LA
RIVOLUZIONE
ricerche
storiche
sopra
l'origine e la propagazione del male in Europa
di
Monsignor Gaume
VOLUME
QUINTO
Traduzione
italiana di Gaetano Buttafuoco
MILANO
Tipografia
Pirotta e C.
1857
_______________
INDICE
DELLE MATERIE
PARTE
SESTA
(Continuazione)
CAPITOLO
XI.
DOTTRINE
DI MACCHIAVELLI.
Sue
due principali opere: I Discorsi su Tito Livio; il Principe.-
Professione di fede politica di Machiavelli. - Nel riguardo politico
L'Europa è barbara.- L'abbandono dell'antichità ne è causa. –
L’educazione, cagione di quest'abbandono. - Necessità e
possibilità per l'Europa d'imitare i Greci e i Romani - Machiavelli
si dà pel ristauratore della loro politica. - Loro e suoi principii
sull'origine delle società. - Sulla miglior forma di governo. - Sui
mezzi di conservare e di ampliare gli Stati.
CAPITOLO
XII.
DOTTRINE
DI MACCHIAVELLI (Continuazione).
Nuovi
mezzi di tranquillità e d'ingrandimento: l'uccisione del re,
l'assassinio delle nazioni, la schiavitù della potestà spirituale.
- Machiavelli applica all'Italia i principii generali della sua
politica cesariana. - Apre la via ai protestanti ed ai rivoluzionari.
- Fa il programma di Lutero, di Mazzini e di Carlo Alberto. - Tutti i
sogni attuali dei demagoghi italiani sono suoi.
CAPITOLO
XIII.
DOTTRINE
DI MACCHIAVELLI (Continuazione e fine).
Il
libro del Principe.- Machiavelli insegna ai re a praticare la sua
politica.- Il primo mezzo che consiglia è di togliere a modelli
alcuni eroi dell'antichità e principalmente i Romani. - Detto di
Federico. - Ritratto morale dei Romani, carattere della loro
politica. - Crudeltà e fraude. - Il secondo mezzo è di essere lione
e volpe - Il dispotismo è lo scopo da raggiungere. - Conclusione. -
La politica di Machiavelli e il Cesarismo antico.
CAPITOLO
XIV.
BUCANANO.
La
politica di Machiavelli si propaga in Europa. -Bucanano. - Sua
biografia. - Sua opera De jure regni. - Sue idee interamente
classiche sull'origine delle società. - Stato di natura. - Contratto
sociale.- Scopo materialista della società. - La religione stromento
di regno. - Il popolo giudice dei casi di coscienza sociali.
–Dottrine del regicidio. - Conseguenza necessaria della politica
pagana fedelmente conservata. - Insegnata dai Mazziniani
CAPITOLO
XV.
BODINO.
Duplice
carattere della politica dell'antichità: sovranità del popolo e
sovranità del principe, anarchia e dispotismo. - Gli stessi
caratteri e gli stessi risultamenti nella politica moderna. - Bodino.
- Sua storia.- Risorgente e libero pensatore. - Suoi scritti. -
Dialoghi sulla religione. Trattato della repubblica.
- Precursore dello Spirito delle leggi. - Bodino s'ispira
costantemente all'antichità.- Chiede pei coniugi il ristabilimento
del ripudio facoltativo.- Pei padri il diritto di vita e di morte sui
figli. - Influenza di Bodino. - Edizioni delle sue opere. - Altri
professori cesariani. Scuola dei naturalisti
CAPITOLO
XVI.
HOBBES.
Sua
vita. - Il Risorgimento ne fa un giurista cesariano.-- Suo Leviathan.
- Analisi di quest'opera. - Il trattato del cittadino, De cive,
copiato negli autori classici. - Parole di Cicerone e
d'Orazio.-Avvertenza di Balmès.- Dottrina politica di Hobbes. - Lo
stato di natura.- Il contratto sociale. - Scopo della società, il
benessere materiale.- Missione del potere è il procurarlo - Mezzi di
procurarlo.- L'onnipotenza del principe o dello Stato. - Nell'ordine
temporale. - Nell'ordine spirituale. - Potestà di regolare il culto,
di far la morale, di definir la dottrina. - Il Cesarismo risorto. -
Hobbes pagano sino alla morte.
CAPITOLO
XVII.
GRAVINA
Riassume
il Cesarismo. -Classico fin dalla giovinezza. - Muta il suo nome di
battesimo e quello del suo villaggio. - Compone tragedie pagane. -
Fonda l'accademia degli Arcadi.- Linguaggio usato in quell'accademia.
- Gravina, si propone di ricondurre il mondo allo stato di natura.
Coi suoi soci abbraccia la vita pastorale. - Leggi che dà agli
Arcadi. - Redatte con lo stile delle dodici Tavole. -Esorta
costantemente al culto dell'antichità. -Richiamo contro il
Risorgimento e gli studi pagani. - Cattiva risposta di Gravina.
CAPITOLO
XVIII.
GRAVINA
(Continuazione e fine).
Sua
opera dell'origine e del progresso del diritto civile. - Suo sistema
sociale e politico copiato in Dante. - Entusiasmo di Gravina pel
diritto romano. - Suo libro dell'impero romano. - Panegirico
del Cesarismo e della monarchia universale, anima della rivoluzione e
del socialismo. Gravina domanda l'impero universale dell’uomo.
- Vuole che la sede ne sia in Roma. - Eccita ad entusiasmo i giovani
Romani pei loro antenati. - Per le loro leggi sante e pie. -
Desidera che il diritto romano ritorni ad essere la legge del mondo
intero. - Sua Orazione a Pietro il Grande. - Sua morte.
CAPITOLO
XIX.
IL
CESARISMO IN PRATICA.
I
re si fanno papi. - Abbattimento della politica cristiana. - Ordine
di studiare da per tutto il diritto romano. - Esso supplanta il
diritto consuetudinario ed il diritto canonico. - Viene imposto alle
popolazioni. - Quello che né risulta. - Politica interna. - Politica
generale. - Politica riguardo alla Chiesa. - Richelieu e Mazarino.
CAPITOLO
XX.
IL
CESARISMO IN PRATICA (Continuazione e fine).
Parole
di Savaron e di Bossuet. - Applicazione del Cesarismo alla proprietà.
- Parole di Luigi XIV. - Politica esterna. - Materialismo del
diritto. - Alleanze adultere. -Iniquità. - Politica riguardo alla
Chiesa. - Far senza la Chiesa, disprezzarne la voce. - Usurparne i
diritti. Decreti dei parlamenti. - Sviluppo completo del
Cesarismo nei paesi protestanti; manifestazione in Francia e nei
paesi cattolici.
CAPITOLO
XXI.
CONSACRAZIONE
DEL CESARISMO
Dichiarazione
del 1682.- Essa comprende quattro tradimenti. - Odiosa in sé stessa.
- Più odiosa in ragione dei tempi in cui fu fatta. - Affari di
Pamiers e d'Aleth. - I gesuiti di Parigi. - Il parlamento di Tolosa.
- Debolezza dei vescovi. - Loro lettera al papa. - Compilazione dei
quattro articoli. - Uso che fa Luigi XIV del diritto Cesariano di cui
viene investito. - Lagnanze di Fleury.-Doglianze di Bossuet. -
Conseguenze politiche della dichiarazione del 1682. - Opinioni di tre
teologi laici, del signor di Maistre, di Luigi Blanc, di Robespierre.
- Caratteri della politica dopo quel tempo. - Abusi preparatori della
rivoluzione. - Parole di Fénelon. - Perché la rivoluzione invece di
essere cristiana e salutare, è stata pagana e disastrosa.
-Conclusione.
PARTE
SETTIMA
Proemio
CAPITOLO
I.
Stato
della questione. - Duplice carattere dell'empietà Volteriana.
Deriva
essa dal Protestantesimo? - Nell'ordine sociale? - Nell'ordine
religioso? – Autorità che invoca. – Mezzi che impiega.- Paesi
che devasta. - Scopo che si propone. - Donde è venuto il
Protestantesimo?
CAPITOLO
II.
LUTERO.
Il
libero pensare, anima del Protestantesimo. - Origine del libero
pensare, il Risorgimento. - Prove: vite, scritti, atti dei
riformatori. -Testimonianze della storia. - Caratteri del
Protestantesimo. - Vita di Lutero. Suoi primi anni. - Studia ad
Eisenach e s'invaghisce dell'antichità pagana. - Studia ad Erfurth -
Parole decisive di Melantone. - Atto più decisivo di Lutero. - Con
chi entra in convento. - È ordinato prete. - Insegna a Vittemberga.
- Va a Roma. - Sue impressioni.
CAPITOLO
III.
LUTERO
(Continuazione).
Lutero
ricevuto dottore in teologia. - Manolesta tutto il suo disprezzo pel
medio evo. - Suoi sermoni. - Sue tesi. - Origine e cagione della sua
antipatia. - Parole del signor Audin. - Influenza del Risorgimento
sulla Riforma. - Nuova testimonianza del signor Audin.- Disposizioni
generali degli animi, specialmente in Alemagna. - Lettera del
canonico Adalberto.
CAPITOLO
IV.
LUTERO
(Continuazione e fine).
Il
Protestantesimo prima di Lutero. - Disprezzo del medio evo. -
Entusiasmo per l'antichità pagana.- Querela delle indulgenze. - Essa
non è la cagione del Protestantesimo. - Lutero assalisce l’autorità
della Chiesa. - Parole notevoli di Bruchero – Lutero sempre simile
a se stesso, e sino alla morte quale lo ha fatto l’educazione. - Ei
non è altro che un Risorgente.
CAPITOLO
V.
ZUINGLIO.
Progressi
del libero pensare. - Nascita di Zuinglio.- Sua educazione. - Essa
produce in lui gli stessi effetti che in Lutero. - Zuinglio studia a
Berna e s'invaghisce degli autori pagani. - Si reca all'università
di Vienna. - Raffronto fra lui e Lutero. - Che è Zuinglio, compita
l'educazione; anima vuota di cristianesimo ed ebbra di paganesimo. -
È ordinato prete e nominato parroco di Glarona. - Nuovo raffronto
con Lutero. - Occupazioni di Zuinglio nella sua parrocchia. - Studio
degli autori pagani. - Loro influenza. - Influenza d'Erasmo. - Nuovo
raffronto con Lutero.
CAPITOLO
VI.
ZUINGLIO.
(Continuazione).
Raffronti
fra lui e Lutero.-Viaggio d'Italia, impressioni. - Zuinglio studia la
Scrittura, come Lutero, sotto l'ispirazione del libero pensare. - Sue
dottrine. - Come Lutero ingiuria i suoi contraddittori. - Invoca gli
autori pagani. - Sua professione di fede, ultimo limite del libero
pensare. - Paradiso di Zuinglio, panteon dei pagani. - Come Lutero,
emancipa la carne. - Applica il principio pagano all'ordine sociale.
- La guerra. - Morte di Zuinglio.
CAPITOLO
VII.
CALVINO.
Libero
pensatore come Lutero e Zuinglio.- Nascita e prima educazione di
Calvino. - Centro in cui si trova a Parigi. - Suoi primi studi nel
collegio della Marche. - Come Lutero ad Eisenach, Zuinglio a Basilea,
Calvino s'invaghisce degli autori pagani. - Il suo maestro Maturino
Cordier. - Calvino commenta Seneca. - Studia diritto ad Orléans, e
il Bourges sotto due famosi Risorgenti. - Notizia sopra Alciati. -
Come Lutero ad Erfurth e Zuinglio a Glarona, Calvino si dà al culto
delle muse. - Com'essi studia la Scrittura e la teologia. -
Lascia Bourges.
CAPITOLO
VIII.
CALVINO
(Continuazione e fine).
Disprezzo
pel Cristianesimo. - Ammirazione pel Paganesimo. - Lettera di
Ficino.- Calvino a Parigi. - Ei dommatizza in virtù del libero
pensare come Lutero e Zuinglio. - Suo linguaggio classico. -
Restaurazione del Paganesimo sotto il duplice aspetto dello spirito e
della carne. - Dispotismo razionalistico di Calvino. - Egli deifica
la carne. - Applica il Paganesimo all'ordine sociale.- Governo di
Ginevra. - Morte di Calvino. - Conclusione.
CAPITOLO
IX.
MELANTONE
Il
Protestantesimo figlio del Risorgimento. - Melantone. -Sua
educazione. -S'invaghisce dell'antichità pagana. - Il suo maestro
gl'insegna il greco di nascosto. - Reuclino gli dà un dizionario. -
Melantone fa una commedia di tredici anni. - Riceve il battesimo alla
greca. - Lascia il ginnasio per l'università. - Fa quel che fecero
Lutero, Zuinglio, Calvino. - A Tubinga s'inebria ed inebria gli altri
della bella antichità.- È professore a Vittemberga. - Suo discorso
inaugurale. - Due idee. Disprezzo del passato cristiano,
ammirazione dell'antichità pagana. - Effetti di quest'insegnamento.
CAPITOLO
X.
MELANTONE
(Continuazione e fine).
Melantone
diventa protestante. - Prepara reclute a Lutero, innamorando la
gioventù dell'antichità pagana. - Sua ammirazione pel Risorgimento.
Elogio di Firenze. - Le belle lettere ausiliari del
Protestantesimo. - Parole notevoli. - Passo di Bruchero. - Opera di
Sadoleto. - Lettera del Bembo. - Riflessioni.-Disprezzo del medio
evo. - Fine di protestare opposto alle condanne delle università
cattoliche. Preziosa testimonianza di Beda. - Come Lutero, Zuinglio,
Calvino, Melantone deifica la carne. - Bigamia del langravio d'Assia.
- Morte di Melantone.
CAPITOLO
XI.
TEODORO
BEZA.
I
capi del Protestantesimo sono Risorgenti.- Detto di Melantone. -
Nascita e prima educazione di Teodoro Beza. - S'invaghisce degli
autori pagani. - Culto della carne. - Come Lutero, Zuinglio, Calvino,
Melantone reca questa passione all'università. - Invece di studiar
diritto, coltiva le Muse. - Facilità con cui diventa protestante.
-Pubblica le sue poesie. - È costretto a fuggire. - Si ritira a
Ginevra. - Calvino lo manda ad insegnare il greco a Losanna. - Vi
semina il libero pensare. - Ritorna a Ginevra. - È fatto ministro
del santo Vangelo. - Sua polemica simile a quella dei Risorgenti e
degli autori pagani. - Applica il Paganesimo all'ordine sociale. -
Muore come ha vissuto. - Pagano, è celebrato da poeti pagani.
CAPITOLO
XII.
PROPAGAZIONE
DEL PROTESTANTESIMO
Detto
di Erasmo. - Propagare lo studio dell'antichità pagana per giungere
al libero pensare: parola d'ordine data dai capi del Protestantesimo.
Ben compresa e bene osservata. - Ermanno Buschio, apostolo del
Risorgimento. - Percorre la Germania predicando Omero e Virgilio. -
Camerario predica pei ginnasi e per le università. Sua vita. - Se i
protestanti furono nemici delle arti. - Parole di Zuinglio. - Opere
di Camerario. - Trattato di pedagogia. - Trattato di morale pagana. -
Composizioni poetiche di Camerario.
CAPITOLO
XIII.
PROPAGAZIONE
DEL PROTESTANTESIMO (Continuazione).
Eobano
Hessus. - Sua vita, sue opere. - Gio. Caio in Inghilterra. Ardore pel
Risorgimento. - Il vescovo di Winchester. - Francia, Giulio
Scaligero. - Sue opere - Parole di Bayle. - Ingiurie dirette dai
Risorgenti ai grandi uomini del Cristianesimo. - Lodi date ai pagani.
Tratto e detto di Walkenaer. - Le stamperie protestanti. -
Edizioni degli autori pagani di Enrico Stefano.- Fedeltà alla parola
d'ordine dei capi della Riforma.
CAPITOLO
XIV.
PROPAGAZIONE
DEL PROTESTANTESIMO (Continuazione e fine).
Riprovazione
della filosofia e della poesia del libero pensare.- Leone X, Paolo
III. - Il libero pensare conduce al Protestantesimo.- Giustezza della
parola d'ordine dei capi della Riforma.- Vermiglio. - Curione.
Dudith. - Gilberto di Longueil. - Altri nomi. - Le famiglie Gentilis
e Beccaria. - Averrani. - Landi. - Giudizio reso sopra tutta questa
progenie di umanisti.
CAPITOLO
XV.
TESTIMONIANZE
Il
protestantesimo venuto dal Risorgimento. Testimonianza dell'autore
protestante Gottlieb Buhle. - Dallo studio dell'antichità è uscito
il libero pensare. - Il disprezzo del cristianesimo. - La ribellione
contro la Chiesa. - Parola d'ordine dei capi del Protestantesimo.
-Testimonianza del dottor Beda. - Disprezzo d'Erasmo e dei Risorgenti
pei Padri e pei dottori della Chiesa che non sapevano il greco. -
Confutazione. -Testimonianza del conte di Carpi. - Sua lettera ad
Erasmo. - Il Risorgimento vera causa del Protestantesimo. - Stato
dall'Alemagna prima e dopo il Risorgimento. - Effetti degli studi
pagani sugli animi.- Conclusione.
CAPITOLO
XVI.
TESTIMONIANZE
(Continuazione e fine)
La
Sorbona e l'università di Colonia.- Rodolfo di Lange alza in
Alemagna lo stendardo del Risorgimento. - Condannato dai teologi di
Colonia. Influenza della sua scuola. - Sua morte. - Budeo in
Francia. - Opposizione al Risorgimento. - Passaggio di Maimbourg. -
Testimonianza di Bayle, - di Cousin, - di Buhle. - di Zuinglio, -
d'Alloury - e di Chauffour.
CAPITOLO
XVII.
IL
PROTESTANTESIMO IN SÉ STESSO
Detto
di Erasmo.- Riepilogo.- Origine e natura del paganesimo antico,
composto di tre elementi: l'elemento intellettuale o filosofico, ed è
il libero pensare; l'elemento morale, ed è l'emancipazione della
carne; l’elemento politico, ed è il Cesarismo. - Caduta del
paganesimo. - Riscossa del paganesimo. - Apparizione di Lutero.- Il
protestantesimo composto degli stessi elementi del paganesimo antico.
- Questo è l'opera del demonio in persona. - Intervento personale e
sensibile del demonio nella fondazione del Protestantesimo. - Fatti e
testimonianze.
CAPITOLO
XVIII.
ESAME
DI ALCUNE DIFFICOLTÀ
Lutero
non era Risorgente. - Risposta: Tutta la sua vita prova il contrario.
- Egli ha proscritto le arti. - Distinzione essenziale. - Ha
declamato contro gli autori pagani. - Ragione di tali declamazioni;
esse nulla provano. - Il Protestantesimo ha avuto altre cause che il
Risorgimento. Esame e natura di queste cause; distinzione
fondamentale. - Il Protestantesimo avrebbe avuto luogo senza il
Risorgimento. - Esame di questa questione. - Risposta. - Il
Risorgimento non ha prodotto da per tutto il Protestantesimo. -
Ragione di questo fatto. - Ha prodotto il libero pensare. - Fenomeno
notevole. - Soggetto del volume seguente,
CAPITOLO
XIX.
ESAME
DI ALCUNE DIFFICOLTÀ (Continuazione).
L’insegnamento
classico e le generazioni letterate del sedicesimo e diciassettesimo
secolo. - Le generazioni veramente cristiane sono le generazioni che
credono e che praticano. - Esame dei costumi delle nazioni letterate
dei secoli XVI e XVII. - La loro fede sarà esaminata altrove.
Loro arti. - Loro conviti. - Storia riferita da Brantòme. - Loro
sale. - Loro giardini. - Loro teatri domestici. - Loro lettere. -
Loro teatri pubblici.- Risultamenti morali. - Costumi delle corti. -
Costumi delle alte classi. - Testimonianze di Laplanche, di Bodino,
di Mézeray, di Brantòme. - Del presidente di Thou. - Di Voltaire. -
Di Mezeray - Di Gentillet.
CAPITOLO
XX.
ESAME
DI ALCUNE DIFFICOLTÀ (Continuazione e fine).
Testimonianza
del clero. - Delle congregazioni insegnanti. - I costumi degli ultimi
tre secoli dipinti da tre gesuiti. - Pel sestodecimo secolo, dal P.
Possevino. - Secondo lui, i costumi delle classi letterate sono
pagani. - Pel secolo decimosettimo, dal P. Rapino. - Secondo lui, i
costumi delle classi letterate sono pagani. - Pel secolo decimottavo,
dal P. Grou. - Secondo lui i costumi delle classi letterate sono
pagani. L’obbiezione annichilata.
____________________
IL
CESARISMO
____________
PARTE
SESTA
(Continuazione)
_____________
CAPITOLO
XI.
DOTTRINE
DI MACCHIAVELLI.
Sue
due principali opere: I Discorsi su Tito Livio; il Principe.-
Professione di fede politica di Machiavelli. - Nel riguardo politico
L'Europa è barbara.- L'abbandono dell'antichità ne è causa. –
L’educazione, cagione di quest'abbandono. - Necessità e
possibilità per l'Europa d'imitare i Greci e i Romani - Machiavelli
si dà pel ristauratore della loro politica. - Loro e suoi principii
sull'origine delle società. - Sulla miglior forma di governo. - Sui
mezzi di conservare e di ampliare gli Stati.
***
Le
due principali opere politiche di Machiavelli sono: I discorsi
sulle Deche di Tito Livio, divisi in tre libri, che formano
ottantotto capitoli, ed il Principe, che contiene ventisei
capitoli.
Machiavelli,
il cui nome è divenuto sinonimo d'ipocrisia e di dissimulazione, non
merita punto questo rimprovero: ché anzi egli è d'una cinica
franchezza. Fino dalle prime pagine dei suoi Discorsi sopra Tito
Livio, inaugura senza circonlocuzioni la politica pagana.
