema direzione è stata commessa non ai re, ma ai sacerdoti, e specialmente al sommo sacerdote, al successore di San Pietro, al Vicario di Gesù Cristo, al romano Pontefice, al quale tutti i re del popolo cristiano debbono essere sommessi, come al figliuolo stesso di Dio. Tale è l'ordine: il meno si riferisce al più; l’inferiore è sottomesso al superiore, e tutti pervengono al loro fine (409).

Per vedere in un'immagine sensibile questa bella e profonda esposizione della politica cristiana, vuolsi dunque considerare ciascun regno come una nave di cui il re è il nocchiero, e tutti i regni cristiani riuniti come una grande squadra, ciascun legno della quale, per giungere al porto, debba attenersi al vascello ammiraglio che è il regno visibile di Gesù Cristo o della Chiesa, di cui il sommo Pontefice è il nocchiero. Per signore che ciascun piloto sia sulla propria nave, non è indipendente. Per serbar l'ordine, ei debba sempre manovrare a norma dei segnali dell'ammiraglio di maniera da dirigere la propria nave verso il termine finale. Laonde ciascun re è obbligato di provvedere alla salute eterna del suo popolo, sia ordinando ciò che può procacciarla, sia vietando ciò che può impedirla: il sommo pontefice gli fa conoscere l'una cosa e l'altra; nella guisa stessa che l'ammiraglio dà ordini ai capitani e dirige la squadra (410).

In somma il Verbo eterno da cui l'universo è stato creato e per cui sussiste, è la legge, la via, la verità, la vita e perciò stesso il re sovrano delle nazioni. Col farsi uomo, ha unito e subordinato nella sua persona la terra al cielo, l'umanità alla divinità. Quanto si è compito nell'uomo-Dio, si compirà proporzionalmente in tutte le creature. Tutto debba essere assoggettato a Cristo; e, mediante Cristo a Dio suo Padre. Tale è la gran legge della rigenerazione umana ed il fine, della creazione.

Questa grande subordinazione sarà consumata, come dice l'Apostolo, allorché, dopo aver distrutto ogni principato, ogni potestà, ogni forza, Cristo sottometterà sé stesso, col suo regno, a Colui che gli avrà sottomessa ogni cosa, sì che Dio sia tutto in tutti (411).

Di che risulta che l'universo è una vasta teocrazia che si forma nel tempo per compiersi nell'eternità (412).

Questo magnifico principio è desso la base della politica cristiana? Lo vedremo nei capitoli seguenti.

Intanto la luminosa esposizione di San Tommaso mostra tutta la differenza del Cesarismo o dell’ordine sociale pagano e dell'ordine sociale cristiano.

Il primo dice: La società è un fatto umano.

Il secondo soggiunge: La società è un fatto divino.

Il primo: Pontefice e re tutt'insieme, l'uomo o Cesare, regna da padrone assoluto sui corpi e sulle anime, senza veruna dipendenza.

Il secondo: Cesare non ha il dominio delle anime: ed anche nell'ordine temporale è sottomesso alle leggi divine delle quali è conservatore ed interprete il sommo Pontefice.

Il primo: Niun potere che possa o debba bilanciare il potere di Cesare: franchigie, libertà, distinzioni, educazione, proprietà, tutto debba venire da lui, dipendere da lui, riferirsi a lui.

Il secondo: Sommissione di Cesare al Pontefice: rispetto alla libertà di tutti, alle franchigie, ai titoli, ai diritti acquisiti.

Il primo: La religione è uno strumento di regno.

Il secondo: La religione è lo scopo dei regni ed il fine degl'imperi.

Il primo: La Chiesa è nello Stato, come la serva nella famiglia.

Il secondo: Lo Stato è nella Chiesa, come il figlio nelle braccia della propria madre.

Il primo: Mio supremo dovere è di procurare ai popoli la maggior quantità di godimenti possibili, senza riguardo al loro ultimo fine.

Il secondo: Mio dovere è di far poco pei piaceri dei popoli; molto pei loro bisogni; tutto per la loro virtù, al fine di condurli al possedimento eterno del sommo bene.

Tali sono, in iscorcio, i due sistemi sociali che si dividono la durata dei secoli. Non è più perfetta l'opposizione tra il giorno e la notte. Di che sono uscite due diverse civiltà. La civiltà pagana, ovvero il culto sociale dell'uomo, con la forza brutale per regola, la schiavitù per base, il sensualismo a scopo; la poesia, la pittura, la scultura, la musica, le feste, i, teatri, tutte le arti corrotte e corruttrici per sequela; i delitti, gli sconvolgimenti, e la degradazione per risultamento.

La civiltà cristiana, ossia il culto sociale di Dio, con la verità per regola: la libertà per base; l'emancipazione dello spirito per fine; tutte le arti santificate e santificatrici per sequela; la virtù, la pace, ed il vero progresso per risultamento.

I nostri avi, semplici ed ingenui elessero il sistema cristiano.

Una rapida occhiata sulla loro storia ci mostrerà i benefizi che ne ritrassero, come pure ci farà vedere l'idea sublime che avevano della politica e della regia autorità.


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CAPITOLO III.



STORIA DELLA POLITICA CRISTIANA



Base della politica cristiana. - Potere sociale del Papato. - Parole degli scrittori protestanti. I re di Francia e d'Inghilterra giudicati dal Papa. - Compromesso dei re di Francia e d'Aragona. - Appello al giudizio del Papa. - Affare di Lodovico Pio, di Lotario, re d'Austrasia.- Deposizione dell'imperatore Arrigo IV. - Bolla di San Gregorio VII. Deposizione dell'imperatore Federico. - Bolla d'Innocenzo IV.



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Nella persona di Pietro, il Figliuolo di Dio è il capo visibile della società cristiana. Per voce di questo suo rappresentante, ei dice continuamente ai re ed ai popoli questa parola sempre antica e sempre nuova: «Ogni potestà mi è stata data in cielo e sulla terra» ed ai suoi vicari nella successione dei secoli: Io vi darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che scioglierete sulla terra, sarà sciolto anche in cielo; e tutto ciò che legherete sulla terra, sarà legato anche in cielo. Voi siete la luce del mondo: ammaestrate tutte le nazioni ed insegnate loro a prendere tutte le mie leggi per regola di loro condotta (413).

«Tutto è sottoposto a queste chiavi, sclama Bossuet; tutto, fratelli miei: re e popoli, pastori e greggi (414).

Depositario dell'autorità del Re dei re, organo infallibile dei suoi voleri, il sommo Pontefice travasi collocato alla cima della gerarchia sociale: nelle sue mani sono le redini che debbono dirigere il mondo cristiano verso il suo ultimo fine; sopra la sua nave è la bussola che debbo indicar la via a tutto le navi, mantenerle nel loro ordine di battaglia ed incamminarle al porto dell'eternità. A lui spetta il diritto di tracciare la strada e di dar la parola ai condottieri dei popoli: a lui spetta di giudicare in ultima istanza tra i nocchieri e i naviganti, notificando agli uni e agli altri le leggi della giustizia eterna.

E stantechè un potere giudiziario è nullo, se non è armato, egli ha il diritto di costringere con pene efficaci i colpevoli all'obbedienza, ed anche di togliere il comando ai capitani ostinatamente ribelli, i quali, col tradire il proprio ufficio, condurrebbero nell'abisso e la loro nave ed i passeggeri.

A meno che non si voglia sostenere che il fine supremo delle nazioni non è lo stesso che il fine degl'individui, cioè che un tal fine, circoscritto nei limiti dei tempi, consiste in vendere, comprare, bere, mangiare, dormire e digerire in pace senza pensiero della vita eterna; oppure che ciascun potere sociale ha diritto di regnare secondo i propri capricci; o finalmente, che ha diritto d'interpretare infallibilmente la legge divina; questi principi sono d'un'evidenza irrepugnabile. Il medio evo ne fece la base del suo ordine sociale. E per quanto parer possa duro di udirlo, è d’uopo ripeterlo: queste grandi verità con le conseguenze pratiche che ne fluiscono, hanno creato la civiltà cristiana e fondato la libertà del mondo: l'obblivione di queste stesse verità ricondusse il mondo alla barbarie ed alla schiavitù.

Tanta è in ciò l'evidenza dei fatti e la certezza del diritto che gli stessi protestanti vi rendono omaggio; e lo fanno con tanta buona fede (conviene render loro questa giustizia) e con tanta ammirazione da far arrossire certi scrittori che si dicono cattolici.

«Perché erano sottomessi all'alta direzione del papa, dicono essi, non si creda già che i regni del medio evo fossero meno felici né meno liberi: vero è anzi tutto il contrario. Era pure una bella sovranità quella degl'Innocenzi e dei Gregorii!... Rispettatemi, sottomettetevi, obbedite, diceva: in contraccambio io vi darò l'ordine, la scienza, l'unione, il progresso... Con una mano il papato lottava contro l'islamismo: con l'altra soffocava gli avanzi del Paganesimo energico del settentrione. Raccoglieva come intorno ad un punto centrale le forze morali ed intellettuali della specie umana: era despota come il sole che fa girare il globo (415).

Dirigere con la face del Vangelo l'umanità rigenerata nella via del vero progresso: detta eleggi, creare istituzioni in armonia con questo alto scopo: ricondurvi tutte le scienze, tutte le arti e persino le feste popolari: fare di tutti i reami cristiani una famiglia armata sempre contro la barbarie, tale fu per le nazioni del medio evo il primo beneficio della politica cristiana. Mantener la pace nel loro seno; allontanare i due più grandi flagelli dell'umanità, lo scisma, e l'eresia, compone, per quanto era possibile, i loro dissidi, evitando l'effusione del sangue, fu il secondo.

«Non era egli mirabile cosa, prosegue l'autore precitato, il vedere un imperatore tedesco, nella pienezza della sua potenza, all'atto stesso che spingeva i suoi soldati a soffocare il germe delle repubbliche in Italia, arrestarsi d'improvviso e non poter proseguir più avanti; tiranni armati di tutto punto, Filippo di Francia o Giovanni d'Inghilterra, sospendere la propria vendetta, e lasciarsi cadere le armi? ... Alla voce di chi? ditemi: Alla voce d'un povero vecchio, abitante in una lontana città, con due battaglioni di cattive soldatesche, e in possesso appena di poche leghe di terreno contestato! Non è forse questo uno spettacolo fatto per innalzar l'animo, non è una meraviglia più straordinaria di quelle onde riboccano le leggende? (416)».

Gli esempi allegati dall'autore con ammirazione tanto legittima, non sono fatti isolati. La storia dell’Europa al medio evo è piena di monumenti e di atti solenni, che fanno brillare splendidamente la legge fondamentale della politica cristiana, il regno di Gesù Cristo e l'autorità sociale del papato:

I famosi Capitolari di Carlomagno incominciano così: «REGNANDO PER SEMPRE NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO: Io, Carlo, per la grazia e per la misericordia di Dio, re e capo del regno dei Franchi, devoto difensore ed umile coadiutore della santa Chiesa di Dio: a tutti gli ordini della pietà ecclesiastica ed a tutte le dignità della potestà secolare, la salute della perpetua pace e beatitudine in Cristo, Signore Dio eterno (417)».

Negli atti dei privati, durante il medio evo, si trova frequentemente, con l’anno del regno dei principi, questa formola dei primitivi cristiani: «REGNANTE JESU CHRISTO».

Spesso, alla morte di un re, si legge: «Fatto nell'anno che morì il re N., SOTTO IL REGNO DI GESÙ CRISTO, e mentre da Lui aspettiamo un nuovo re» (418).

Secondo il protestante Blondel, i nostri antenati apponevano questa formola ai loro atti per ridurci di continuo a memoria che tutto ciò che ci riguarda è amministrato sotto la regia potestà di Gesù Cristo, dipende da Lui, debba a Lui riferirsi: che i re stessi, padroni dei negozi sotto, di Lui, sono coi popoli, suoi beati servitori, e che coi loro sudditi si riconoscono per sudditi di quel Re supremo (419).

Questo regno sociale di Gesù Cristo non è già, come pretendono gli uomini o ignoranti o di mal a fede, un'invenzione del medio evo a profitto del papato. Il medio evo non è che il continuatore dei primi secoli. Fino dall'anno 250, vediamo i cristiani segnar la data: degli atti dei martiri nel seguente modo: «Queste cose avvennero sotto i consoli o imperatori N. N., come dicono i Romani; ma per noi SOTTO il REGNO DI NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO, a cui sia onore e gloria per tutti i secoli dei secoli» (420).

Ai monumenti scritti si aggiungono le azioni.

Nel 1298 si accende guerra tra Filippo di Francia ed Edoardo d'Inghilterra. Non ostante lo spirito nuovo introdotto dal Cesarismo germanico, i due potenti monarchi s'accontano insieme di rimettere al sommo Pontefice il giudizio della loro contesa. Il padre comune ascolta le doglianze dei suoi figli; e per non offender nessuno, rigetta la guerra sul demonio, eterno nemico del genere umano: poscia giudica, definisce e pronuncia che la pace si farà alle clausole e condizioni ch'egli indica. I due re si piegano alla sentenza del vicario di Gesù Cristo: si cessa dall'effusione del sangue, ed ancora una volta i popoli benedicono alla potenza sociale del papato (421).

Nel 1365 incontrasi un fatto simile, glorioso vestigio, dell'antico diritto sociale dell'Europa cristiana. Il re di Francia ed il re di Aragona sono in guerra. D'un tratto rammentano che sono re cristiani, che del sangue dei popoli dovranno render conto, e che nel sistema sociale d'Europa esiste un mezzo pacifico di ristabilire l'armonia.

Con sublime semplicità scrivono il seguente compromesso: «Il nostro santo padre il papa, di nostro consenso e del suddetto nostro fratello sarà incaricato per ordinare, udite le parti, siccome a lui parrà, di fare secondo ragione; e noi ed il suddetto nostro fratello, ci sottometteremo al prelato nostro santo padre, senza pregiudizio della nostra sovranità, per le più forti guarentigie che potranno esser fatte, e né noi né il predetto nostro fratello porremo né i successori nostri di lui potranno procedere per via di fatti o di guerra, a motivo delle domande e cose sopraddette o dipendenti, ma riconoscer sempre il suddetto nostro santo padre che è e che sarà pel tempo» (422).

Come si vede, fin dal principio della Chiesa, giungere dalle differenti cristianità dell'Oriente e dell'Occidente le grandi cause religiose al supremo tribunale della santa fede, così vediamo la Francia, l'Inghilterra, la Spagna, l'Alemagna del medio Evo, sottomettere le loro grandi cause sociali al giudizio del sommo Pontefice.

Quest'alta magistratura poi é dai papi, esercitata, non già come si pretende da alcuni, in virtù di una concessione dei re e dei popoli; concessione immaginaria, della quale non si trova traccia; ma sì piuttosto in virtù di un diritto inerente alla loro qualità di capi della società cristiana, d'interpreti infallibili delle leggi divine e di giudici divinamente stabiliti per decidere punti di diritto sì pubblico come privato, e rivestiti della necessaria autorità per far eseguire le loro sentenze. Tale è il titolo che i successori di Pietro invocano ogni volta che adempiono uno di questi grandi atti d'autorità sociale; così legittimi, così salutari, così giustamente benedetti nel medio Evo, e così odiosamente a giorni nostri calunniati.

Gregorio IV, nei dissidi fra Lodovico Pio ed i suoi figli; Nicolo I, nella contesa di Lotario re d’Austrasia; Urbano II, Vittore III, tutti invocano il loro diritto, e non la chimerica concessione di cui si parla. Ma alleghiamo qualche fatto più clamoroso.

L'imperatore Arrigo IV, chiamato il Nerone dell'Alemagna; il qual nome giustamente meritò per le sue crudeltà, per le sue lascivie, pei suoi ladronecci, per le sue violenze contro la libertà dei suoi popoli, i diritti dei suoi vicini e l'autorità della Chiesa, viene più volte avvertito dal padre comune dei re e dei popoli di rientrare in sé stesso e di ricordarsi che a lui è stato dato il potere non per distruggere, ma per edificare, non per opprimere, ma per proteggere. Arrigo disprezza gli avvisi: succedono le minacce di cui non fa verun conto.

Allora il sommo Pontefice rammenta di essere il vicario del Re dei re, e pronuncia in questi termini il decadimento di colui che da sé medesimo si è dichiarato indegno del trono:

«Beato Pietro, a voi è piaciuto e piace ch'io sia il capo del popolo cristiano, specialmente alla vostra sollecitudine commesso; e per mezzo vostro mi è stata data da Dio la potestà di legare e di sciogliere in cielo e sulla terra.

«Laonde per l'onore e per la difesa della vostra Chiesa, per la parte del Dio onnipotente, Padre, Figliuolo e Spirito Santo, in virtù della vostra potestà e della vostra autorità, tolgo al re Arrigo, figlio dell'imperatore Arrigo, che con inaudito orgoglio si è ribellato dalla vostra Chiesa, il governo di tutta l'Alemagna e dell'Italia.

«Ed io sciolgo tutti i cristiani dal giuramento di fedeltà che gli hanno fatto, e proibisco a chiunque di obbedirgli come a re. Poiché è giusto che chi studiasi di menomare l'onore della vostra Chiesa, perda egli stesso l’onore ond'è insignito. In virtù pertanto della vostra autorità di cui io sono erede, lo incateno col vincolo della scomunica, affinché sappiano le nazioni e conoscano che voi siete Pietro, e che sopra questa pietra il Figliuolo del Dio vivente ha edificato la sua Chiesa e che lo porte dell'inferno non prevarranno mai contro di essa.

«Dato l'anno dell'incarnazione del Signore millesettantacinque (423)».

Due secoli dopo, nel 1245, Innocenzo IV, al cospetto del Concilio generale di Lione, invoca lo stesso diritto e fa uso della stessa formola contro l'imperatore Federico, quell'altro Cesare i cui delitti furono il terrore e l'infamia del suo secolo. Dopo di aver enumerato i misfatti d'ogni maniera onde Federico erasi bruttato, come pure gli ammonimenti paterni di cui era stato obbietto e ch'egli aveva dispettato, il sommo Pontefice richiama di essere stato stabilito per pesare nella bilancia il merito e il demerito, il giusto e l'ingiusto, per mantenere la pace della Chiesa e la tranquillità generale della società cristiana.

Poi soggiunge:

«Pertanto, sottoposta la causa a diligente disamina del santo sinodo, poiché noi, non ostante la nostra indegnità, occupiamo il posto di Gesù Cristo sulla terra, e che nella persona di San Pietro ci è stato detto: Tutto quello che legherai sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierai sulla terra sarà sciolto anche in cielo; noi dichiariamo privato dal Signore di ogni onore e dignità, e tale denunziamo e dichiariamo con nostra sentenza, il suddetto: Principe che si è reso cotanto indegno dell'impero, del regno e di ogni specie di onore e di dignità, e che per le sue nequizie ha meritato di essere reietto da Dio e privato del diritto di regnare: sciogliendo per sempre dal loro giuramento coloro che gli hanno giurato fedeltà, proibendo, in virtù dell'autorità apostolica a chiunque di obbedirgli d’ora innanzi come se fosse imperatore o re, incorrendo nella scomunica, ipso facto coloro che gli dessero consiglio od aiuto; e che: quelli ai quali spetta l'elezione dell'imperatore, gli scelgano. liberamente un successore.

«Dato a Lione, il 16 delle calende di agosto; l’anno terzo del nostro pontificato (424)».

Questi atti solenni cui certi cattolici non osano di confessare; questi pontefici contro i quali tutto si è riversato il veleno dell'empietà, pur sono dai protestanti ammirati!

Parlando dei papi e dell’esercizio del loro primato sociale, il celebre Giovanni di Muller scrive queste parole: «Senza i papi, Roma non esisterebbe più: Gregorio, Alessandro, Innocenzo opposero un argine al torrente che minacciava tutta la terra; le loro mani paterne sollevarono la gerarchia, ed a lato di essa la libertà di tutti gli Stati (425).

Cotal torrente era il Cesarismo. Consigliato dai suoi legisti Federico II voleva camminare sulle orme di alcuni dei suoi predecessori, ed ambiva di essere unico sovrano, unico proprietario, unica legge del mondo.

«Come i suoi predecessori, dicono due scrittori gallicani, Federico non occultava il disegno di rialzare l'impero dei Cesari, e, senza l'influenza dei papi, è probabile che l'Europa avrebbe soggiaciuto al giogo degl'imperatori di Germania. Federico, sognando esso pure la monarchia universale, tendeva certamente ad emanciparsi dal primato di Roma. L'imperatore faceva chiamare dal suo cancelliere tutti gli altri re del mondo re provinciali, ed intitolava sé stesso la legge vivente (426)».