«Quando
io considero, dice egli, quanto onore si attribuisca all’antichità,
e come molte volte, lasciando andare molti altri esempi, un frammento
di un'antica statua sia stato comprato gran prezzo, per averlo presso
di sé, onorarne la sua casa, poterlo fare imitare da coloro che di
quell'arte si dilettano, é come quelli poi con ogni industria si
sforzano in tutte le loro opere rappresentarlo; e veggendo dall'altro
canto le virtuosissime operazioni che le istorie ci mostrano che sono
state operate da regni e da repubbliche antiche, da re, capitani,
cittadini, dottori di leggi, ed altri che si sono per la loro patria
affaticati, essere più presto ammirate che imitate, anzi in tanto da
ciascuno in ogni parte fuggite che di quella antica virtù, non ci
è rimasto alcun segno; non posso fare che insieme non me ne
meravigli e dolga; e tanto più, quanto io veggio nelle differenze
che intra i cittadini civilmente nascono, o nelle malattie, nelle
quali gli uomini incorrono, essersi sempre ricorso a quelli giudicii
o a quelli rimedii che dagli antichi sono stati giudicati o ordinati.
«Perciò
le leggi civili non sono altro che sentenze date dagli antichi
jureconsulti, le quali ridotte in ordine, ai presenti nostri
jureconsulti giudicare insegnano; né ancora la medicina è altro che
esperienza fatta dagli antichi medici sopra la quale fondano i medici
presenti li loro giudicii. Nondimeno nello ordinare le repubbliche,
nel mantenere gli Stati, nel governare i regni, nell'ordinane la
milizia ed amministrare la guerra, nel giudicare i sudditi, nello
accrescere lo imperio, non si trova né principe, né repubblica, né
capitano, né cittadino, che agli esempi degli antichi ricorra. Il
che mi persuado che nasca, non tanto dalla debolezza, nella quale la
presente educazione ha condotto il mondo, o da quel male che
uno ambizioso ozio ha fatto a molte provincie e città cristiane,
quanto dal non avere vera cognizione delle istorie, per non trarne,
leggendole, quel senso, né gustare di loro quel sapore che le hanno
in sé. Donde nasce che infiniti che leggono, pigliano piacere di
udire quella varietà degli accidenti che in esse si contengono,
senza pensare altrimenti d'imitarle, giudicando la imitazione non
solo difficile, ma impossibile; come se il cielo, il sole ,gli
elementi, gli uomini fossero variati di moto, di ordine e di potenza
da quello ch'egli erano anticamente.
«Volendo
pertanto trarre gli uomini di questo errore, ho giudicato
necessario scrivere sopra tutti quelli libri di Tito Livio che dalla
malignità dei tempi non ci sono stati interrotti, quello che io
secondo le antiche e moderne cose, giudicherò esser necessario per
maggior intelligenza di essi, acciocché coloro che questi miei
discorsi leggeranno, possano trame quella utilità, per la quale si
debba ricercare la cognizione della istoria. E benché questa impresa
sia difficile, nondimeno, aiutato da coloro che mi hanno ad entrare
sotto a questo peso confortato, credo portarlo in modo, che ad un
altro resterà breve cammino a condurlo al luogo destinato (1).
Tale
è il programma di Machiavelli: importa di ben penetrarne il senso.
Ora da questo passo fondamentale risulta quanto segue:
1°
Per Machiavelli il cristianesimo è non avvenuto. Gli alunni
del Risorgimento suoi confratelli pubblicavano in ogni maniera che
l'Europa cristiana non aveva avuto né letteratura, né arti, né
filosofia; oppure non aveva avuto che letteratura, arti, filosofia
barbare: la sola antichità possedere tutti quei tesori, e ad essa
sola doversi domandarli. Ed in tanta onoranza avevano rimesso
l'antichità, che si comprava a peso d'oro il più piccolo rottame
delle sue opere.
Laonde
con ragione diceva Machiavelli: l'Europa insino allora non aver avuto
né politica, né virtù, né civiltà: oppure aver avuto politica,
virtù e civiltà barbare. La sola classica antichità aver
conosciuto la politica e la civiltà, e ad essa doverlesi richiedere.
Le istorie delle antiche repubbliche esser piene dei più chiari
esempi, delle più sublimi virtù; e niuno, ciò non ostante nel
reggimento degli Stati, nel governo della guerra e nella
amministrazione della giustizia, aver pensato a prendere a modello i
Greci e i Romani. Che dico? se ne ha una specie di timore, di guisa
che più non resta fra noi alcun vestigio dell'antica virtù.
Da
questa confessione risulta che non ostante i continui suoi tentativi,
il Cesarismo non aveva potuto, al tempo del Risorgimento, persuadere
ai popoli cristiani d'andare a cercare le regole della loro politica
presso i Greci e i Romani; che le pretese virtù dei pagani, il loro
modo di governare i popoli, d'amministrare la giustizia, di fare la
guerra, di ampliare gli Stati, inspiravano all'Europa tale una
ripugnanza che non ne rimaneva più orma.
2°
Quest'oblivione, questo disprezzo della sapienza antica,
Machiavelli l'attribuisce, fra le altre cagioni, all'educazione
dell'Europa. La confessione è ricisa. Nel medio evo dunque non
si studiavano, o molto meno che non si fa dopo il Risorgimento, gli
autori pagani, le repubbliche pagane; e soprattutto non si
studiavano, come si fa da quattro secoli, con un grande entusiasmo e
per farne i modelli della vita pubblica e privata. Siano grazie a
Machiavelli d'aver così bene giustificato l'autore del Verme
roditore, accusato d'aberrazione e quasi di eresia; per avere
segnalato una clamorosa scissura nell'educazione pubblica al tempo
del Risorgimento.
Siano
grazie ancora a Machiavelli d'aver detto come noi, che il paganesimo
sociale ed il paganesimo artistico e letterario è ritornato nel
mondo mediante l'educazione. L'educazione lo aveva fatto dimenticare,
l'educazione doveva farlo rivivere.
«Non
so, dice egli, se io meriterò d'essere numerato tra quelli che
s'ingannano, se in questi miei discorsi io lauderò troppo i tempi
degli antichi Romani, e biasimerò i nostri. E veramente se la
virtù che allora regnava, e il vizio che ora regna non fossero
più chiari che il sole, andrei col parlare più rattenuto ... Ma
essendo la cosa sì manifesta che ciascuno la vede, sarò
animoso di dire manifestamente quello che intenderò di quelli e di
questi tempi, acciocché gli animi dei giovani che questi miei
scritti leggeranno, possano fuggir questi: e prepararsi ad imitar
quelli, qualunque volta la fortuna ne desse loro occasione (2)».
Ecco
l'uomo del Risorgimento reso fanatico dalla sua educazione, ed il
cieco che si fa guida ad altri ciechi. Seguendo costoro l'Europa è
caduta nella fossa.
3°
Machiavelli, arrossendo della barbarie dell'Europa, si dichiara il
ristauratore della politica dei Greci e dei Romani. In fatto di
scienza politica, l'Europa dei papi, di Carlomagno, di San Luigi, di
San Ferdinando, è nelle tenebre, è forviata nelle strade
dell'errore. Per ritrovare la vera scienza del governo, è necessario
indietreggiare quindici secoli. I Greci ed i Romani sono gli
splendidi anelli cui si debbono attaccare i secoli moderni. Da questa
condizione la civiltà ed il progresso dipendono: grave, immenso è
l'incarico; e per tema che non se ne sbigottiscano, Machiavelli
toglie di dire alle nazioni cristiane, non essere loro impossibile
d'imitare le sublimi virtù dei pagani.
Che
mai è stata la rivoluzione francese, se non lo sforzo sovrumano
d'una generazione di collegio per innalzar la Francia all'altezza
delle virtù di Roma e di Sparta?
4°
Machiavelli offresi come il complemento obbligato del
Risorgimento. Voi ammirate l'antichità nelle arti; ma questa non
è che una parte, ed anche la meno importante della civiltà antica.
Per compiere il movimento rigeneratore devesi far rivivere la
politica antica. Se reputasi buona cosa il curare i malati con
farmaci venuti dall'antichità, non è egli ragionevole il sottoporre
al reggimento sociale degli antichi le nazioni cui il Cristianesimo
ha lasciato cadere nella barbarie? (3).
Così
hanno ragionato, dopo il Risorgimento, tutti i facitori di
rivoluzioni; così ragionano oggi, e così ragioneranno in futuro.
Dopo
quest'audace dichiarazione di principii, il nuovo Licurgo entra
risolutamente in materia. Per lui l'Europa del secolo XV è come per
noi l'Oceania d'oggi. Egli stabilisce in fatto che in materia
politica, non sa nulla, e che devesi insegnarle tutto: le fa il
catechismo; ed è vano il dire che la sua politica è il contrapposto
della politica cristiana.
Gli
uomini non sono mai vissuti nello stato selvaggio; la società è un
fatto primitivo e divino, in questo senso che l'uomo è stato creato
socievole, e che ogni potestà viene da Dio: tale è, secondo il
Cristianesimo, l'origine ed il fondamento delle società.
Machiavelli
insegna tutto l'opposto: la società non è né un fatto primitivo,
né un fatto divino. Scegliendo per oracoli gli autori pagani, prende
le mosse dalla favola dello stato selvaggio. Secondo lui, gli uomini,
da principio dispersi nei boschi, furono condotti dal desiderio del
ben essere, o dal sentimento del timore, a ravvicinarsi e ad unirsi,
pel loro comune interesse. Di che il contratto sociale, principio
generatore delle società (4).
Questa
duplice parola dello stato di natura e del contratto sociale, cantata
alla gioventù di collegio dagli autori classici, fedelmente
riprodotta da Machiavelli e religiosamente trasmessa dai suoi
continuatori, fu, come abbiamo già dimostrato, il gran principio
della rivoluzione francese; ed essa sarà l'anima di tutte quelle che
la seguiranno; perché essa è, in principio, l'apoteosi sociale
dell'uomo.
Senza
condannare veruna forma di governo, il Cristianesimo preferisce la
monarchia. Tutte le grandi nazioni cristiane sono state monarchiche:
ed ha provato l'esperienza che l'autorità di un solo è, tutto ben
ragguagliato, una guarentigia più sicura di stabilità, di libertà,
e per conseguenza di vero progresso che non un potere spartito.
Per
Machiavelli, Roma è il tipo della perfezione sociale e Roma era una
repubblica: la sua preferenza è dunque per la forma repubblicana.
Con quanta compiacenza ei descrive la beatitudine e i vantaggi del
governo popolare! Tanta ne è fa perfezione, che le stesse procelle
lo rassodano; che la libertà, commessa a custodia del popolo,
rimansi inviolabile come la divinità nel suo santuario; che le
medesime colpe del popolo sono assai meno gravi e più facilmente
riparabili di quelle dei re. «E se i tumulti, dice egli, furono
cagione della creazione dei tribuni, meritano somma laude: perché
oltre al dare la parte sua all'amministrazione popolare, furono
costituiti per guardia della libertà romana (5). La libertà essere
più in sicuro nelle mani del popolo che in quelle dei magnati: la
moltitudine essere più saggia e meno mutabile dei principi; le
colpe commesse dal popolo più facilmente ripararsi che quelle d'un
principe: il popolo essere talmente savio in ordine ai propri
interessi che la voce sua è la voce di Dio.
Tutto
ciò vuol dire alle nazioni monarchiche dell'Europa: «Abbiate
tribuna, oratori parlamentari, siate repubblicani, ed avrete attuato
la perfezione, sarete simili alla gran Roma». Ora codeste
declamazioni democratiche, cui la storia contemporanea ha dato e dà
ancora sì solenni mentite, hanno però progredito; tengono in sulle
guardie l'ordine sociale, e raccomandano ai governi ed ai padri di
famiglia il sistema di educazione che le ispira.
Il
Cristianesimo alle società da esso formate, insegna i mezzi di
conservarsi e di ingrandire. «La giustizia; dice egli, innalza le
nazioni: il peccato le rende miserevoli; ed ogni nazione che non si
sottomette alla legge di Dio, perirà» (6).
Per
Machiavelli la Scrittura non è un'autorità: Tito Livio è il suo
oracolo; Roma il suo modello.
I
mezzi di conservazione e d'ingrandimento impiegati dai Romani sono,
nell'opinion sua, il segreto della durata e della potenza delle
nazioni. Il primo è la violenza. Continuando a catechizzare
l'ignorante suo alunno, Machiavelli dice all'Europa cristiana:
«Crescit
interea Roma Albae ruinis. Quelli che disegnano che una città
faccia grande imperio si debbono con ogni industria ingegnare di
farla piena di abitatori: perché senza quest'abbondanza d'uomini,
mai non riuscirà di far grande una città. Questo si fa in due modi,
per amore e per forza. Per amore, tenendo le vie aperte e
sicure ai forestieri che disegnassero venire ad abitare in quella,
acciocché ciascuno vi abiti volentieri. Per forza, disfacendo le
città vicine, e mandandogli abitatori di quelle ad abitare nella tua
città. Il che fu tanto osservato in Roma, che nel tempo del sesto re
in Roma abitavano ottantamila uomini da portar armi. E che questo
modo tenuto per ampliare a fare imperio fosse necessario e buono, lo
dimostra l'esempio di Sparta e d'Atene, le quali essendo due
repubbliche armatissime, e ordinate di ottime leggi, nondimeno non si
condussero alla grandezza dell'imperio Romano, e, Roma pareva più
tumultuaria e non tanto bene ordinata quanto quelle. Di che non se ne
può addurre altra cagione che la preallegata, perché Roma per aver
ingrossato per quelle due vie il corpo della sua città, potette di
già mettere in armi dugento ottantamila uomini, e Sparta ed Atene,
non passarono mai ventimila per ciascuna (7)».
Laonde
la guerra antica, la guerra con la spoliazione, e col trasferimento
dei vinti, ecco il modello che il figlio primogenito del Risorgimento
osa di proporre all'Europa cristiana! (8)
Dopo
la violenza, la fraude. Il secondo mezzo d'ingrandimento proposto da
Machiavelli è appunto la frode. Anche qui, com'è ben naturale,
s'appoggia sull'esempio dei Romani. Li loda d'aver ingannato i popoli
del Lazio, cui fece servi sotto colore d'averli ad alleati: loda Ciro
d'aver ingannato suo zio Ciassare, re dei Medi, e mantiene che chi
non sa ingannare non giungerà mai a grande potenza. «E non
conchiude (Senofonte nella Ciropedia) altro per tale azione, se non
che ad un principe che voglia fare gran cose, è necessario imparare
ad ingannare .... La fraude è meno vituperevole quanto è più
coperta come fu questa dei Romani (9)».
Non
è questo Cesarismo? e Cesarismo ributtante? Per vero, e noi non
l'ignoriamo, prima di Machiavelli, l'Europa cristiana aveva veduto
atti di machiavellismo. Ma porre la menzogna per principio, ridurre
la fraude a dottrina, presentarla come un elemento
indispensabile di buon riuscimento che si può impiegare senza
scrupolo e senza aver neppure da arrossirne, se l'ipocrisia giunge a
tanto da saper tenerla coperta, era riservato al Risorgimento il dare
al mondo cristiano un simile scandalo.
Anche
oggidì vi ha uomini che chiamano il Risorgimento un bello e
magnifico movimento: lo scatto delle forze latenti che da mille
anni reagivano contro la barbarie! Oh! perché mai l'Europa non è
rimasta nella sua barbarie di mille anni, coi dotti suoi barbari i
Tomasi, i Bernardi, i Rugeri Bacone: coi suoi architetti barbari, che
la coprirono di monumenti colossali, e principalmente coi suoi
monarchi barbari la cui massima era che se la buona fede fosse
bandita dal resto della terra, si dovrebbe trovarla nel cuore dei re!
Il
saper poi se l'immorale dottrina di Machiavelli è caduta da sé
stessa davanti all'indignazione dei governi, ovvero se dopo quattro
secoli ha ancora qualche parte nella politica dell'Europa, è una
questione il cui scioglimento non si può trovare che svolgendo gli
annali della diplomazia.
_____________
CAPITOLO
XII.
DOTTRINE
DI MACCHIAVELLI (Continuazione).
Nuovi
mezzi di tranquillità e d'ingrandimento: l'uccisione del re,
l'assassinio delle nazioni, la schiavitù della potestà spirituale.
- Machiavelli applica all'Italia i principii generali della sua
politica cesariana. - Apre la via ai protestanti ed ai rivoluzionari.
- Fa il programma di Lutero, di Mazzini e di Carlo Alberto. - Tutti i
sogni attuali dei demagoghi italiani sono suoi.
***
In
aspettazione della risposta della storia, continuiamo ad udire
l'illustre discepolo del Risorgimento, l'appensato ammiratore
dell'antichità. L'educazione, dell'Europa non è perfezionata: essa
è, ben lontana dal conoscere tutti i segreti dell'ammirabile
politica dei Greci e dei Romani.
Alla
violenza ed alla fraude Machiavelli aggiunge un terzo mezzo di
tranquillità e d'ingrandimento. Cotal mezzo, tanto conosciuto nella
classica antichità è l'assassinio dei re ed anche delle nazioni.
Ecco il titolo del capitolo in cui il precettore dell’Europa tratta
cotal suggetto: «Come egli è necessario a voler mantenere una
libertà acquistata di nuovo, ammazzare i figliuoli di Bruto (10)».
Dopo un magnifico elogio di Bruto il quale per punire i propri figli
d'aver cospirato contro la libertà, non solamente li condanna a
morte, ma vuole anche assistere al loro supplizio, aggiunge: «E
sempre si conoscerà questo per coloro che le cose antiche
leggeranno, come dopo una mutazione di Stato o da repubblica in
tirannide, o da tirannide in repubblica, è necessario una esecuzione
memorabile contro ai nemici delle condizioni presenti. E chi piglia
una tirannide e non ammazza Bruto, e chi fa uno Stato libero e non
ammazza i figlioli di Bruto, si mantiene poco tempo (11)».
Né
gli basta: nel capitolo seguente insegna che il principe che ha
recato a sé il supremo potere, debba esterminare l'intera razza
di colui che ha spodestato, sotto pena di non vivere mai
tranquillo, dicendo: «Si può avvertire ogni principe che non viva
mai sicuro del suo principato, finché vivono coloro che ne sono
stati spogliati (12)».
Finalmente
nel Principe, completando la propria dottrina, indica il modo
con cui si debbono commettere cotali atrocità perché riescano
profittevoli.
«Potrebbe
alcuno dubitare donde nascesse che Agatocle ed alcuno simile, dopo
infiniti tradimenti e crudeltà, potette vivere lungamente sicuro
nella sua patria, e difendersi dagli inimici esterni, e da' suoi
cittadini non gli fu mai cospirato contro .... Credo che questo
avvenga dalle crudeltà male o bene usate. Bene usate si possono
chiamare quelle, se del male è lecito dir bene, che si fanno ad un
tratto per necessità di assicurarsi e di poi non vi s'insiste
dentro, ma si convertiscono in più utilità de' sudditi che si può
(13)».
Nei
primi tempi delle monarchie dell'Europa, allorché il cristianesimo
non era ancor giunto a soggiogare l'elemento pagano, veggonsi, è
vero, assassinii di re; ma la teorica dell'assassinio, la politica
dell'assassinio dove trovasi mai? Oggidì codesta teorica esiste; non
manca né di seguaci né di ammiratori.
Quind'innanzi,
quando la posterità spaventata chiederà dove gli assassini dei
figli d'Edoardo, dove i carnefici di Luigi XVI e della sua famiglia
avevano attinto le loro ispirazioni, niuno sarà imbarazzato a
rispondere. Mostrerà Machiavelli; e dietro Machiavelli Bruto e i
Romani, la cui educazione fece per Machiavelli i modelli perfetti
della politica. Dall'assassinio dei re, Machiavelli passa
all'assassinio delle nazioni. Questo nuovo misfatto non solo gli
sembra lecito, ma anche obbligatorio, dappoichè è giovevole.
«Sonoci, per esempio, gli Spartani ed i Romani. Gli Spartani tennero
Atene e Tebe creandovi dentro uno Stato di pochi: nientedimeno le
riperderono. I Romani per tenere Capua, Cartagine e Numanzia, le
disfecero e non le perderono. Vollero tenere la Grecia, quasi come la
tennero gli Spartani, facendola libera e lasciandole le sue leggi, e
non successe loro. In modo che furono, costretti disfare molte città
di quella provincia per tenerla, perché in verità non ci è modo
sicuro a possederle, altro che la rovina. E chi diviene padrone d'una
città consueta a vivere libera, e non la disfaccia, aspetti di
essere disfatto da quella, parchè sempre ha per rifugio nella
ribellione il nome della libertà e gli ordini antichi suoi, i quali
né per lunghezza di tempo, né per benefici si dimenticano; e per
cosa che si faccia o si provegga, se non si disuniscono o dissipano
gli abitatori, non sdimenticano né quel nome né quelli ordini, ma
subito in ogni accidente vi ricorrono (14)».
Questa
classica teorica dello sterminio, della dispersione, del
trapiantamento dei vinti, formulata da Machiavelli, magnificata da
Saint-Just, non è forse stata praticata, per quanto fu possibile,
dalla rivoluzione? Non ha essa restituito alla guerra l'antico suo
carattere, e rimesso in onore la feroce massima dei Greci e dei
Romani: Vae victis!».