Da una parte pretende di ridurre i re di Svezia, di Danimarca, d'Inghilterra, di Spagna e di Francia alla qualità di suoi vassalli: d'altra parte, pretende che i papi gli saranno strumento in questa intrapresa, come il Mufti di Costantinopoli è lo stromento del Gran Signore. I papi si oppongono con invincibile coraggio a questo mostruoso despotismo. Per salvare la libertà e l'indipendenza della Chiesa, e con essa la libertà e l'indipendenza di tutti i re e di tutti i popoli dell'Europa, privano di ogni autorità i moderni Neroni.

Dov'è il male?



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CAPITOLO IV.



STORIA DELLA POLITICA CRISTIANA (Continuazione).



Permanenza del diritto pontificale. - Deposizione d'Enrico VIII. - Bolla di Paolo III. - Deposizione d'Elisabetta. - Bolla di San Pio V. ­ Riflessioni. - Parole del sig. Coqueret. - Di Luigi Blanc. - Dilemma. - Risultato sociale della politica cristiana e del Cesarismo.



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Possono le idee dei popoli e dei re mutarsi, possono le nazioni scegliere nuove forme di governo; ma il diritto non muta mai. A mezzo il sestodecimo secolo, una muova sentenza di scomunica e di deposizione fondata sulla medesima autorità, piomba su una testa non meno odiosa di quella di Federico. Un tiranno i cui costumi richiamano quelli di Eliogabalo, e la crudeltà quella di Caligola, Arrigo VIII, mette sul trono d'Inghilterra tutti i delitti, e contamina l'isola dei santi col saccheggio dei monasteri, la distruzione delle chiese, la profanazione dei sepolcri, e col supplizio di settantaduemila cattolici.

Il padre della grande famiglia Europea viene informato di tanti eccessi: ammonisce, riprende, scongiura: tutto è vano. Rammentandosi allora ed il proprio dovere ed il proprio diritto, depone il mostro coronato, libera l’Inghilterra dall'obbligo di sottomettersi agli odiosi suoi capricci; e, per quanto è in lui, salva la nave dall'abisso a cui la tragge il colpevole suo nocchiere. «Quegli, dice Paolo III, che dall'immobile sua eternità, per la divina sua Provvidenza imprime a tutte le creature il moto che ammiriamo, ha degnato, nella sua clemenza, di stabilirei, senza verun merito per parte nostra, suo vicario sulla terra, di collocarci sul trono della giustizia e di dirci come a Geremia: Ecco che io ti ho costituito sulle nazioni e sui regni, con potestà di schiantare e di distruggere, di edificare e di piantare.

«Imitando Quello la cui misericordia uguaglia la potenza, per impulso della sollecitudine apostolica che Ci obbliga d'invigilare al bene di tutte le persone confidate alle nostre cure. Ci vediamo obbligati, per salvarle dagli errori, dagli scandali, dagli eccessi e dalle enormezze d'ogni maniera di cui le circuisce la malizia del demonio, d'usar severità contro coloro che ne sono autori (427)».

Laonde, per mettere il tiranno fuori di condizione di poter nuocere, e per salvare in tal modo l'ordine pubblico, la libertà, la proprietà, la fede dell'Inghilterra, il sommo, pontefice lo isola, vietando sotto pena d'incorrere nella stessa scomunica, di prestargli obbedienza, aiuto od assistenza; poscia, se mantiensi ostinato, il capo della famiglia europea ordina a tutti i re suoi figli d'andar in soccorso dell’Inghilterra, e di liberarla dal cignale che la devasta (428). L'Inghilterra sconosce la voce del padre comune, ed in punizione della sua disobbedienza, cade sotto il giogo d'una femmina, le cui crudeltà, le ingiustizie, le infamie hanno un luogo tutto speciale nella storia d'una femmina la cui mano bruttata del sangue della propria sorella, soscrive il lungo martirio dell'Irlanda, la morte, in mezzo a torture inaudite, di quante avvi in Inghilterra di più rispettabili persone, la spogliazione in grande, e finalmente (ciò che più è doloroso) l'atto che strappa all'isola dei Santi l'antica sua fede, per gittarla in braccio al Cesarismo cieco e brutale, personificato nella figlia d'Anna di Boleno.

Il trono di Pietro è occupato da un santo. Fedele al proprio mandato Pio V, seguendo l'esempio dei suoi predecessori, fa uso del diritto sociale di cui è depositario il papato. Il 23 febbraio 1570, promulga contro Elisabetta la sentenza di deposizione fondata non già sopra un diritto convenzionale, ma sull'apostolica autorità.

«Quegli che regna in alto, al quale è stata data ogni potestà in cielo e sopra la terra, ha commesso il governo supremo della Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica, fuor della quale non vi ha salute, ad un solo capo sulla terra, cioè al principe degli apostoli Pietro, e al successore di Pietro, il romano pontefice. Solo Egli lo ha stabilito principe sopra tutte le nazioni e sopra tutti i reami, alfine di schiantare, di distruggere, di dissipare e gettare al vento, di piantare è di edificare, in guisa da contenere il popolo fedele pel vincolo della carità e nell'unità dello Spirito Santo e di presentarlo sano e salvo al suo Redentore ...

«Pertanto, fondato sull’autorità di Quello, che non ostante la nostra indegnità, si è degnato di collocarci su questo trono supremo della giustizia, nella pienezza dell'apostolica autorità, Noi dichiariamo la prementovata Elisabetta eretica e fautrice degli eretici ed i suoi aderenti scomunicati e troncati dall'unità, del corpo di Gesti Cristo.

«Di più la dichiariamo privata di ogni diritto al regno d'Inghilterra, e di qualunque autorità, dignità e privilegio; e i grandi, i sudditi e i popoli del detto regno, e tutti quelli che le hanno prestato qual si sia giuramento, sciolti per sempre da ogni giuramento di fedeltà e d'obbedienza, come ne gli sciogliamo per l'autorità delle presenti. Proibiamo ed interdiciamo, sotto pena di scomunica, a tutti ed a ciascuno di obbedire sia a lei, sia ai suoi ordini ed alle sue leggi (429)».

Dopo questi atti solenni si vede, secondo il pensiero di Leibnizio, conforme a quello di san Tommaso, che, i papi sono i Capi spirituali, e gl’imperatori o re i capi temporali, ma subordinati della Chiesa universale o della società cristiana; il diritto pubblico poggia su questa base ed i giureconsulti del medio evo ragionano su questi principi (430).

Vedesi di più (e lo ripetiamo) che i sommi pontefici, esercitano la loro suprema magistratura in virtù di un'autorità inerente alla loro carica e non in virtù d'una concessione o d'un arbitrato. Ce lo dice la storia e ce lo prova la ragione.

Nella guisa che nell'ordine religioso è assolutamente necessario un giudice infallibile del vero, non altrimenti nell'ordine sociale richiedesi un giudizio supremo del giusto. Private il papa di questo giudizio e lo darete alla forza. Il duello, giustamente vietato fra privati, diventa non solo legittimo, ma necessario fra popolo e popolo, e fra popoli e re. Or ponderatene la conseguenza: se l'ordine sociale è costituito di maniera che la ragione del più forte sia l'ultima ragione del diritto, dove mai è la bontà, dov’è la giustizia, dov'è la sapienza di Dio?

Il genere umano non è più, come dice Rousseau, che un'aggregazione d'individualità ostili, governata e retta dalla morale dei lupi.

Tuttavia, vedendo i papi deporre i re e sciogliere i sudditi dal loro giuramento di fedeltà, molti ne pigliano scandalo. Per giustificare cotal condotta, alcuni mettono innanzi spiegazioni zoppicanti: non confessano i fatti che con timidezza e quasi arrossendo: secondo altri, quell'età che riconosceva per base del suo diritto pubblico una simile tirannia, sembra barbara, e salutano come l'era dell'emancipazione il giorno in cui ebbe fine la sovranità sociale del papato.

Ora odano tutti quello che ad essi rispondono uomini non sospetti.

«La potestà papale, dice un ministro protestante, che disponeva delle corone, impediva che il despotismo divenisse atroce. Perciò, in quei tempi di tenebre, non vediamo verun esempio di tirannide paragonabile a quella dei Domiziani di Roma. Un Tiberio era impossibile; Roma l'avrebbe schiacciato. I grandi dispotismi ne vengono soltanto quando i re si persuadono non avervi nulla superiore a loro; allora l'ebbrezza d'un potere illimitato produce i più atroci misfatti (431)».

«Coll'innalzare i re sopra ad ogni giurisdizione ecclesiastica, aggiunge Luigi Blanc, avete creduto di collocare i troni in una regione inaccessibile alle tempeste. Quest'errore muove a pietà! L'emancipazione dalla potestà papale niente muta alla necessità d'un sindacato. Essa non fa che spostarla; la trasferisce primieramente al parlamento, poscia alla moltitudine. Venne il momento, in Francia, in cui la nazione s'avvide che l'indipendenza dei re era la schiavitù dei popoli. La nazione allora si sollevò sdegnata, stanca di soffrire, e chiedendo giustizia. Ma poiché non vi ha giudice della potestà regia, la nazione si fece giudice essa stessa, e la scomunica fu surrogata da una sentenza di morte (432)».

Tale è in fatti il dilemma, inesorabile che i detrattori della politica cristiana debbono sciogliere; o ammettete nella società un potere senza sindacato, o non l'ammettete.

Se l'ammettete, col più mostruoso despotismo consacrate l'imbrutimento dell'umana natura, ribadendo per sempre i ferri della schiavitù al trono di tutti i tiranni.

Se non l'ammettete, ecco l'alternativa che si presenta: o il sindacato della ragione, o il sindacato della forza: o la sovranità del papa, o la sovranità del popolo: o la scomunica, o il patibolo: o i canoni del Vaticano o i cannoni delle barricate.

Ciascuno ha le proprie predilezioni: i nostri avi, nella loro semplicità, inchinandosi. davanti alla sovranità sociale del vicario di Gesù Cristo, gli dicevano: «Voi siete il padre comune dei re e dei popoli: a voi spetta il decidere fra i vostri figli». In ciò a noi parvero barbari, ed abbiamo detto a Pietro: «Noi non riconosciamo la tua autorità sociale; non vogliamo che ti brighi dei nostri affari; sapremo bene regolarli senza di te».

Ecco alcuni dei benefizi di quest'atto di modestia e di pietà figliale:

1° L'Europa è sventuratamente rientrata nelle condizioni sociali del paganesimo, in cui, nel caso di conflitti sociali, la sola forza decideva del diritto;

2° Mentre che nel lungo periodo di seicento anni si trovano cinque o sei re appena, carnefici dei loro popoli ed obbrobrio dell'umanità, privati d'un potere di cui erano manifestamente indegni, dobbiamo, dopo il Risorgimento, contare a centinaia i troni abbattuti, le corone gettate al vento, i re buoni o cattivi, espulsi, spogliati di ogni onore e dignità, condannati all'esilio, morti sotto la scure del carnefice o per mano degli assassini.

3° Col primato papale, religiosamente accettato, non avremmo avuto né le guerre di religione che hanno insanguinato l'Alemagna, la Francia, l'Inghilterra e la Svizzera, nei secoli XVI e XVII; né lo smembramento della Polonia; né gli scandalosi trattati che, attribuendo all'errore diritti che non ha, danno una patente ai falsi monetari della verità. Non avremmo avuto né le sacrileghe spogliazioni del clero né il crollo generale della proprietà, né i saturnali del 1793, né il culto della Ragione; ed anche oggidì non avremmo né l'incertezza del diritto, né la negazione del dovere, né dinastie senza avvenire, né popoli incerti di loro sorte futura, né società ritrose ad ogni freno, né quell’universale diluvio di dottrine mostruose che minacciano di trasformare la nostra civiltà in barbarie e di sprofondare l'Europa nell'abisso senza fondo del socialismo.

Ed ecco quello che produce nel mondo un domma di più o domma di meno.


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CAPITOLO V.



STORIA DEL CESARISMO PRIMA DEL RISORGIMENTO.

DIRITTO POLITICO.



Gl'imperatori d'Alemagna. - Il diritto romano, politico e civile. - Parole di Schlegel. - D'un autore francese. - Pandette trovate in Amalfi ­ Università di Bologna. - Irnerio. - Il Risorgimento del diritto pagano venuto dall'Italia. - Giuristi di Francia, d'Inghilterra e di Spagna. - Dottrine che insegnano. - Baldo. - Giovanni di Parigi.


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Il Risorgimento, che formulò ricisamente il Cesarismo, e lo rese pratico in Europa, è un albero: ora, ogni albero ha le sue radici; e quelle del Cesarismo le vediamo serpeggiare attraverso i secoli del medio evo. Il male è permanente come la concupiscenza, nel cuore umano. La gloria d'un'età è d'impedirgli a costituirsi in istato religioso o sociale. Tale fu, per riguardo al cesarismo in particolare, la gloria del medio evo.

Fin del secolo XI, il paganesimo, politico trova principi ambiziosi e cupidi disposti a restaurarlo a loro profitto. In primo ordine si presentano gli Arrighi, gli Ottoni, i Lotarii, i Federici d'Alemagna. Onorati dalla santa sede del titolo di Cesare e d'Augusto, pretendono di esercitarne le antiche prerogative, vagheggiano a proprio vantaggio la monarchia universale, e cominciano a scrollare il domma fondamentale della politica cristiana, così gloriosamente proclamata da Carlomagno: la separazione della potestà, e la subordinazione necessaria della potestà temporale alla potestà spirituale.

In Alemagna bandiscono le loro pretensioni con la forza; in Italia, vi cercano un puntello nella popolarità. Sopra tutte le città della penisola soffiano uno spirito d'indipendenza, non per emanciparle, ma per tirarle dalla loro parte. Di che nascono per l'Italia dissensioni interminabili, e per l’Europa le grandi lotte del sacerdozio e dell’impero. L'istinto della loro ambizione diventa l'argomento prediletto dei giuristi cortigiani i quali, nelle università di Bologna e di Padova, si provano di giustificarlo davanti alla gioventù di tutte le nazioni.

Il DIRITTO PUBBLICO e il DIRITTO CIVILE: ecco i due veicoli pei quali le idee politiche e sociali dell’antichità pagana ritornano scientificamente nel seno dell'Europa di Carlomagno le di San Luigi. Se niun fatto è più certo, niuno meglio stabilisce la gran tesi che sosteniamo, cioè:

CHE IL CESARISMO MODERNO NON È CHE UN RAMO AVVELENATO, RINVERDITO SUL VECCHIO TRONCO DEL PAGANESIMO, AL SOFFIO DELL’INSEGNAMENTO CLASSICO.

Ascoltiamo a questo proposito uno dei più celebri filosofi tedeschi.

«Un altro dono non meno sciagurato di quello dell'Aristotele arabo, dice Federico Schlegel, introdotto in Europa dà Federico II, fu l'antico diritto ed il vecchio codice romano, che il ghibellino Federico I confermò solennemente nelle pianure di Roncaglia, con tutti i diritti regolari e con tutte le prerogative della corona che seppe farne rampollare a suo vantaggio; aprendo in tal modo pei secoli successivi l'adito a tutti gli andirivieni del sofismo, a quella dialettica inestricabile del foro, ad una scolastica giuridica senza uscita e senza fine.

«Prima di lui, la giurisprudenza romana, quel codice prolisso di Giustiniano, faceva già autorità sotto gl'imperatori franchi, quando il giureconsulto tedesco Irnerio fondò a Bologna una cattedra di questa nuova scienza. Ma le vecchie formole di dominazione universale che si trovano sparse in quel corpo di diritto romano, favorivano in particolar modo gl'imperatori ghibellini, o essi se ne valsero adunque con assai poco riserbo contro gl'imperatori greci e contro gli altri re, come di titoli evidenti od almeno plausibilissimi del diritto che rivendicavano alla monarchia universale.

«Così, movendo dal tempo dei Ghibellini e per conseguenza della voga dei principii assoluti, quel corpo di leggi romane, le cui formole artificiali ed il cui rigoroso concatenamento, non erano in armonia né con la vita nuova né coi costumi tedeschi, né con lo spirito del cristianesimo; diventa l’oggetto d'una scienza alla moda, o piuttosto occasione d'una nuova malattia del secolo.

«Il vero ufficio della scienza del diritto nell'occidente cristiano sarebbe stato di non vedere in quella vecchia giurisprudenza che un'arte perfetta: di pigliarne per conseguenza le forme, ma di riformare lo spirito secondo i principi e le idee del diritto cristiano, recandosi a coscienza di attingere alle fonti indigene e di raccogliere quella moltitudine di cose eccellenti sparse nelle antiche legislazioni germaniche.

È vero che queste essendo tutte locali ed eminentemente individuali, per la più parte, convenivano ai costumi semplici ed all'infanzia d'una nazione bellicosa, senza corrispondere al bisogno delle più avanzate civiltà moderne; ma però esse ovunque presentano con le tracce di un'alta equità, la base netta e precisa della vera libertà (433)».

«Per determinare il risorgimento dell'antichità soggiunge uno scrittore francese, vi voleva una causa morale; ed essa si presentò.

«Finché non vi aveva in Italia che pretendenti all'impero, usciti dalla schiatta dei Carlovingi, la corona imperiale che Carlomagno aveva posto sotto la tiara, s'inchinò davanti alla tiara sotto il regno dei suoi successori. Ma Ottone I portò in Italia sentimenti nuovi nati in Alemagna. Questi sentimenti ostili al papato, ruppero l'alleanza che Carlomagno aveva formato tra la potestà pontificale e la potestà temporale.

Scoppiò la guerra fra questi due principii, non mediante negoziazioni, né mediante canoniche discussioni, ma mediante violenze, mediante atti di autorità. Sotto la protezione di Ottone e col suo sostegno Gerberto invocò gli autori pagani nella sua lotta, contro la corte pontificia: invocò la ragione umana contro la potestà religiosa ... La libertà riconduceva all'antichità, i cui semi, conservati sino al XIV secolo, germogliarono allora e produssero il Risorgimento. DA QUESTO SCATURIRONO, IN ALEMAGNA, L'INDIPENDENZA RELIGIOSA; IN ITALIA, LA LIBERTA' NAZIONALE; IN FRANCIA, LO SPIRITO FILOSOFICO (434).

È difficile il disegnare con più di precisione e con più di brevità la storia del Cesarismo in Europa. Tuttavia questa esposizione non basta. La questione del Cesarismo è talmente grave in sé stessa, ed è di tanta importanza per le moderne società che richiede maggiore svolgimento.

«I principi di Germania, dice il dotto autore della Storia universale della Chiesa, ai quali i papi trasferirono la dignità imperiale, dopo l'estinzione della linea maschile di Carlomagno, sconobbero a poco a poco l'idea cristiana di questa dignità, per ripigliare a poco a poco l'idea pagana di Nerone e di Caligola. Non si chiamavano ancora dii o sommi pontefici, ma vi tendevano; e poiché i papi si opponevano a questa tendenza, impresero a disfare i papi legittimi ed a farne di loro fabbrica (435)».

Se i nuovi Cesari non si danno ancora per sommi pontefici o per dii, i loro legisti però fin d'allora li presentano come la legge viva e sovrana, come la legge incarnata. «L'imperatore, dicono essi nel secolo XII, è la legge viva, che comanda ai re; da questa legge viva dipendono tutti i diritti possibili; essa li corregge, li scioglie, li lega. L'imperatore è l’autore della legge, e non vi è obbligato se non in quanto vuole. Regola del diritto è il piacer suo (436)».

I giuristi pagani non dicevano diversamente.

Di tal guisa sotto Arrigo V si formula il concetto dell'imperialismo pagano. I suoi successori, coi giuristi di Bologna, ne traggono le naturali conseguenze: che l'imperatore germanico è il solo signore del mondo: il solo proprietario; che né regi né privati non hanno nulla se non dipendentemente dal suo beneplacito: che i sovrani di Spagna, d'Inghilterra e di Francia non sono che re provinciali (437), removibili ad un cenno dell'imperatore.

Le cose erano a questo punto, allorché nel 1135, nella piccola Città d'Amalfi, in Italia, fu scoperto un esemplare delle Pandette di Giustiniano. Quest'avvenimento che attrae l'attenzione di tutta Europa, dà un nuovo impulso allo studio del diritto romano, e giunge opportuno a favorire le cesaree pretensioni di Alemagna.

Lotario fonda una cattedra di diritto romano a Bologna. Una delle sue creature, Irnerio, tedesco di nascita, vi è nominato professore. Tutti gli sforzi del nuovo cattedratico mirano ad ampliare l'autorità del diritto romano. Ottiene facilmente dall'imperatore che le opere di Giustiniano siano citate nel foro, e che abbiano forza di legge nell'impero. I giuristi della sua scuola lo innalzarono sino alle stelle, e lo soprannominarono lucerna juris. Irnerio morì nel 1190.

Trista e dolorosa cosa è il dirlo, ma il risorgimento del diritto cesareo venne dall'Italia, come da essa il risorgimento della filosofia e della letteratura pagana. «Ai tempi d'Irnerio, dice Terrasson, non ci aveva in Alemagna scuole di diritto; e, d'altra parte la giurisprudenza romana si coltivava in Italia più che in alcun'altra parte dell'Europa. Di che avveniva che l'Alemagna mandava i suoi giuristi a formarsi alle scuole d'Italia (438)», nella guisa stessa, che nel secolo XV mandava i suoi letterati a formarsi a Firenze ed a Roma. L'Alemagna però non è sola la tributaria dell’Italia. Alle lezioni dei giureconsulti italiani, Gosia, Bulgaro, Rogerio, Ottone, Ugolino, Azone, Accursio, Cino da Pistoia, Bartolo, Baldo ed altri ancora, la Francia invia i giovani suoi giuristi nei secoli XII, XIII e XIV. Da quelle scuole uscirono, per nominare soltanto i più conosciuti, Pietro di Bella Pertica, Durando lo Speculatore, e Piacentino, il quale insegnò lungo tempo e con grande fama a Monpellieri. L'Inghilterra e la Spagna imitano la Francia (439).

Ora tutta questa progenie di giuristi anteriori al Risorgimento altamente sostiene i principii fondamentali del diritto cesareo. Insegnano fra l'altre cose, che l'impero è d'instituzione divina; essere uno, ed indivisibile; Costantino non aver potuto sminuirlo donando al papa il patrimonio di San Pietro; cotal donazione, in ogni caso, non obbliga punto i suoi successori. Per acquistar fede, ne basterà l'allegare le stesse loro parole.

Il più celebre discepolo di Bartolo, Baldo da Perugia, cui i giuristi del Risorgimento hanno soprannomato Apolline Pizio, discorre in tal modo nella sua Prefazione al Digesto.

«Obbiettate che un tempo l'imperatore ha diminuito i diritti dell'impero facendo una donazione alla Chiesa? Rispondo che quella donazione è un fatto, ma non costituisce già un diritto, e che punto non pregiudica i diritti dei successori all'impero. E per verità se l'imperatore non può imporre al suo successore le proprie sue leggi, a più forte ragione non gli può imporre la legge d'un contratto. Non può menomare i diritti dell'impero, smembrandone una parte e ritenendone un'altra, perché l'impero è un ente indivisibile e similmente la dignità imperiale è d'istituzione divina, e nessun uomo ha potestà di sopprimerla (440)

Per un motivo o per l'altro si lasciano sostenere queste tesi, almeno strane, alla presenza della gioventù. Come si fece in appresso con le idee filosofiche e letterarie del paganesimo, si faceva allora coi principii del Cesarismo, le cui conseguenze terribili ben si era allora lontani dal prevedere.

Dall’Italia però quest'insegnamento si riflette su tutta Europa. Lo troveremo in Inghilterra, nella Spagna e in Francia, professato più o meno esplicitamente dai giuristi regi dei secoli XIII e XIV. Le Collezioni di giurisprudenza antica e specialmente l'opera di Savaron, Della sovranità del re (441), ne contengono la prova.

Ci contenteremo di allegare, fra tutti, il giureconsulto francese, Giovanni da Parigi, il quale nel suo Trattato della potestà del re e del popolo discorre in questi termini: «La donazione di Costantino è nulla, per una quantità di ragioni esposte nella Glossa del diritto civile (442) La prima si è che l'imperatore é chiamato sempre Augusto, perché proprio è dell'imperatore di augumentare l'impero e non di diminuirlo. Di che è chiaro che quella donazione fu invalida. La seconda si è che l'imperatore non è che l'amministratore dell'impero e della repubblica, secondo il testo formale della legge regia. Dunque se il semplice amministratore dell'impero si fa lecito di sminuirlo, o di devastarlo, la donazione è invalida. Tale è l'insegnamento del diritto (443)».

Questo diritto, come apertamente dichiara Giovanni da Parigi, è la legge regia; la qual legge costituì il Cesarismo pagano: la qual legge fatte imprudentemente rivivere, pubblicamente insegnata nelle scuole, invocate continuamente, come fra poco vedremo, da tutti i nemici del papato, cominciando dai Cesari della Germania sino ai moderni rivoluzionari.



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CAPITOLO VI.



STORIA DEL CESARISMO, PRIMA DEL RISORGIMENTO.

DIRITTO POLITICO

(Continuazione).



Dante e la sua opera De Monarchia. - Principii del Cesarismo. - Argomenti di Dante, filosofici, politici e teologici. - Sostiene la monarchia universale e l'onnipotenza di Cesare. - Sua dottrina contraria all'insegnamento cattolico. -Conseguenze che ne fluiscono.


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La dottrina del Cesarismo, tanto aggradevole all'orgoglio dei re, diventa il simbolo dei loro cortigiani, come pure il tema prediletto dei letterati ambiziosi e scontenti del papato: Nel novero di questi ci accuora di trovare fra i primi Dante Alighieri, il celebre cantore della Divina Commedia. Ma quanto più è deplorabile l'aberrazione di questo smisurato ingegno, tanto maggiormente essa diventa perentoria in favore della causa che propugniamo. La lettura degli autori pagani gli ha pervertito il sentimento in politica, come gli ha falsato il gusto in letteratura. Poeta sublime ovunque è cristiano, diventa triviale e ridicolo allorché fa quel bizzarro miscuglio di cose sante e di cose profane, di fiori mitologici e di pensieri cristiani. Così per esempio, trasformando nostro Signore in Giove, esclama: O sommo Giove che foste crocifisso per noi (444). Giurista erudito, Dante ha studiato il diritto, e questo studio aggiunto a sdegni privati lo ha reso ghibellino fanatico. Logico, robusto, deduce in argomenti strettamente concatenati il suo pensiero politico nella sua opera De Monarchia.

Questo libro famoso può essere chiamato il codice del Cesarismo al medio evo. Il poeta giurista stabilisce la sua tesi sopra due sorte di ragionamenti: i ragionamenti filosofici e i ragionamenti politici. I primi consistono, in dire che governando Iddio il mondo mediante un solo movimento ed un solo motore, anche l'umanità, immagine di Dio, debba essere governata da uno solo che è il principe. I secondi sono così formulati: la pace è il supremo bene dei popoli; la pluralità dei principi espone i popoli ad una moltitudine di conflitti: per mantener l'ordine è necessario un superiore unico (445).

Questa teorica che non ammette che un solo impero, una sola società sulla terra, cela, come si vede, un formidabile risorgimento del Cesarismo pagano: Dante insiste su questa idea; la svolge per ogni verso; poscia chiede qual è l'impero che ha diritto alla dominazione universale? E senza esitanza risponde che è l'impero romano. Fondato da Romolo, o piuttosto dalla Natura, sviluppato da Augusto, continuato da Costantino, personificato in Federico l'impero romano sussiste, ancora, e sussiste con tutti i suoi diritti. Il carattere del popolo romano, le sue vittorie, il bene dell'umanità, scopo unico delle sue conquiste, l'elezione di Dio medesimo: tali sono, agli occhi del poeta pubblicista, i titoli imperscrittibili dell'impero romano all’esclusiva dominazione dell'universo.

«Il popolo romano, dice egli, fu creato dalla natura stessa per l'imperio: In fatti, secondo Aristotile, non solamente i privati, ma i popoli nascono, questi per obbedire, quelli per comandare. Dunque il popolo romano che ha conquistato il mondo, aveva diritto di conquistarlo: Iddio stesso lo ha deciso (446)».

Di tal maniera Dante con inaudito ardimento pone la forza nel luogo del diritto. Il medio evo richiedeva altri argomenti; non era filosofo quanto bastasse per accettar quietamente questa brutale apoteosi della forza. Ben lo conobbe Dante, e ricorse a ragionamenti teologici. Udiamo lui stesso: «Se il romano impero non è stato un impero legittimo, il peccato di Adamo non è stato espiato in Cristo. È vero però che Cristo ha espiato il peccato. Ma vuolsi sapere che la punizione non è soltanto una pena inflitta al colpevole; essa include per parte di chi l'infligge una giurisdizione legittima. La pena inflitta senza diritto non è una punizione; è un'ingiustizia. «Se dunque Cristo non avesse patito sotto un giudice legittimo, non sarebbe stato punito né il peccato espiato. Ora, questo giudice legittimo doveva avere giurisdizione su tutto intero il genere umano poiché il genere umano tutto intero era punito nella carne di Cristo, divenuto nostro fideiussore. Ma Tiberio Cesare, di cui Pilato era vicario, non avrebbe avuto giurisdizione sul genere umano, se l'impero, romano non fosse stato legittimo. Perciò Erode, senza sapere quel che faceva, e Caifa, per un decreto della Provvidenza, rimisero Cristo a Pilato affinché fosse giudicato ... Coloro dunque che si dicono figlioli della Chiesa, cessino dall'osteggiare l'impero romano poiché veggono Cristo rendergli omaggio al principio e alla fine della sua vita terrena (447)».

L'impero romano è dunque un impero de jure. Dovete crederlo, sotto pena di negare l'espiazione del peccato in Gesù Cristo, e per conseguenza la redenzione del mondo. Dovete crederlo ancora perché il popolo romano fu il benefattore perpetuo dell'umanità, un popolo santo e il vero popolo di Dio.

«Il popolo romano, ha costantemente mirato al bene generale dell'umanità. Le sue azioni ce lo mostrano scevro di quella cupidigia che ebbe sempre in aborrimento. Con lo stabilire la pace universale e quella libertà così cara agli uomini, quel popolo santo, pio e glorioso, sembra aver negletto i propri suoi interessi per intendere soltanto alla salute del genere umano» (448).

È impossibile il falsare più impudentemente la storia: ma continuiamo. Popolo-Re per diritto di nascita, dominatore universale per vocazione divina benefattore perpetuo del genere umano per le sue conquiste, il popolo romano è il vero popolo di Dio, e l’impero romano è l'istituzione definitiva e voluta da Dio pel bene dell'umanità. «Tutto ciò, dice il logico del Cesarismo, è fuor di dubbio. Quello che non meno è irrepugnabile si è che i Cesari furono e sono ancora gli unti del Signore, contro i quali hanno inutilmente fremuto tutti i re della terra (449)».

Nerone, Tiberio,Caligola, Eliogabalo, Arrigo, Federico Barbarossa, gli unti del Signore! Tali sono le conseguenze a cui riesce Dante, sospinto, da una parte, dalla sua ammirazione per l'antichità pagana; e, dall'altra, dalla sua logica ferrea. Non ci faccia però grande meraviglia cotale aberrazione! la vedremo espressa nei termini medesimi dai giuristi educati alla scuola del Risorgimento.

Nel terminare l'esposizione dei suoi principii, Dante contende di battere un colpo decisivo. Storico, giureconsulto e teologo, colloca il Cesarismo sotto la triplice autorità della storia, della teologia e del diritto. Invoca le grandi memorie che riscuotono la fantasia: si piace in descrivere la grandezza di quel popolo romano, il quale non ha conseguito l'impero se non perché era il più degno di possederlo. Riconosce nei trionfi di lui la mano di Dio; il suo entusiasmo è una vena inesauribile: si direbbe un professore di rettorica, dei quali l'Europa ne ha avuto tanti in quattro secoli, che fa ogni sforzo per risvegliare con qualche rimbombante amplificazione l'entusiasmo della gioventù cristiana per quella Roma così potente, così santa, così feconda di uomini grandi e di grandi fatti: Alma parens, alma virum!

Cosa degna di stupore! Dopo l'intervallo di seicento anni, lo studio ammirativo dell'antichità ha precipitato un compatriota di Dante, Gioberti, in eccessi uguali. L'abito di vivere in mezzo alle rimembranze della Grecia e di Roma facevagli compassionare i popoli rigenerati dal cristianesimo: ed era giunto ad un vero paganesimo politico (450).

La conclusione di Dante si è essere dovere il conservare nella pienezza delle sue prerogative quell'impero romano, la più bella creazione della natura ed il maggior suo beneficio. Tale è pure, come vedremo quanto prima, la conclusione di tutti i giuristi regii usciti dai collegi del Risorgimento: se non che invece di applicarla all'impero romano, ciascun di loro l'applica alla monarchia di sua elezione, aspettando che i rivoluzionari del 1793, rinvenendo ai principii del Cesarismo, imprendano apertamente la restaurazione della Repubblica romana; e diano origine all’impero.

Nell'ultima parte del suo libro, Dante discorre delle relazioni del sacerdozio e dell'impero. Sia timore, sia pudore, qui gli vien meno il coraggio. La conseguenza necessaria dei suoi principii è la riunione della sovranità spirituale e della temporale in una mano sola. I giuristi del Risorgimento dedussero arditamente cotal conseguenza, prima a profitto dei re, poi a profitto del popolo. Il medio evo non era preparato per questa teorica della schiavitù rinnovata del paganesimo. Dante si limita dunque a stabilire l'indipendenza assoluta dello Stato.

Ripigliando i suoi argomenti teologici, dice: «Il sacerdozio e l'impero dipendono direttamente da Dio. L'impero perché esso non procede né dalla Chiesa, né dal vicario di Gesù Cristo, poiché gli ha preceduti. Le due potestà sono indipendenti perché tendono a fini diversi. La potestà imperiale conduce l'uomo al paradiso della terra; la potestà pontificale al paradiso dell'altro mondo. Il paradiso della terra è la pace universale che Cesare solo può dare. Se così è, e se Iddio destina l’umanità ad una duplice beatitudine, alla terrestre cioè ed alla celestiale, il principe romano è l'eletto da Dio pel medesimo titolo e nelle stesse condizioni del sommo pontefice» (451).

La dottrina di Dante è contraria all'insegnamento della teologia cattolica. Essa pecca per la precisione dommatica ch'ei le vuole imprimere; poiché suppone a profitto degli individui e delle famiglie reali una specie di bolla d'istituzione inviata dal cielo.

Certamente che l'origine del potere è divina: non est potestas nisi a Deo, ma l'apostolo non va più avanti: la questione di persona o di dinastia è riservata.

Avvi qui un punto di diritto sociale che fino dai primi secoli viene da san Crisostomo dichiarato con mirabile perspicuità. «Non vi ha potestà che non proceda da Dio. Che dite, mai? Ogni principe è dunque stabilito da Dio? Non dico questo, poiché non parla di verun principe in particolare, ma della cosa in sé stessa, cioè a dire della potestà. Affermo che l'esistenza dei principati è opera della sapienza divina, e che essa fa sì che tutte le cose non siano a balia dei capricci del caso. Laonde l'apostolo non dice già che non vi ha principe che proceda da Dio, ma dice, parlando della cosa in sé stessa: Non vi ha potestà che non proceda da Dio (452)».

Dante, che, nella sua qualità di Ghibellino, ha buone ragioni di negare queste fondamentali distinzioni, afferma di un uomo quello che l'apostolo dice della potestà in generale; afferma di più che quest'uomo-potestà, immediato e diretto rappresentante di Dio, è Cesare, l'imperatore romano, fuori, del cui imperio non avvi per la società né pace, né prosperità, né salute.

Da questa dottrina rampolliamo tre conseguenze: La prima, che la potestà dell'imperatore è al tutto indipendente dalla potestà pontificia;

La seconda, che l'imperatore è il monarca universale;

La terza, che il dominio temporale del papa è un abuso, perche in opposizione con la monarchia universale.

«L'imperatore, dice il logico del Cesarismo, non è il proprietario del potere, ma depositario, usufruttuario: non spetta a lui il modificare il titolo in virtù del quale ei regna. Se dunque Costantino ha ceduto ai papi la sede di Roma, ha operato senza diritto, e la donazione è nulla. Con lo smembrare l’impero ha adoperato contro il diritto imperiale, perché l'ufficio dell'imperatore è di tenere il genere umano sotto la dominazione d'un solo (453)».


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CAPITOLO VII.



STORIA DEL CESARISMO PRIMA DEL RISORGIMENTO

(Continuazione e fine).



Filippo il Bello, suoi atti arbitrari; - Ammonito dal papa - Stati generali. - Loro insensate risposte. - Parole di Luigi Blanc di Sismondi. - Bolla del papa. - La Santa Sede continua ad essere la chiave della vòlta dell'edificio sociale dell'Europa. - Omaggi resi al primato pontificio. - L'imperatore Alberto. - La Bolla d'Oro. ­ Luigi XI. - Arrigo VII. - Alessandro VI e i re di Spagna e di Portogallo.


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La teorica pagana di Dante sopravvisse alle censure di Roma. Perpetuata, almeno riguardo a certi principii, dall'insegnamento del diritto, si distese a poco a poco sull'intera Europa; e nei conflitti che insorgono fra il sacerdozio e l’impero, vedesi costantemente invocata dai giuristi regii.

Alla fine del XIII secolo, Filippo il Bello stima conveniente d'impossessarsi, sotto il nome di diritto di regalia, delle rendite dei vescovati, delle abazie e di altri benefici vacanti nel suo regno, sino alla nomina dei nuovi titolari (454).

Il sommo pontefice Bonifacio, VIII si richiama contro questa sacrilega spogliazione. Nel che non solo adempiva un sacro dovere verso la Chiesa; ma esercitava inoltre un atto eminentemente sociale. Il diritto di proprietà è uguale per tutti. Se lo vulnerate nel vescovo o nel monaco, lo scrollerete nel principe, nel nobile e nel popolano. Questo punto, dopo il 1789, non abbisogna più d'essere discusso.

Invece di riconoscere il proprio errore, Filippo, aizzato dai suoi cortigiani e sostenuto dai giuristi, si ripara dietro i principii del Cesarismo, e si dichiara, in ordine al temporale, indipendente dal papato. In molte lettere, nelle quali traluce la bontà del padre e la fermezza del successore di Pietro, il papa ammonisce il diletto suo figlio di rientrare in sé medesimo (455). Anziché ottemperare in ciò che nel tempo stesso è del proprio interesse e del proprio dovere, il re continua le sue spogliazioni. Allora il vicario di Gesù Cristo minaccia di far uso del diritto sovrano esercitato dai suoi predecessori.

Per risposta, Filippo convoca gli stati generali del suo reame, espone la questione sotto l'aspetto a lui favorevole, e sotto quell'aspetto che oggidì, per antifrasi, si chiamerebbe, la dignità nazionale; ed ottiene tre rimostranze, del clero, della nobiltà e del terzo stato: ciò era nel 1302.

Il clero, posto tra il proprio dovere ed il rispetto che è dovuto alle potestà, indirizza la propria rimostranza al papa, e senza entrare nel merito della controversia, scongiura Sua Santità a mantenere la buona armonia tanto necessaria al bene generale e che regna da sì lungo tempo fra la Madre e la sua Figlia primogenita.

La nobiltà invia la propria al sacro collegio; e gli dice con alterezza che il re di Francia non è soggetto che a Dio, riguardo al temporale; che la nobiltà del regno è pronta a difendere questa dottrina con le armi in mano. Poi soggiungono: «Né le università, né i popoli del detto regno richiedono, né vogliono ricevere né correzione né ammenda sulle predette cose da lui (il papa) né dalla sua autorità; né dalla sua potestà, né da altra, fuor quella del predetto nostro signore il re (456)».

Il terzo stato fece la propria risposta al re medesimo. Questo documento, opera di qualche giurista della scuola di Dante, è un'immensa diceria di parecchie pagine in folio. Vi si fa risalire l'assoluta indipendenza del re di Francia sino ad Adamo; il che è provato dalle parole del Creatore al padre del genere umano: Quod calcaverit pes tuus, tuum erit: la terra sopra la quale tu poserai il piede è tua. Vengono in seguito, l'un dopo l'altro, Melchisedech, Giosuè, Samuele, i Profeti che arringano a favore del re contro il papa!

Puntellato da tante autorità, il terzo stato conclude non solo incitando Filippo alla resistenza, ma, morto essendo il papa, chiede che il re ne punisca la memoria: «Voi, nobile Re sopra tutti gli altri principi, ereditario difensore della fede, distruttore dell’ingiustizia, potete e dovete e siete in obbligo di richiedere e procurare, che il detto Bonifacio sia tenuto e punito in quel modo che si potrà e dovrà e si dee fare dopo la sua morte: sì che la sovrana vostra franchigia sia mantenuta e dichiarata» (457).

«Insensati, grida Luigi Blanc, non sapete che l’indipendenza dei re è la schiavitù dei popoli»! (458)

«Allora, soggiunge il protestante Sismondi, PER LA PRIMA VOLTA, la nazione ed il clero si riscuotono per difendere la libertà della Chiesa gallicana. Avidi di servitù, chiamarono libertà il dititto d'immolare persino la propria coscienza ai capricci dei loro padroni, e di respingere la protezione che un capo straniero ed indipendente offriva loro contro la tirannide. In nome di quelle libertà della Chiesa, si ricusò al papa il diritto di prendere cognizione delle tasse arbitrarie che il re levava sul clero; dell’imprigionamento arbitrario del vescovo di Pamiers; dell'arbitrario incameramento delle rendite ecclesiastiche di Reims, di Chàlons, di Laon, di Poitiers; si ricusò al papa il diritto di dirigere la coscienza del re, di fargli rimostranza sull'amministrazione del suo regno e di punirlo con le censure della scomunica, allorché violava i propri giuramenti ... Sarebbe stata troppa ventura pei popoli che i sovrani dispotici riconoscessero ancora sopra ad essi una potestà venuta dal cielo, che gli arrestasse nella via del delitto (459)».