Machiavelli
indica un nuovo mezzo di rassodare il potere e di mantenere la
tranquillità nello Stato: ciò è la religione. In questo la
politica di Machiavelli è l'assoluto contrapposto della politica
cristiana. Il Cristianesimo diceva: La religione è lo scopo supremo
degl'Imperi; il principe è lo stromento di Dio pel bene dei popoli,
è il loro fine; il loro fine è il possedimento del Sommo bene. Per
Machiavelli, la religione è uno stromento di regno, è un mezzo
nelle mani del principe per mantenere i popoli nel dovere, per
proteggere i confini dei campi, e per assicurare ai re il tranquillo
possedimento del potere. Ecco le sue parole: il Cesarismo antico non
si espresse mai in modo sì riciso.
«Ogni
religione ha il fondamento della vita sua in su qualche principale
ordine suo. La vita della religione gentile era fondata sopra i
responsi degli oracoli e sopra la setta degli arioli e degli
aruspici: tutte le altre loro cerimonie, sacrifici, riti dipendevano
da questi. Perché loro facilmente credevano che quello Dio che ti
poteva predire il tuo futuro bene, o il tuo futuro male, te lo
potesse ancora concedere ... l'oracolo di Delo, il tempio di Giove
Ammone ed altri celebri oracoli tenevano il mondo in ammirazione e
devoto ... Debbono dunque i principi d'una repubblica o d’un regno,
i fondamenti della religione che loro tengono, mantenerli; e fatto
questo, sarà loro facile cosa a mantenere la loro repubblica
religiosa, e per conseguente buona ed unita. E debbono tutte le
cose che nascono in favore di quella, come le giudicassero false,
favorirle ed accrescerle; e tanto più lo debbono fare, quanto
più prudenti sono; e quanto più conoscitori delle cose naturali. E
perché questo modo è stato osservato dagli uomini savi, ne è nata
l'opinione dei miracoli che si celebrarono nelle religioni eziandio,
false; perché i prudenti gli augumentano, da qualunque principio
essi nascono; e l'autorità loro dà poi a quelli fede appresso a
qualunque» (15).
«Non
solamente gli auguri ... erano il fondamento in buona parte
dell'antica religione dei Gentili, ma ancora erano quelli che erano
cagione del bene essere della repubblica Romana ... Nondimeno quando
la ragione mostrava loro una cosa doversi fare, non ostante gli
auspicii fossero avversi, la facevano in ogni modo; ma rivoltavanla
con termini e modi tanto altamente, che non paresse che la facessero
con dispregio della religione (16)».
Tal
è il sistema di sacrilega giunteria che Machiavelli osa proporre
all'imitazione dei principi cristiani! Ridotto poi alla sua più
semplice espressione, il linguaggio già bastantemente chiaro del
Segretario fiorentino, significa: Invece di essere la spada della
Chiesa ed i difensori della religione, come diceva, la barbarie del
medio evo, i re debbono dominare la religione e la Chiesa. La
religione è nelle loro mani uno strumento di regno, un Giano a
doppia faccia, buono per affascinare gli uni e per ispaventare gli
altri: ma, un Giano che Cesare fa girare a sua voglia: idolo vano che
non ha importanza se non in quanto favoreggia gl'interessi di Cesare.
Machiavelli
ha forse predicato nel deserto? Nessun re dell'Europa, da quattro
secoli, non si è fatto suo uditore e suo discepolo? Santa Chiesa di
Dio, madre dei popoli e regina dei re, se oggidì non siete più
nulla nei consigli dei Cesari, se più non avete dove posare il
vostro capo, se i figli che avete nutrito ed allevato vi perseguitano
con odii e con oltraggi, sappiamo almeno a quale scuola si sono
pervertiti! Al Risorgimento, a Machiavelli suo figlio primogenito, ed
ai Romani è dovuta la teorica degli oltraggi di cui vi abbeverano e
dei castighi che si preparano.
All'esposizione
dei principii tiene dietro l'applicazione. Un solo ostacolo grave si
oppone in Europa al ristabilimento del Cesarismo; ed è la Chiesa
romana. Da una parte, la sua costituzione; dall'altra, il suo
possedimento del patrimonio di San Pietro, sono una protesta
permanente contro la monarchia universale ed il primato assoluto dei
principi. Con quell'istinto del male che mai non inganna. Machiavelli
comprende che ivi è realmente il nodo della difficoltà: ivi il
punto di mira contro cui si debbono dirigere tutti i colpi. Lo indica
ai suoi successori, ed egli stesso incomincia l'assalto. Ciascuno può
prevedere quello ch'ei dirà della Chiesa romana. Quello ché noi
possiamo affermare si è che quanto ne il stato detto, in quattro
secoli, dai protestanti, dai filosofi del secolo XVIII, dai demagoghi
del 1793, dagli empii e dai mazziniani del giorno d'oggi, non è, e
non sarà che una studiata versione delle parole di Machiavelli, vero
ristauratore della politica pagana. Per essere creduto, conviene
citare: Di quanta importanza, sia tenere conto della Religione, e
come la Italia per esserne mancata, mediante la Chiesa Romana, è
rovinata (17); tale è il titolo del capitolo che egli impiega
agl'interessi dell'Italia.
Venendo
alle particolarità: «Né si può fare altra maggiore coniettura
della declinazione di essa (religione) quanto è vedere come quelli
popoli che sono più propinqui alla Chiesa Romana, capo della
religione nostra, hanno meno religione. E chi considerasse i
fondamenti suoi, e vedesse l'uso presente quanto è diverso da
quelli, giudicherebbe esser propinquo senza dubbio o la rovina o il
flagello. E perché sono alcuni d'opinione che il bene essere delle
cose d'Italia dipende dalla Chiesa di Roma; voglio contro ad essa
discorrere quelle ragioni che mi occorrono e ne allegherò due
potentissime, le quali, secondo me, non hanno repugnanza.
«La
prima è, che per gli esempi rei di quella corte, questa provincia ha
perduto ogni divozione ed ogni religione; il che si tira dietro
infiniti disordini... Abbiamo dunque con la Chiesa e coi preti noi
Italiani questo primo obbligo, d’essere diventati senza religione e
cattivi (18)».
Ecco
quello che si scriveva nel cuore stesso dell'Italia, prima
dell'apparizione del protestantesimo, da un cattolico, da un uomo
riputato come l'oracolo della sapienza! Allorché, alcuni anni dopo,
udiremo Lutero gridare dal fondo della Germania che la Chiesa romana
è la prostituta dell'Apocalisse; che le nazioni debbono fuggire
lungi da essa, se non vogliono essere involte nella punizione sì
giustamente dovuta ai suoi delitti, sarà egli qualche cosa di più
di traduttore di Machiavelli? Quando udiremo Ulrico di Hutten
ripetere nella sua Triade che Roma è la sentina de' vizii,
che non vi si adora che l'oro, la porpora e le baldracche, che è la
scaturigine del male; quando udiremo tutti gli altri riformatori dar
addosso alla corruzione della Chiesa Romana, imputandole il
corrompimento del Cristianesimo, il disprezzo in cui è caduto, e
giustificando in tal modo la loro separazione, sapremo che quelle
declamazioni non furono che le ripetizioni delle parole di
Machiavelli: sapremo che e per le calunnie contro la Chiesa, come per
tutto il resto, la riforma non è che alunna e figlia del
Risorgimento.
Passiamo
al secondo motivo per cui la Chiesa di Roma è il flagello
dell'Italia. Dopo aver fatto il programma di Lutero, Machiavelli farà
anche quello di Mazzini. Udiamo lui stesso:
«Dopo
di aver detto che noi italiani con la Chiesa e coi preti abbiamo
questo primo obbligo d'essere divenuti senza religione e cattivi,
prosegue così:
«Ma
ne abbiamo ancora un maggiore, il quale è la cagione della rovina
nostra. Questo è che la Chiesa ha tenuto o tiene questa nostra
provincia divisa.
«E
veramente alcuna provincia non fu néli unita e felice, se la non
viene tutta all'ubbidienza d'una repubblica o d'un principe, come è
avvenuto alla Francia e alla Spagna. E la cagione che la Italia non
sia in quel medesimo termine, né abbia anche ella o una repubblica o
un principe che la governi, è solamente la Chiesa; perché avendovi
abitato e tenuto imperio temporale, non è stata sì potente, né di
tal virtù che l'abbia potuto occupare il restante d'Italia e farsene
principe; e non è stata, dall'altra parte sì debole, che, per paura
di non perdere il dominio delle cose temporali, la non abbia potuto
convocare un potente che la difenda contro a quello che in Italia
fosse diventato troppo potente (19)...
«Non
essendo dunque stata la Chiesa potente da potere occupare l'Italia,
né avendo permesso che un altro la occupi, è stata cagione che
la non è potuto unire sotto un capo, ma è stata sotto più
principi e signori, dai quali e nata tanta disunione e tanta
debolezza che la si è condotta ad essere stata preda, non solamente
dei barbari potenti, ma di qualunque l'assalta.
Di
che noi italiani abbiamo obbligo con la Chiesa e non con altri (20)».
Questo
che abbiamo letto non è forse un manifesto di Mazzini, un manifesto
scritto da Londra, or ha qualche mese, ed affisso ieri a Roma o a
Torino? oppure è una lezione di politica data a Firenze, or ha
quattro secoli da Machiavelli, il primo alunno in politica del
Risorgimento; una profezia del futuro, una regola da seguirsi per la
liberazione della penisola? È lecito il dubitarne.
Quello
che è certo si è che neppur uno dei sogni ardenti, neppur una delle
utopie sovvertitrici che tengono oggidì l'Italia sopra un vulcano,
neppur una delle diatribe che della Chiesa Romana e del suo temporale
dominio formano il bersaglio di tutti i demagoghi attuali, che non si
trovi, a parola per parola, e coi suoi motivi, in Machiavelli. E
così, da un miracolo in fuori, doveva essere.
Dopo
avere ammirato, fino dalla infanzia o la grandezza degli antichi
Romani, l’unità aristocratica dell'antica Italia, come mai si può
essere Italiano, nutrito alla scuola dell'antichità, e non
vagheggiare il ritorno di quell'ordine di cose? Come non cercare
tutti i mezzi di mandarle ad effetto? l'Europa e Pio IX in
particolar modo sanno bene ora donde viene il male.
Machiavelli
non istà contento a semplici teoriche, ma aspira alla pratica. Dopo
aver fatto il programma di Lutero e di Mazzini, detta anche quello di
Carlo Alberto. «Italiani, volete l'unità italiana, sotto un
principe italiano? Volete il risorgimento dei vostri tempi di
potenza, di gloria e di felicità di cui fruirono gli avi vostri
sotto, la grande unità romana? Non appagatevi di sterili voti: mano
all'opera, La prima cosa che è da farsi è di cacciare i barbari
dall'Italia». Questo è il senso letterale dell'ultimo capitolo del
Principe, intitolato: Esortazione a liberare la Italia dai
barbari (21).
«Considerato
adunque, dice Machiavelli, tutte le cose di sopra discorse, e
pensando meco medesimo se al presente in Italia correvano tempi da
onorare un principe nuovo, e se ci era materia che desse occasione a
uno prudente e virtuoso di introdurvi nuova forma che facesse
onore a lui e bene alla università degli uomini di quella, mi pare
concorrano tante cose in beneficio di un principe nuovo, che io non
so qual mai tempo fosse più atto a questo (22) ...
«E
se era necessario ... ad illustrare l'eccellenza di Teseo, che gli
Ateniesi fossero dispersi; così al presente, volendo conoscere la
virtù d'uno spirito italiano, era necessario che l'Italia si
riducesse nel termine ch'ella è di presente, e che la fosse più
schiava degli Ebrei, più serva che i Persi, più dispersa che gli
Ateniesi, senza capo, senz'ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa,
ed avesse sopportata di ogni sorta di rovine... Si è visto che ...
rimasa senza vita, aspetta qual possa esser quello che sani le sue
ferite e ponga fine alle direpzioni e ai sacchi di Lombardia, alle
espilazioni e taglie del Reame e di Toscana, e la guarisca di
quelle sue piaghe già per lungo tempo infistolite. Vedesi come la
prega Dio che le mandi qualcuno che la redima da queste crudeltà ed
insolenze barbare. Vedesi ancora tutta pronta e disposta a
seguire una bandiera, purché ci sia uno che la pigli ... Qui è
giustizia grande, perché quella guerra è sempre giusta che l'è
necessaria, e quelle armi sono pietose, dove non si spera in altro
che in elle ... Qui è virtù grande nelle membra, quando la non
mancasse di capi... È necessario innanzi a tutte le altre cose, come
vero fondamento di ogni impresa, provvedersi d'armi proprie (23),
perché non si può avere né più fidi, né più veri, né migliori
soldati...
«Non
si deve dunque lasciar passare questa occasione, acciocché l'Italia
vegga dopo tanto tempo apparire un suo redentore. Né posso esprimere
con quale amore ei fosse ricevuto in tutte quelle province, che hanno
patito per queste illusioni esterne, con qual sete di vendetta, con
che ostinata fede, con che pietà, con che lacrime! Quali porte se
gli serrerebbero? quali popoli gli negherebbero l'ubbidienza? Quale
invidia se gli opporrebbe? Quale italiano gli negherebbe l'ossequio?
Ad ognuno puzza questo barbaro dominio. Pigli adunque la illustre
casa vostra questo assunto con quell'animo e con quella speranza che
si pigliano le imprese giuste ....»
Ogni
chiosa è qui inutile. Non vorremmo scommettere che il giorno innanzi
in cui nel 1849 l'eroe di Novara innalzò il vessillo della libertà
italiana, non si fosse addormentato su questa esortazione di
Machiavelli, o piuttosto su questa concione di Tito Livio.
___________________
CAPITOLO
XIII.
DOTTRINE
DI MACCHIAVELLI (Continuazione e fine).
Il
libro del Principe.- Machiavelli insegna ai re a praticare la sua
politica.- Il primo mezzo che consiglia è di togliere a modelli
alcuni eroi dell'antichità e principalmente i Romani. - Detto di
Federico. - Ritratto morale dei Romani, carattere della loro
politica. - Crudeltà e fraude. - Il secondo mezzo è di essere lione
e volpe - Il dispotismo è lo scopo da raggiungere. - Conclusione. -
La politica di Machiavelli e il Cesarismo antico.
***
Per
comprendere in tutta la sua interezza il pensiero di Machiavelli,
cioè per conoscere il Cesarismo quale esso lo insegna, vuolsi
aggiungere allo studio dei suoi Discorsi su Tito Livio la
lettura del suo libro del Principe. Nei suoi Discorsi
Machiavelli istruisce l'Europa in generale e forma l'opinione
pubblica; nel Principe, la più celebre delle sue opere,
istruisce particolarmente i re nell'arte di governare secondo i
principi della sua politica. Egli si rivolge a tutti i sovrani:
«Imperocchè
chi stampa un libro, dice Federico di Prussia, parlando di questo,
parla a tutto l'universo (24)».
Movendo
sempre dall'idea fondamentale del Risorgimento che il solo paganesimo
presenta perfetti modelli in ogni cosa, ei dice:
«Quanto
all'esercizio della mente, debbe il principe leggere le istorie, ed
in quelle considerare le azioni degli uomini eccellenti, vedere come
si sono governati nelle guerre, esaminare le cagioni delle vittorie e
perdite loro per potere queste fuggire e quelle imitare, e sopra
tutto fare, come ha fatto per l'addietro qualche uomo eccellente che
ha preso ad imitare, se alcuno è stato innanzi a lui lodato e
gloriato, e di quello ha tenuto sempre i gesti ed azioni appresso di
sé, come si dice che Alessandro Magno imitava Achille, Cesare,
Alessandro, Scipione e Ciro (25)».
L'avete
udito: San Luigi di Francia, Sant'Enrico d'Alemagna, San Ferdinando
d'Aragona, Santo Stefano d'Ungheria, Carlomagno, Teodosio, niuno dei
grandi principi formati alla scuola del cristianesimo, e che
regnarono per la prosperità della loro nazioni e per la gloria
dell'umanità, non si conta per nulla.
Il
nuovo precettore dei re vuole restituire all'Europa gli Achilli, i
Cesari, gli Alessandri, i re pagani, pei quali l'umanità non era che
un piedistallo; i giuramenti, tele di ragno; le leggi della giustizia
ed i più sacri doveri, trastulli che sapevano spezzare senza
scrupolo e senza vergogna per giungere ai loro fini...
Cosa
vergognosa! conformemente ai precetti di Machiavelli ed al fanatismo
inspirato dal Risorgimento, vediamo nel sestodecimo e diciassettesimo
secolo un gran numero di risorgenti laici ed ecclesiastici
volgarizzare, postillare, chiosare gli uomini illustri di Plutarco,
per farne il libro classico dei re e delle regine (26).
La
mania di Machiavelli e di tutti i risorgenti di ricorrere
continuamente all'antichità, di non giurare che per essa, di
invocarla ad ogni proposito, e specialmente i Romani, detta a
Federico questa riflessione:
«L'autore,
dice egli, puntella le sue dottrine sopra la pratica dei Romani ...
ma i Romani, nei beati tempi della repubblica, erano i più saggi
briganti che abbiano mai devastato la terra. Conservavano con
prudenza quello che acquistavano con ingiustizia; ma finalmente
accadde a quel popolo quello che accade ad ogni usurpatore: fu
oppresso la volta sua (27)».
Stantechè
è provato che tutte le teoriche politiche di Machiavelli esposte nei
Discorsi e nel Principe son tolte ai Romani; che il
popolo-re è il gran modello proposto dal ristauratore del Cesarismo:
in una parola che Tito Livio più che Machiavelli è quegli che
istruisce, completiamo il pensiero di Federico, ponendo qui il
ritratto morale dei Romani ed il carattere della loro politica.
Questo quadro ci sarà fornito da un ammiratore dell'antichità, da
un traduttore di Tacito.
«Settecento
anni di guerra continua, dice Dureau della Malle, interrotti appena
da due o tre intervalli di pace brevissimi, rendendo i Romani il
popolo più intrepido della terra, ne avevano fatto un popolo
crudele. Il loro diritto delle genti era orribile: la
schiavitù domestica, l'atroce potestà che la legge conferiva ai
padri ed ai mariti sulle mogli e sui figli, in particolar modo quei
combattimenti di gladiatori tanto frequenti nella metropoli e nelle
province e perpetui nei campi, tutto contribuiva a renderli duri e
feroci.
«E
poiché ricevevano la morte senza pena, la davano senza rimorso:
versavano il sangue come acqua. La loro, religione aveva
tracce di barbarie: più d'una volta non dubitarono di immolare
vittime umane. Cotali orribili sacrifici veggonsi nella seconda
guerra punica e prima; riappariscono ancora sotto Mario e sotto
Giulio Cesare; e se ne veggono anche sotto gli ultimi imperatori.
«Qual
popolo è mai quello presso cui non ostante l'infamia annessa al vile
mestiere di gladiatore, cavalieri, senatori, donne ed anche
imperatori si fanno solleciti di discendere nell'arena! Come se quel
popolo feroce trovato avesse nelle uccisioni, nello spettacolo della
morte, nella vista del sangue e delle ferite, non so quale ineffabile
raffinatezza di voluttà, che non dubitarono di procacciarsi anche a
prezzo del disonore! ...
«Veggonsi
avanzi della ferocia nazionale nei più grandi uomini, in quegli
stessi la cui dolcezza e clemenza ha la storia maggiormente vantato.
Giulio Cesare fa uccidere a sangue freddo, dopo la vittoria, L.
Ligario, L. Cesare, Afranio, Fausto Silla, Bruto, impacciato d'un
drappello di prigionieri che rallentava la sua marcia, li fa
trucidare. Germanico grida ai suoi soldati, vincitori dei Cheruschi:
Sterminate, sterminate, non avrete pace che mediante l'intero
sperperamento della nazione.
«Questo
carattere di crudeltà traluce nei più saggi e più virtuosi
scrittori. Tacito nei suoi Costumi dei Germani, parla di
sessantamila Bruttéri che vennero a trucidarsi alla vista del campo
romano; e l'idea dello spettacolo di quella carneficina di cui
gioiscono i soldati del suo paese, strappa a Tacito stesso un grido
di gioia propria d'un cannibale.
«Non
avete a far altro che aprire il dizionario di quel popolo; osservate
quanto è ricca la loro lingua per esprimere tutte le idee di
distruzione. Hanno tre parole per significare il sangue: cruor,
sanguis, tabum. Hanno una parola per esprimere la morte naturale,
mors, ed un'altra per esprimere la morte violenta, nex
, e quante voci per dire uccidere! occidere, interficere,
interimere, perimere, necare, mactare, trucidare, obtruncare!
ecc. ecc.
«Non
avete che a leggere i loro poeti e vedrete come ei si piacciano in
descrivere assai lungamente battaglie le più micidiali; non omettono
pur una ferita; ne dipingono le circostanze più orribili. Leggendo
in Virgilio le atrocità che disonorano il suo Enea, ho detto meco
medesimo in sulle prime: Conviene dire che ben sia servite lo spirito
d'imitazione per aver fatto traviare a tal punto questo gran poeta,
per avergli persuaso di copiare un difetto che, in tanti luoghi,
guasta l'Iliade d'Omero. Ma poi, meglio istruito, ho
riconosciuto che il poeta romano non aveva in ciò cercato d'imitare
il poeta greco: non aveva fatto, come lui, che copiare i costumi e
piaggiare il gusto del suo popolo (28)».
In
fatto di crudeltà dunque i Greci non erano soverchiati dai Romani: e
questi due popoli si pareggiavano anche in fraude. Per inschiavirlo,
i politici romani ingannavano il popolo, favoreggiando, accreditando
la menzogna e la superstizione. Stiracchiando le parole urbs e
civitas trovarono modo di fare smantellare Cartagine, anche in
virtù del trattato che, guarentiva la conservazione di quella città.
La mala fede dei Greci era proverbiale: e dimostreremo in appresso
che il proverbio era ben fondato. Eppure, ecco i due popoli
costantemente proposti dopo il Risorgimento, come modelli delle
nazioni cristiane! E forse a meravigliare adunque se la politica
moderna, la politica rivoluzionaria, tiene più o meno del Greco e
del Romano?
Se
non ne tiene di più, non è colpa di Machiavelli. Delineando a norma
dei modelli classici il ritratto d'un principe veramente politico,
veramente capace di governare e di mantenersi al potere, Machiavelli
non teme di dire che l'indole di lui debba partecipare del lione e
della volpe. Questo tipo è obbligatorio, poiché gli antichi
riferiscono che molti eroi furono affidati al centauro Chirone,
affinché li nutrisse e gli educasse. «Il che non vuol dire altro
l'avere per precettore un mezzo bestia e mezzo uomo, se non che
bisogna ad un principe saper usare l'una e l'altra natura, e l'una
senza l'altra non è durabile. Essendo dunque un principe necessitato
sapere ben usare la bestia, debbe di quella pigliare la volpe ed il
lione ..... bisogna dunque essere volpe a conoscere i lacci, e lione
a sbigottire i lupi» (29).
Ma
il principe non debba essere volpe soltanto per conoscere i lacci, ma
in più particolar modo per tenderne; o se vuole diventar maestro in
quest'arte esosa, ascolti Machiavelli. «Non può pertanto un signore
prudente né debbe osservare la fede, quando tale osservanza gli
torni contro, e che sono spente le cagioni che la fecero
promettere. E se gli uomini fossero tutti buoni, questo precetto non
sarebbe buono; ma perché, sono tristi, e non l'osserverebbero a te,
tu ancora non l'hai da osservare a loro. Né mai ad un principe
mancheranno cagioni legittime di colorare la inosservanzia .... e
quello che ha saputo meglio usare la volpe, è meglio capitato .. Ma
è necessario questa natura: saperla bene colorire, ed essere gran
simulatore e dissimulatore....
«Ad
un principe .... è necessario ... parere pietoso, fedele, umano,
religioso, intiero, ed essere; ma stare in modo edificato con l’animo
che bisognando non essere, tu sappia e possa nutrire il contrario.
«Ed
hassi ad intendere questo che un principe, e massime un principe
nuovo, non può osservare tutte quelle cose, per le quali gli uomini
sono tenuti buoni, essendo spesso necessitato, per mantenere lo
Stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla
umanità, contro alla religione. E però bisogna che egli abbia un
animo disposto a volgersi secondo che i venti e le variazioni della
fortuna gli comandano; e, come disopra dissi, non partirsi dal bene,
potendo, ma sapere entrare nel male necessitato .... Nelle azioni di
tutti gli uomini, e massime dei principi, dove non è giudizio a chi
reclamare, si guarda al fine. Faccia adunque un principe conto di
vivere e mantenere lo Stato, i mezzi saranno sempre giudicati
onorevoli, e da ciascuno lodati (30)».
Ove
i sovrani moderni prendono per regola la dottrina di Machiavelli,
l’Europa va dirittamente al secolo di Tiberio e di Nerone: siamo
nel seno di quella bella antichità; in cui il politico ateismo
regnava da padrone sotto il nome del diritto del più astuto o del
più forte; in cui i principi erano veramente lione e volpe ed i
popoli pulcini o pecore: dove essendo il fine santificato dai mezzi,
il riuscimento teneva vece di morale, giustificava tutti i delitti e
conduceva all'apoteosi. Ad ogni modo, se alcune di queste massime
classiche hanno prevalso in Europa da quattro secoli, è bene
importante lo stabilire che non al protestantesimo ma al
risorgimento, ed al solo risorgimento si debbono attribuire: cuique
suum.
Machiavelli
indica ai principi suoi alunni i casi diversi in cui debbono
praticare i suoi principii. A proposito delle soldatesche ausiliari,
di cui non consiglia di far uso o ben parcamente, insinua la morale
del lupo, cui Federico di Prussia flagella con quest'esse parole:
«I
cattivi esempi che Machiavelli propone ai principi sono tali
malvagità che non gli vanno perdonate. Allega Jerome di Siracusa, il
quale considerando che le sue armi ausiliari erano egualmente
pericolose sì a conservarle come a congedarle, le fece tutte
tagliare a pezzi (31). Cotali fatti riempiono l'animo di orrore,
allorché si leggono nelle storie: ma lo sdegno giunge al colmo
allorché veggonsi riferiti in un libro composto per l’istruzione
dei principi (32)».
Con
tale abominevole dottrina, a che vuol riuscire Machiavelli? A
ristabilire in tutto il suo splendore il Cesarismo antico. Ora, il
Cesarismo antico è l'apoteosi dell'uomo; e l'apoteosi dell'uomo è
il dispotismo ed il concentramento che ne è la necessaria
conseguenza. Nella guisa stessa che la filosofia, la pittura, la
scultura, la letteratura inaugurate dagli artisti e dai letterati del
Risorgimento, sono la filosofia, la pittura, la scultura, la
letteratura antiche; così la politica inaugurata da Machiavelli,
figlio primogenito del Risorgimento; è il cesarismo antico in
tutta la sua interezza. Diverse sono le manifestazioni, ma il
principio è il medesimo. Resta dunque stabilito che invece di
essere, nel suo insieme un bello e magnifico movimento, il
Risorgimento non è stato nel suo insieme che un'invasione generale
del paganesimo nel seno dell'Europa cristiana, e la più tremenda
prova per la Chiesa dopo il nascer suo.
_____________________
CAPITOLO
XIV.
BUCANANO.
La
politica di Machiavelli si propaga in Europa. - Bucanano. - Sua
biografia. - Sua opera De jure regni. - Sue idee interamente
classiche sull'origine delle società. - Stato di natura. - Contratto
sociale.- Scopo materialista della società. - La religione stromento
di regno. - Il popolo giudice dei casi di coscienza sociali.
–Dottrine del regicidio. - Conseguenza necessaria della politica
pagana fedelmente conservata. - Insegnata dai Mazziniani.
***
La
politica di Machiavelli rapidamente si sparse in Europa come il fuoco
s'apprende ad una striscia di polvere (33). In tutti i paesi si
avviene in letterati che la professano e re che l'accolgono, con
aggiunte, con modificazioni, con applicazioni più o meno importanti.
Bucanano la spiega alla Scozia; Bodino alla Francia; Hobbes
all'Inghilterra; Volfio, Puffendorf, Grozio, Febronio ed altri ancora
la spandono in Germania; Gravina in Italia; finché Rousseau,
traducendola in francese, l'insegna all'Europa intera. Alla coda di
questi maestri traggono dappertutto legioni di giuristi, di
professori di diritto, d'avvocati, di parlamentari, tutti qual più
qual meno cortigiani, i quali incoraggiano i re nella via del
dispotismo cesariano e preparano in tutta Europa le terribili
reazioni, di cui, da gran tempo; siamo e testimoni e vittime.
Bucanano,
che abbiamo nominato pel primo, nacque in Iscozia nel 1506.
Giovanissimo ancora venne a Parigi a studiarvi belle lettere. Con
questo allora s'intendeva la storia, l'eloquenza, la poesia dei Greci
e dei Romani. Le cattedre, delle università non d'altro risuonavano,
ed in quei primi momenti del Risorgimento l'ammirazione per
l'antichità confinava col delirio. In mezzo a quell'atmosfera
pagana; il giovane Bucanano, è compreso ad un tempo d'un prepotente
amore per la poesia di Virgilio e d'Orazio, e d'un profondo disprezzo
pel Cristianesimo, per le sue glorie e per le sue più rispettabili
istituzioni. Preparato in tal modo al libero pensare, l'animo suo si
apre alle opinioni di Lutero, che facevano allora gran rumore
all'Università di Parigi. Tuttavia ei rimane ancora cattolico di
nome, e ritorna in patria, dove il re Giacomo gli affida l'educazione
del suo figlio naturale.
Ad
esempio di Erasmo, di Utteno, di Reuclino, e di molti altri
Risorgenti, Bucanano fa le sue prime armi nella repubblica delle
lettere, scoccando epigrammi contro i monaci ed i frati, componendo
tragedie all'antica, ed endecasillabi osceni. Il suo componimento
contro i Francescani, Fratres fraterrimi, lo fa passare dalla
corte in una prigione, dalla quale evade da una finestra.
Punito,
ma non corretto, viaggia in Inghilterra e in Francia; insegna a
Parigi ed a Bordeau, poscia si reca in Portogallo dove per la
protezione di Govea, ottiene una cattedra all'università di Coimbra.
Avendolo le sue dottrine messo in sospetto, viene imprigionato. La
sua prigionia dura un anno, ch'esso impiega a tradurre i salmi in
versi latini.
Promesso
avendo di emendarsi, gli viene restituita la libertà; ed egli ne
approfitta per ritornare a Parigi dove si acconcia col maresciallo di
Brissac in qualità di precettore di suo figlio.
Cinque
anni dopo ritorna nella Scozia: viene incaricato, dell'educazione di
Giacomo VI, e fa pubblica professione di protestantesimo.
Degno
figlio del Risorgimento, Bucanano vive e muore da libero pensatore.
Racconta un autore antico, che presentati essendosi i sacerdoti al
suo letto di morte per indurlo a raccomandarsi a Dio con qualche
preghiera, ei disse loro: «Non ho mai saputo altra preghiera che
questa:
Cynthia
prima suis miserum me, cepit ocellis,
Contractum
nullus, ante cupidinibus».
Ed
appena ebbe recitato dieci o dodici versi di questa licenziosa elegia
di Properzio, spirò (34). Aveva settantasei anni. Sì è vero il
proverbio: Quale è l'educazione, tale è la vita; e quale è la
vita, tale è la morte.
La
sua grand'opera politica è intitolata De jure regni apud Scotos;
pubblicata nel 1579 (35). L'opera, secondo il gusto antico, è in
forma di dialogo: sono interlocutori Bucanano e Metellano. I primi
capitoli, destinati alla esposizione dei principii, si riepilogano
così:
«Il
genere umano aver cominciato con lo stato di natura: gli uomini,
dispersi per le foreste, abitando in capanne, aver sentito il bisogno
di unirsi in società: essi aver eletto per comandarli il più
esperto: avere stretto un patto con essolui: la comunanza, rimasta
giudice dell'adempimento delle condizioni, conservare il diritto di
revocarlo, di mutarlo: il re non essere che un suo procuratore: non
aver egli il diritto di far leggi; ma aver l'obbligo di ricever
quelle che la comunanza giudica espediente d'imporgli: il re che
viola il patto essere un tiranno. «Tutto questo, dice Bucanano, ci è
insegnato dagli antichi autori, e specialmente da Omero» (36).
Qui
cade la quistione del tirannicidio. Instituendo un giudice supremo
dei conflitti fra i principi ed i popoli, la politica cristiana aveva
dato la sola soluzione degna di Dio e degna dell'uomo di questo
formidabile problema. Bucanano, come tutti i giuristi cesariani non
vuole né politica cristiana, né supremazia sociale del papato; e la
forza delle cose lo conduce direttamente alla dottrina del primato
del popolo, alla teorica della ribellione, alla teologia del pugnale.
Ei la professa con tale un'audacia che l'uguale non osò neppure lo
stesso Machiavelli. Inutile è il dire che egli si puntella sul
grandi esempi della classica antichità.
«Voglio,
dice egli, che la moltitudine sia l'interprete delle leggi od il
consiglio del principe. Infatti avvi più lume o sapienza nella
moltitudine che in un uomo solo, quand'anche egli non avesse chi lo
pareggiasse per ingegno e per prudenza. La moltitudine giudica meglio
di tutte le cose che ciascuno dei suoi membri in particolare. Ciascun
individuo possiede alcune particelle di virtù che, riunite insieme,
formano una virtù eminente (37)»
Proposizione
veramente singolare: ma non lo é meno ciò the segue: «La prova di
quello che dico, voi la trovate nel laboratorio dei farmacisti, e
specialmente nell'antidoto detto mitridatico. Per comporlo
s'impiegano molte sostanze nocive in sé stesse, ma che insieme
riunite formano un contravveleno di qualità eccellente. Lo stesso
dicasi degli uomini (38)».
La
moltitudine, od il popolo, è dunque investita del potere di
giudicare i re. Ma se il re ricusa di lasciarsi giudicare; se è
impossibile il costringervelo; se riguardando la sua condotta come
irreprensibile, vi persevera in onta del popolo che la crede
tirannica, chi porrà fine al conflitto? chi giudicherà la lite? Il
pugnale, risponde Bucanano.
«I
tiranni, dice egli servendosi delle parole di Cicerone (39),
appartengono assai più alla razza, dei lupi e delle bestie malefiche
che a quella degli uomini. Chi li uccide è un benefattore pubblico.
Se fossi legislatore, ordinerei che questa genia fosse imbarcata e
sommersa in alto mare, lungi dalla vista dalla terra, per tema che il
puzzo dei loro cadaveri non ammorbasse gli uomini: ordinerei che agli
uccisori fosse pagato un premio pecuniario, non solamente dalla
patria ma anche da ciascun privato, come si fa con gli uccisori di
lupi e con quelli che predano i lupatti (40)».
A
questa dottrina, Metellano fa un'obbiezione:
«Se
ci è permesso, dice egli, di avventarci addosso ai lupi, non ne
conseguita che possiamo uccidere i re, divenuti tiranni; poiché
siamo ad essi vincolati con un giuramento di fedeltà».
Bucanano
risponde che la società è stabilita sopra un controllo
sinallagmatico o bilaterale: che il re che lo viola, diventa tiranno,
e che per conseguenza è lecito ad ognuno di ucciderlo come un lupo
(41).
Né
si creda che Bucanano si faccia autore di questa politica da
antropofago; no: egli stesso ne dice dove l'ha appresa e che l'ha
attinta da quei grandi uomini cui ha ammirato fino dall'infanzia.
«Veggo,
dice egli, che quasi tutte le nazioni pressappoco partecipano in
questo sentimento. Perciò è passato in uso di lodar Tebea, che
uccise il proprio marito; Timoleone, che uccise il fratello: Cassio,
che uccise il figlio: Fulvio, che uccise il figlio recandosi presso a
Catilina: Bruto, che uccise i figli ed i congiunti che cospiravano in
favore dei Tarquinii. E vi aveva nei tirannicidi ricompense
pubbliche; ed in molte città della Grecia si rendevano loro onori
solenni, tanto si era persuaso che fra gli uomini ed i tiranni non vi
sia alcuna relazione d'umanità: e coloro stessi che in oggi alzano
la voce contro questa dottrina, non pensano in diverso modo. Tutto
questo prova che vituperando fatti che vedono effettuarsi sotto i
loro occhi, mentre ne approvano e ne lodano di più atroci nelle
storie, sono ben più affetti dai loro interessi personali che dal
bene o della calamità pubblica.
Ma
pure, soggiunge Metellano, il diritto che conferite ad ognuno di
uccidere i tiranni di sua autorità propria può dar luogo ad ogni
sorta di delitti».
Bucanano
risponde: «Io dico quello che si può, quello che si deve fare
legittimamente: non esorto però nessuno a farlo (42). La
dottrina è chiara: ma nell'attuarla ci vuole senno, prudenza, virtù
(43)».
Ma
quello che spaventa di più, e che stupisce di meno, leggendo codesta
mostruosa dottrina, si è la fedeltà con cui si è conservata dopo
il Risorgimento, l'audacia con cui è stata praticata, la
giustificazione che ne è stata fatta dagli assassini di Luigi XVI e
che se ne fa ancora in oggi dai loro successori. Alle parole dei
socialisti di Londra e di Nuova York, che abbiamo riferito nel primo
volume, aggiungiamo la recente professione di fede dei loro fratelli
d'Italia.
Nel
mese di giugno del 1856, la Gazzetta delle Alpi, rampognando
Manin per aver osato di vituperare la teorica del pugnale, discorre
così: «Il signor Manin ci risponderà forse che non ha accusato
tutti gl'Italiani, ma soltanto un piccolo numero ch'egli crede vili
settari del partito austro-clericale. No: non è così. Noi, per lo
contrario, gli diciamo che fra coloro che si sono serviti del
coltello in Italia, vi furono uomini sinceramente amanti della
libertà, di vita pura e di costumi illibati. Essi hanno
creduto che quando non si aveva un fucile o che non si poteva
insorgere e combattere col fucile, e che per ottenerlo dalle
sentinelle austriache, non bastava il chiederlo graziosamente e
galantemente come si chiede un fiore ad una persona amata: hanno
creduto che non fosse un assassinio il punir col pugnale delitti che
la forza strappava alla santa giustizia delle leggi: hanno pensato
che quando un uomo si è posto in istato di non poter essere punito
altrimenti che con un assassinio, il cittadino diviene esecutore
della giustizia pubblica, e che il delitto è un atto eroico.
«A
torto od a ragione, pensavano come Montesquieu; se si sono ingannati,
se sono stati trascinati da un falso amore di patria, che però è
anche quello di Bruto, di Cherea, d'Aristogitone e di Timoleone,
hanno creduto che ciò che veniva riputato come eroismo dai più
grandi popoli del mondo, non poteva essere un'infamia per noi».
Gli
altri giornali socialisti del Piemonte, fanno eco alla Gazzetta
delle Alpi. Ecco come parla il Vessillo di Vercelli:
«Allorché una nazione oppressa e compressa, sprovveduta di mezzi di
resistenza, abbandonata (o peggio ancora) dai potenti che hanno o che
pretendono di aver la missione di riscattarla con le armi, e che non
hanno la forza di riconoscere il diritto, distende per difendersi una
mano sterminatrice sopra i suoi oppressori, qualunque sia il nome che
portano, qualunque, sia il luogo in cui si trovano, e li raggiunge
sia col piombo, sia col pugnale, sia col fuoco, sia col
veleno, in difetto di altre armi, questa nazione non fa che impiegare
i suoi mezzi naturali di difesa. Aggiungiamo che, qualunque sia la
forma di questa difesa, sia che la nazione intera si sollevi in
massa, sia che gl'individui si facciano giustizia individualmente,
ciò niente muta alla ragion naturale, la quale inspira il dovere
innanzi tutto di distruggere chi a poco a poco ne distruggerebbe,
facendosi ludibrio dei nostri più sacri
diritti».
Lo
stesso linguaggio troviamo sulle labbra dei regicidi belgi: «Noi
tutti siamo solidari dell'umanità, gridano all'Europa. Perciò
ringraziamo cordialmente tutti gli animi generosi che si consacrano a
smascherare ed a COLPIRE i despoti ovunque essi appariscano: ivi è
il nemico comune che andiamo orgogliosi di combattere al loro fianco,
ben convinti che essi non deporranno le armi finché l'intero
mondo non sarà purgato della razza degli oppressori ..., ben felici
se una voce sola risponde a quest'invito che ad altri è concesso di
meglio provocare! (44)
Abbiamo
detto che questa dottrina del tirannicidio nulla ha che debba farci
stupire. Essa è derivata dalla pagana antichità, e noi ci ostiniamo
a coltivare l'antichità pagana. Per quanto facciamo, non impediremo
mai che la zizzania non produca la zizzania: l'antichità pagana
produce la politica pagana, conduce necessariamente al regicidio od
alle barricate. Come si può mai credere di buona fede che tutta la
gioventù d'Europa possa impiegare otto anni a studiare, ad ammirare
le Repubbliche antiche, a penetrarsi dei sentimenti, delle idee,
delle opinioni dei Greci e dei Romani, senza che non ve ne rimanga
nelle menti e nei cuori? Oggi non è più possibile.
La
storia ha parlato: essa continua a parlare tutti i giorni, sotto i
nostri occhi, in tutti i paesi. Rileggete il processo di Luigi XVI,
il fatto d'Olgiati, le confessioni di Ruffini, che abbiamo allegate
nei precedenti volumi; e se ciò non vi basta, ascoltate gli uomini
meno sospetti.
Nel
1836, nel momento in cui l'assassino Alibaud aveva aggredito il re
Luigi Filippo si suscitò un'assai viva discussione fra il signor
Bigot di Morogues ed il Giornale dei Dibattimenti.
Il
signor Bjgot di Morogues sosteneva, come facciamo noi, che gli studi
classici nel modo che vengono fatti, ispirassero ai giovani le più
detestabili idee politiche; ed il Giornale dei Dibattimenti
rispondeva essere per lo contrario la lettura degli scritti
rivoluzionari che traviava e corrompeva tanti intelletti.
Intervenne
in questa discussione Armando Carrel per dimostrare che le idee di
Saint-Just, di Marat, di Robespierre, che le tradizioni del 1793
procedevano dal secolo XVIII: che il secolo XVVIII procedeva dal
Risorgimento e che per conseguenza non vi aveva via di scampo: il
signor di Morogues aver ragione; e doversi risalire o sino alla
scaturigine delle idee rivoluzionarie moderne, anatematizzare il
glorioso Risorgimento, o cessar dal dire che le passioni delle
nostre età fossero necessariamente ed unicamente figlie delle
aberrazioni del 1793.
«Intanto
che a Parigi, aggiungeva Armando Carrel, ci si vuol sostenere che la
ristampa delle opere di Saint-Just e di Robespierre mette in pericolo
la vita del monarca, a Londra si vanno a cercare le apologie di Luigi
Alibaud in Plutarco, in Rollin, e nei racconti del giovane Anacarsi».
Se
ciò non vi basta ancora, ascoltate gli stessi regicidi, le cui
rivelazioni in oggi spaventano l'Europa. Gallenga, cagnotto di
Mazzini e membro del parlamento di Torino, racconta freddamente il
progetto ch'egli aveva fatto d'assassinare il re Carlo Alberto; il
suo colloquio con Mazzini, la sua dimora in Torino, i provvedimenti
fatti per avvicinarsi al tiranno; descrive il ricco pugnale che
armava il suo braccio, vanta il nobile sentimento che faceva
palpitare il suo cuore. Chi ha formato questo nuovo Ravaillac? Un
altro Mazziniano, Campanella, ne dice: «Gallenga era venuto di
Corsica, nato Bruto, cresciuto Bruto, fatto Bruto, Bruto determinato.