Alle prime aberrazioni della Francia, alle parole ed ai fatti violenti, il padre comune sta pago di contrapporre con calma il diritto pubblico della società cristiana. In un linguaggio, pieno di dolcezza e di dignità, la bolla Unam sanctam, richiama i grandi principii sui quali poggia il primato del vicario di Gesù Cristo, e che soli valgono ad infrenare il despotismo dei re e sono il baluardo della libertà dei popoli. Questo monumento della sollecitudine pontificale è di tanta importanza nella grave questione ché agitiamo, da doverlo riferire in tutta la sua integrità.



BONIFACIO SERVO DEI SERVI DI DIO.

«La fede ci obbliga di credere e di professare che la santa Chiesa cattolica, apostolica è una..... E poiché la Chiesa è una ed unica, essa non è che un corpo solo, avendo, non due capi, il che sarebbe mostruoso, ma un capo solo, cioè: Gesù Cristo, e Pietro vicario di Gesù Cristo, e il successore di Pietro; avendo il Signore detto a Pietro medesimo: Pasci le mie agnelle, in generale: il che dimostra che gliele ha confidate tutte senza eccezione. Se dunque i Greci ed altri, ancora affermano che non sono stati affidati a Pietro ed ai suoi successori, è d'uopo che confessino non essere eglino le agnelle di Gesù Cristo, poiché il Signore ha detto, secondo San Giovanni: Che non vi ha che un solo gregge ed un solo pastore.

«Il Vangelo c'insegna eziandio avere esso in sua potestà le spade, l'una spirituale e l'altra temporale, poiché avendo detto gli apostoli: Ecco due spade qui, cioè nella Chiesa, poiché quelli che parlavano erano gli apostoli, il Signore non rispose già: E troppo; ma: Basta.

«Per fermo chi nega che la spada temporale sia in potestà di Pietro, sconosce questa parola del Salvatore: Rimetti la tua spada nel fodero.

«La spada spirituale e la spada materiale sono dunque l'una e l'altra in potestà della Chiesa: ma questa debba essere impiegata per la Chiesa; e quella, dalla Chiesa. Questa è nelle mani del sacerdote; quella, in mano, dei re e dei soldati, ma sotto la direzione e la dipendenza del sacerdote. Una di queste spade debba essere subordinata all'altra, e l'autorità temporale debba essere sottomessa alla potestà spirituale.

«In fatti, secondo l'Apostolo: Ogni potestà procede da Dio. Quelle che esistono sono ordinate da Dio. Ora, esse non sarebbero ordinate se una spada non fosse sottomessa all'altra spada, e come inferiore, da essa condotta all'esecuzione del volere sovrano. Imperocchè, secondo San Dionigi, è una legge della Divinità che ciò che è infimo sia per intermediari coordinato a ciò che è sopra a tutto. Così; in virtù delle leggi dell'universo, tutte le cose non sono condotte all'ordine immediatamente ed al modo stesso; ma le cose basse dalle mediane, l'inferiore dal superiore.

«Ora, la potestà spirituale sopravanza in nobiltà e in dignità qualunque potestà terrena; e dobbiamo ciò ritenere per così certo, quant'è parvente che le cose spirituali stanno sopra le temporali. Ciò è che non meno chiaramente fa vedere l'oblazione; benedizione e la santificazione delle decime, l'istituzione della potestà e le condizioni necessarie del governo del mondo.

«Infatti, per testimonianza della Verità stessa, spetta alla potestà spirituale l'instituire la potestà terrena, e il giudicarla, se non è buona. Così si verifica l'oracolo di Geremia riguardo alla Chiesa e alla potestà ecclesiastica: Ecco che io ti ho costituito sulle nazioni e sui regni, con quel che segue.

«Se dunque la potestà terrena forvia, essa sarà giudicata dalla potestà spirituale. Se la potestà spirituale d'un ordine inferiore erra, sarà giudicata da quella che le è superiore. Se erra la potestà suprema, l'uomo non può giudicarla, ma Dio solo, secondo il detto dell'Apostolo: L'uomo spirituale giudica e non è giudicato da nessuno.

«Ora, cotal potestà che, sebbene conferita all'uomo ed esercitata dall'uomo, è non umana, ma divina, Pietro l'ha ricevuta dalla stessa bocca divina, e Colui, ch'ei confessò, l'ha resa per lui e pei suoi successori irremovibile come la pietra. Imperocchè il Signore gli ha detto: Tutto quello che legherai, ecc. Dunque chiunque resiste a questa potestà così ordinata da Dio, resiste all'ordine di Dio medesimo, eccettochè, come il manicheo, non immagini due principii, la qual cosa giudichiamo essere un errore ed un'eresia. Laonde Mosè attesta che nel principio e non nei principii, Iddio creò il cielo e la terra.

«Perciò, ogni umana creatura deve essere sottomessa al romano pontefice, e noi dichiariamo, affermiamo, definiamo e pronunziamo che tale sommissione è assolutamente di necessità di salute (460)».

Questa esposizione di principii fu in certa guisa il testamento del coraggioso pontefice, il quale morì subito dopo. Non era forse mai stato dato avvertimento più chiaro e più solenne all'Europa per richiamarle l'antica via seguita dai suoi padri ed i pericoli della nuova strada in cui la s'intricava imprudentemente. Questa nuova via era il Cesarismo che, ripulsando il sindacato sociale del papato, aprir doveva l'era delle rivoluzioni: e, dopo di aver consacrato la prevalenza della forza, stabilire in diritto il sindacato del pugnale: Noi siamo a questo punto.

Intanto che diciamo come l'Europa sia giunta a questi estremi confini della barbarie, citiamo in prova l'ultima bolla del papa della demagogia moderna. Nel mese di giugno del 1856 dell'èra cristiana, Mazzini indirizza ai socialisti il seguente proclama. Dopo aver parlato dell'assenza del diritto, dell'oppressione dei popoli e dei governi dell'Europa, responsali avanti a Dio ed avanti agli uomini dei colpi di pugnale che guizzano come lampi in mezzo alle tenebre, continua:

«Se un uomo del popolo si alza e pugnala un Giuda di pieno mezzogiorno sulla via pubblica, non sento in me il coraggio di scagliare la pietra a quell'uomo, che assume sopra di sé di rappresentare la giustizia sociale odiata dalla tirannide. Per parte delle persone oneste non temo una sinistra interpretazione delle mie parole, se soggiungo avervi nella vita e nella storia delle nazioni momenti eccezionali a cui non possono applicarsi i giudizi ordinari degli uomini, e che non ammettono che le inspirazioni della coscienza e di Dio.

«Il pugnale che Armodio inghirlandava di rose, è stato un'arme santa: santo il pugnale di Bruto; santo lo stilo del Siciliano che diè il segno dei vespri siciliani; santo il dardo di Guglielmo Tell. Allorché in un paese dove è morta ogni giustizia, dove un tiranno opprime col terrore la coscienza d'una nazione, e rinnega Dio che la vuol libera, un uomo scevro d'odio e di ogni vile passione, mosso dal solo amore della patria e del diritto eternalmente incarnato in lui, si alza in faccia al tiranno e gli grida: «Tu martori parecchi milioni dei miei fratelli, tu ricusi loro quello che Iddio aveva loro concesso; tu ne tormenti i corpi e ne corrompi le anime: per te la mia patria agonizza ogni dì: su te posa un intero edificio di schiavitù, di disonore e di vergogna; or bene, io do il crollo a quest'edifizio trucidandoti a morte»! Allora riconosco in questa manifestazione di terribile eguaglianza tra il padrone di tanti milioni d'uomini ed un solo individuo, IL DITO DI DIO ... (461).

L'Europa del XIV secolo non era a tal punto. Non ostante la momentanea ostinatezza ed anche le riprovevoli violenze di Filippo il Bello; non ostante le proteste rivoluzionarie degli Stati del 1302, rinnovate agli Stati del 1360 e del 1406; nonostante le dimostrazioni pressappoco simili dei baroni inglesi nel 1301; non ostante gli scalpori dei legulei che si erano costituiti custodi e difensori delle pretese franchigie e libertà cesaree, la sede apostolica continua ad essere l'anima della religione l'anima della società.

E questo è così vero, che Arnaldo da Brescia, ed il tribuno Rienzi, infatuati della classica antichità, si provano indarno di ristabilire in Roma l'impero romano con le prerogative di Cesare.

Questo è tanto vero, che abbiamo veduto i re di Francia, d’Inghilterra e d'Aragona sottomettere umilmente le loro contese al sommo pontefice e riferirsi fedelmente alla sua decisione.

Questo è tanto vero, che, nel 1303, vediamo l'imperatore Alberto scrivere al papa:

«Riconosco che l'impero romano è stato trasferito dalla sede apostolica dai Greci ai Germani, nella persona di Carlomagno: che il diritto di eleggere il re dei Romani, destinato ad essere imperatore è stato concesso dalla sede apostolica a certi principi ecclesiastici e secolari: che i re e gl'imperatori ricevono dalla sede apostolica la potestà della spada materiale; che i re dei Romani i quali debbono essere promossi imperatori sono approvati dalla medesima sede, principalmente e specialmente per essere gli avvocati ed i principali difensori della santa Chiesa romana e della cattolica fede (462)».

Ciò è tanto vero, che gl’imperatori d’Alemagna, successori d'Alberto continuano, a termini della Bolla d'oro, data nel 1350, a riguardarsi come la spada della Chiesa; che ricevono la corona dalle mani del papa, e che l'assemblea degli elettori dell'impero ha più somiglianza con un conclave di cardinali, che con un'adunanza di principi secolari (463); che i diritti d'Immunità e di annate, duplice omaggio della rispettosa sommessione dell'Europa e della figliale sua pietà verso la santa sede, sono generalmente rispettati (464); che i delitti contro Dio sono sempre i più grandi delitti, agli occhi della legge; che l'eresia, ben lontana dal possedere il menomo diritto civile, è riguardata sempre come un flagello, perseguitata come un nemico pubblico (465): in una parola che in tutti i codici dell'Europa il re vien dopo Gesù Cristo, l'uomo dopo Dio.

Questo è tanto vero che poco prima che il torrente del paganesimo non trascinasse tutto dietro a sé, al momento in cui volgeva a fine il secolo XV, il primato pontificio, in quattro memorande circostanze, riceveva un nuovo omaggio dai più grandi principi dell'Europa.

Pio II lagnasi a Luigi XI dell'atto pel quale Carlo VII aveva rinnovato la Prammatica sanzione; e Luigi XI depone quei privilegi ai piedi del santo, padre, scrivendogli il 27 novembre 1461: «Usa quindinnanzi, nel nostro regno, della tua potestà come vorrai» (466).

Arrigo VII d'Inghilterra, dopo aver felicemente condotto a termine la guerra delle due Rose, e riunito col suo matrimonio York a Lancastro, chiede al papa Innocenzo VIII la sanzione dei suoi diritti, e, nel 1487, ne ottiene una bolla che pronunzia l'anatema contro chiunque osasse di usurpare il trono a lui od ai suoi eredi. Cristoforo Colombo ha scoperto il nuovo mondo, e ne ha preso possesso in nome del re Ferdinando e della regina Isabella. Questi potenti monarchi si rendono solleciti di chiedere al vicario di Gesù Cristo la conferma dei loro diritti. Per risposta, il papa manda loro con un mappamondo, su cui era tracciata una linea di confine (467), la bolla del seguente tenore:

«Nella pienezza dell'apostolica potestà, dell'autorità che Iddio ci ha dato nella persona di San Pietro, e nella nostra qualità di vicario di Gesù Cristo, le cui funzioni Noi esercitiamo sulla terra, doniamo, accordiamo ed assegniamo per le presenti, in perpetuo a voi ed ai vostri eredi e successori, re di Castiglia e di Leon, tutte le isole e terre ferme scoperte e da scoprirsi dai vostri inviati e capitani, verso l'occidente ed il mezzodì, conducendo una linea da un polo all'altro, a cento leghe dalle isole Azore, dalla parte del mezzodì e dell'occidente. Non intendiamo, per altro di pregiudicare il possesso dei re e principi cristiani in ciò che essi avessero scoperto prima del Natale ultimo (468)».

Poscia richiamando lo scopo di quel diritto supremo, il pontefice dice che concede loro quel mondo affinché essi lo diano al Re dei re, facendolo entrare, mediante il battesimo, nella grande famiglia dei popoli cristiani.

«A condizione, dice il papa, che in virtù della santa obbedienza ai nostri ordini, e secondo le promesse che ci avete fatto e che Noi non dubitiamo manterrete, abbiate ogni cura d'inviare in quelle terre ferme ed in quelle isole, uomini dotti, sperimentati e virtuosi, per ammaestrarne gli abitanti nella fede cattolica e nei buoni costumi (469)».

Finalmente, quando nel 1494, in proposito delle loro conquiste in Africa, nei reami di Algeri, di Tunisi, di Fez e di Marocco, insorge un conflitto tra la Spagna ed il Portogallo, una sentenza arbitrale della santa sede stabilisce e determina i loro rispettivi possedimenti (470).


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CAPITOLO VIII.



STORIA DEL CESARISMO PRIMA DEL RISORGIMENTO.

DIRITTO CIVILE.



Diritto civile cristiano. - Sue origini. - Suoi caratteri - Varietà. ­ Semplicità. - Assicuratore di tutte le franchigie e conservatore del carattere nazionale. - Amministrazione patriarcale della giustizia. - Passo del cancelliere dell'Hospital. - Carlomagno. - San Luigi. ­ Sconvolgimento dell'antico ordine per l'introduzione del diritto romano. - Le liti. - La giustizia venale. - Il parlamento permanente. - La creazione degli avvocati. - Nuovo passo dell'Hospital



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Nella guisa che aveva creato un diritto politico, il cristianesimo aveva anche creato un diritto civile. Fondato sui principi del Vangelo, sulle consuetudini delle nazioni eredi dell’impero romano ed anche sulle regole della giustizia e della naturale equità che si trovano nella legislazione romana, questo diritto era in armonia con la fede, coi costumi, coll'indole dei nuovi popoli. Concordava col diritto politico cristiano, e l'uno e l'altro erario perfezionati dal diritto canonico; nella guisa stessa che tutte le scienze erano perfezionate dalla teologia.

La varietà e la semplicità costituivano i caratteri principali del diritto civile. Il Vangelo che non è venuto per distruggere, ma sì per perfezionare la natura, lascia a ciascun popolo come a ciascun individuo il carattere che lo distingue. Così la famosa legge Gombetta, fondata sulle consuetudini dei popoli germani, resse il regno di Borgogna.

Gli antichi Galli, abitanti del suolo prima dell'invasione franca, continuavano ad osservare il diritto romano in tutto ciò che non era contrario alla loro costumanza (471).

I paesi occupati dai Franchi erano soggetti alla legge salica.

I Franchi abitanti delle rive del Reno, e fondatori del regno di Colonia, erano giudicati secondo le leggi ripuarie.

I Bavari seguivano il codice bavaro.

I Goti seguivano le leggi gotiche.

I Longobardi le leggi longobardiche.

Somigliante alla tribù di Levi, che non ebbe porzione nello partimento della terra promessa, il clero si reputava non appartenere a verun popolo: Di che avviene che il diritto romano era la legge degli ecclesiastici, di qualsiasi nazione ei fossero.

Nelle diverse legislazioni che abbiamo enumerato, trovasi qualche vestigio del diritto civile dei Romani (472). Poco dopo questi vestigi svaniscono. I Visigoti di Spagna abbandonano completamente il diritto romano; ed un luogo dei nostri Capitolari lascia credere ch'ei fosse abolito anche presso i Franchi (473). In ciò che se ne era conservato, tutto quello che era contrario allo spirito cristiano ne era stato direttamente abolito od era caduto in dissuetudine, di qualità che, nel medio evo, il diritto civile, considerato in complesso, era cristiano e nazionale (474). Alla varietà aggiungevasi la semplicità. Alcune leggi scritte, consuetudini ereditarie consacrate da atti autentici ed entrate nei i costumi formavano la base e l'interpretazione del diritto, di cui indicavano la sanzione. Nel silenzio della consuetudine, si ricorreva al diritto romano, non come a testo obbligatorio, ma come a ragione scritta.

Questa legislazione indigena, appropriata a ciascun popolo, era conosciuta da tutti coloro che ne erano governati. Da ciò nacque l'istituzione veramente sensata d'un giurì, ben diverso da quello della Rivoluzione. Non solamente ciascuna classe di cittadini era giudicata secondo la legge della propria nazione, ma ciascun cittadino aveva anche per giudici i suoi pari. Un Gallo era giudicato da un Gallo; un Franco da un Franco; un Borgognone da un Borgognone. Ciascuna causa era decisa da giudici del medesimo grado e della medesima condizione dei litiganti e scelti fra gli abitanti del luogo dove le parti avevano domicilio. Il magistrato che presiedeva era assistito ordinariamente da dodici pari, secondo l'uso degli antichi Germani (475).

Di tal guisa il carattere principale del diritto era la personalità; non già che ciascun individuo potesse eleggere la legge dalla quale doveva esser retto; il diritto era personale in questo senso che ciascuno era retto dal diritto della propria nazione. Tale era l'amore dei nostri padri per le loro libertà e per le loro franchigie, per tutto ciò che mirava a conservare a ciascuna nazione, a ciascuna città, il carattere suo originale e la vita sua propria, che, al tempo dell'emancipazione dei comuni per opera di Luigi il Grosso, ciascun comune emancipato ebbe la sua carta particolare, che stabiliva a profitto pel comune un sistema particolare d'amministrazione. In essa erano stipulate le immunità municipali, il diritto dei cittadini di scegliere i loro magistrati, la milizia locale: di nominarne gli ufficiali e di fare regolamenti in ordine alle donazioni, alle successioni ed agli altri interessi del comune (476).

Quello che avveniva in Francia succedeva anche in tutti Europa: la Spagna è celebre pei suoi Fueros. Si ammira ancora il detto sacramentale che il gran giustiziere d'Aragona, a nome delle Cortes; indirizzava al re di Spagna nel giorno della sua incoronazione.

«Noi che valiamo quanto voi e che possiamo più di voi, vi facciamo nostro re e signore, a condizione che manteniate le nostre franchigie: se no, no (477)».

La semplicità stessa della legislazione, indizio manifesto dice Tacito, della perfezione sociale (479), rendeva le liti rarissime e facilissime a giudicarsi. Non essendo la scienza del diritto una scienza esotica, inutile era il ministero degli avvocati e dei procuratori; non se ne conosceva punto. Alcune belle pagine del cancelliere dell'Hospital ci descrivono l'amministrazione della giustizia in quei tempi di barbarie che, come noi, ha il cattivo gusto di rimpiangere.

«Primieramente, dice egli, è d'uopo credere che i nostri padri vivevano in una sì grande semplicità, schiettezza e sincerità, che non ci aveva quasi liti e contese fra loro; ed il più certo argomento di ciò è il piccolo numero di giudici che avevano per ispacciare le loro liti.

«Carlomagno mandava ordinariamente in tutti i luoghi ed in tutte le province del suo regno persone probe e capaci per rendere ed amministrare la giustizia, riparare gli abusi, i torti e soprusi, oppressioni e violenze fatte di chi che fosse (479); ed allorché presentavasi qualche negozio importante o qualche contesa fra grandi signori, faceva venire le parti al suo cospetto, prendeva conoscenza della causa, e le appuntava, od almeno in caso di difficoltà, faceva esaminare il processo nel suo consiglio, ed egli stesso ne pronunciava la sentenza.

«San Luigi fu al suo tempo un grandissimo giudice. Questo buon principe, dopo di aver ascoltato la messa, andava ordinariamente al bosco di Vincennes, sedeva al piè d'una quercia facendo sedere presso di sé alcuni signori del suo parlamento, poscia ad alta voce domandava se vi fosse qualcheduno che chiedesse giustizia, e che avesse lite. Se alcuno si presentava, li ascoltava tranquillamente, poscia pronunziava la sentenza dopo di aver udito le due parti, e, notate diligentemente questo punto, senza ministero d'avvocati né di procuratori.

«Ecco per vero un'ammirabile semplicità, dalla quale noi siamo tanto lontani che é facile ci giudicare che l'avarizia dei secoli posteriori ha fatto a poco a poco salire l’ingiustizia ed il sofisma al pendio sdrucciolevole a cui è oggidì. Sappiamo dai nostri antichi che l'imperatore Carlomagno fu il primo dei nostri re ad autorizzare i gentiluomini, che avevano grandi feudi con diritto di censo e di rendite sopra alcuni popolani e contadini, di udire le loro contese e di rendere la giustizia. Ma tutto questo si faceva in nome del re e soltanto in forma di commissione: e non pensiamo mai alla beata condizione di quei secoli se non quando deploriamo le miserie che ci sono state recate dal sovvertimento di quell'ordine. Perché allora i signori non profittando delle liti dei loro vassalli, non erano solleciti di moltiplicarle, né di favorire i litiganti (480).