In luogo di dargli eccitamenti, Mazzini fece obbiezioni, discusse,
mise avanti tutto ciò che poteva stornamelo; ma Bruto stette fermo.
Più
chiaramente si spiega lo stesso Gallenga. In una lettera del 1°
novembre 1856, pubblicata da tutti i giornali, riconosce il delitto
che gli viene imputato, lo deplora: poscia, all’atto di lasciare la
scena politica, rivela la funesta cagione di questo trascorso
giovanile, e come il delinquente dall'alto del patibolo, getta
all'Europa, a guisa di commiato, queste ultime e solenni parole:
«Quanto sono grandi i vizi di un'educazione che contende ad
infiammarci il cuore alle virtù romane, e che poi pretende che gli
animi bollenti dei giovani possano discernere la differenza che corre
fra la teorica e la pratica! Prendano esempio i maestri che
istruiscono la gioventù e mutino linguaggio! (45)»
Non
è un parlare chiaro? (46)
Eppure
vi ha maestri che si ostinano a non mutare linguaggio! che con in
mano le Orazioni di Cicerone e Tacito, continueranno ancora ad
infiammare il cuore della gioventù alle virtù romane!
E
vi ha governi che si danno maggior pensiero delle fluttuazioni della
Borsa, che di questa inoculazione incessante di veleno a migliaia di
giovani!
E
vi ha uomini che maledicono, che oltraggiano coloro i quali invocano
la riforma di un simile sistema! Iddio li perdoni e li illumini!
Ma
per quanto si neghi fede alla storia, per quanto si neghi l'evidenza,
per quanto si chiudano le orecchie per non udire, gli occhi per non
vedere, gli uomini imparziali diranno con noi: Sentiamo, vediamo,
tocchiamo con mano il paganesimo regicida che si rivela da per tutto
a noi intorno: Sappiamo donde viene; e nonostante le tergiversazioni
della malafede, e la stupida ostinazione d'un partito preso a
priori, grideranno tutti come Galileo: «E pur si muove!»
_______________________
CAPITOLO
XV.
BODINO.
Duplice
carattere della politica dell'antichità: sovranità del popolo e
sovranità del principe, anarchia e dispotismo. - Gli stessi
caratteri e gli stessi risultamenti nella politica moderna. - Bodino.
- Sua storia.- Risorgente e libero pensatore. - Suoi scritti. -
Dialoghi sulla religione. Trattato della repubblica.
- Precursore dello Spirito delle leggi. - Bodino s'ispira
costantemente all'antichità.- Chiede pei coniugi il ristabilimento
del ripudio facoltativo.- Pei padri il diritto di vita e di morte sui
figli. - Influenza di Bodino. - Edizioni delle sue opere. - Altri
professori cesariani. Scuola dei naturalisti
***
Presso
gli antichi, la potestà sovrana risiede primamente nel popolo:
poscia, dal popolo passa ad individualità chiamate successivamente
Arconti, Efori, o Cesare. Così noi vediamo tutta la politica greca e
romana ondeggiare perpetuamente tra il dispotismo della moltitudine
ed il dispotismo di alcuni, per riuscir poi sia nell'uno come
nell'altro caso, all'apoteosi dell'uomo.
Movendo
dallo stesso punto i legisti del Risorgimento giungono al termine
medesimo. L'idea pagana, sotto la loro penna, prende due opposte
correnti.
Gli
uni favoreggiano il dispotismo della moltitudine, e sono
repubblicani: gli altri favoreggiano il dispotismo d'un solo, e sono
vili cortigiani. Di che viene questo fenomeno sconosciuto al medio
evo, che le nazioni moderne oscillano perpetuamente fra questi due
estremi. Se Machiavelli è cesariano, Bucammo è democratico: e
Bodino or è l'uno, or è l'altro.
Questo
nuovo organo della politica pagana nacque ad Angèrs nel 1530. Alla
scuola degli autori pagani, attinse, come i suoi giovani
contemporanei, una fanatica ammirazione per l’antichità, un eguale
disprezzo pel medioevo, e, il che nasce da questo duplice sentimento,
il libero pensare. Lo spirito di Bodino, come quello di Bucanano , si
rivolge verso la politica. Professore di diritto a Tolosa, scrisse il
famoso suo discorso: De instituenda in republica juventute.
Questo libro, accolto con plauso, è indirizzato al popolo ed al
senato di Tolosa, poi recitato pubblicamente dall'autore nelle scuole
di quella città. Vi si trova il germe delle idee che Bodino sviluppò
in appresso nel suo Trattato della Repubblica.
Venuto
a Parigi, entra, nel foro e si procaccia per qualche tempo il favore
del re Arrigo III. Deputato agli Stati di Blois, nel 1576, dal terzo
Stato di Vermandois, mostra pel protestantesimo un zelo ardente che
gli tira addosso molti nemici. Sebbene egli non l'abbia mai
abbracciato pubblicamente, ebbe sempre per questo figlio del
Risorgimento una secreta tendenza. Se ne ha la prova in una delle
sue lettere a Giovanni Bautran dei Matras. Ma, come abbiamo
avvertito, il libero pensare, che spingeva verso la riforma un sì
gran numero di risorgenti, che vi spingeva lui stesso, lo strascinò
verso la parte politica del paganesimo.
Avendo
perduto il favore del re, Bodino seguì il duca d'Alençon in
Inghilterra nel 1579. Insegnavasi allora pubblicamente
nell'università di Cambridge il suo Trattato della Repubblica,
messo da lui stesso in latino.
Ritornato
in Francia, Bodino si ritirò a Laon per darsi al comporre. Lo
vediamo nel 1589 scrivere agli abitanti di quella città per
persuaderli di dichiararsi in favore del duca di Maienna: E ciò era,
dice il suo biografo, una conseguenza del suo spirito repubblicano,
il quale lo sospingeva sempre a ciò che poteva contribuire
all'indebolimento della regia autorità (47)». Bodino morì della
pestilenza del 1596, a Laon, dove era stato nominato procuratore del
re. Innanzi di parlare del suo libro Della Repubblica, è
bene, per far conoscere Bodino, il dire qualche cosa dei suoi
Dialoghi intorno alla religione (48).
Quest'opera
è di tal natura che nel medio evo l'autore d'un simile libro sarebbe
stato arso vivo. Nel segnare il cammino che l'Europa letterata aveva
fatto da un secolo, l'opera di Bodino è una novella prova che il
libero pensare recato dal Risorgimento sospinse gli spiriti
cattolici ad errori mostruosi, cui gli eresiarchi del secolo XVI
si tennero estranei. Il Dialogo, composto otto anni prima
della morte di Bodino, riepiloga i veri sentimenti dell'autore.
Il
titolo di Heptaplomeron deriva da ciò che gl'interlocutori
del dialogo cono sette; e passano a rassegna tutte le religioni: gli
uni impugnano, gli altri difendono.
La
Chiesa cattolica è aggredita per la prima: viene poscia il
luteranesimo: il terzo urto è contro tutte le sette in generale: il
quarto contro i naturalisti; il quinto contro i calvinisti; il sesto
contro i giudei; e l'ultimo contro i maomettani. Con un artificio
comune ai liberi pensatori di quell'età, l'autore, secondo
l'avvertenza del. P. Mersenne, conduce l'assalto in maniera che i
cristiani sono sempre sconfitti. La vittoria rimane ai naturalisti ed
agli ebrei. E così doveva essere. Bodino era stato discepolo degli
autori pagani, veri naturalisti in punto di religione: di più, ei
viveva famigliarmente con alcuni ebrei che ne avevano scrollato la
fede (49).
L'opera
più conosciuta di Bodino è il suo Trattato della Repubblica. È
divisa in sei libri, e forma un volume in foglio. Per dare un'idea
generale delle materie che tratta, e dello spirito che la governa,
basta il dire che sembra aver questo libro dato origine allo Spirito
delle leggi. In ogni caso il Trattato di Bodino e l'opera
di Montesquieu sono due colonne miliarie che indicano il cammino del
paganesimo politico dopo il Risorgimento. Nell'una e nell'altra,
trovasi l'ammirazione sostenuta dalle istituzioni sociali
dell'antichità: l'indipendenza assoluta del potere, cioè la
negazione del primato sociale della Chiesa: la religione presentata
non come fine supremo delle società, ma come un mezzo di governare.
«Polibio, dice Bodino, governatore e luogotenente di Scipione
l'Africano, è stimato il più savio politico della sua età,
sebbene ei fosse destro ateista. Nondimeno ei raccomanda la
religione sopra tutte le cose, come il fondamento principale di ogni
repubblica, dell'eseguimento delle leggi, dell'obbedienza dei sudditi
ai magistrati, del timore verso i principi dell'amicizia scambievole
fra loro e della giustizia verso tutti (50)».
Tanto
in Bodino come in Montesquieu si trova una specie di fatalismo,
troppo naturale conseguenza della mancanza di fede. Così il sistema
dei climi del celebre presidente è tolto di peso dall'opera di
Bodino: Methodus ad facilem historiarum cognitionem.
Dall'ordine
politico Bodino passa all'ordine civile. Infatuato della sapienza
degli antichi e principalmente dei Romani, propone recisamente di
ristabilire la famiglia sopra la duplice base romana del divorzio od
almeno del ripudio senza motivo legale, e dell'onnipotenza paterna.
Molti hanno creduto e molti ripetono che il ristabilimento del
divorzio in Europa è dovuto al protestantesimo. Quello che vi ha di
certo si è ch'esso è stato domandato, od almeno il ripudio
facoltativo, fin dal secolo XVI, da un cattolico, le cui opere
erano pubblicamente insegnate nelle scuole; quello che vi ha di certo
ancora si è che per istabilire il divorzio la rivoluzione non ha
punto invocato l'autorità di Lutero o di Calvino; ma, come Bodino,
l'autorità dei Romani e dei Greci. Finalmente quello che vi ha di
certo si è ch'esso ha ammesso per pronunziare il divorzio, non i
motivi allegati da Lutero, ma le cause allegate dal diritto romano.
Una di queste cause è il consenso reciproco delle parti,
senz'obbligo di dichiarare il motivo di loro separazione. La
rivoluzione ammette questa causa e Bodino sembra abbia dettato
l'articolo del Codice che la consacra.
Dopo
aver parlato dei vantaggi del ripudio; buono per tener in cervello
le donne superbe e i mariti molesti, aggiunge: «Ma non ci ha
nulla di più pernicioso che il costringere le parti a vivere
insieme, se non dicono la causa della separazione che chiedono e che
sia ben verificata: poiché così facendo, l'onore delle parti è in
balia del caso, mentre che sarebbe salvo se la separazione non
adducesse motivo. E di fatti i Romani non allegavano veruna
causa, come si può vedere quando Paolo Emilio ripudiò la propria
moglie, ch'ei dichiarava essere savissima ed onestissima donna, di
assai nobile famiglia, e dalla quale avuto aveva molti bei figliuoli.
E quando i parenti della donna se ne lagnarono a lui, volendone
sapere il motivo, ei fece veder loro, il proprio calzare ch'era bello
e ben fatto, dicendo ch'ei solo sentiva dove gli faceva male.
E
se la causa non sembra sufficiente al giudice, o che non sia ben
verificata; conviene che le parti vivano insieme, avendo
continuamente l'uno e l’altro davanti agli occhi l'oggetto del
proprio male.
«Il
che fa sì che, vedendosi ridotti in estrema schiavitù, in timori ed
in discordia perpetua, ne seguono gli adulterii, le uccisioni e gli
avvelenamenti, che per la più parte sono sconosciuti agli uomini,
come accadeva a Roma innanzi che si praticasse di ripudiare la
propria moglie: perché il primo fu Spurio Carvilio, circa
cinquecent'anni dopo la fondazione di Roma» (51).
Al
qual proposito Bodino racconta: «Essendo stata sorpresa e condannata
una moglie d'aver avvelenato il proprio marito, questa ne accusò
altre che, per confidenze avute, ne accusarono altre sino a settanta
del medesimo delitto, che furono tutte giustiziate (52)».
E
si ha il coraggio di rintronarci continuamente gli orecchi che gli
antichi Romani erano modelli perfetti di tutte le virtù!
Riguardo
alla patria potestà, Badino collo sguardo sempre fisso sui Romani,
vuole che, si conceda ai padri il diritto di vita e morte sui loro
figli. «È necessario, dice egli, restituire ai padri la
potestà di vita e di morte, che la legge di Dio e della natura
conferisce loro: legge la più antica che mai fosse, comune ai
Persiani ed ai popoli dell'alta Asia, come ai Romani ed agli Ebrei,
ai Celti, e praticata in tutte le Indie occidentali prima che non
fossero soggiogate dagli Spagnuoli: altrimenti non si ha mai da
sperare di vedere i buoni costumi, l'onore, la virtù, l'antico
splendore delle repubbliche ritornare in vita (53)».
Ciò
vuol dire che il Cristianesimo il quale ha modificato la patria
potestà, ha avuto torto: che nei secoli cristiani non vi furono né
buoni costumi, né onore, né virtù; che, se l'Europa cristiana
pensa alquanto al proprio perfezionamento, debba far rivivere
l'antico splendore delle repubbliche classiche mediante il diritto
paterno di vita e di morte sui figli. Avvertiamo bene che l'uomo il
quale parla di questa maniera non è né un protestante, né un
turco: è un cattolico, ma un cattolico educato dal Risorgimento,
cioè un cattolico di nome, e sotto molti aspetti, un vero pagano di
idee e di linguaggio.
Avvertiamo
inoltre che Badino non è un oscuro privato, una persona spregiata o
senza influenza: anzi egli è il favorito dei re: è un professore di
diritto; un avvocato al parlamento di Parigi, un autore le cui opere
pubblicamente insegnate, in suo vivente, nelle università, sono dopo
morte riprodotte cento volte dalla stampa in tutte le parti
dell'Europa. Vengono esse successivamente stampate a Parigi nel 1557;
a Losanna nel 1577; a Parigi nel 1578, 1579, 1586; a Ginevra nel
1588, e nella stessa città voltate in italiano nel 1588; a Torino
nel 1590; a Lione nel 1598; a Strasburgo nel 1598; a Ginevra nel
1600; cinque volte a Francoforte nel 1622; a Colonia nel 1645; a
Parigi nel 1755, 1756, 1764, 1766, 1779, ecc. ecc.
Questa
voga fu preparata e superata soltanto da quella eli Machiavelli, il
patriarca della politica pagana in Europa. Invano Machiavelli e
Bodino sono stati messi all'indice. Dopo il Risorgimento
l'Europa è divenuta quasi sorda agli ammonimenti della propria
madre; e Bodino e Machiavelli non hanno perduto né i loro lettori,
né i loro panegiristi.
Fra
questi Bodino ha la gloria di annoverare Langlet, il licenzioso
editore di Catullo, di Properzio, di Tibullo, e di molte altre
infamie, allevato come il suo modello alla scuola della bella
antichità. «La repubblica di Bodino, dice egli, è sempre stata
stimata dagli intelligenti. Quest'opera è piena dei più grandi e
dei più saggi. principii della politica e del diritto pubblico.
L'autore puntella sempre quanto afferma o con le leggi, o con gli
autori antichi».
Nel
tempo stesso s'innalzano in tutta Europa altre cattedre di politica e
di giurisprudenza pagana. In Germania, nel 1524, troviamo Siccardo
professore a Tubinga; nel 1550, Ulrico Zazio a Friburgo; nel 1558,
Ferrari a Marburgo; nel 1550, Mudeo a Lovanio; nel 1557, Viglio ad
Ingolstadt. Vengono in seguito Volfio, Grozio, Matteo, Ermanno
Coringio, Puffendorfio ed altri molti. In Italia, a Padova e a
Bologna, Fulgosio, Pontano, Accolti, Ficcardo, Batthélemy e Socino,
Alciati, Panciroli, Farinaccio e finalmente Gravina.
La
Spagna e l'Inghilterra obbediscono al medesimo impulso. La Francia,
conviene dirlo a sua gloria, è l'ultima a lasciarsi strascinare
dalla corrente. Così, nel 1554, de Thou, primo presidente del
parlamento di Parigi, sostiene ancora che le ordinanze e le
consuetudini sono il diritto comune del regno, e che il diritto
romano non vi si ammette che come ragione scritta (54); e l'ordinanza
di Blois, nel 1577, continua a vietare l'insegnamento del diritto
romano nell'università di Parigi. «Proibiamo, dice l'articolo 69, a
quelli dell’università di Parigi di leggere o di conferir gradi in
diritto civile (55)».
Ma
poco appresso, sotto l'influenza di Guglielmo Budeo, patrono del
Risorgimento, di Cujaccio, padre della scuola storica del diritto
romano e di altri ancora, sorge una generazione di giuristi che
riempie le università dell'Europa, le corti, i parlamenti, e che in
noi si perpetua nella persone di Dumoulin, di Pithou, di Rapino di
Thoyras, di Talon, di Montesquieu, di Daguesseau sino alla
rivoluzione francese. Il culto del re e l'ampliamento del suo potere:
l'opposizione alla santa Sede, e lo spavento di ciò ch'essi chiamano
pretensioni della corte di Roma; la sommessione della Chiesa
allo Stato, sotto il pretesto delle libertà gallicane: questi tre
punti riepilogano l’insegnamento e la vita della maggior parte di
quei legisti cesariani.
La
stampa, il grande strumento del Risorgimento, propaga incessantemente
le loro dottrine. Le edizioni delle Pandette si moltiplicano
all'infinito: il che vuol dire che l'Europa letterata non mostra
minore sollecitudine, a ristaurare il paganesimo politico e civile di
quello chle il paganesimo filosofico, artistico e letterario. Nello
spazio di ottantadue anni, dal 1579 al 1633, si contano in Francia,
in Italia e in Germania soltanto, novantasei edizioni del
diritto romano, in gran foglio, ricche di note e di commenti.
Da
questa smania per la scienza sociale dell'antichità nasce la scuola
dei naturalisti. Pei Risorgenti, il Vangelo non è più la
fonte del diritto, né il tipo della perfezione sociale, come l'arte
cristiana non è più la norma del bello. Per ritrovare l'una e
l'altra è d'uopo ricorrere alla natura ed alla classica
antichità, sua fedele interprete. Dove che, prima del Risorgimento,
non si parlava che del diritto cristiano, dopo non si parla
più che del diritto naturale. Gli autori di questa scienza
abbondano principalmente oltre il Reno. Qual è mai autore tedesco od
olandese che non abbia scritto grossi volumi o lunghi commentarii,
rimpinzati di testi pagani, sopra il diritto naturale, sociale,
politico e civile? (56)
Finché
noi mostriamo il materiale, risultamento di tutte queste dottrine,
lasciamole fermentare, e continuiamo la storia degli uomini che ne
furono i grandi propagatori.
__________________
CAPITOLO
XVI.
HOBBES.
Sua
vita. - Il Risorgimento ne fa un giurista cesariano. - Suo Leviathan.
- Analisi di quest'opera. - Il trattato del cittadino, De cive,
copiato negli autori classici. - Parole di Cicerone e
d'Orazio.-Avvertenza di Balmès.- Dottrina politica di Hobbes. - Lo
stato di natura.- Il contratto sociale. - Scopo della società, il
benessere materiale.- Missione del potere è il procurarlo - Mezzi di
procurarlo.- L'onnipotenza del principe o dello Stato. - Nell'ordine
temporale. - Nell'ordine spirituale. - Potestà di regolare il culto,
di far la morale, di definir la dottrina. - Il Cesarismo risorto. -
Hobbes pagano sino alla morte.
***
Hobbes,
nato a Malmesbury, nel 1588, si diede sino dalla fanciullezza allo
studio degli autori pagani. L'ammirazione dell'antichità,
l'ignoranza ed il disprezzo del Cristianesimo, l'adorazione della
carne, tali furono i frutti durevoli che ad esempio di tanti altri
questo giovane inglese trasse dall'appassionata familiarità coi
Greci e coi Romani. In tutta la sua vita Hobbes adorò la carne,
cioè, secondo l'espressione del suo biografo, il vino e le donne
(57). Di quattordici anni aveva tradotto in versi latini la Medea di
Euripide (58).
Aristotele,
ch'egli studiò per cinque anni, lo riempì di idee false,
incomplete, inapplicabili sull’origine e sulle leggi della società.
Venuto
in Francia, verso il 1627, s'abbandona di nuovo al suo amore per la
letteratura antica e traduce Tucidide.
Però
l'età lo chiama a più gravi inclinazioni e si dedica alla scienza
sociale, di cui diventa uno dei maestri. Il suo oracolo è
l'antichità pagana, commentata, nei tempi moderni dai giuristi
Cesariani. Nella sua opera intitolata Leviathan, pare che abbia preso
Dante per sua guida, riproducendone la teorica a parola per parola.
Ecco l'analisi di questo libro.
Per
spirito di opposizione contro i parlamentari inglesi, Hobbes predica
al monarcato il più assoluto dispotismo. «La pace, dice egli con
Dante, è il gran bene del mondo: senza di essa non vi ha sicurezza
in uno Stato: la pace non può sussistere senza l'imperio, né
l'imperio senza le armi: le armi nulla valgono se non sono nelle mani
d'un solo: il timore delle armi non può condurre alla pace coloro
che sono indotti a combattere per un male più terribile della morte,
voglio dire per le discussioni sulle cose necessarie alla salute
(59)».
Per
distruggere questa causa di turbolenze, egli trae al Cesarismo e ad
una religione di Stato posta sotto la dipendenza del principe; le
quali cose tutte sono lo scompigliamento dell'ordine sociale
cristiano e che la cattolica Chiesa non potrà mai permettere. In
questo pensiero, Hobbes, per piaggiare l'orgoglio dei re, svela ai
loro occhi la pittura dei mali immaginari che la santa Sede ha fatto
nel mondo. Questa filippica è di tal fatta violenta, che l'autore,
non sentendosi sicuro, lasciò Parigi nel cuore dell’inverno e
prese mare per l'Inghilterra (60). Ciò avveniva nel 1651.
Durante
la sua dimora in Francia, Hobbes aveva anche composto l'opera che lo
ha levato in riputazione. Vogliamo parlare del suo Trattato del
cittadino, De cive, che ci resta a far conoscere. In questo
libro di filosofia sociale, Hobbes riproduce con una crudezza
di linguaggio degna di Machiavelli, i principii e le conseguenze del
Cesarismo antico.
Come
tutti i giuristi del Risorgimento ei muove dallo stato di natura.
Secondo Hobbes, gli uomini sono naturalmente malvagi: di che risulta
che lo stato di natura era la guerra di tutti contro tutti. Che poi
gli uomini siano tutti cattivi, Hobbes lo afferma non già con la
scorta della Rivelazione, ma sull'autorità dei grandi uomini
dell’antichità classica. Cita il detto di Catone il vecchio, che
chiama i re animali della razza delle tigri (61); e quello d'un altro
che dice che i popoli sono della razza dei lupi (62). Hobbes
dà ragione all'uno e all'altro.
Vedesi
qui quali sono i suoi autori prediletti. Ovidio, Virgilio ed altri
classici hanno fatto la più leggiadra pittura dello stato di natura:
era l'età dell'oro. Ve ne ha di quelli che lo hanno dipinto con
colori tutti diversi, e fra questi si annoverano Orazio e Cicerone:
Hobbes è del loro parere. Così, allorché Rousseau e Brissot ci
presentano il selvaggio siccome il tipo dell'uomo primitivo; e lo
stato di natura come il regno assoluto della felicità; quando
Hobbes, Machiavelli e la loro scuola ci diranno tutto il contrario,
sapremo che né gli uni né gli altri non hanno inventato nulla. Essi
non fanno che ripetere in diverso modo, ma fedelmente l'antichità
pagana; non fanno che recitare la lezione dei loro maestri.
Altrove
abbiamo citato i sogni dorati di Virgilio e di Ovidio; per finirla e
per provare una volta ancora che le più opposte teoriche sociali
sullo stato primitivo dell'uomo, riprodotte dai moderni, sono copiate
negli antichi, riferiremo le parole d'Orazio e di Cicerone.
«Fu
un tempo in cui gli uomini andavano vagando per le campagne a guisa
delle bestie, e si procacciavano il vitto come le belve feroci, nulla
facendo col lume della ragione, ma per la forza soltanto. Non si
aveva nessuna religione, né principio di moralità; né vi aveva
leggi che regolassero i maritaggi. Non sapeva il padre quali fossero
i suoi propri i figli, e niuna legge di equità governava i
possedimenti dei beni. Di tal guisa le cieche e sfrenate passioni
regnavano tirannicamente in mezzo all'errore ed all’ignoranza,
abusando, per saziare gli abominevoli loro appetiti, le forze del
corpo » (63).
Orazio
mette in versi la dottrina di Cicerone:
«Quando
gli uomini, dice egli, incominciarono a trascinarsi carpone sulla
terra, non erano che un armento d'immondi e muti animali che si
contendevano le ghiande e i covili con l'unghie e coi pugni, poi coi
bastoni e con le armi che l'esperienza insegnò loro di fabbricare:
finché trovarono parole e nomi con cui significare i loro
sentimenti. A poco a poco si stancarono di battagliare, ed
incominciarono a rizzar città ed a costituir leggi, perché niuno
fosse né ladro, né assassino, né adultero; imperocchè anche prima
di Elena, la donna fu tremenda cagione di guerra; ma perirono
d'oscura morte (64) coloro cui il più forte uccideva, come fa negli
armenti il toro, disputandosi così i diletti della Venere vaga. Se
vorrai svolgere i fasti del mondo, sarà d’uopo che confessi le
leggi essere state inventate pel timore dell'ingiustizia, poiché la
natura non può discernere l'equo dall'iniquo (65)»
«Singolare
coincidenza d'opinioni, esclama Balmès, in ordine all’origine
della società, fra i filosofi dell'antichità, privi del lume della
fede, e quelli dei nostri giorni i quali hanno abbandonato questo
lume: gli uni e gli altri mancando dell'unica guida che è il
l'acconto di Mosè, non sono giunti, cercando l'origine delle cose,
che a trovare il caos nell'ordine fisico come nell'ordine morale. Con
piccolissima differenza in Orazio ed in Cicerone si trova lo stesso
linguaggio che in Hobbes, in Rousseau ed in altri scrittori della
medesima scuola (66)».
La
coincidenza a noi non sembra puntio singolare. Avvi forse qualche
singolarità che uomini educati dagli stessi maestri, nutriti delle
medesime idee, abbiano le stesse opinioni? Quello che debba parere
ben altrimenti singolare si è l'ostinazione con cui certe persone
mantengono che lo studio degli autori pagani è senza pericolo dal
momento che vi si tolgono le più turpi oscenità e che vengono
spiegati da professori che sono sacerdoti o religiosi. I brani di
Cicerone e d'Orazio che abbiamo riferito non contengono oscenità; si
trovano nelle edizioni purgate per uso delle case cristiane di
educazione. Osservate però quello che producono: la confusione di
tutte le nozioni sull'origine delle cose; del potere del linguaggio,
il razionalismo, e lo sconvolgimento dell'ordine religioso e sociale!
La
conseguenza necessaria dello stato di natura, secondo Hobbes, è il
patto sociale. Stanchi di vagare per le foreste, di trucidarsi, di
vivere in perpetuo timore, gli uomini un giorno si riuniscono e
convengono di vivere in società. Stipulano un contratto, in virtù
del quale tutti si spogliano dei loro diritti e della personale loro
indipendenza in favore del capo a cui si sottopongono e che viene
incaricato di proteggere la comunità (67). Così l'uomo crea la
società come farebbe un mercato o fabbricherebbe una casa, senza che
Iddio vi abbia parte. Da questa teorica risulta da una parte che ogni
potestà emana dall'uomo, il quale la dà a prestito, ma non l'aliena
mai: quest'è la Rivoluzione in principio (68); e dall'altra parte,
che la società non ha il diritto di vita e di morte. In fatti, la
società o la potestà che la rappresenta non ha altri diritti che
quelli che le sono stati conferiti dai membri della comunità. Ma
niun membro della comunità ha il diritto di vita e di morte sopra sé
medesimo, altrimenti giustificate il suicidio.
In
ciò, se non m'inganno, trovasi l'origine misteriosa della duplice
tesi tanto sostenuta, dopo il Risorgimento, in favore del suicidio,
per giustificare la pena di morte; o dell'abolizione della pena di
morte, fondata sul difetto radicale del potere della società di
togliere la vita ad uno dei suoi membri.
L'uomo,
avendo fatto la società senza il soccorso di Di e pel suo personale
interesse, si è proposto non l'adempimento sociale dei comandamenti
di Dio, ma il soddisfacimento dei suoi bisogni, il benessere ed il
piacere. Tutto il mandato del principe consiste in procurargli questi
vantaggi, in assicurargliene il tranquillo godimento: in questo è
tutta la politica.
«La
salute del popolo, dice Hobbes, è la legge suprema; e per salute non
si dee intendere la conservazione d’una vita qualsiasi, ma d'una
vita, per quanto è possibile, felice. Imperocchè, istituendo
liberamente le società, gli uomini hanno avuto per fine di
vivere piacevolmente al possibile. I re violerebbero dunque la legge
di natura se non contendessero con tutti i mezzi legali di provvedere
abbondantemente non solo alla sussistenza, ma anche ai piaceri di
tutti i cittadini (69)».
Nobile
politica, che dopo quindici secoli di Cristianesimo riconduce le
nazioni incivilite al panem et circenses dei Romani!
Ma
ciò non è tutto: il ben essere e la pace per godere del ben essere
sono il fine della società rigenerata: sarà quindi dovere del
principe disporre del potere necessario per assicurare l'uno e
l'altra. Potere sovrano nell'ordine ternporale, potere similmente
sovrano nell'ordine spirituale: ed abbiamo il Cesarismo in tutto il
suo splendore.
Potere
sovrano nell'ordine temporale. Conformemente alla dottrina
dell'antichità, Hobbes stabilisce che riferibilmente al principe o
allo Stato il diritto di proprietà non esiste. «L'accordare, dice
egli, a tutti i cittadini il diritto assoluto di proprietà sopra ciò
che possiedono, è una massima sediziosa. Intendo un diritto che
esclude non solamente quello degli altri cittadini, ma quello
eziandio della nazione. Siffatto diritto non esiste. Chi ha un
padrone non ha dominio (70)».
Per
provarlo ricorre al diritto antico e mostra che il padrone ha la
potestà tanto sui beni quanto sulla persona dello schiavo; ed a
questo potere dispotico egli pareggia quello del capo della città.
«Infatti, egli dice, lo Stato o la città è padrone di tutto, a
tenore del patto sociale. Prima di questo contratto non ci aveva
proprietà per nessuno: tutto, era comune. Dimmi dunque donde si
deriva il diritto di proprietà se non dallo Stato? Ed allo Stato
donde gli deriva se non dalla concessione che gli ha fatta ciascuno?
Tu dunque, come gli altri gli hai conceduto il tuo diritto. Il tuo
dominio e la tua proprietà è dunque ciò che piace allo Stato e
dura finché gli piace» (71).
E
in altre parole: la legge fa la proprietà: la nazione fa la legge:
dunque la nazione può disfare la proprietà, impossessarsi di tutto
o rimetter tutto in comune. Questo è letteralmente l'antico diritto
cesariano: letteralmente la teorica spoliatrice della rivoluzione:
letteralmente il tema favorito del socialismo e del comunismo.
Potere
sovrano nell'ordine spirituale. Vi è una cosa che più d'ogni altra
può disturbare il tranquillo godimento del ben essere: ed è la
religione. In virtù del suo mandato, il principe ha il diritto e il
dovere di giudicare se una dottrina religiosa é portatrice o no di
pace; il diritto e il dovere di ammetterla o di proscriverla.
«Importa
sommamente alla pace pubblica, dice Hobbes, che non s'insegnino ai
cittadini opinioni o dottrine in conseguenza delle quali essi credano
di non potere in coscienza obbedire alle leggi dello Stato, cioè
agli ordini dell'uomo o dell'assemblea che dispone della sovrana
potestà: o che sia permesso di resister loro: o che l'obbedienza gli
esponga a castighi più grandi della disobbedienza. Infatti, se il
principe comanda qualche cosa sotto pena di morte temporale, ed il
prete la proibisca sotto pena di morte eterna, e sì l'uno come
l'altro col medesimo diritto, ne conseguirà non solo che i cittadini
anche innocenti potranno essere legalmente puniti, ma eziandio che la
società perirà.
«Niuno
può servire a due padroni. Ora, colui al quale crediamo dover
obbedire per tema dell'eterna dannazione non è meno padrone di
quell'altro a cui si obbedisce per timore della morte temporale: e lo
è anche un po' più. Dunque il capo della società, principe o
senato, ha solo il diritto di giudicare le opinioni e le dottrine
contrarie alla pace e di proibire che vengano insegnate (72)».
Ecco
giustificato Nerone; ed ecco il Cesarismo pagano con tutte le sue
prerogative d'un tempo.
E
perché, poi, si sappia bene che intende di assorbire la potestà
spirituale a profitto della temporale, Hobbes ha cura di aggiungere:
«Quello che ho detto riguarda la potestà che in certi regni molti
attribuiscono al capo della Chiesa romana ... Il giudizio delle
dottrine per sapere se sono o no contrarie all'obbedienza civile; e
se vi sono contrarie, il diritto di proscriverle, io lo attribuisco
qui alla potestà civile, poiché, da una parte, niuno può ricusare
al capo dello Stato il diritto di sopravvegliare alla pace ed alla
difesa della società; e dall'altra parte è manifesto che le
dottrine di cui ho parlato, interessano la pace pubblica, ne segue
necessariamente che il principe ha il diritto di giudicarle, di
permetterle o di proibirle (73)».
Non
solamente la dottrina, religiosa, ma anche il culto debba essere
regolato dallo Stato. «È d'uopo, dice il giurista cesariano,
obbedirgli in tutto ciò ch'esso prescriverà come modo di onorare la
Divinità, cioè come parte costituente il culto» (74).
Riguardo
alla morale è il principe che la fa, come nell'antichità, «per
regola generale, dice Hobbes, non si deve chiamare omicidio,
adulterio o furto se non ciò che per tale è dichiarato dalle leggi
civili. Non solamente presso gl'infedeli, ma anche presso i
cristiani, l'autorità del principe debba dare le regole della
morale. A lui spetta il diritto di determinare quello che è delitto
e quello che no, quello che è giusto e quello che ingiusto. Donde
manifestamente risulta che anche negli Stati cristiani devesi
obbedienza al governo in tutto, tanto nelle cose spirituali come
nelle temporali (75)».
Tale
è il brutale dispotismo a cui condanna l'umanità. E non vuole si
resista, e molto meno che si ribelli: «stantechè sarebbe un violare
il patto sociale! (76).
Queste
dottrine che risospingono le nazioni moderne nel pieno paganesimo,
vengono da Hobbes esposte in molte opere con un'asseveranza e con un
vigore di logica che vi farebbero dubitare s'ei non sia di buona
fede.
Ad
ogni modo si chiede come quel potente ingegno sia giunto a siffatta
aberrazione. E come vi sono giunti i giuristi cesariani suoi
predecessori e suoi successori, Bucanano, Bodino, Rousseau, Mably, e
tutta la scuola rivoluzionaria? Partendo da questo duplice assioma
consacrato dal Risorgimento: Che i secoli cristiani in cui regnò la
politica cristiana furono secoli di servitù civile e di usurpazione
pontificale; che i secoli pagani in cui regnò il Cesarismo popolare
o imperiale furono i veri secoli della libertà e della civiltà. Dal
che, per Hobbes, come per gli altri, il regno sociale del
Cristianesimo è una lacuna negli annali dell'umanità: il diritto
pubblico da esso stabilito non vale punto. Per rannodare la catena
della scienza politica, è d'uopo connettere l'età moderna con l'età
anteriore al Vangelo, muovere dai principii del diritto naturale,
quali li ha conosciuti ed applicati la classica antichità; e, con le
loro conseguenze, formolarli in sistemi in servigio dell'Europa
imbestialita dal Cristianesimo.
Con
una spaventevole indifferenza, Hobbes suppone che la Chiesa non
esista nel mondo, e che sotto il cielo non vi abbia verun tribunale
divinamente istituito per interpretare infallibilmente le reggi
divine, di guisa che i sovrani temporali sono ancora in oggi quello
che furono nell'antichità: imperatori e sommi pontefici: imperator
et summus pontifex.
«L'affermare
che cotal diritto d'interpretazione spetta ad un’autorità estranea
distinta dalla potestà civile, è un pretendere che i sovrani o i
governi abbiano affidato la direzione della coscienza dei loro
sudditi ad una potenza ostile: il che è il colmo dell'assurdità.
Infatti, ovunque la potestà spirituale e la potestà temporale non
sono concentrate nella stessa mano, sono in stato di ostilità. Resta
fermo dunque che in ogni Stato cristiano il diritto d'interpretare la
santa Scrittura, cioè il diritto di por fine a tutte le controversie
dipende e deriva dai capi del governo (77)».
Così,
negate l'infallibilità del papa, ed eccovi costretti ad ammettere
l'infallibilità del principe o del parlamento: negate il sindacato
del Vaticano, ed eccovi costretti ad ammettere il sindacato delle
barricate, o l'avvilimento del bruto: negate il primato sociale della
Chiesa, e siete costretti ad ammettere l'onnipotenza di Cesare:
maledite alla politica cristiana e cadete turpemente nella politica
pagana. Il vostro peccato tragge dietro a sé la punizione. Guai ai
ciechi che guidano le nazioni nella via dell'errore: ma guai ancor
più a coloro che gli hanno accecati!
Hobbes
predilige sino alla morte gli autori pagani che lo avevano ubriacato
delle loro dottrine, e rende l'estremo sospiro in loro compagnia. Si
vede questo vecchio di ottant'anni, fedele alle tendenze della sua
giovinezza, prepararsi a comparire davanti a Dio traducendo in versi
inglesi l'Iliade e l'Odissea. La sua religione è
quella di Socrate. Essa è semplice e facile: praticare alcune virtù
umane: dubitar di tutto, abbandonarsi alle passioni del cuore,
ammirare sopra tutto la bella antichità; consacrare la propria vita
a farla rivivere, ispirandosi continuamente alla lettura dei suoi
grandi uomini: ecco Hobbes intero (78).
___________________
CAPITOLO
XVII.
GRAVINA
Riassume
il Cesarismo. -Classico fin dalla giovinezza. - Muta il suo nome di
battesimo e quello del suo villaggio. - Compone tragedie pagane. -
Fonda l'accademia degli Arcadi.- Linguaggio usato in quell'accademia.
- Gravina, si propone di ricondurre il mondo allo stato di natura.
Coi suoi soci abbraccia la vita pastorale. - Leggi che dà agli
Arcadi. - Redatte con lo stile delle dodici Tavole. -Esorta
costantemente al culto dell'antichità. -Richiamo contro il
Risorgimento e gli studi pagani. - Cattiva risposta di Gravina.
***
Nella
catena della tradizione cesariana, molte anella intermedie separano
Hobbes da Gravina. I limiti di quest'opera non ci permettono di
occuparcene. Però tutti sono della stessa materia di coloro onde
abbiamo dato e daremo l'analisi. Ammirazione della politica pagana,
negazione dell'azione sociale della Chiesa, predicazione del
Cesarismo imperiale o popolare, tali sono invariabilmente gli
elementi di cui si compongono.
Riguardo
poi a Gravina molte ragioni comandano di farlo conoscere in tutte le
sue particolarità. Egli è il più celebre giurista.
Cesariano
di questi ultimi tempi; venuto essendo dopo gli altri, riassume la
dottrina dei suoi predecessori; ha scritto in Italia, ed è bene che
si sappia se, non ostante la presenza del papato, l'influenza della
politica pagana si facesse sentire nella Penisola, così bene come in
Francia, in Inghilterra, in Germania, e nelle altre parti
dell'Europa; finalmente Gravina che chiude il XVII ed apre il XVIII
secolo la cui politica è da esso inaugurata.
Il
piccolo villaggio di Ruggiano, nella Calabria, vide nascere nel 1664
un fanciullo che al fonte battesimale ricevette il nome di Giovanni:
questi era Gravina. In tenerissima età fu mandato a Napoli ad
esservi educato; ivi si trova, come tutti i suoi condiscepoli, al
cospetto dell'antichità greca e romana, che maestri piamente pagani
non cessano dal magnificare ai loro alunni. Il giovane Gravina
ascolta avidamente, e ben presto entra in questa persuasione che
tutto ciò che non è greco o romano non è né bello né
rispettabile; che per figurare onoratamente nel mondo illuminato è
necessario aver qualche cosa d'antico, e che l'uomo più invidiabile
sarebbe quegli che per le idee, pel gusto, pel linguaggio, pei nomi e
per le memorie avesse di più del greco del romano.
Per
conseguenza, all'uscir di collegio, vuol essere romano e cangia il
proprio, nome di Giovanni in quello di Giano. Ma non
basta l'essere Romano; e vuol essere Greco; e quando verrà a Roma a
fondarvi l'accademia degli Arcadi prenderà il nome di Bione di
Crate (79). Il villaggio di Ruggiano non è nominato da Tito
Livio: Gravina si fa dunque originario dell'antica Consentia,
e s'intitola civis Consentinus. In ciò non si limita la sua
imitazione. «Ad esempio di Pomponio Leto, dice l'autore della sua
vita, ammira la superstizione dei Romani, e li loda di convocare il
senato nel tempio degli dei, affinché la presenza della Divinità,
gl'ispirasse savi consigli (80)».
«Gravina
teneva questa sacrilega maniera di pensare del suo compatriota
Pomponio, talmente fanatico per lo studio degli autori pagani, che
preferiva la religione pagana alla cristiana; e che avendo innalzato
un altare a Romolo, pel poco non gli offrì sacrifici, dicendo che il
cristianesimo era da lasciarsi ai soli barbari» (81).
Pieno
di entusiasmo per la letteratura e la politica dell’antichità,
Gravina andò a Roma in età di venticinque anni: ivi passò il
restante della sua vita non nella città dei papi, ma nella città
dei Cesari. Nominato professore di diritto alla Sapienza,
svolge alla presenza della gioventù quelle dottrine che quanto prima
analizzeremo, componendo ad un tempo tragedie antiche: Palamede,
Andromeda, Appio Claudio, Papiniano e Servio Tullo.
Componendo
le sue tragedie, Gravina aveva per fermo voluto mettere in pratica le
regole da lui stesso insegnate; poiché egli è, autore di un'Arte
poetica. La Ragione poetica è un'opera perfettamente
pagana, nella quale Gravina si sforza di stabilire che l'amor
platonico non è una chimera. «Ci ha, dice il Giornale
letterario, la più sottile metafisica e ad uso di pochissime
persone» (82).