Qual fu la cagione di questo sovvertimento e delle miserie ch'esso ha recato in Europa? Fu, almeno in gran parte, l'introduzione del diritto romano. San Luigi ottenne una copia delle Pandette: «Se si fossero soltanto corrette, dice Refugio, sopra questa compilazione più dotta che regolare, le antiche leggi barbare, la legislazione avrebbe nel tempo stesso acquistato maggior chiarezza e precisione; ma essa fu adottata nella sua interezza, e le antiche leggi furono neglette, non però del tutto abrogate (481)».

Sostituendosi a poco a poco il diritto romano alla legislazione indigena ed a quella giustizia in certa guisa patriarcale, in cui non erano necessari gli avvocati, poiché si trattava di consuetudini conosciute da tutti, le liti si moltiplicarono ed obbligarono a fare dell'ufficio di rendere la giustizia un ufficio permanente e perciò venale.

Cessando la giustizia di essere gratuita, continua il cancelliere dell'Hospital, tutto è stato pervertito. E poiché i giudici allettati da un guadagno sordido e vile, hanno incominciato ad amare le liti, il popolo vi si è talmente avvezzato, e la curia ha preso tal credito presso noi, che non ci vuole oggidì minor tempo a diventare buon curiale, cioè dotto nel mestiere di mantener le liti, che a fare un dottore in diritto o nella facoltà di medicina (482).

Le pretensioni cesaree di Filippo il Bello e le servili rimostranze degli stati generali del 1302, affrettarono in Francia lo stabilimento del diritto romano, tutto sparso di massime assolutiste (483).

Il cancelliere dell'Hospital lo nota dicendo:

«Sappiamo dalla nostra storia che al tempo di Filippo il Bello, verso il 1300, si trovò necessario di edificare nell'isola di Parigi un palazzo reale, dove tutti e ciascuno potrebbero rivolgersi, come alla persona propria del re, per aver ragione di tutte le contese mediante giudizio sovrano (484)». Il parlamento, che fino allora era ambulante, divenne stabile: da temporario diventò permanente, e fu d'uopo stabilirne altri nelle altre città. Nondimeno, sia a motivo della difficoltà di farsi giudicare in parlamento, sia a motivo della ripugnanza che il sentimento cristiano e nazionale opponeva alla nuova legislazione, le liti in parlamento erano ancora comparativamente in piccolo numero.

«Non è dunque a stupire, soggiunge il cancelliere quello che leggiamo del poco numero di liti, e di quello che troviamo scritto che in quel tempo l'erba verdeggiava nel cortile del palazzo di Parigi come nei prati e nei campi.

«Non si sapeva allora che cosa fosse il perorare in iscritto, e produrre le cause avanti ai giudici. Vi erano uditi i testimoni, i documenti, i titoli, gli stromenti vi erano letti ed esaminati, ed il giudice, per avviso del consiglio che vi assisteva, dava il suo giudizio ... Quest'ordine fu cangiato: si produssero i documenti per iscritto; e da ciò anche i processi in iscritto che furono dappoi così frequenti nella scienza della curia (485)».

Il male non fece che aggravarsi, allorché il diritto romano, prendendo ogni giorno nuovo augumento moltiplicò i giuristi e creò gli avvocati.

Udiamo ancora il cancelliere:

«Faccio un’altra osservazione di grandissima conseguenza pel mio disegno, e che dimostra la lealtà e la previdenza mirabile dei nostri predecessori, cioè che le parti erano in antico udite di loro bocca, senza ministero di verun avvocato né procuratore, e ciascuno era obbligato di venire personalmente alle citazioni: volendo per tal mezzo soffocar le liti al loro nascere e così impedire tutti i germogli che spesso pullulano da un cattivo tronco (486)».

Sino al Risorgimento ed anche posteriormente, era necessario ottenere dal re lettere che si chiamavano lettere di grazia per poter litigare mediante procuratore.

Francesco I, il gran promotore del diritto romano, come pure dell'arte e della letteratura pagana, nel 1528, rese perpetue cotali lettere di grazia, usque ad revocationem. «Perciò, aggiunge l'Hospital, furono in numero eccessivo creati i procuratori tanto alle corti sovrane come alle subalterne; e questa sorta di gente, la maggior parte della quale non ha altro scopo che di far moltiplicare, rampollare ed eternare le liti, non vede mai cattiva nessuna causa, se non quando la parte è povera, e non ha mezzi di sopperire alle spese, oppure quando ha smunto i propri clienti sino al midollo, è favorita anche dai cattivi giudici, perché, in loro gergo, conduce acqua al molino. «Il dotto Budeo lagnasi in grande maniera del suo tempo (487), e sostiene che una terza parte degli uomini di questo regno che sono in qualche posto, vivono e si mantengono nella curia delle spoglie altrui. Facile è dunque il giudicare che da questa mala semenza sono sorti e moltiplicati all'infinito i litigi in tutto il regno, perché non vi ha parte od angolo in questa che non sia popolato, da questo mal seme (488).


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CAPITOLO IX.



STORIA DEL CESARISMO PRIMA DEL RISORGIMENTO.

DIRITTO CIVILE.

(Continuazione e fine).



Foga pel diritto civile dei Romani. - Pericolo di questo studio. - Bolla di Onorio III. - Divieto d'insegnare il diritto romano a Parigi. - Bolla d'Innocenzo IV, sullo stesso soggetto, indirizzata a tutta l'Europa. ­ Preghiera ai re di far cessare l'insegnamento del diritto romano. ­ Luogo notevole di Rogero Bacone. - l legisti continuano questo studio. ­ Loro carattere. - Stato politico e civile dell'Europa prima del 1453.



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Fin da principio i sommi pontefici avevano veduto le funeste conseguenze del Cesarismo politico, e lo avevano combattuto con una perseveranza e con una energia troppo ben giustificate oggidì da quattro secoli di rivoluzione. Con non minore costanza si oppongono all'introduzione del Cesarismo nell'ordine civile. Fra le molte testimonianze di questo fatto, ci contenteremo di riferire le due celebri bolle d'Onorio, III e d'Innocenzo IV.

Il diritto romano insegnato nella maggior parte delle università come ragione scritta, è non come testo obbligatorio, si sostituiva finalmente, come abbiamo veduto, al diritto indigeno, e, mediante alcuni principi aiutati dai giuristi, invadeva l'Europa. La tendenza della gioventù ed anche di una parte del clero nel secolo XIII e XIV, per questo studio classico, era un tristo preludio della foga che doveasi manifestare al Risorgimento. I papi, nella loro intelligente sollecitudine, segnalarono con forza questo nuovo pericolo.

Nel 1210 Onorio III dà, specialmente per la Francia, la sua bolla Super specula. «Senza dubbio, dice egli, la santa Chiesa non ricusa il concorso delle leggi civili nelle quali trovansi i vestigi della giustizia e dell'equità. Nondimeno, stantechè in Francia ed in altre regioni i laici non si servono del diritto romano, e di rado si presentano cause ecclesiastiche di tal natura che non possano essere definite dal diritto canonico, affinché maggiormente si intenda alle scienze sacre, interdiciamo assolutamente e vietiamo rigorosamente a chiunque sia a Parigi, sia nelle città od altri luoghi vicini, d’insegnare o di studiare il diritto civile; e se alcuno osa fare il contrario, esso sia non solo privato del diritto di difendere le cause, ma scomunicato anche dal vescovo del luogo (489)».

Questa bolla ha dato materia a molte chiose: applicando alcuni il divieto soltanto agli ecclesiastici; mantenendo altri che riguarda anche i laici (490). Quello che è certo si è che fu osservata dai membri del clero.

«Gli ecclesiastici, dice il signor Fournel, si ostinarono a trattare tutte le materie coi principii e con le forme del diritto canonico, la qual cosa assorbiva l'autorità del re, sottomettendo la sorte della fortuna dei francesi alla dominazione della corte di Roma. Per correggere quest'abuso, Filippo il Bello con l'ordinanza del 1287, escluse gli ecclesiastici dall'esercizio della giustizia temporale e dall'ufficio di procuratori (491)».

Se le parole di Onorio sono suscettive d'interpretazioni diverse, non ne è meno manifesto il dolore profondo che sentiva la santa sede vedendo quanto progressivamente andasse ampliandosi il diritto romano, il cui ultimo risultamento esser doveva di sostituire un diritto straniero al diritto nazionale, e di far perdere in tal modo all'Europa. col suo impronto originale una parte dello spirito cristiano.

Questa previdente sollecitudine, di cui si è avuta si poca riconoscenza al papato, la troviamo in Innocenzo IV. Nel 1254, l'illustre pontefice, promulga la sua bolla Dolentes. Vi si trovano le stesse lagnanze, le stesse minacce che in quella d'Onorio: con questa differenza che il papa non si rivolge solamente alla Francia, ma a tutti i re dell'Europa, scongiurandoli di fare cessare nei loro reami lo studio del diritto romano, se non come ragione scritta, almeno come testo obbligatorio.

«Innocenzo, vescovo, servo dei servi di Dio, a tutti i prelati dei reami di Francia, d'Inghilterra, di Scozia; di Galles, di Spagna e di Ungheria, salute ed apostolica benedizione.

«Pieni di dolore apprendiamo come la tribù clericale, un tempo così pia e così santa, obliando la primiera sua dignità, discende dall'altezza della santità, all'abisso del vizio. Infatti molti rapporti stancano di continuo le nostre orecchie di orribili notizie, e ci fanno sapere che trascurando, e, ciò che è più grave, dispettando gli studi filosofici, per non parlar ora delle scienze sacre, i chierici corrono a turbe alle lezioni del diritto laicale. E quello che ben altrimenti merita la collera di Dio, nel tempo presente, in molte parti del mondo, i prelati non eleggono più per le dignità ecclesiastiche, per le cariche e per le prebende alcun suddito che non sia professore di diritto laicale o avvocato ...

«Per questa irrefragabile costituzione, statuiamo che in avvenire nessun professore di diritto laicale o avvocato, quali che ne siano i titoli ed i privilegi che gli attribuisce l'alto suo sapere nel diritto laicale, sia eletto alle dignità ecclesiastiche, personali, e prebende, e neppure pei benefici d'un ordine inferiore, eccettochè non sia versato nelle altre scienze liberali, e spettabile per la sua vita e pei suoi costumi. Imperocchè le elezioni di tal genere disonorano il clero, ne sbandiscono la santità, vi fanno regnare il fasto e la cupidigia a tal segno che le viscere della santa madre Chiesa ne sono dilaniate da inenarrabili dolori. Se alcuni prelati osassero, per una rea presunzione, di invalidare questo salutare statuto, sappiano che il loro atto è nullo di pieno diritto, e che essi stessi per questa volta sono privati della potestà di collazione. E se osano di replicare la loro ribellione, avranno a paventare la privazione delle loro proprie prelature.

«Oltracciò, come nei reami di Francia, d'Inghilterra, di Scozia, di Galles, di Spagna e di Ungheria, le cause dei laici sono giudicate non secondo il diritto romano, ma secondo il diritto consuetudinario dei laici, e che possono essere decise dalle costituzioni ecclesiastiche dei santi Padri; e poiché il diritto romano, principalmente a motivo della malizia degli uomini, sommove ben più che nol rassodi il diritto canonico ed il diritto consuetudinario, per avviso e ad instanza, dei nostri fratelli e di altri religiosi, statuviamo che nei suddetti reami le leggi laicali non siano più insegnate, se però i re ed i principi lo trovano opportuno, fermo per altro in tutto il suo vigore il nostro primo statuto.

«Dato a Roma, ecc.» (492)



Un decreto della corte del re, del 1267, conforme al voto della Santa Sede, tenta di porre un freno alla funesta tendenza degli spiriti verso lo studio del diritto romano. È dunque un fatto notevolissimo consegnato alla storia che nel mezzo del secolo XIII, il diritto consuetudinario, cioè il diritto nazionale, completato dal diritto canonico, regnava esclusivamente fra i laici nei principali reami dell'Europa, e che il desiderio della santa sede era che l'ordine delle cose fosse religiosamente conservato. Nulla di più saggio di questo desiderio del padre comune. Il cancelliere dell'Hospital ci ha fatto conoscere le miserie incalcolabili che recava nell'ordine sociale l'invasione progressiva del diritto romano, e Innocenzo IV ci rivela le conseguenze non meno funeste che ne derivavano nell'ordine religioso.

Nella stessa guisa ch'essa, in appresso, fu sorda alle voci che le segnalavano i pericoli del suo entusiasmo pel paganesimo filosofico, artistico e letterario, l'Europa del secolo XIII e XIV si mostrò troppo poco docile agli ammonimenti del papato e, continuò a trastullarsi col risorgimento del paganesimo legislativo. Nondimeno la verità non manca mai di testimoni. Uno dei più alti ingegni di quel tempo, alla fine del secolo XIII, fa udire, forti proteste: egli è Rogerio Bacone, il dotto di primo ordine, l'inventore della polvere, del telescopio e dello specchio usterio. Dall’oscurità della sua cella, l'illustre francescano erede dello spirito di San Bernardo e di San Tommaso, vede il Cesarismo, sotto il nome di diritto pubblico e di diritto civile, dilatarsi ogni dì più sull'Europa cristiana; accenna il male allo stesso pontefice, ne assegna la cagione e ne mostra il rimedio. E di somma importanza l'udire come il signor Cousin apprezzi quel nobile tentativo.

«Rogerio Bacone, dice egli, è della più rigorosa ortodossia scolastica richiedendo che, nell'armonia necessaria della fllosofia e della teologia, la filosofia subordini sempre le sue spiegazioni al sacro testo, e lo stesso spirito egli insinua nel diritto canonico. Chiede che il diritto canonico sia esclusivamente fondato sulle decisioni della Chiesa, e si lamenta, con un'acrimonia spinta talvolta sino alla veemenza, che si contenda di togliergli a poco a poco quel santo fondamento, e che lo si alteri, frammischiandovi dichiarazioni tratte dal diritto civile.

«Si rivolge a Clemente, che, nel secolo, era stato famoso giureconsulto; lo prega di far cessare quel disordine che non fa niente meno che ruinare l'autorità della Chiesa. Raccoglie tutti i rimproveri che si possono fare alle persone di toga sulla loro avidità che nega ai poveri la giustizia, sul loro spirito di sofisma che si spande da per tutto ed infetta la società intera. Venuto è il tempo di riformare, lo studio del diritto canonico e di salvare la Chiesa minacciata dai giuristi

Questo luogo è prezioso in quanto che imprime fedelmente il vero carattere della filosofia in quel tempo, la profonda sommessione alla Chiesa negli spiriti indipendenti, lo zelo eguale del papato negli ordini più dissomiglianti, nel francescano Rogerio Bacone, come nel domenicano San Tommaso, ed anche perché, ci dipinge nel modo più vivo, lo sgomento che gettava fra tutti e servitori della Chiesa romana l'intrapresa della potestà regia francese d'emancipare lo Stato e la società dalla dominazione ecclesiastica, con l'aiuto del diritto civile opposto o frammisto al diritto canonico (493)».

La voce di Rogerio Bacone fu quasi soffocata dalle grida dei giuristi pagani. Questa classe d'uomini la quale era debitrice della sua influenza allo stabilimento del diritto: romano, ond'erasi infatuata nelle scuole, contribuì più che verun'altra a sospingere l'Europa cristiana fuori della sua via, e vedremo che dopo il Risorgimento essa è rimasta fedele alle sue funeste tradizioni.

«Chi, fra gli altri, dice Rohrbacher, sviò, e perdette Federico Barbarossa e Filippo il Bello, furono coloro che chiamansi giuristi, uomini che studiano le leggi, ma le leggi puramente umane, specialmente quelle di Roma pagana, in cui i Cesari erano ad un tempo imperatori, pontefici e dii, e per conseguenza la legge unica e suprema. I giuristi, più o meno imbevuti di quest'idolatria politica, facevano udire a ciascun principe che invece di essere sottomesso alla legge di Dio interpretata dalla Chiesa, era egli stesso la legge vivente e sovrana degli altri: riguardando così come non avvenute e l'autorità della Chiesa cattolica e la sovranità di Cristo Sulla terra: riconducendo così e giustificando in massima e ad un tempo la più spaventosa tirannide e la più spaventosa anarchia. Imperocchè se la legge di Dio, se la Chiesa di Cristo che ne è l'interprete, non è nulla pei re, non sarà nulla neppure pei popoli, non sarà nulla per nessuno.

«Così fin d'allora, fra i giuristi ed i loro simili, si poté scorgere un certo Basso Impero degl'intelletti: basso per le idee e pei sentimenti: non vedendo che la materia, l'individuo, il re, o tutt'al più un popolo particolare, ma non l'intera umanità, l'umanità rigenerata in Dio dal cristianesimo, e progressiva nella Chiesa cattolica verso l'umanità perfetta e trionfante in cielo.

«Non si scorge, non si vuole scorger nulla di tutto questo, non si vuol neppure lasciar vedere agli altri. Perciò, si alterano, si sfigurano i fatti, e si falsano con maligne interpretazioni. Si dissimula il bene: si dà risalto e si esagera il male. Direbbesi che il basso Impero dei Greci, con la sua bassezza d'idee e di sentimenti, col suo spirito di sofisma, di doppiezza, e principalmente d'antipatia contro la Chiesa romana, è passato da Costantinopoli in Occidente, e si è, in certa guisa, naturato negli scrittori dei tre ultimi secoli. La è come un'invasione della barbarie saputa, che non lascia apparire, nella storia che contese, guerre, ruine, senza veruna cosa che consoli od edifichi l'anima del lettore cristiano» (494).

Non ostante tutti questi germi di male deposti da lungo tempo nel seno delle nazioni cristiane dall'insegnamento del paganesimo civile e politico, non ostante le pretensioni dei re e la ribellione delle passioni popolari, tale fu, sino al Risorgimento, la potenza dello spirito cristiano, che arrestò costantemente l'invasione della barbarie saputa. Il che é tanto vero che prima del 1453, l'Europa ci presenta ancora un vasto complesso di nazionalità rigenerate dallo stesso battesimo, che professano la stessa fede, che sono sottomesse alla medesima autorità per tutte le cose del loro interno e pei grandi principi dell'ordine esterno. Il diritto delle genti è cristiano: tutto il valore morale della diplomazia, i suoi principii, le sue regole dichiarate le taglie dalla credenza cattolica e dal titolo di membro della Chiesa, comune a tutti i capi dell'impero.

Il diritto politico è cristiano: si riconosce ancora da per tutto, come articoli fondamentali di qualunque costituzione che una nazione cristiana non può essere governata che da un re cattolico, e che ogni re il quale diventa eretico ed apostata perde per ciò stesso il diritto di regnare sopra una nazione cristiana. Allora questo principio era così elementare quanto può esserlo in oggi questo assioma; che un re barbaro, il quale nega i diritti dell'umanità, non può regnare sopra una nazione incivilita. Al tempo stesso, le nazioni cristiane professano ancora quest'altro domma sociale, che chiunque rimane scomunicato, separato dalla Chiesa un anno e un giorno, perde ogni diritto politico, specialmente quello di comandare a cristiani (495). E ciò pei nostri padri è così chiaro quanto l'articolo del codice penale: «Chi è colpito di morte civile perde i suoi diritti civili e politici, e non può più comandare a cittadini (496).

Il diritto civile è cristiano, perché i due atti che fondano e perpetuano le famiglie erano due atti religiosi, il sacramento del matrimonio ed il sacramento del battesimo.

Oggi una costituzione civile e politica tutta diversa è successa a quella di cui abbiamo fatto rapida descrizione, e che si è mantenuta sino al Risorgimento. Da tutte parti, quello che si è convenuto di chiamare diritto naturale è stato sostituito al diritto cristiano; il carattere soprannaturale che dominava la vita sociale dell'Europa si è cancellato quasi in ogni dove. Donde una sì deplorabile trasformazione? Lo vedremo nel capitolo seguente.



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CAPITOLO X.



STORIA DEL CESARISMO DOPO IL RISORGIMENTO.

MACCHIAVELLI



Mutamento radicale nella politica, dovuto al Risorgimento: testimonianza non sospetta di Matter. - Macchiavelli padre del Cesarismo moderno. - Sua vita. - Sua politica pagana.-Testimonianza di Gentillet, d'Enrico Stefano. - Macchiavelli, ceppo della generazione dei politici rivoluzionari. ­ Testimonianza della rivoluzione. - Prove della sua influenza. - Edizione delle sue opere. - Confutazione che si crede necessario di fare delle sue dottrine. - Federico II re di Prussia.



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Poc'anzi il Risorgimento, l'Europa aveva scienze, letteratura, poesia, arti, filosofia, feste, istituzioni, politica sue proprie, nate nel suo suolo, inspirate dalla sua religione e dalla sua storia, che le davano una vita propria in continuazione d'un glorioso passato. Il vero progresso consisteva in perfezionare tutte queste cose, conservando loro fedelmente il carattere nazionale e cristiano di loro origine.

Giunge l'età del Risorgimento ed uno spirito straniero spira sull'Occidente. L'Europa, arrossendo di sé medesima, ripudia il suo passato, spezza le grandi linee della sua civiltà; e, a guisa d'un fanciullo, si mette alla scuola dei pagani, recati d'Oriente dai Greci espulsi da Costantinopoli, per rinascere, sotto la loro influenza, ad una nuova vita. Ascoltiamo un razionalista dei giorni nostri che giudica secondo le sue idee, questo movimento decisivo ch'ei chiama progresso, e che la storia chiama insensata trasformazione.

«Il progresso che abbiamo, tolto a descrivere, dice Matter, e che, nel corso dei tre ultimi secoli, è una successione dei più violenti conflitti, prende origine nel Risorgimento degli studi più pacifici e più innocui (497); voglio dire degli studi di letteratura e di filosofia.

Questa filosofia e questa letteratura erano anche antiche. Sull'una e sull'altra erano passati cinque secoli di decadimento e di barbarie (498): erano fredde, erano ghiacciate.

«Ma una procella, l'invasione di Costantinopoli per opera dei Turchi, gettò quei lumi nel seno dei popoli dell'Occidente mediante i profughi greci, nel momento stesso che quei popoli, grazie alle opere di Petrarca e del Boccaccio rinascevano da sé medesime, al buon gusto, alla ragione, al sentimento della dignità umana (499). Il lampo scontrossi in altri lampi.

«Nove anni dopo la caduta di Costantinopoli, nacque in Italia Pomponacio che doveva emancipare la filosofia, e, sette anni dopo Pomponacio, vi nacque Macchiavelli, che doveva emancipare la politica». Questi due uomini condussero il mutamento di tutte le dottrine e di tutte le istituzioni sulle quali posavano l'ordine morale e l'ordine sociale del mondo. A questi due uomini che furono i più grandi fra i discepoli dei profughi ed ai due fatti d'emancipazione che dominano gli studi morali e politici di quell'età, si rannodano tutti gli altri fatti, tutte le altre dottrine. Tutto si trova condotto e spiegato da questi fatti e da questi uomini (500)».

Nell'ordine dei nostri studi dobbiamo ora parlare di Machiavelli: Pomponacio verrà in appresso.

Nicolò Machiavelli nacque a Firenze di nobile famiglia, il 3 Maggio 1469. Con Poliziano e con Marcello Ficino fu uno dei primi discepoli dei Greci. Alla loro scuola s'inebriò, come i suoi condiscepoli, d'entusiasmo per l'antichità pagana. Intanto che Poliziano si dedica alla letteratura antica e Ficino alla filosofia, Machiavelli si sente inclinato alla storia e alla politica. Queste tre anime, circoscritte ciascuna nel suo cerchio non ne usciranno più, e per un fenomeno fino allora senz'esempio in Europa, queste anime, vittime della loro educazione, saranno sino alla fine vuote di cristianesimo e briache di paganesimo.

Come tutti gli uomini celebri dell'antica Roma che, a detto di Plinio il giovane, esordirono cantando la voluttà, Machiavelli fa il suo ingresso nella nuova repubblica delle lettere con due commedie talmente oscene che il pudore c'impedisce di analizzarle. I nomi della Mandragora e della Clizia siano uno spavento che faccia stornare il capo di chi gli ode pronunziare. A queste composizioni succedono l'Asino d'oro, imitazione di Luciano e di Apuleio, il Belfagor, ed alcuni poemetti non meno licenziosi.

Il paganesimo non è solamente voluttà: è soprattutto orgoglio; e Machiavelli è repubblicano democratico. Come tutti i rivoluzionari del 1789, educati dagli stessi maestri, a Machiavelli sembra assurdo, dispotico, intollerabile il governo del proprio paese.

Entra nella cospirazione di Soderini contro la casa de' Medici.

È arrestato e messo alla tortura; ma non fa veruna rivelazione. I Medici gli perdonano, lo proteggono e coi loro benefizi l'inducono a scrivere la storia di Firenze. Si mette all’opera. «Ma, dice egli stesso, scrivendo per Firenze, teneva gli occhi in Tito Livio. «Gl'illustri tirannicidi dell'antichità gli sturbano il sonno: partecipa in un'altra cospirazione, il cui scopo era di assassinare il cardinale Giulio de' Medici che fu poi innalzato al sommo pontificato sotto il nome di Clemente VII. Arrestato di nuovo, non gli si poté opporre che le lodi continue ch'ei faceva di Bruto e di Cassio. Se ciò non bastava per dannarlo a morte bastava e più del bisogno per privarlo delle sue pensioni. Questa nuova disgrazia lo precipitò nella miseria, cui sopportò per alcuni anni, e morì nel 1527 per un medicamento preso fuor di tempo.

Se vuolsi aver fede in Spizelio, la sua morte fu quella d'un eroe pagano, e, se vuolsi, d'un libero pensatore quali ne ha prodotto il Risorgimento. Quale è l’educazione, tale è la vita; e quale è la vita, tale è la morte. L'ammirazione pei grandi uomini dell'antichità, attinta alle lezioni dei suoi primi maestri, Machiavelli la sente sino all'ultima sua ora. Agitato dal rimorso, esclama: «Preferisco di discendere all'inferno con quegl'illustri uomini (Platone, Aristotile, Alessandro ed altri dell'antichità) che di stare in cielo con questi uomini infimi e di abbietta condizione (501).

Checché sia della testimonianza di Spizelio, domandiamo che s'ha da pensare di una scuola, i cui maestri ed i più celebri discepoli lasciano per la maggior parte dubitare se hanno conservato la fede? Ma quello che è fuor di dubbio è il paganesimo assoluto delle dottrine politiche di Machiavelli. Esse sono contenute principalmente nei suoi Discorsi sulle deche di Tito Livio, nel suo Trattato della repubblica e nel suo libro del Principe. Proviamo anzi tutto che Machiavelli è proprio, secondo l'espressione di Matter, il padre della politica moderna, cioè del Cesarismo.

È inutile il rammentare che intendiamo con questo l'apoteosi sociale dell'uomo: l'assorbimento della potestà spirituale e temporale a profitto dell'uomo, popolo, imperatore o re: che fonda l'ordine sociale non sulla volontà di Dio, ma sulla volontà sovrana dell'uomo: che lo dirige non all'adempimento dei comandamenti di Dio, ma al soddisfacimento dei voleri arbitrari dell'uomo; non alla beatitudine eternale dell'umanità, ma alla sua temporale prosperità.

Gli elementi del Cesarismo erano, come abbiamo veduto, sparsi qua e colà nell’Europa del medio evo; ma non trionfarono mai dell'elemento cristiano. Machiavelli li riunisce, li condensa, li formula, ne fa un corpo di dottrina, e secondo l'espressione di Federico di Prussia, il suo libro diventa il Breviario dei re.

«L'opera di Machiavelli, dice Matter, segna un'era novella, un'era di completa sovversione; non solamente un’èra di scissura fra la religione e la politica, ma un'era di sovversione fondamentale dei loro antichi rapporti. In fatti non solo Machiavelli fa astrazione da tutti i principii di diritto divino e di legittimità religiosa; non solo la politica, in lui, riducesi ai fatti ed ai mezzi puramente umani; ma colloca persino la religione stessa nel novero dei suoi mezzi; e di tal guisa il suo sistema è ad un tempo la sostituzione del materialismo allo spiritualismo, la subordinazione della religione alla politica (502)».

Sopra questi rinnovati principii dell'antico Cesarismo vedremo che la maggior parte dei governi monarchici o repubblicani, legittimi o rivoluzionari, dopo il Risorgimento, hanno fondato la loro politica.

Machiavelli era morto, e già un autore protestante scriveva: «Al tempo del defunto re Arrigo II e prima eravamo governati alla francese, cioè secondo le tracce e gl'insegnamenti degli antichi: ma dopo siamo stati governati all'italiana e alla fiorentina, cioè secondo gl'insegnamenti del fiorentino Machiavelli. Talmente che da quel tempo in poi, il nome di Machiavelli è stato ed è celebre e stimato come il più saggio personaggio del mondo, e meglio ascoltato in affari di stato; ed i suoi libri tenuti cari e preziosi dai cortigiani italiani e italianati, come se fossero i libri di sibille a cui, i pagani ricorrevano quando volevano deliberare di qualche gran negozio concernente la cosa pubblica, o come i Turchi tengono caro e prezioso il Corano del loro Maometto (503)».

Nella sua opera Principum monitrix Musa, Enrico Stefano non si solleva con minor energia contro Machiavelli e le sue dottrine: «Ti amo, dice egli, o Firenze, perché mi richiami rimembranze di gioventù!... Ma debbo confessartelo; più cara mi saresti se tu non avessi dato il giorno all'empio Machiavelli... Perché non è egli stato arso coi suoi libri?... Oh Francia, oh mia patria! ora saresti felice ... se non avessi respirato quel veleno, e se esso non avesse infettato lo spirito dei tuoi figli... Io so la cagione del male, ho potuto conoscerla, durante il lungo soggiorno che ho fatto alla corte, e voglio svelarla a tutti. «Sappiate adunque che i libri pestiferi di Machiavelli hanno aperto allo spirito francese una scuola d'immoralità (504)».

Nel 1792, un figlio della Rivoluzione, facendo la genealogia politica della propria madre, dichiara che essa discende dagli antichi mediante Machiavelli, Montesquieu, Rousseau. «Machiavelli, dice egli, fu il modello di tutte le virtùLa politica moderna debba tanto ai suoi studi degli antichi quanto a quelli di Folard. Nell'autore dello Spirito delle leggi, ed in quello del Contratto sociale si trovano continuamente osservazioni tolte da lui. Lo scopo del Principe è di mettere gli oppressi in guardia contro gli oppressori. La prova che i suoi contemporanei ne giudicarono in tal modo si è che parve prezioso a Soderini ed ai repubblicani di Firenze ... Machiavelli era cristiano; ma cristiano come tutte le persone sensate di quel tempo (505); cioè partecipava alle opinioni di quella setta che dovunque, eccettuata la Francia, si è estesa esattamente ed in proporzione del progresso della filosofia e delle arti (506), di quella setta a cui Lelio Socino diede ben presto il suo nome in Italia. Perciò, gl'inquisitori, nel loro indice dei libri proibiti, non mancano di caratterizzare l'uomo che fu tanto nemico della superstizione come della tirannide, con questa frase: Nicolò Machiavelli, Fiorentino, ateo, sebbene sembri aver voluto parer cristiano (507). Questo rimprovero passerà; ed il nome del saggio, del virtuoso Machiavelli, sarà scritto nei fasti dei difensori della ragione e della libertà» (508).

Parlando di Machiavelli, gli altri rivoluzionari dicono: Il maestro di tutti noi» (509); e Camillo Desmoulins l'invoca con Bruto, come l’ultima ragione della verità. «Forte degli esempi della storia, dice egli, e delle autorità di Trasibulo, di Bruto e di Machiavelli ..., ho espresso in iscritto i miei sentimenti sul miglior modo di far le rivoluzioni ... Se sono stato un visionario, lo sono stato non solamente con Tacito e con Machiavelli, ma con Loustalot e con, Marat, con Trasibulo e con Bruto (510).

La Rivoluzione, la quale meglio di qualunque altro conosce i propri avi, non lascia sfuggire, nessun'occasione di propagare le opere di Machiavelli. Essa incoraggia coloro che le traducono, ed i dottrinari del 1792 non mancano d'encomiare il maestro ed i suoi scritti. «Machiavelli, il cui nome non dovrebbe per fermo essere un'ingiuria, Machiavelli, che vale assai più della sua fama, ha scritto discorsi sulla prima deca di Tito Livio (511)». Temendo che non s'impieghino tempo e cure a sufficienza nello studio degli eccellenti autori pagani, che sono, stati i maestri di Machiavelli, e questi fu poi maestro di Bucammo, d'Obbes, di Gravina, di Montesquieu, di Febronio, di Rousseau, della Rivoluzione, i redattori della Decade filosofica non omettono di così discorrere: «Speriamo che non si trascurerà nella nostra educazione la lingua di tanti grandi uomini, dei Ciceroni, dei Bruti, ecc., fatti per inspirare l'amore della patria, della libertà e di tutte le virtù (512).

Alle testimonianze si aggiungono i fatti rivelatori dell'influenza di Machiavelli. Il primo è il gran numero delle edizioni di quest'autore dal Risorgimento sino ai nostri giorni. Si può affermare che nessun'opera grave uscita dalla penna d'un risorgente è stata più frequentemente ristampata della scienza politica di Machiavelli. Sebbene assai incompleta, la seguente specificazione delle edizioni che ne sono state fatte nei diversi paesi dell'Europa prova la voga di cui ha goduto il pubblicista fiorentino, e per conseguenza, l'influenza sociale che esercita da quattro secoli.

Le prime traduzioni di Machiavelli furono edite in Francia col favore di alti personaggi e con le approvazioni officiali di molti poeti di quel tempo. Le sue opere venivano proposte come emporii di sapienza (513). Furono stampate a Firenze, non saprei ben dire quante volte: poi a Venezia nel 1540 e 1546; a Roma, nel 1550; a Parigi, nel 1633; a Liegi, nel 1648; ad Amsterdam ed a Parigi nel 1686; a Parigi, nel 1694; a Londra, nel 1747; a Parigi, nel 1768; a Firenze nel 1796 e 1799; a Parigi, nel 1799, 1804, 1810, 1811; a Firenze, nel 1810; a Parigi, nel 1823; ecc. Un secondo fatto sono le molte confutazioni che si è creduto dover fare delle sue dottrine. Ora, non si confuta ciò che è morto; non si oppongono argini ad un torrente inaridito. Nel secolo XVI, Machiavelli venne rigorosamente confutato da Gentilet e da Enrico Stefano, le cui opere abbiamo giù citate. Queste confutazioni non arrestarono il progresso delle dottrine machiavelliche. Anzi veggonsi svolte col tempo, e, divenendo vie maggiormente pratiche, s'incarnano nella politica europea. Dugento anni dopo la sua morte, Machiavelli era più vivo che mai. E ciò a tal punto che un re, poco scrupoloso del resto in fatto di politica, credette di dovere, in nome dell'umanità, altamente infamare il moderno patriarca del Cesarismo e le sue dottrine sovvertitrici d'ogni morale e d'ogni libertà.

«Il Principe di Machiavelli, dice Federico di Prussia, è in fatto di morale ciò che è l'opera di Spinosa in materia di fede. Spinosa scalzava i fondamenti della fede, e non mirava che ad abbattere l'edificio della religione: Machiavelli corruppe la politica, e tolse a distruggere i principii della sana morale ... È avvenuto che i teologi hanno strepitato e gridato contro Spinosa, che ne hanno formalmente confutato il libro ed hanno difeso la divinità contro i suoi assalimenti. Mentre che Machiavelli non è stato sferzato che da alcuni moralisti: ed è sostenuto non ostante essi e non ostante la perniciosa sua morale, sulla cattedra della politica sino ai nostri giorni.

«Oso pigliar le difese dell'umanità contro questo mostro che vuol distruggerla; oso opporre la ragione al sofisma ed al delitto .... Ho sempre riguardato il Principe di Machiavelli come una delle opere più pericolose che si siano mai sparse per il mondo (514):

«Così, soggiunge Federico terminando la sua confutazione, si può vedere smascherato questo politico, cui il suo secolo ci diede per un grand'uomo, che molti ministri hanno riconosciuto pericoloso, ma cui hanno seguito, le cui massime abominevoli, si sono fatte studiare ai principi, cui molti politici seguono senza volerne essere accusati (515)».

Per apprezzare i rimproveri che Federico fa a Machiavelli, per verificare l'asserzione di Matter il quale attribuisce all’illustre figlio del Risorgimento la paternità del Cesarismo moderno, due cose rimangono a farsi: la prima è di esporre la dottrina politica di Machiavelli; la seconda di confrontare cotal dottrina con la politica europea degli ultimi quattro secoli. La qual cosa eseguiremo ne' capitoli seguenti.



FINE DEL VOLUME QUARTO




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Note



(1) Deputato di Saint-Jean d'Angely.

(2) Monit., 9 maggio 1791.

(3) Monit., 9 maggio 1791.

(4) Monit., 30 maggio 1791.

(5) Monit., 30 maggio 1791.

(6) Pallow ne aveva fatto ottantatrè simili, mandati a ciascun dipartimento.

(7) Giornate memorabili della rivoluzione, t. I, p. 287-294, e Monit., 13 luglio 1791.

(8) Monit., 13 luglio 1791.

(9) Non gli era che concubina.

(10) Monit., 25 dicembre 1790.

(11) Id., ibid.

(12) Id., 30 agosto 1791

(13) Id., ibid.

(14) Id., ibid.

(15) Id., ibid.

(16) Id., 22 settembre 1791. (17) Monit., 7 ottobre. Veggasi anche Monit. 16 aprile 1794, in cui Rousseau è chiamato il più grande dei moralisti.

(18) Monit. 24 vendemmiale anno III.

(19) Monit. 24 vendemmiale anno III.

(20) Monit. 20 e 24 vendemmiale anno III.

(21) Monit. 26 vendemmiale anno III.

(22) Monit. 27 novembre 1789.

(23) Monit. 31 maggio 1791.

(24) 10 fiorile anno III.

(25) Monit., 24 pratile anno III. Discorsi di Arnoux e di Dussaulx.

(26) Monit., ibid.

(27) Monit., Discorso di Chabroud, 30 marzo 1791.

(28) Prud'homme. Rivoluzioni di Parigi, n. 107-116, p. 269.

(29) Discorso di Baudin (delle Ardenne), presidente della società degli Anziani per l'anniversario del 14 luglio. - Monit., 26 messidoro, anno VII.

(30) Discorso sulla proclamazione dell'Ente Supremo.

(31) Discorso al circolo costituente 9 messidoro, anno VI.

(32) Debats, 25-4-1792

(33) Confessioni, ecc.

(34) Memoriale di Sant'Elena, ecc.

(35) Voltaire dipinto da sé stesso, 1775, lettera II, pag. 4, lettera IV, pag. 9.

(36) Vita di Voltaire, del marchese di Luchet, sei volumi in-8, 1781. t. I, pp. 6-7.

(37) Memorie per servire alla storia di Voltaire, di Servières (o Chaudon). - Vita di Voltaire di Condorcet, p. 118

(38) Veggasi questo componimento in Luchet, t. 1, p. 26.

(39) ld. P. 22.

(40) Memorie di Servières p. 2.

(41) ld. ibid.

(42) Memorie di Servières p. 4.

(43) Vita di Voltaire, p. 245 (44) ld. pag. 246.

(45) Elogio di Voltaire, p. 74.

(46) Pastorale di monsignor Lefranc di Pompignano in occasione d'una edizione completa di Voltaire, 1781. (47) P. 7 e 13, edizione Beuchot.

(47) P. 7 e 13, edizione Beuchot.

(48) Id., p. 13.

(49) Filosofia della storia, p. 16

(50) Id., p. 28.

(51) Filosofia della storia, p. 35

(52) Id. p. 78-79.

(53) Un grande e stolto orgoglio.

(54) Filosofia della storia, p. 85

(55) Saggio sui costumi, t. I, p. 113.

(56) Id., p. 119-129

(57) Id., p. 229

(58) Id., p. 230

(59) Id., p. 237

(60) Id., p. 241

(61) Id., p. 366

(62) Id., p. 350

(63) Id., p. 377

(64) Id., p. 384

(65) Id., t. II, p. 260

(66) Id., p. 422

(67) Id., p. 428

(68) Id., p. 428

(69) Id., p. 428

(70) Il che prova che nel medioevo non si studiavano molto.

(71) Saggio sui costumi, t. I, p. 431; t. II, p. 10-11 .

(72) Saggio sui costumi, t. II, p. 185, 187, 189.

(73) Saggio sui costumi, t. II, p. 225: Non si studiava dunque né Demostene, né Luciano, né Sofocle, né Esopo.

(74) Ironia.

(75) Una religione plausibile, plausibilissima; composta unicamente da uomini fuorviati. Questa contraddizione non è che apparente. Voltaire insinua che il libero pensare di Platone è la vera religione dei saggi.

(76) Tom. II, p. 301.

(77) Saggio sui costumi, t. II, p. 302.

(78) Id., p. 303.

(79) Vita di Voltaire, p. 216

(80) Saggio sui costumi, t. I, p. 233.

(81) Anche la Giudea.