Per
sopravvivere a sé medesimo e perpetuare il gusto antico, di cui è
adoratore e di cui si crede pontefice, Gravina, nel 1696, fonda
l'accademia degli Arcadi. Le usanze, le leggi, lo scopo di
questa società indicano assai chiaramente che, da certe
modificazioni in fuori, lo spirito di Pomponio Leto viveva ancora in
Roma. Ora, in un'accademia fondata da Gravina con l'intendimento di
conservare in tutta la sua purezza primitiva il gusto antico, idee,
linguaggio, forme dello stile, tutto debba esalare il profumo
dell'antichità.
Innanzi
tutto, i nomi dei soci sono nomi pagani. Alessandro Guidi chiamasi
Erilo Cleoneo; e, come abbiamo già veduto, Gravina è,
divenuto Bione Crateo. Allorché nel 1740 quest'accademia
ascrisse Voltaire fra i suoi membri, volendo fargli il massimo onore
che nel mondo letterario si conoscesse, gli diede il soprannome di
Museo, il che significa gran sacerdote delle Muse e loro primo
favorito. Lo stesso Voltaire, per rendere il contraccambio, chiamava
l'abate di Lilla Publio Virgilio di Lilla (83).
L'Accademia
ha un consiglio composto, di dodici membri che si chiamano i
duodecemviri. Essa si propone due cose: la prima, un
innocente desiderio di gloria: la seconda, di rendere
l'immagine della vita pastorale dei primi uomini, l'innocente
loro semplicità, la perfetta loro eguaglianza, in una parola, la
beatitudine d'una società vivente, nello stato di natura, senza
capo, e soltanto in virtù d'un patto fra i suoi membri: e tutto
questo era lo scopo di mutare con tale spettacolo, i costumi del
mondo! Ma vuolsi udire lo stesso Gravina, altrimenti niuno ci
vorrebbe aggiustar fede.
Nella
sua orazione inaugurale Pro legibus Arcadum, egli discorre in
questa forma:
«Arcadi!
lo giuro per Ercole! nulla noi abbiamo in comune con gli ambiziosi e
con gli avari. Sei anni prima di riunirci nei campi e di abbracciate
la vita pastorale, abbiamo, con l’intendimento di abbandonar
la città, rinunziato all'orgoglio, ai brogli, all'avarizia, ed alle
pompe mondane. Or che siamo ritornati alla semplicità della
natura, contendiamo concordemente d'imitarne l'innocenza ed il
candore. Abbiamo messo in comune i nostri diritti e le nostre
volontà. Abbiamo un consiglio composto d'un custode e di
duodecemviri, i quali governano i negozi della società; ma i
loro atti non sono validi se non dopo che sono stati approvati da
tutta la Repubblica: quest'è l'eguaglianza perfetta. Fra noi nessuna
distinzione di grado; né di dignità, come conviene, ad uomini che
si sono spogliati della larva civile per ritornare alla vita
pastorale. Ci siamo interdetto il patrocinio dei grandi che spesso
mutasi in dominazione.
«La
vostra costituzione, o Arcadi, è chiara e semplice quale conviensi,
ad uomini che, purificati da ogni macchia d'ambizione del secolo,
muovano da sé stessi verso la legge della natura, a cui dopo un
lungo esilio siamo finalmente resi, e nel seno della quale
abbiamo attinto le leggi che dettammo in latino ... L'unico nostro
scopo, oltre il culto delle lettere, è un innocente desiderio di
lode (84)».
Sciocchezze
e puerilità! Non si dimentichi per altro che queste puerilità e
queste sciocchezze, passate dai collegi nei cuori e sulle labbra
delle generazioni letterate, furono nel 1793, la sostanza e la forma
della festa della Natura, una delle pagine più umilianti
della storia dello spirito romano: la sostanza e la forma del sistema
politico della Rivoluzione, che per cinque anni martirizzò la
Francia per ricondurla allo stato di natura.
Nella
Repubblica d'Arcadia, i nomi, le idee, lo scopo della società sono
classici: non basta: affinché tutto sia in armonia, le leggi stesse
vennero dettate nello stile delle Dodici Tavole (85).
Poiché
Gravina si propone di convertire il mondo, offrendo alla sua
imitazione una società ritornata allo stato di natura, consacrata al
culto delle lettere antiche ed animata dal solo desiderio della
gloria, non trascura veruna occasione di predicare l'amore
dell'antichità e di tuonare contro il medio evo così barbaro per
averla disprezzata. Tale è l'argomento di quelle due orazioni, della
Ristaurazione degli studi e dello Spirito degli studi
(86). Ma nella sua orazione dello Investigare le fonti delle
dottrine, Gravina dà libero corso al suo zelo per ricondurre, il
mondo al culto dell'antichità. La diceria comincia così:
«Dappoichè
la Grecia venne in potestà dei barbari, la dissoluzione invase le
contrade un tempo più floride dell'universo e costrinse i dotti a
prendere l'unanime risoluzione d'abbandonare i loro Penati, di
recarsi in terra straniera, e, recando seco la scienza dei Greci, di
riparare in Italia in un sacro asilo. Di quanto questa calamità
impoverì di gloria la Grecia, di tanto ne procacciò all'Italia.
Alla Grecia adunque l'Italia fu debitrice una seconda volta del lume
delle scienze. Le arti che un tempo i Romani vincitori della Grecia
recarono in Italia, e che poscia perdettero, queste stesse
arti, costrette a fuggire, le abbiamo ricuperate per opera di
Emanuele Crisolaro, di Bessarione; di Giorgio di Trebisonda, di Gaza,
d'Argiropulo, di Calcondila, di Lascaris. Istruiti da essi nelle
lettere greche, Leonardo Aretino, Filelfo, Guarino, Poggio ed altri
ancora fondarono scuole di greca letteratura per tutta Italia (87)».
Questo
zelo ridicolo insieme e pericoloso per l'antichità pagana,
quest'insulto gettato costantemente in viso ai secoli cristiani,
accusati di barbarie poiché altri lumi non ebbero che quelli del
Vangelo, dei papi e dei Padri della Chiesa, risvegliavano nelle
persone savie e previdenti vive e troppo giuste rimostranze. Secondo
l'usanza dei suoi predecessori, Gravina non si degna di nominarne gli
autori. Si contenta di trattarli come i suoi successori trattano noi
stessi, da discepoli di Giuliano, da crociati in zoccoli.
«Nuovo
genere di pietà, esclama egli, il perseguitare le lettere e
l'infamare da per tutto le belle arti! ... Non arrossiscono di
stornare la gioventù dallo studio degli autori greci e latini, come
da uno studio profano ed indegno di questa religione, della quale
queste stesse lettere, sotto gli auspici della Divinità, hanno
fatto per tanto tempo l'educazione. Ma vanno più avanti: la
dottrina di Platone, regina un tempo delle scuole cristiane, cui
veggono rifiorire ai giorni nostri, e dopo tanti secoli ripigliar
nuova vita, non possono soffrire che venga studiata. Essi condannano
anche i poeti. Ah! se la gioventù li studiasse, si asterrebbe dagli
spettacoli e dai luoghi cattivi. Le funeste conseguenze del vizio
così ben dipinte nei loro versi sarebbero salutare ammaestramento
alla sua inesperienza » (88). Questo è proprio perentorio!
«Giovane, se vuoi conservarti casto, leggi Ovidio, Catullo, Tibullo,
Orazio, Virgilio.
Sant'Agostino
pensava alquanto diversamente.
_____________________
CAPITOLO
XVIII.
GRAVINA
(Continuazione e fine).
Sua
opera dell'origine e del progresso del diritto civile. - Suo sistema
sociale e politico copiato in Dante. - Entusiasmo di Gravina pel
diritto romano. - Suo libro dell'Impero romano. - Panegirico
del Cesarismo e della monarchia universale, anima della rivoluzione e
del socialismo. Gravina domanda l'impero universale dell’uomo.
- Vuole che la sede ne sia in Roma. - Eccita ad entusiasmo i giovani
Romani pei loro antenati. - Per le loro leggi sante e pie. -
Desidera che il diritto romano ritorni ad essere la legge del mondo
intero. - Sua Orazione a Pietro il Grande. - Sua morte.
***
L'entusiasmo
che mostra Gravina per la letteratura pagana, lo manifesta anche pel
diritto romano e per la politica di cui esso diritto è base. In
fatto di scienza sociale, Gravina non inventa nulla: ei non è che
l’eco di Dante, il copista di Hobbes ed il discepolo degli altri
giuristi, figli come lui del Risorgimento. «Quello che lo distingue,
dice il suo storico, si è che egli frammischia alle loro dottrine il
libero pensare di Cartesio ed alcuni sogni di Platone (89)».
L’analisi delle sue opere ce ne darà la prova. Nel suo Trattato
intitolato: Dell'origine e del progresso del diritto civile
(90), Gravina espone la propria opinione sull'origine delle società.
Essa si riepiloga nei punti seguenti:
1°
lo stato di natura;
2°
la brutalità primitiva della razza umana;
3°
la scoperta della ragione, provocata dalle crudeltà dello stato di
guerra universale;
4°
il patto sociale, fondato sulla necessità di difendersi; 5° la
società instituita dall'uomo senza intervento divino;
6°
la cessione della libertà in cambio della sicurezza;
7°
la sovranità residente nel popolo, trasmessa in deposito dal popolo,
con facoltà di ripigliarla se il popolo giudica che il suo
mandatario non ne faccia buon uso;
8°
il popolo romano, divenuto signore di tutti i popoli, rimettere con
la legge Regia la pienezza del suo potere all'imperatore
Augusto ed ai suoi successori;
9°
Augusto ed i suoi successori, eredi di tutti i diritti religiosi e
sociali del popolo romano e di tutti i popoli, divenuti imperatori e
sommi pontefici, fondano per la felicità del mondo l'immenso impero
romano;
10°
l'impero romano, è indivisibile; inalienabile; e non perituro:
perché è la monarchia universale (91).
Tale
è il formidabile dispotismo, davanti a cui Gravina va in estasi, ed
il cui felice progresso in Europa ei racconta in stile
ciceroniano. Parlando ai suoi alunni della scoperta delle
Pandette in Amalfi, discorre così: «Allorché, dopo un lungo
silenzio furono risvegliati gli oracoli delle leggi romane, l'Italia,
da lungo tempo, dimentica di sé stessa; si guardò finalmente ed in
quelle leggi riconobbe l'antica maestà dell'Impero. Per esse
ricuperò sull'universo mondo, già sommesso alle sue leggi, se non
l'impero, l'autorità almeno del proprio nome; e quella che perduto
aveva la dominazione della forza, regnò in appresso per la ragione»
… «Davanti alle nostre leggi tutti i popoli inchinarono i
loro fasci, e coloro che cessato avevano di obbedire alle armi
dei Romani, obbedirono alla loro sapienza (92)».
Gravina
non manca d'aggiungere che fin allora l'Europa era nelle tenebre,
retta da leggi barbare e da consuetudini sanguinarie; ma quando
apparisce il diritto romano, ogni cosa muta aspetto, la ragione trova
il suo oracolo, l'Italia ripiglia l'antica sua maestà, ed un
riflesso della gloria immortale degli antichi Romani illumina
l'Europa, cui non aveva punto illuminato il codice evangelico!
Quello
che è certo si è come abbiamo veduto che dalle scoperte delle
Pandette, si manifestò, anche in Roma, un ardore per lo studio del
diritto romano da dar serie inquietudini. Siffatta tendenza non
sfuggì puntò allo sguardo penetrante di San Bernardo, il quale,
scrivendo a papa Eugenio, gli dice: «Ogni giorno nel tuo palazzo
risuonano con l'amore le voci delle leggi, ma delle leggi di
Giustiniano, non di quelle del Signore. È forse pel meglio? Tu lo
vedrai. Io so che la legge del Signore è una legge immacolata che
converte le anime: le altre non sono leggi, ma più veramente litigi
e cavillazioni (93)».
Gli
encomi del diritto romano onde ingemma le sue lezioni, encomi che
punto non tributa al diritto canonico di cui venne nominato
professore, non bastano a Gravina. Sotto il titolo di Libro
sull'Impero romano, ei rifà l'opera di Dante, e si lascia
trascinare da tutto il suo entusiasmo pel Cesarismo, per la sovranità
del popolo, a cui appartiene di giudicare i tiranni, e perciò non
arrossisce d'invocare l’antica libertà romana (94).
«Il
libro dell'Impero romano, dice Le Clerc, è quello in cui
Gravina fa comparire maggiormente il genio e la conoscenza
dell’antichità romana. Vedesi anche ch'egli ha avuto a cuore
questa materia, e che in lui vi era zelo per la libertà antica, cui
non faceva comparire se non quanto è permesso a Roma ... Riconosce
nel popolo il diritto di giudicare il tiranno. Io non comprendo che
si possa parlare più fortemente sul punto della libertà; e conviene
dire che Gravina fosse ben ardito da tenere un simile linguaggio in
Roma quale essa è al giorno d'oggi (95)».
La
definizione dell'impero romano gli serve d'introduzione.
«L'impero
romano, dice egli, è la società di tutte le nazioni, retta secondo
le leggi dell'equità da un medesimo diritto civile e pubblico (96)».
Per lui come per Dante, questa monarchia universale è stabilita
nello scopo della prosperità generale del genere umano: essa è
immortale, indivisibile, inalienabile: egli ne ritiene nullo lo
smembramento, e ritiene lo stabilimento della sua integrità come
un'obbligazione solidalmente imposta a tutte le nazioni. «Poiché
l’impero romano, dice egli, è stato stabilito per la felicità di
tutti, non si è potuto distruggerlo, né farne un regno personale,
né mutarne la forma governativa; espressamente, o tacitamente,
qualunque sia lo spazio di tempo che è trascorso: poiché non vi è
né tempo né ragione che possano prevalere contro la giustizia e
contro la libertà umana, fondata sull'alleanza di tutte le nazioni
nel seno dell'impero romano. Che, se esso viene ad essere scrollato,
o smembrato, o modificato, importa al genere umano di rassodarlo e di
restaurarlo, stantechè nulla è più giusto che il mantenere e il
rifare una cosa il cui dissolvimento tragge la ruina della società
universale, e spezza il vincolo civile della carità (97)».
Questo
guazzabuglio, non molto intelligibile, significa the, il tipo della
perfezione sociale è una monarchia universale; che questa monarchia:
è l'impero romano; che quest'impero esiste sempre: che se è stato
manomesso o modificato, è obbligo dell'umana stirpe di fare sparire
ogni guasto, e di ristabilirlo nello stato primitivo; che tutte le
nazionalità debbono dileguarsi e fondersi di nuovo in quest'impero
universale il cui capo è Cesare; che ivi è per ciascuna nazione in
particolare, e per l'umanità in generale la condizione necessaria
della libertà e della felicità.
Questo
sogno gigantesco non è svanito né con Dante che, il primo, nel seno
del cristianesimo, lo ha formulato; né con Gravina che lo ha
rinnovato al cospetto stesso del papato. Esso è divenuto l'anima
della rivoluzione francese. Quello che, essenzialmente la distingue
da tutte le rivoluzioni, quello che costituisce il carattere suo
proprio, si è la tendenza da essa costantemente manifestata di
divenir universale. Fin dal suo nascere, lo esprime facendo la
Dichiarazione dei diritti, non del Francese soltanto, ma
dell'uomo in generale; proclamando la libertà,
l'eguaglianza, la fraternità non di tutti i Francesi,
ma di tutti gli uomini e di tutti i popoli; dichiarandosi essa stessa
una, indivisibile, eterna; provocando coi suoi bandi ufficiali
la ribellione universale dei popoli; facendo costantemente una
guerra di propaganda, e dicendo venti volte l'ultima sua
parola per voce dei suoi oratori, Barrère, Camillo Desmonlins,
Robespierre e soprattutto Anacarsi Cloòtz, che non riconosce altra
realtà religiosa e sociale che il genere umano di cui si dice
oratore e pontefice.
Ed
oggi, proclamandosi unitaria ed umanitaria; chiedendo la soppressione
delle nazionalità; prendendo per grido di guerra la fraternità dei
popoli, la solidarietà del genere umano, che cosa fa il socialismo,
figlio della Rivoluzione e nipote del Risorgimento, se non proclamare
l'impero universale dell'uomo, e procurare con infaticabile ardore
l'effettuazione d'un sogno che, alla fine dei tempi, diverrà, per
provare i buoni e castigare i malvagi, una terribile realtà? Non
c'illudiamo: vi è nel socialismo alcuna cosa di più profondo della
sete dei godimenti volgari: vi è il desiderio e l''istinto della
sovranità assoluta dell'uomo, in un avvenire che Iddio conosce. E se
il socialismo, impossibile nel medio evo, si è innalzato ai nostri
giorni al grado di potenza di primo ordine; se tiene l'Europa in
trepidazione, ciò avviene perché l'Europa, ritornando al paganesimo
per tutte le vie, si è a poco a poco sottratta alla sovranità
assoluta della Redenzione. In questo fatto è la ragione
dell'esistenza del socialismo, il segreto della sua forza, ed il
mistero dell'avvenire.
Gravina,
che è debitore delle idee sue cesariane alla classica antichità ed
ai moderni suoi chiosatori (98), ci dà, come Dante, la monarchia
universale dei Romani, pel vero popolo di Dio, il cui impero è
eterno di sua natura, e nullo di pieno diritto ne è lo smembramento.
Di che consegue la nullità della donazione fatta alla santa Sede da
Costantino. Tale, come abbiamo veduto, è la conclusione dei giuristi
Cesariani. Nei primi albori del Risorgimento, Lorenzo Valla aveva
osato di comporvi contro una diceria latina nel cuore dell’Italia
(99). Cotale ardimento lo fece sbandeggiare da Roma; e Gravina, che
non osa esporsi al medesimo pericolo, si contenta di porre il
principio (100).
Questa
pretensione cesariana, come tutte le altre, si mantenne viva. Quando
spogliò la santa Sede, Napoleone non fece valere gli antichi diritti
di Carlomagno sul patrimonio di San Pietro? E non abbiamo veduto, or
ha soltanto pochi mesi, questa tesi medesima essere caldamente
sostenuta dalla stampa rivoluzionaria? Gravina, pel quale l’impero
romano sussiste ancora, atteso che esso è immortale come il genere
umano, ne parla di coerenza ai giovani Romani che l'ascoltano. Ei non
li chiama mai con altro nome che con quello di Quiriti. Per
lui essi sono i discendenti degli antichi signori del mondo, eredi
della loro sapienza e della loro gloria: ad essi intitola il suo
libro dell'Impero romano, e dice loro: «A voi, Quiriti,
vogliamo dedicato questo libro, i quali coll'armi e con le leggi
vostre avete così ben meritato del genere umano » (101).
Non
si dimentichi che con queste rimbombanti parole gli Arnaldi da
Brescia ed i Rienzi scompigliarono Roma nel medio evo; esaltando
questo stolto orgoglio, e ripetendo i nomi sonori di popolo romano,
di Repubblica e di Campidoglio, anche oggidì i mazziniani agitano la
tempesta rivoluzionaria che minaccia l'Italia.
Gravina,
continuando, dice ai suoi discepoli: «Ai Greci la gloria d’aver
inventato la filosofia; ai Romani la gloria d'aver con le loro leggi
dissipato la barbarie. Così ha voluto il Signore Iddio ottimo
massimo. La Provvidenza, in considerazione della felicità del genere
umano, concede loro una sì lunga serie di vittorie; imperocchè gli
avi vostri non facevano la guerra agli uomini, ma ai vizii; ed
impugnavano le armi per restituir l'uomo all'umanità. Sì, o
Quiriti, le vostre guerre, combattute sempre per la felicità
del genere umano, furono sempre giuste e sante; e perciò meritato
avete l'impero universale. Or io vi domando, Quiriti, queste leggi
benefiche le avete voi date agli altri per perderle voi stessi? O non
piuttosto per assicurare per loro mezzo l'eternità delta vostra
gloria, e stabilire presso tutti i popoli i fondamenti dell'antica
virtù del Lazio? Nello studio assiduo di cotali leggi troverete lo
scioglimento di tutte le questioni che interessano il genere umano, e
attingendo voi stessi alle fonti antiche, farete rivivere i costumi
romani. Ora, il diritto romano altra cosa non è che la perfezione
stessa della natura cui la filosofia trasse dal santuario delle
coscienze, e di cui i costumi dei vostri padri furono la
pratica pia e santa » (102).
È
impossibile il falsare meglio la storia e di avere più temeraria
fidanza sulla pubblica credulità. Immacolata la legge romana che
permette il divorzio ed il concubinato, che fa facoltà al creditore
di mettere in prigione il debitore insolvibile, di dargli per tutto
nutrimento una libbra di farina o di crusca al giorno, di mettergli
ai piedi ferri di quindici libbre, e finalmente di venderlo o di
tagliarlo a pezzi; che consacra l'esposizione e la vendita del
figlio; ed in certi casi ne ordina anche l’immediata uccisione
(103). Santi e pii erano i costumi d'un popolo conformi ad una tale
legislazione! Oh com'erano idonei a trarre il mondo dalla barbarie!
Ed oh come è manifesto che Iddio ha dato ai Romani l'impero del
mondo per ricompensarli d'aver dato i loro propri costumi alle vinte
nazioni!
Di
tal natura per altro sono le idee di cui il Risorgimento nutrisce la
gioventù letterata dell'Europa cristiana: e poi si stupisce del
disprezzo di questa gioventù pel Cristianesimo, del suo entusiasmo
por l'antichità pagana e delle rivoluzioni che manda ad effetto o
che, medita per far rivivere questo tipo della sociale perfezione!
Nessun
missionario mostrò maggior zelo per la propagazione del Vangelo, di
quello che Gravina per l'universale diffusione del diritto romano. Ma
a lui non basta che questa benefica luce illumini l'Italia e le
antiche nazioni dell'Europa occidentale: vuole che il sole di
giustizia e di civiltà si levi anche sulle immense regioni del
settentrione che formano il nascente impero di Russia. Per Gravina,
come per tutti i Liberi pensatori del secolo XVIII, Pietro I è un
eroe, un Alessandro, un Numa. Da Roma, il giurista cesariano
indirizza al principe scismatico una orazione ciceroniana con
esordio e perorazione; per persuaderlo ad adottare il diritto romano.