(82) Secolo di Luigi XIV, t. I, p. 237-241

(83) Secolo di Luigi XIV, t. I, p. 254-302

(84) Secolo di Luigi XIV, t. I, p. 303

(85) Secolo di Luigi XIV, t. II, p. 162

(86) Eccoci al fatalismo.

(87) Secolo di Luigi XIV, t. II, p. 162

(88) Secolo di Luigi XIV, t. II, p. 174.

(89) Secolo di Luigi XIV, t. II, p. 175

(90) Secolo di Luigi XIV, t. II, p. 308

(91) Secolo di Luigi XIV, t. II, p. 365

(92) Secolo di Luigi XIV, t. II, p. 340

(93) Secolo di Luigi XIV, t. II, p. 340

(94) Vita di Voltaire, t.. II, p. 216

(95) Veggasi l'opera del signor Nicolardot sopra Voltaire, verso il fine.

(96) Memorie per servire alla vita di Voltaire, scritte da lui stesso, p. 43.

(97) Memorie ecc, p. 5

(98) Dialogo del dubbioso e dell’adoratore, t. XLI, p. 401, edizione Beuchott

(99) Elogio di Voltaire, p. 80-81

(100) Memoria di Colini, Vita di Voltaire; di Condorcet, p. 372.

(101) Vita di Voltaire, p. 319.

(102) Elogio di Voltaire, p. 43.

(103) Vita di Voltaire, p. 142

(104) Prefazione alla tragedia di Bruto.

(105) Idem.

(106) Questa tragedia fu composta pel collegio d’Harcourt a Parigi.

(107) Prefazione al Bruto, edizione Palissot.

(108) Vita di Voltaire, p. 145

(109) Memorie ecc, p. 197

(110) Memorie ecc, p. 198

(111) Prefazione del Maometto, p. 1, edizione del 1792

(112) … Riguardatemi come un figlio il quale dopo parecchi anni viene a presentare al proprio padre il frutto delle sue fatiche in un'arte che un tempo imparò da lui»: - Lettera di Voltaire al P. Pòrée, 1729, mandandogli l'Enrichiade.

(113) Prefazione alla Merope

(114) Un suicidio solenne.

(115) Memorie di Servières, p. 218.

(116) In grazia del Risorgimento e degli studi di collegio: sta bene il notarlo.

(117) Pag. 3.

(118) O Voltaire inganna appositamente, o parla secondo quello che ha udito in collegio. Nella nostra Prefazione alle Lettere di S. Bernardo, abbiamo mostrato con la storia alla mano, e mostreremo ancora negli ultimi volumi di quest'opera, che cosa realmente fosse la rispettabile persona di Cicerone.

(119) Quale onta, qual disgrazia!

(120) Prefazione, id.

(121) Dedicatoria dell'Oreste.

(122) Elogio di Voltaire; di la Harpe, e Vita di Voltaire, di Lucchet, tom. II, p. 238.

(123) Feller dice: “Le prime letture di Rousseau furono romanzi: lesse poscia alcuni buoni libri, quali, sono le Vite di Plutarco!”

(124) Confessioni, lib. IV, cap. II.

(125) Lettere, ecc.

(126) Del governo della Polonia, Cap. II.

(127) Del governo della Polonia, Cap. II.

(128) Veggasi principalmente la seconda Parte del Discorso sull’origine e sui fondamenti dell'ineguaglianza fra gli uomini.

(129) Contratto sociale, lib. I, cap. VI e VII.

(130) Id. cap. VIII

(131) Contratto sociale, lib. I; cap. IX.

(132) L’agguagliamento assoluto, l'eguaglianza davanti alla miseria.

(133) Contratto sociale, lib. I, cap. IX

(134) Discorso sull’eguaglianza, ecc. parte II.

(135) Discorso sull’economia politica, p. 8.

(136) Id. lib II, cap. 3

(137) Repubblica francese una e indivisibile. La formula è uscita bell’e composta dai libri di Rousseau, che l'aveva copiata in Licurgo.

(138) Discorso sull’economia politica, lib II, cap. 6.

(139) Discorso sull’economia politica, lib. III, c. V e XV.

(140) Contratto sociale, cap. 1.

(141) Questo non è soltanto principio di Licurgo; ma è massima anche di Aristotele.

(142) Discorso sull’economia politica, p. 31.

(143) Bello veramente questo presso a poco!

(144) Discorso sull’economia politica, lib. IV, c. 8.

(145) Discorso sull’economia politica, lib. IV, c. 8.

(146) Discorso sull’economia politica, lib. IV, c. 26.

(147) Discorso sull’economia politica, lib. IV, c. 26.

(148) Discorso sull’economia politica, lib. IV, c. 26.

(149) Contratto sociale, lib. III, c. 11.

(150) Monit., 11 maggio 1793.

(151) Monit., 27 aprile 1793.

(152) Contratto sociale, lib. III, c. 15.

(153) Contratto sociale, lib. III, c. 15.

(154) Del governo della Polonia, Cap. 12.

(155) E gli apostoli, e i martiri; e i missionari, e le suore di carità, e i santi di tutti i tempi?

(156) Discorso sull’economia politica, p. 31, ed. in-8.

(157) Contratto sociale, lib. III, c. 9.

(158) Elogio di Montesquieu, in capo delle sue opere.

(159) Idem

(160) Idem

(161) Idem

(162) Gli scrittori cattolici ci hanno lasciato più consolanti particolarità sugli ultimi momenti di Montesquieu. Ei riconobbe i propri errori e morì riconciliato con la Chiesa.

(163) Spirito delle leggi, lib. I, cap. II.

(164) Spirito delle leggi, lib. VIII, cap. III.

(165) Spirito delle leggi, lib. II, cap. II. Osservate Montesquieu, diceva Napoleone, ei trafigge con mille dardi lo spirito cristiano; lacera quanto può la veste della Chiesa: ammira da platonico quelle repubbliche greche, più inapplicabili ai nostri giorni che non il governo della tribù di Giuda, e pretende di essere monarchico: pone per principio l'onore per movente principale della monarchia, e vanta sino la corruzione del governo britannico». Memorie del signor di Narbona.

(166) Montesquieu non ha veduto quello che dice, ma lo ha letto soltanto nei suoi libri di scuola: ma noi abbiamo veduto.

(167) Spirito delle leggi, lib. II, cap. II.

(168) Spirito delle leggi, lib. II, cap. II.

(169) Spirito delle leggi, lib. VII, cap. II.

(170) Spirito delle leggi, lib. VII, cap. II.

(171) Veggasi la Decade filosofica, citata nel primo volume.

(172) Spirito delle leggi, lib. VIII, cap. II.

(173) Menier, G. G. Rousseau autore della rivoluzione, t. I, p. 59.

(174) Grandezza e decadenza dei Romani

(175) Grandezza e decadenza dei Romani, lib. VII, cap. XV.

Montesquieu ha dimenticato Plutarco Sui costumi delle donne di Sparta, e Bodino, Sulle donne adultere, nei bei giorni della repubblica romana.

(176) Grandezza e decadenza dei Romani, lib. VII, cap. XVI.

(177) Grandezza e decadenza dei Romani, lib. XXIII, cap. XXII.

(178) Grandezza e decadenza dei Romani, lib. XXIII, cap. XXII.

(179) Grandezza e decadenza dei Romani, lib. VI, cap. XV.

(180) Quale virtù!

(181) Grandezza e decadenza dei Romani, lib. VI, cap. IV.

(182) Grandezza e decadenza dei Romani, lib. IV, cap. XIV.

(183) Grandezza e decadenza dei Romani, lib. IV, cap. XIII.

(184) Hist., lib. II

(185) Opere morali di coloro che trattano la parola.

(186) Frammento del lib. XXXIV.

(187) Coloro che non hanno turbato la tranquillità esterna dello Stato.

(188) Spirito delle leggi, lib. VIII, cap. XIII.

(189) Spirito delle leggi, lib. XVIII, cap. XXXI.

(190) Spirito delle leggi, lib. XIV, cap. VII.

(191) E la miseria la più generale e la più profonda che sia sotto il cielo d’Europa.

(192) Spirito delle leggi, lib. XXIII, cap. XXIX.

(193) Spirito delle leggi, lib. XXIV, cap. II.

(194) Spirito delle leggi, lib. XIV, cap. XIII.

(195) Mercier, G. G. Rousseau principale attore della rivoluzione, vol. 2 in-8, 1791, t. I, p. 1.

(196) Mercurio nazionale, n. XII, p. 56.

(197) Elogio storico dell’abate di Mably, di Levesque; in-8, 1789, e id. dell’abate Brizard, id. Biografia, ecc.

(198) Brizard, p. 8.

(199) Levesque, p. 5 e 6; Brizard, p. 98

(200) Levesque, p. 7

(201) Brizard, p. 88.

(202) Levesque, p. 8

(203) Levesque, p. 19

(204) Id. p. 30 e 32.

(205) Elogio storico, p. 4 e 5.

(206) Quali? Qual principio sociale hanno rivelato?

(207) Trattenimento di Focione, osservazioni, p. 112; ed. in-12, 1790.

(208) Id. p. 123

(209) Id. p. 84 e 86

(210) Elogio storico, ecc. p. 18 e 22

(211) Lettere di Mably all’abate di R .. in fronte delle Osservazioni sui Greci.

(212) P. 1 e 2

(213) Lettera di Mably all’abate di R . ecc. p. 12

(214) Id. ecc. p. 30 e 32

(215) Lettera di Mably all’abate di R . ecc. p. 58

(216) Id. p. 337

(216a) Id. p. 339

(216b) Osservazioni sui Romani, p. 13, ed. in-12, 1790.

(216c) Id. Ibid.

(217) Si conosce in quest'opera con quanta cura l’abate Mably avesse studiato la storia di Roma: e, ciò che è più glorioso alla sua memoria, si vede ch'ei saria stato degno d'essere cittadino di Roma nei bei giorni della repubblica - Elogio storico ecc. Levesque, p. 44.

(218) Levesque, p. 85.

(219) Principi di morale, p. 126; edizione in-12, 1790.

(220) Id. p. 128

(221) Id. p. 129

(222) Id., p. 136

(223) Id., p. 138

(224) Id., p. 59 e 142

(225) Id., p. 179.

(226) Questo qualche cosa non è nient'altro che l'adulterio e l'adulterio pubblico.

(227) Principi di morale, p. 296. - I Principi di morale furono censurati dalla Sorbona, e soppressi per ordine del governo.

(228) Id. Diritti e doveri dei cittadini, p. 64.

(229) Id. p. 51

(230) Elogio storico, ecc., p. 98.

(231) Elogio storico, ecc., p. 72

(232) Biografia di Condorcet, p. VIII, Edizione in-8, 1847.

(233) Biografia di Condorcet, p. X.

(234) Biografia, ecc., p. XXXIII

(235) Id., p. 221

(236) Id., p. 228

(237) Id., p. 228

(238) Id., p. 133

(239) Id., p. 446.

(240) L’abate Bergier, nativo di Darnay, nei Vosgi, autore di alcune opere di teologia e di critica, oggi affatto dimenticate e degne di esserlo. Morì confessore delle principesse - Nota di Arago.

(241) Epistolario, p. 5, nella Biografia d'Arago.

(242) Id., p. 31.

(243) Id., p. 234.

(244) Id., p. 242 e 255.

(245) Id., p. 252.

(246) Id., p. 510.

(247) Monit., ibid.

(248) Biografia di Condorcet, p. 608, 625.

(249) Memorie di d'Alembert, scritte da lui stesso, in fronte delle sue opere, t. I, p. XXVIII, edizione in-8, 1805.

(250) Memorie di d'Alembert, scritte da lui stesso: Frammenti della filosofia del secolo XVIII, di La Harpe, t. XV del Corso di letteratura.

(251) Verso il fine.

(252) Questo è Tacito schietto.

(253) Id. Opere di d'Alembert, t. I, p. 36 e 37.

(254) Citato dalla Biografia, articolo d'Alembert.

(255) Opere, t. XVIII, p. 309.

(256) Id., t. I, p. 11.

(257) Id.; ibid. p. 185 e 186

(258) Id.; ibid. p. 193.

(259) Id.; ibid. p. 201.

(260) Id.; ibid. p. 217.

(261) Id.; ibid. p. 219

(262) Id.; ibid. p. 221

(263) «L’eloquenza, dice altrove, figlia del genio e della libertà, è nata nelle repubbliche. Riflessioni sull’educazione oratoria, t. I, p. 145. - E l'eloquenza dei profeti e dei Padri della Chiesa non conta nulla!

(264) Discorso preliminare dell'enciclopedia, opere, t. I, p. 248, 250, 257.

(265) E l’ispirazione?

(266) Discorso ecc. p. 257.

(267) Discorso ecc. p. 259.

(268) Della credulità

(269) Sotto questo bel pretesto vi è ancora chi si ostina a sostenere ai nostri giorni, che lo studio assiduo degli autori pagani non presenta nessun pericolo. Ma si pone in dimenticanza che i letterati di collegio hanno fatto risorgere, per quanto hanno potuto, il culto delle divinità pagane: si pone in dimenticanza che negli autori pagani si attinge il razionalismo in filosofia, il naturalismo in religione, il repubblicanesimo in politica, il comunismo nell’umana società, l'orgoglio del regicidio, ed una moltitudine d'idee e di sentimenti che dopo il Risorgimento, hanno reso e rendono ancora in generale, le generazioni di collegio cristianamente e socialmente ingovernabili.

(270) Qui d’Alembert avrebbe dovuto dire: e con ragione.

(271) Discorso ecc., t. I, p. 259-261.

(272) Discorso ecc., t. I, p. 259-261.

(273) Se ne veda la vita tradotta dall'inglese da Bertin, 1788.

(274) Discorso ecc., t. I, p. 268-271.

(275) Discorso ecc., t. I, p. 285.

(276) Discorso ecc., t. I, p. 45-50.

(277) Discorso ecc., t. I, p. 78.

(278) Discorso ecc., t. I, p. 78, 80, 81.

(279) Discorso ecc., t. I, p. 92.

(280) Id., p. 74. - Ei fa un calcolo, esprimendone così la conclusione: Ogni cittadino, ricco di più di trecento lire, deve a tutto rigore ai suoi compatrioti il quinto del superfluo.

(281) Id., p. 77-141.

(282) «Ho conosciuto molto d'Alembert, scrive La Harpe; per affermare che era scettico in tutto fuorché nelle matematiche: non avrebbe sentenziato che non vi aveva religione più di quello che vi ha un Dio: soltanto gli pareva più probabile il teismo e meno la rivelazione» - Opere di d’Alembert, t. I, p. LXXVI, Edizione in-8.

(283) Lettera a Federico, 22 dicembre 1783, nella Biografia di Condorcet, di Arago, p. 500.

(284) Cielo e terra di Giovanni Raynaud, prima edizione. - Veggasi l’eccellente libro di Martin, decano della Facoltà delle lettere di Rennes: Della vita futura, 1855, pag. 207.

(285) Primi saggi di filosofia, di V. Cousin, p. 207.

(286) Giornale dei Dibattimenti, 8 marzo 1855. Corso del signor Garnier.

(287) Primi saggi, p. 265.

(288) 22 dicembre 1836.

(289) Esame del Principe, di Machiavelli.

(290) Saggio sopra Elvezio, in fronte delle sue Opere, t. I, p. XI, ediz. In-8, Londra 1781.

(291) Id., p. X.

(292) Saggio sopra Elvezio, t. I, p. XIV, XVIII,

(293) Lettera di Condorcet a Turgot. Notizia di Arago, p. 219.

(294) Dell’uomo, ecc., sezione prima, cap. III, p. 6-9, edizione in-8, Londra, 1783.

(295) Id., ibid. cap. IX, p. 35-37.

(296) Id., ibid. cap. XIV, p. 51-75.

(297) Id., ibid. cap. XIV, p. 53, e sez. VII, cap. II, p. 123-125.

(298) Id., ibid., cap. V, p. 136-137.

(299) Dell’uomo, ecc., sezione prima, cap. XIII, p. 39-40.

(300) ) Id., p. 50-55.

(301) Dell’uomo, ecc., sezione prima, cap. XV, p. 60 e seg.

(302) Id., p. 61.

(303) Id., p. 61.

(304) Id., cap. XV, p. 60 e seg.

(305) Id., ibid.

(306) Id., ibid.

(307) Id., ibid.

(308) Id., cap. XII, XIV, p. 45,52,55,71,75, ecc.

(309) Ne siano prova le persecuzioni da Nerone a Diocleziano.

(310) Dell'uomo, sezione prima, cap. XV, p. 57, e 59

(311) Id., ibid., cap, XVII. p. 165.

(312) Id., sezione seconda, cap. XVIII, p. 167.

(313) Id., sezione terza, cap. XIII, p. 287.

(314) Id., sezione decima, cap. IV, p. 349.

(315) Id., sezione settima, cap. I. p. 119 e 125.

(316) Id., sezione settima alla decima.

(317) Sistema della natura, t. 1, parte prima, cap. I, pag. 1, edizione in-8

(318) Id., p. 2,5,24,25

(319) Sistema della natura, t. I, parte prima, cap. II, p. 27, e cap. I, p. 5. – De legibus I.

(320) Id., p. 31.

321 Astron., lib. 1

322 V. 165

323 Sistema della natura, t. I, parte prima, cap. IV e V, p. 54-66.

324 Id., ibid., p. 55.

325 Id., ibid., p. 68

326 Id., ibid., p. 75 e 149.

327 Id., ibid., p. 280.

328 Arian. In Epitt., lib. III, cap. 13.

329 Riflessioni morali di M. A. Antonino, lib. IV, § 14 o lib. VIII, § 58. – D’Olbach, Sistema della natura, t. I, parte prima, cap. IV e V, p. 287.

330 Sistema ecc., p. 295.

331 Id., ibid., p. 298.

332 Id., ibid., p. 303.

333 Id., ibid., p. 306.

334 Epist. XII.

335 Sistema della natura, t. II, p. 411.

336 Veggasi Diogene Laerzio, Vit. Phil.; Platone, in Phoed., Ateneo, Sap. Conviv.; Cicerone, De natura Deorum; Bayle, Dizion. art., Talete ecc.

337 Telliamed, dial. VI.

338 Cicerone, Quaest. accad. Plutarco De Plac. phil. Lact., lib., II Iliad., lib. XIV, v. 201, ecc.

339 Cicerone, De nat. deorum, lib. I, n. 47; Virgilio, Georg. Ed Eneide, lib. VI; Diz. Enciclop. art. Stoico, ecc.

340 Cicerone, De nat. deorum, lib. I; Dottrina degli antichi filosofi, art. 12; Bayle, art; Bione e Diagora,ecc.

341 Id., ibid. De nat. deorum, lib. II

342 Id., ibid. Bayle, art. Senofane.

343 Id., De nat. deorum, lib. I, n. 71 e 72.

344 Id., ibid. n.34.

345 Id., ibid. n.34. Bayle, art. Averroè

346 Id., ibid. n.36. Platone, Placit. philos., lib. IV.

347 Esposizione della dottrina degli antichi, ecc.

348 Diog. Laer., Vit. philosoph.

349 Cicerone, De. Finibus, lib. I, n. 75.

350 Diog. Laer., lib., VIII

351 Id., lib. II, Bayle art. Pirrone: Esposizione della dottrina degli antichi.

352 Cicerone, De Offic., lib. III, n. 14,45,98, ecc.

353 Cicerone; Tuscul. lib. I, De Offic., lib. III e passim. Plinio, Stor. Nat., lib. II e cap. 7. Seneca. Epist., 103. Platone, nel Timeo; Dottrina degli antichi filosofi art. 29.

354 Bayle; art. Fiag, ibid., art. Ipparchia.

355 Cristianesimo svelato; Dello spirito, discorso, p. 2, cap. 17.

356 Dell’uomo, t. II; Sistema della natura, ibid.; Sistema sociale, ecc.

357 Id., § 7, cap. III

358 Id., ibid., pag: 266; Principi della filosofia naturale, cap. XVII

359 Dello spirito, discorso III, cap. XV, id., discorso II e III, cap. XV

360 Elvezio, Dell’uomo e della sua educazione, § I, nota 22.

361 Codice della natura, parte terza.

362 Biblioteca filosofica del legislatore, t. VI, p. 42 e seg.

363 Osservazioni sui greci, ecc.

364 Elv. lettera LXXVI.

365 Mem. di Bachaumont, p. 1. Edizione, in-12, 1784; Id. l. III, p. 271

366 Decreti del Parlamento, 1759.

367 Alloury nei dibattimenti, 25 aprile 1562.

368 Tre volumi in-8, anni 1765-67.

369 Mem. di Bachaumont, t. III, p. 34,49,177 e passim.

370 Memor. dell’Accad., ecc., anno 1788. Veggasi anche Bachaumont. t. III, pag. 98.

371 Veggasi Dizion. portatile dei teatri. tre vol. in-12. Parigi 1754, ecc.

372 Memor. di Bachaumont, passim.

373 Quadro di Parigi, cap. CCXXXVIII

374 Memor.di Bachaumont, l. I, p. 40; t. II, p. 105, 109, 159; t. III, p. 32,33,125,137,167,176,274, ecc.

375 Id., ibid., p. 176.

376 Veggansi le opere degli abati Battoux, Vertot, Saint-Real, Voisenon, d'Olivet, Gedoyen, ecc.

377 Mem. ecc., t. III, p. 220.

378 Mem. ecc., t. III, p. 58; t. III, p. 286.

379 Id., ibid., p. 277.

380 Id., t. II, p. 47

381 Id., t. IV, p. 15.

382 Morale tratta da sant'Agostino; l. cap VIII.

383 Lettera all’ambasciatore di Russia a Parigi, 1767.

384 Elenco ufficiale degli autori che i gesuiti facevano spiegare (omissis). Edizione in-12, Parigi 1711. Il programma dei gesuiti era pur quello degli altri collegi.

Due o tre omelie greche cristiane per una classe soltanto e neppure un autore cristiano latino. Tutto il resto è di autori pagani: ecco quello che nel XVII e nel XVIII secolo la gioventù cristiana educata dai gesuiti studiava nei sette o otto anni di sua istruzione. Così prescrive l'istituto. Lungi da noi il pensiero d'accusare: vogliamo allegare soltanto i documenti del processo, e chiedere ad ogni onesta persona, ai preti, ai gesuiti stessi, se dopo aver veduto i frutti religiosi e politici d'un tale insegnamento, sia bene il continuare a fare esattamente come facevano i nostri padri?

385 E i fatti cristiani e nazionali?

386 Apol. Dell’Inst. Dei gesuiti, cap. Dei Collegi.

387 Veggasi Memor.di Bachaumont, t. I, p. 13

388 Id., ibid., p. 58

389 Id., ibid., p. 62, 74, 76, 83, 114, 115, 124, 265, ecc.

390 Delle distruzioni dei gesuiti, parte prima.

391 Danjou, Del paganesimo nelle idee, p. 48.

392 Id., p. 49.

393 Nelle repubbliche classiche e specialmente a Roma, ogni potestà religiosa, civile e sociale, viene originariamente dal popolo. «I re, dice Terrasson, nominati dal popolo, furono i primi ministri della religione, e stabilirono a piacer loro le feste, il culto di ciascun dio, come pure le cerimonie che si dovevano osservare nei sacrifici. Il re, dice la legge quarta del codice Papiriano, presiederà ai sacrifici e deciderà delle cerimonie che vi saranno osservate».

Lo stesso codice, nella legge quindicesima, aggiunge: «Il popolo si eleggerà magistrati; farà plebisciti (che avevano forza di legge); finalmente, non si intraprenderà nessuna guerra; e non si concluderà nessuna pace contro il suo parere».

Il «console Valerio Publicola volle che i littori abbassassero i fasci consolari alla presenza del popolo convocato: la sua maestà, teneva vece di quella dei re. Lo stesso console fece decretare una legge per la quale nessun cittadino poteva essere giudicato in ultima istanza, che mediante una sentenza delle Curie; ed ogni colpevole condannato poteva appellare al popolo (*)», Così legislatore, pontefice, re, magistrato, corte d'appello e di cassazione, il popolo era tutto questo. Quello che avveniva a Roma, avveniva nella Grecia, donde Roma aveva tratto le sue costituzioni e le sue leggi.

(*) Terrasson, Storia della giurisprudenza romana, p. 26, 75.

394 Decret. Diocl. apud Bolland. Act, S. Georg. 25 aprile, ecc.

395 I Cesari pagani, dice l’autore della Storia universale della Chiesa, erano insiememente dii, sommi pontefici ed imperatori. Plinio condanna all’estremo supplizio i cristiani di Bitinia, perché ricusavano d'offrire sacrifici all'immagine di Traiano. Adriano fa un dio del suo compagno di lascivie. Antonino e Marc’Aurelio hanno in mogli vere prostitute. In luogo di reprimere il libertinaggio, ricompensano i complici di esse: morte, ne fanno le dee tutelari degli sposi, consacrano loro templi e pontefici, ed obbligano le giovani spose ad offrire sacrifici ad esse.

I cesari pagani erano anche la legge viva e suprema. La loro volontà aveva forza di legge: questa legge obbligava gli altri ma non già essi. Signori del diritto, o più veramente, essendo essi medesimi il diritto principale, erano padroni di tutto, della proprietà come di qualunque altra cosa: nulla rimaneva ad altrui che pel loro beneplacito.

«Se ne vede un saggio nell'imperatore Caligola. L'idea pagana del Cesare pagano si attuò tutta intera nella persona di lui. Egli stesso si dichiarò dio, si dedicò un tempio, pontefici e sacrifici. Morta sua sorella Drusilla, con la quale aveva commesso più d'un incesto, ne fece una dea, e giurava pubblicamente per la sua divinità: Quando gliene veniva talento, mandava a dire al tale, o al tal altro senatore si guardasse bene dal toccare la propria moglie, stantechè l'imperatore si degnava di prenderla per propria. Allorché ebbe condotto il romano esercito attraverso le Gallie, fin sulle rive dell'Oceano, per raccogliere conchiglie, scrisse ai suoi intendenti di Roma di preparargli un trionfo, di cui non si fosse mai veduto l'uguale; poiché essi avevano diritto sui beni di tutti gli uomini. Ricordatevi, diceva, alla sua avola, che mi è permesso tutto e verso tutti. Né si contentava di dirlo solamente: Perciò dato avendo a Napoli lo spettacolo d'una battaglia navale, fece gettare gli spettatori nel mare. Piacesse agli dei, sclamò egli altra volta, che il popolo romano non avesse che una sola testa! Ciò era per avere il diletto di abbatterla d'un sol colpo».

396 Lorry, Instit. exposit., t. I; p. 49, ediz. in-12.

397 Id., ibid., p. 9.

398 Veggasi questa legge in Gravina, ecc:., e in Terrasson, p. 241.

399 Gravina, De ortu et progressu juris civil., c. IV, p.68. I

400 Gravina, De ortu et progressu juris civil., c. VII, p. 8

401 Nella sua Storia della giurisprudenza romana, Terrasson riassume in tal modo quella famosa legge Regia che serve di base all'ordine sociale nell'antichità: Tutta la potestà religiosa, politica, legislativa e civile, in una parola, l’onnipotenza in tutte le cose e sopra tutte le cose di cui essi fruiscono popolo e senato trasferirono in Cesare, allorché la repubblica divenne impero ». Ciò fecesi in virtù della legge Regia, di cui Ulpiano così discorre: «Il beneplacito del principe ha forza di legge, in virtù della legge regia promulgata sul suo impero, per la quale il popolo gli conferisce e trasfonde in lui tutto il suo impero e la sua potestà» (*)

* Al succedere di ciascun imperatore si rinnovano tutte le disposizioni di questa legge.

402 Grav., p. 22.

403 Veggasi Gerlache, Studii sopra Sallustio, prefazione.

404 Epist. VII; S. Gelas, S. P., ad Anastas. imper.

405 Euseb. Vit. Const., lib. III, cap. 27.

406 Epist. 244 Ad Conrad. reg. Rom., oper., t. I, p. 514. Ediz. nuovissima analizzata da Rohrbacher, p. 422, t. XV.

407 Lib. II, cap. XIV.

408 De reg. princip., lib. II, c. XIV.

409 Id., lib. I, cap. XIV.

410 Id., lib. I, cap. XIV.

411 1Cor. 15.

412 Storia universale della Chiesa, t. XIX, p. 391, prima edizione.

413 Matteo, XVI, ecc.

414 Sermone sull'unità della Chiesa.

415 Rivista quadrimestrale, anno 1842, ecc.

416 Rivista quadrimestrale, anno 1842, ecc.

417 Baluz., Capitul. reg. franc., t. I, col. 209.

418 Id., t. II, col. 1555 e 1556

419 De formula regnante Christo, p. 571.

420 Veggasi fra gli altri, gli Atti di San Pionio nella Bibliot. dei class. Crist.

421 Veggasi il testo della sentenza pontificia nel Codex juris gentium diplomaticus; di Leibnizio, anno 1298.

422 Libertà della chiesa gallicana, di Pithou, t. I, p. 149.

423 Bullar. rom:, t. II, p. 35.

424 Bullar. rom:, t. II, p. 35.

425 I Viaggi dei Papi, 1782.

426 Michaud, Storia delle Crociate, l. IV, p. 67, sesta edizione. Il marchese di Villelleuve-Trans, Storia di San Luigi; t. I, p. 238.

427 Bullar., t. IV, p. 125.

428 Bullar., t. IV, p. 125.

429 Bullar., t. IV, p. 98.

430 Osservazioni sul progetto d'una pace perpetua; dell'abate di Saint-Pierre, p. 59. - Opere, t. V. in-4; edizione 1768.

431 Coquerel, Saggio sulla storia del Cristianesimo, p. 75.

432 Storia della rivoluzione, t. I, p. 252.

433 Filosofia della storia, t. II, sezione XIV

434 Storia dell'eloquenza latina, di M. N., p. 7 e 9.

435 Storia universale della Chiesa, t. XVIII, p. 6

436 Viterb. chron., pag. 17. Apud Baron. An. IV, n. 25.

437 Reges provinciales.

438 Terrasson, id. parte IV, § IV, pag. 385.

439 Il Risorgimento del diritto romano ebbe grande influenza nel diritto pubblico, ed in particolar modo nell'ampliazione data alla potestà regia: indebolì l’autorità del diritto consuetudinario, che viepiù perdette il suo carattere germanico e nazionale. Tale fu l’entusiasmo pel diritto romano, che si dubitò un istante se non prendesse luogo delle consuetudini. Per infrenare questa tendenza occorse, nel 1267, un decreto della corte del re.

440 In proemio digestor.

441 Della sovranità del re e che sua maestà non può sottomettersi a chicchessia, di messer Giovanni Savaron, consigliere del re, presidente e luogotenente generale nella giurisdizione d'Alvernia e sede presidiale di Clermont, in-12, 1620.

442 La Glossa era opera del professori cesarei.

443 Dicta donatio nihil valuit, propter multa quae in glosa juris civilis ponentur ... De jurisdictionibus sive de potestate regia et populi, c. XXII: De donatione facta papa. - La stessa dottrina è in Pietro di Bella Pertica, nato a Lucenay, nel secolo tredicesimo, item, Glosa in authenti, tit. IV, ecc. ecc.

444 Div. Com., c. XII.

445 De Monarch., c. 1.

446 Romanus populus ad imperandum ordinatus fuil a natura. Ergo romanus populus subjiciendo sibi orbem de jure ad imperium venit. - Id.

447 De Monarch., c. 1.

448 Populus ille sanctus, pius et gloriosus, propria commoda neglexisse videtur ut publica pro salute humani generis procuraret. - Id.

449 In hoc uno concordantes (principes gentium) ut adversarentur Domino suo et uncto suo romano principi. - De Monarch., c. 1.

450 Sembra certo che tale sia stato l'ultimo sogno dello sciagurato abate di Lamennais.

451) Sic ergo patet quod auctoritas temporalis monarchiae, sine ullo medio, de fonte universalis auctoritatis descendit. - De Monarch., c. 1.

452 Homil. XIII in Epist. ad Rom.

453 Nec Ecclesia recipere per modum possessionis, nec ille (Constantinus) conferre per modum alienationis poterat. - De Monarch., c. 1. -, Apud Savaron, Della sovranità del re, p. 11.

454 Vit. et res gest. pontif. rom. ab August. Oldoino, Romae,: in-fol., p.1677.

455 É provato che è stata fabbricata apposta una corrispondenza tra il papa ed il re, per rendere odioso il pontefice. Pithou non ha temuto di riprodurre quella congerie di apocrifi documenti.

456 Pithou, Libertà della Chiesa gallicana, t. II, p. 129.

457 Id., ibid. p. 130, Veggasi anche Savaron, Della sovranità del re, p. 14.

458 Storia della rivoluzione.

459 Storia delle Repubbliche italiane, t. IV, cap. XXIV, p. 141 e seg.

460 Bullar. Rom., Bonif. VIII. - Questa Bolla nulla dice di nuovo: la dottrina in essa contenuta era già compresa nel diritto canonico mediante la decretale Novit., d'Innocenzo III.

461 Pubblicato dall’Italia e Popolo.

462 Raynald, Annal., 1303, n. 9.

463 Aurea Bulla, Caroli IV, Rom. Imper. 1356, ediz: 1612, in-4. - Il primo atto del nuovo eletto era la solenne conferma di tutte le immunità, libertà, privilegi, consuetudini dell'impero: la qual conferma si doveva rinnovare alla presenza di tutto il popolo, subito dopo la consacrazione. Tutto ciò non meno che l'elezione era anticesareo.

464 Questi diritti furono ancora stipulati nel concordato fra Leone X e Francesco I.

465 P. 13, 14.

466 Utere deinceps in regno nostro potestate tua ut voles, 27 nov. 1461.

467 Questa carta esiste ancora nel museo di Propaganda.

468 Apud Raynald, anno 1495, n. 19.

469 Id. La Bolla è del 1493.

470 Apud Raynald, 1494 e 1496. Veggasi in Raynald il testo di queste due Bolle, date, come tulle le altre, in virtù dell'autorità apostolica, e non d'una concessione dei principi.

471 Era il codice Teodosiano - I principi franchi fecero anche per uso dei loro sudditi gallo-romani delle compilazioni della legge romana. Tale è il Breviarum Alarici, redatto da Alarico II, re dei Visigoti. Esso è un ristretto del codice Teodosiano e di alcune posteriori costituzioni imperiali. Esiste ancora una specie di codice romano redatto in Borgogna, verso il tempo del re Gondebaldo e conosciuto sotto il nome di Papiano; ma sembra ch'essa sia piuttosto un'opera di dottrina giuridica che un alto legislativo.

472 Si hanno prove eziandio che il diritto Giustinianeo era conosciuto; ma non aveva un'autorità di legge, e la pratica non si fondò su quella base.

473 Capitul., lib. VI, cap. 347.

474 Veggasi Savigny, Storia del diritto romano al medio evo, vol. 2. Parigi 1839. – Refugio, Saggio sullo stato della legislazione al sesto decimo secolo. ­ Terrasson, Storia della giurisprudenza romana, ecc. ecc.

475 Anche oggidì l'Inghilterra conserva qualche cosa di quest'usanza. - Refugio, Saggio sullo stato della legislazione al sedicesimo secolo, p. 354.

476 Id., pag. 355. - Le nazionalità, dapprima distinte, si amalgamavano viepiù. Le consuetudini dunque dovettero divenir locali, cioè reggere tutti gli individui residenti in un dato luogo, fatta astrazione dalla loro origine, alla quale diventava ognor più difficile il risalire. Questa trasformazione del diritto cominciò assai per tempo. Laonde Marculfo, verso la metà del secolo settimo; autore d'un formulario, dice d'aver redatto le sue formole giusta la consuetudine del luogo dove egli vive. Quest'opera di trasformazione si continuò e si compì senza che si possa in preciso modo determinare il momento in cui la località venne sostituita alla personalità del diritto. Ma alla fine del decimo secolo cotale trasformazione era interamente compita.

Una trasformazione che si compì nel medesimo tempo, si è che il diritto da scritto che era, dopo la redazione delle leggi barbare, divenne consuetudinario; e vi fu tempo in cui non si parlò più di leggi scritte, ma della giurisprudenza e delle usanze sino al tempo in cui anche queste usanze furono redatte, cioè sino alla redazione delle consuetudini decretata sotto Carlo VII e compita sotto Arrigo III.

477 Nos que valemos tanto como vos, y que podemos mas que vos, vos hazemos nuestro rey y senor, contal que guardeis nuestros fueros: se no, no.

478 Pessima republica, plurimae leges. De morib. Germ.

479 Quei commissari si chiamavano Missi dominici.

480 Della riforma della giustizia, p. 246 e seg. Opere, t. IV, ed. in-8, 1825.

481 Refugio, p. 355.

482 Della riforma della giustizia, p. 251.

483 Il diritto romano; non solo come scienza, ma anche come pratica, non si è mai perduto totalmente. Così, come abbiamo detto, il Risorgimento giuridico ebbe la prima culla nelle università italiane. Allora, incominciò a Bologna quella scuola dei romanisti, chiamata la scuola dei glossatori, di cui Accursio fu il più celebre. A quella scuola successe l'altra degli scolastici: di cui Bartolo fu la personificazione. - Quanto alla differenza nello stato giuridico dei paesi di diritto romano e dei paesi di consuetudini, non vuolsi vedervi un distacco assolutamente riciso. Nei paesi di diritto scritto, il diritto romano costituiva il fondamento del diritto; ma era piuttosto spiegato dalle consuetudini che dai testi conosciuti e consultati. Nei paesi di consuetudini, era consultato come ragione scritta, e talvolta, pel silenzio della consuetudine, come testo obbligatorio. L'elemento romano si trova più saliente nei paesi meridionali che non nei settentrionali:

484 Della riforma della giustizia, p. 351.

485 Id. ibid., p. 253 e 254.

486 Id., p. 255.

487 Id., ibid., p. 285.

488 Di chi è la colpa? Non fu esso forse che più d'ogni altro contribuì a distendere in Francia il regno del diritto romano, e, non ostante le gagliarde opposizioni della Sorbona, a farci godere pei benefici del Risorgimento?

489 Corpus jur. Can. c. XXVIII, lib. VI, De privileg: Decret. Greg. XII.

490 Si possono vedere queste chiose in Ferrière e in Terrasson, ecc. ecc.

491 Storia degli avvocati al parlamento di Parigi, due volumi, in-8, 1813, tom, II, pag. 60.

492 Bulaeus, Hist. Univers. Paris. T. III, p. 265 et 266.

493 Giornale dei dotti, giugno 1848, pag. 342-343. - Clemente V credette di dover rallentare alquanto la severità dei suoi predecessori, e la bolla Dum perspicaciter, dell'anno 1305, indirizzata all’università d'Orléans, approva lo studio del diritto romano in quell'università; ma lo studio non è abuso.

494 Storia universale della Chiesa, t. XIX, p. 394.

495 Storia universale della Chiesa, t. XVIII, p. 6.

496 Questo principio di diritto cristiano era talmente radicato nei cuori dei nostri antenati, che il Risorgimento non poté in sulle prime schiantarnelo. Dopo ben più di un secolo di sforzi, esso è ancora l'anima della Lega.

«Troppo è a temere che non avvengano grandi turbolenze in tutta la cristianità, e forse il totale sommovimento della religione cattolica, apostolica, e romana in questo regno cristianissimo, in cui non si patirebbe mai regnasse un eretico, stantechè i sudditi non sono tenuti di riconoscere né di tollerare la dominazione d'un principe sviato dalla fede cristiana cattolica, essendo il primo giuramento che fanno i nostri re, allorché si pone loro la corona sul capo, di mantenere la religione cattolica, sotto il qual giuramento ricevono quello di fedeltà .... Dichiariamo aver tutti giurato e santamente promesso di tener mano forte ed armi perché la Santa Chiesa di Dio sia reintegrata nella sua dignità, e la vera e sola religione .... Protestando di posar le armi tosto che sarà piaciuto a Sua Maestà di far cessare il pericolo che minaccia la ruina del servizio di Dio. - Memorie della lega, t. 1, p. 56 e seg. Dichiarazione di Perona. 31 marzo 1585.

497 L'istruzione fa tutto, diceva il regicida Chazal, meglio ispirato di Matter: siamo repubblicani perché fummo educati alle scuole di Sparta, d'Atene e di Roma.

498 Ciò è proprio lusinghiero pel cristianesimo!

499 Prima del Petrarca e del Boccaccio, l'Europa di Carlomagno, e di San Luigi, di San Bernardo e di San Tommaso, era morta a tutto questo?

500 Storia delle dottrine morali e politiche dei tre ultimi secoli, di Matter, pag. 29-31.

501 Spizel, Scrutin. atheism., pag. 132. - Veggasi anche, Artaud di Montar Machiavelli, suo genio, ecc., due volumi in-8, l'Enciclopedia, ecc.

502 Id., p. 75.

503 Gentillet, Discorso sui mezzi di ben governare, ecc. contro Machiavelli, in-4, pag. 8, Parigi 1576.

504 Principum monitrix Musa, p. 253, ediz., in-8, 1590.

505 I letterati.

506 Quali arti e quale filosofia?

507 Nicolaus Macchiavellus, Florentinus, athaeus, quamvis visus sit voluisse videri Christianus.

508 Cronaca del giorno (Morning-Chronicle) 12 ottobre 1792,

509 Vecchio Cordigliere, n. 5, p. 125

510 Id., n. 5, p. 125.

511 Decade filosofica, t. III, p. 96.

512 Id. ibid., p. 104

513 Trad. del Principe, di Capel, 1553

514 Esame del Principe di Machiavelli, prefazione.

515 Id., cap. XXIV.

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