L'oratore lo paragona ad Atlante, fratello di Saturno, figlio di
Urano o di Rea, ad Osiride, a Cerere, ad Iside, a Bacco, a Marte, a
Giove, a Giunone, a Venere, a Minerva, a Diana, a Vulcano, ad
Apolline e principalmente, ad Ercole, e gli prova ch'esso ha fatto
assai più di tutti gli dei e semidei insieme.
Poscia,
con una prosopopea in tutta regola, volgendosi ad Ovidio e ad
Ifigenia, dice al primo: «O Nasone! se tu potessi rivivere, con
lacrime meno amare piangeresti il tuo esilio, vedendoti circondato
non più da Sciti inumani, ma in mezzo ad una turba d'Anacarsi
(104)». Ed alla seconda: «E tu, Ifigenia! non fuggiresti a passo
precipitoso dalla Tauride in oggi che invece d'essere offerta in
sacrificio, saresti riservata a condividere il trono d'un principe,
le cui virtù sono a gara celebrate dai poeti e dagli oratori (105)».
Pietro
ha il cuore più duro del suo nome se non è intenerito a tanta
eloquenza, e se non cede ai desideri dell'oratore. E questi desiderii
sono ch'ei faccia insegnare il diritto, romano ai Russi ed ai
Cosacchi.
«Gran
principe, gli dice Gravina, l'unica gloria che a te manca ed al tuo
impero, si è di chiamare nel tuo consiglio, per regolare i pubblici
e privati negozi dei tuoi Stati, i Soloni, i Numa, i Crassi, i Bruti,
i Papiniani, gli Scevola, i Giustiniani e tanti, altri, sia fra i
savi della Grecia, sia fra i re e gl'imperatori dei Romani, la cui
anima, parla ancora nelle nostre leggi ... Deh lo fa, e noi ti
preconizzeremo migliore di Traiano e più felice d'Augusto (106)».
Il
che vuol dire: Volete incivilire barbare nazioni? Non datevi più
pensiero di chiamare gl'interpreti del codice divino: contentatevi di
dar loro per legislatori e per modelli i Romani ed i Greci. I
Risorgenti riescono tutti a questo punto; credono che indietreggiare
sia progredire.
Chiamato
a Torino in sullo scorcio di sua vita per insegnarvi diritto, Gravina
non poté arrendersi all'invito del principe, e morì a Roma nel
1758.
____________________
CAPITOLO
XIX.
IL
CESARISMO IN PRATICA.
I
re si fanno papi. - Abbattimento della politica cristiana. - Ordine
di studiare da per tutto il diritto romano. - Esso supplanta il
diritto consuetudinario ed il diritto canonico. - Viene imposto alle
popolazioni. - Quello che né risulta. - Politica interna. - Politica
generale. - Politica riguardo alla Chiesa. - Richelieu e Mazarino.
***
Si
raccoglie quello che si è seminato. I principii del cesarismo, tanto
imprudentemente insegnati alla gioventù dell'Europa, non tardano a
manifestarsi nei fatti. Per convincersene basta dar un'occhiata
generale al cammino delle società dopo il Risorgimento. Sino a quel
tempo la Chiesa aveva, laboriosamente, è vero, ma vittoriosamente,
combattuto l'introduzione del Cesarismo nel seno dell'Europa. Nei
loro principii generali come nelle loro grandi applicazioni, il
diritto sociale ed il diritto civile erano rimasti cristiani. Al
soffio del Risorgimento, gli argini opposti al torrente cadono
rapidamente gli uni dopo gli altri. Da quel momento vedonsi tutti i
sovrani d'Europa, camminando sulle orme di alcuni dei loro
predecessori, aspirare a gara a rendersi. papi.
Alcuni,
come i re d'Inghilterra, di Svezia, di Danimarca, di Prussia ed una
turba, di principi germanici la rompono totalmente con Roma e pongono
sul proprio capo la tiara pontificale. In tutta l'estensione della
parola sono ritornati Cesari: Imperator et summus pontifex.
Gli
altri, pur conservandosi cattolici, come gl'imperatori d'Alemagna, i
re di Francia, di Spagna e di Portogallo, contendono costantemente di
emanciparsi dall’autorità pontificale e di appropriarsi la più
larga parte che possono della potestà spirituale. Essi pure, dunque,
in grado inferiore, sono ridivenuti Cesari: Imperator et summus
pontifex.
Questo
fatto capitale domina tutta la politica dei quattro ultimi secoli: ne
è l'anima e la face.
Ciascuna
pagina della storia rivela il predominio d'un elemento eterogeneo,
che altra cosa non è che il Cesarismo, che nelle nazioni moderne
produce per quanto lo può permettere la resistenza dell'elemento
cristiano, gli stessi risultamenti che produsse nel mondo anteriore
al Vangelo.
La
distinzione gerarchica delle due potestà; il primato sociale del
papato; l’unione di tutti i popoli cristiani sotto l'autorità del
padre comune; la pace fra loro; la guerra sempre pronta contro
l'islamismo, o la barbarie che ronza intorno all'ovile; la religione,
supremo, scopo delle società, e non istrumento di regno; la felicità
eterna dell'umanità e non i godimenti materiali del tempo, fine
ultimo di tutte le cose; tali sono le ampie basi e le alte vedute
della politica cristiana.
Ma
il Cesarismo moderno, come meglio può, abbatte tutto questo (107).
La sua gran leva è il diritto civile e sociale dell'antichità; e si
forma come una cospirazione generale per farlo prevalere.
Dimenticando i divieti dei sommi pontefici che ne avevano interdetto
l’insegnamento, principalmente nell'università di Parigi, divieti
che l'ordinanza di Blois del 1577 aveva ancora rispettato, Luigi XIV
col suo famoso editto del mese d'aprile 1679 ordina che il diritto
romano sarà insegnato da per tutto e specialmente nell'università
di Parigi. «D'or innanzi le lezioni pubbliche del diritto romano
saranno ristabilite nell'università di Parigi, congiuntamente con
quelle del diritto canonico, non ostante l'articolo 69 dell'ordinanza
di Blois, e di altre ordinanze, decreti e regolamenti a ciò contrari
(108)... Al prossimo incominciamento delle, scuole, il diritto
canonico e civile sarà insegnato in tutte le università del regno
(109)».
Vedete
il progresso! De Thou, Budeo, Fournel ci hanno detto che al secolo
XVI il diritto consuetudinario ed il diritto canonico reggevano
ancora il regno; oggi si dà loro un rivale nel diritto romano, e
questo rivale finirà ben presto col vincere i suoi due avversari e
mettersi in loro luogo. Questa malaugurata sostituzione incontrò
vive opposizioni nello spirito cristiano dei popoli, e specialmente
in Alemagna. Ecco quello che riferisce l'erudito dottor Jarcke:
«L'introduzione
successiva del diritto romano, dice egli, aveva alterato le
antiche relazioni patriarcali tra signore e vassallo.
«Quello
che posava sulla consuetudine particolare e puramente locale, la
presunzione e l'ignoranza dei giuristi romani pretesero di giudicarlo
applicandovi letteralmente un sistema di diritto creato mille anni
prima in un altro paese e per un altro popolo. Questi dottori non
intendevano né i diritti delle persone, né i diritti costitutivi
della proprietà esistenti presso i paesani tedeschi. Alle une
applicavano le forme della libertà e della schiavitù dei Romani;
agli altri, le teoriche romane dell’enfiteusi, della servitù, del
contratto di locazione. Il diritto straniero era sempre posto come
regola.
«Così
più d'una volta la teorica dei giuristi romani, trinciando alla
cieca nelle relazioni sociali dell'Alemagna, dichiara liberi paesani
evidentemente servi, ed inschiavisce ingiustamente altri, a motivo di
certi servizi e tributi che avevano tutt'altra significazione. Questo
duplice abbaglio irritò ed inasprì gli animi. In tutti diffondevasi
quel penoso sentimento dell'incertezza del diritto, madre feconda
delle grandi rivoluzioni... Da ciò quell'articolo speciale del
trattato di Tubinga che esclude dai tribunali i dottori in diritto
romano, e guarentisce le antiche consuetudini del paese (110)».
Il
Cesarismo per altro non si tenne per sconfitto.
Non
ostante il trattato di Tubinga, il diritto romano continuo il suo
viaggio invasore; e quel forzato retrocedere all'antichità fu la
principale cagione della guerra dei paesani che mise a fuoco ed a
sangue tutto il mezzodì dell'Alemagna.
Intanto
che nell'ordine civile il diritto cesariano costringendo come in
ceppi le nazioni cristiane, irrita ed impaccia tutte le relazioni
sociali, annienta a poco a poco le antiche franchigie, soffoca le
tradizioni nazionali, e foggia le anime al dispotismo: nell'ordine
sociale tende al medesimo scopo, e muta tutte le antiche relazioni
dei re coi popoli; dei re coi re, e finalmente delle nazioni con la
Chiesa. Di che, per bene provarne l'influenza, risultano questi tre
grandi punti sotto cui devesi riguardarlo: la politica interna, la
politica esterna e la politica in riguardo alla santa Sede. Ora,
e possiamo dirlo anticipatamente, l’ultima parola di tutto questo
è, come nell'antichità, l'onnipotenza dell'autorità temporale,
ossia l'apoteosi dell'uomo.
Politica
interna. Eccetto alcune differenze in più o in meno, la politica
interna è stata la stessa in tutta l'Europa dopo il Risorgimento.
Conviene eccettuarne l'Inghilterra, la quale, secondo il detto
notevolissimo di Giovanni Russel, s'accorse a tempo che gli studi
pagani ne minacciavano la costituzione ed ebbe tanta mente di
restringerli in limiti tali che cessarono d’essere un pericolo
(111)».
Sotto
l'influenza delle regine della casa de' Medici e degli Italiani che
le accompagnarono, la Francia cammina con rapido passo nella via del
Cesarismo. «Dapprima, dice Gentillet, eravamo sempre governati alla
francese, cioè secondo le norme e gl'insegnamenti degli antichi; ma
dappoi fummo governati all'italiana, ed alla fiorentina, cioè
secondo gli insegnamenti del Fiorentino Machiavelli» (112).
Ora, uno dei punti fondamentali della politica di Machiavelli, che
non è, come abbiamo mostrato, che il Cesarismo antico, consiste
nell'innalzare l'autorità del principe sulle ruine di tutto ciò che
potrebbe fargli ostacolo o dargli ombra.
Due
ministri famosi, Richelieu e Mazarino, secondati dai giuristi,
diventano gli strumenti di questa politica d'assorbimento e
d'assolutismo. Sotto i loro sforzi pertinaci, spariscono le
costituzioni dello Stato, i privilegi della nobiltà, la maggior
parte delle franchigie provinciali: altrettanti poteri che
controbilanciarono il potere supremo, altrettante barriere al
dispotismo regio, che sino allora avevano reso impossibile il detto
che pronunciò poscia Luigi XIV: Lo Stato sono io.
Dopo
aver decimato la nobiltà con la guerra e col patibolo, Richelieu fa
due cose per assoggettarla al giogo del re: ei l'incatena con
una moltitudine di provvisioni vessatorie, fra cui la famosa
ordinanza del mese di gennaio 1629, e la corrompe chiamandola
alla corte. Quest'ordinanza interdice alla nobiltà ogni specie
d'assemblea, non le permette di avere che un piccolo numero d'armi
nei suoi castelli, e vuole che non possa sperare verun soccorso di
fuori. Perciò dichiara sospetta qualunque comunicazione con gli
ambasciadori dei principi stranieri, proibisce di vederli, di
ricevere veruna lettera da loro, interdice a chiunque di uscire dal
regno senza osservare certe formalità che fanno sapere ai Francesi
che sono prigionieri nella loro patria (113).
«In
seguito alle regine date alla Francia dalla casa de' Medici, dice
Federico di Prussia, venne il cardinale Richelieu, la cui politica
non aveva per scopo che di abbassare i grandi per innalzare la
potenza del re, e per farla servire di base a tutte le parti dello
Stato. Ed egli vi riuscì così bene che oggidì non rimane più
orma in Francia della potenza dei signori e dei nobili, e di quel
potere di cui i re pretendevano che i grandi abusassero.
«Il
cardinal Mazarino camminò sulle tracce di Richelieu. Trovò
molta opposizione, ma vi riuscì. La stessa politica che condusse i
ministri a stabilire un dispotismo assoluto in Francia, insegnò loro
la destrezza di sollazzare la leggerezza e l'incostanza della nazione
per renderla meno pericolosa (114)».
Non
solamente sollazzarono la nazione distraendola dai suoi domestici
negozi per foggiarla alla docilità monarchica, ma l’avvilirono.
«Occupando gli uomini di ciò che le arti, le scienze, le lettere ed
il commercio hanno di più a attraente, introdussero il lusso, il cui
contagio fece conoscere nuovi bisogni, che ruinavano i grandi.
Costretti a mendicare fuori per sfoggiare un vano fasto, si
preparavano alla schiavitù. Il contagio fu recato in tutti gli
ordini dello Stato, e uomini oscuri arricchirono scandalosamente a
danno del popolo. Furono invidiati, e l'amore della pecunia non
lasciò sussistere negli animi verun elevato sentimento (115)».
Il
Risorgimento venne ad aiutarli in modo meraviglioso: Esso aveva
creato il teatro, i balli, le feste Olimpiche che il Padre delle
lettere Francesco I, aveva introdotto in Francia. «Dopo il suo
regno, dice Sully, non si vedeva e non si udiva parlare che d'amore,
di danze, di balli, di corse d'anello e di altre galanterie, nel
paese dove risiedevano le quattro corti di Caterina, di Margherita,
di Monsieur e del re di Navarra (116)».
Richelieu
e Mazarino le incoraggiarono a tutto potere. Fra mine fatti
conosciuti da tutti, ci contenteremo di riferirne uno solo che lo è
un po' meno degli altri.
Nel
1595 nacque a Parigi il poeta Desmarets. Questo giovane piacque al
cardinale di Richelieu che lo rivolse alla poesia drammatica per la
quale egli non aveva veruna inclinazione. Un primo ministro del re è
cristianissimo, un cardinale che spinge un giovane a scrivere pel
teatro, quest'è anzi tutto uno strano mistero, ma questo mistero
viene spiegato, ovesi rammenti che Richelieu è un politico del
Risorgimento, e pel quale, a detta del suo confidente intimo abate di
Bois-Robert, Tacito era il breviario di Stato. Ora, pei
politici di questa scuola, il fine santifica i mezzi; e volendo
Richelieu, mediante l'indebolimento della nobiltà fare del re di
Francia un re assoluto, una specie di Cesare, come coloro la cui
storia assiduamente studiava, conveniva tirare la nobiltà alla
corte. Né ciò bastava ancora: conveniva divertirla con splendide
feste, farle amare la propria servitù e farle spendere il suo
danaro. Tale è la ragione machiavellica del zelo, altrimenti
inesplicabile del famoso cardinale pel teatro e per le feste
drammatiche.
Ascoltiamo
a questo proposito Pélisson, nella sua Storia dell’Accademia
francese. Dopo aver detto che, quando il cardinale conosceva un
bello spirito che non si determinava da sé medesimo a
scrivere pel teatro, ve lo induceva con ogni maniera di premure e di
cause, aggiunge: «Vedendo che il signor Desmarets ne era
alienissimo, lo pregò d'inventare almeno un soggetto di commedia che
voleva dare, diceva egli, ad alcun'altro da mettere in versi. Il
signor Desmarets, gliene portò quattro, poco appresso. Quello di
Aspasia piacque infinitamente al cardinale; ma dopo averglielo
grandemente lodato, aggiunse: che quegli soltanto che era stato
capace d'inventarlo, sarebbe capace di trattar degnamente quel
soggetto, ed obbligò il signor Desmarets ad intraprenderne la
trattazione, per quanto egli dicesse in contrario. Finalmente avendo
fatto rappresentare con grande pompa questa commedia alla presenza
del duca di Parma, pregò il signor Desmarets di fargliene tutti gli
anni una simile; e quando questi pensava di scusarsene, il
cardinale lo scongiurava di occuparsi per amor suo di composizioni
teatrali (117)».
Desmarets
si lasciò vincere e passò la maggior parte della propria vita a
comporre tragedie e commedie greche e romane, che
contribuirono assai meno a ricreare piacevolmente il cardinale dalle
fatiche dei suoi grandi affari che a snervare la nobiltà ed a
rendere popolare lo spirito dell'antichità. Diede successivamente
Scipione, Rossane, Europa, Mirame che fu l'opera di Richelieu,
e la cui rappresentazione costò al cardinale quasi novecentomila
franchi.
Quello
che Richelieu aveva fatto contro la nobiltà, vien continuato
da Mazarino: violenze nella guerra della Fronda, carezze alla corte,
estinguimento dello spirito provinciale ed oppressione in ogni dove.
Ai balli e alle commedie, questo nuovo ministro aggiunge i giuochi
sedentari. «Verso il 1548, dice l'abate di Saint-Pierre, si cominciò
a giuocare alle carte alla corte. Il cardinale Mazarino era scaltro
giocatore, e giuocava a grosse poste. Incitò il re e la regina
reggente a giuocare, e ciascuno a gara, per farsi cortigiano, imparò
a giuocare. Tosto si diede la preferenza ai giuochi di puro
azzardo; vi si perdevano le notti facendo grosse perdite, ed il
giuoco divenne una passione ruinosa tanto pei patrimoni come per la
salute. I giuochi di carte poi dalla corte passarono alla città e
dalla città capitale in tutte le provincie.
«Prima
di questo si conversava, questi imparavano da quelli; si leggeva,
e la lettura dei nuovi libri e degli antichi somministrava materia al
conversare. La memoria e l'intelletto erano assai più esercitati.
Gli uomini incominciarono a poco a poco a lasciare i giuochi di
ginnastica, come la palla, il pallamaglio, ll bigliardo; e ne sono
diventati più deboli e più malsani, più ignoranti, meno gentili,
più svagati. Le donne, che ano allora si erano fatte rispettare,
avvezzarono gli uomini con cui giuocavano tutta la notte, a non aver
per esse alcun rispetto (118)».
Tirata
alla corte dalle altrattive delle feste, ritenutavi dal desiderio del
favori, la nobiltà contrasse abitudini, di lusso e di mollezza che
ne compirono la ruina morale ed economica. «Al principio del secolo
XVII, continua a dire l'abate di Saint Pierre, s’inventarono le
carrozze, e ve ne aveva appena cento in Parigi, a solo uso
delle grandi dame. Gli uomini non si servivano che di cavalli da
sella. Le carrozze coi vetri alla portiera furono inventate or ha
ottant'anni, ecc. Queste carrozze hanno servito ad aumentare il
lusso e la mollezza, e queste nuove comodità hanno contribuito a
diminuire la forza e la salute, diminuendo l'esercizio del corpo
(119)».
Il
giovane re dovette soggiacere all’influenza generale. «Luigi XIV,
continua l'autore, la cui educazione dipendeva dal cardinale, aveva
21 anni che non pensava ancora che a balli (120), a mascberate, a
torneamenti, a caccie, a giuocare alle carte e ai dadi. e
principalmente agli intrighi amorosi. La maggiore delle nipoti del
cardinale Mazarino fu la prima sua passione: non avrebbe desiderato
di meglio che di sposarla (121) .... Sono assai bene informato di
quel che dico. Ho passato più di 50 anni alla corte o nella città
capitale: ho conosciuto personalmente la maggior parte dei principi,
dei ministri, dei generali, e coloro che furono i principali
personaggi del mio tempo: sono stato testimonio ed ho parlato coi
testimoni (122)».
Al
lusso degli equipaggi, delle feste e del giuoco, si aggiunge il lusso
della tavola e delle vesti a tal segno che il re Luigi XIII è
obbligato di far leggi suntuarie per reprimerlo.
Un'ultima
causa finisce di ammollire gli animi corrompendoli, ed è il culto
delle arti pagane, di cui Richelieu e Mazarino si fanno ardenti
propagatori. Il secolo XVII non edificò cattedrali, come i secoli
barbari di Carlomagno e di San Luigi: il lusso ha cangiato
oggetto: ma edifica Versaglia, compie il Lovero; adorna Anet,
Compiègne, Fontainebleau, San Germano. Percorrete tutti questi
palazzi: vi vedrete profuse, con l’oro e col marmo, tutte le nudità
pagane, tutte le scene più lascive della mitologia e della storia
dei Greci e dei Romani. Dopo averle ammirate, la nobiltà si reca a
gloria di riprodurle nei suoi palazzi e nei suoi castelli. Per una
cecità, che non ha esempio, mentre tutto congiura ad invilire gli
animi per distendere di là da tutti i confini l'autorità del re, si
dà alla gioventù un'educazione repubblicana! Dal conflitto di
questi due elementi contrari uscirà un dì la terribile catastrofe
che chiamasi rivoluzione francese.
_____________________
CAPITOLO
XX.
IL
CESARISMO IN PRATICA (Continuazione e fine).
Parole
di Savaron e di Bossuet. - Applicazione del Cesarismo alla proprietà.
- Parole di Luigi XIV. - Politica esterna. - Materialismo del
diritto. - Alleanze adultere. -Iniquità. - Politica riguardo alla
Chiesa. - Far senza la Chiesa, disprezzarne la voce. - Usurparne i
diritti. Decreti dei parlamenti. - Sviluppo completo del
Cesarismo nei paesi protestanti; manifestazione in Francia e nei
paesi cattolici.
***
Sulle
rovine della nobiltà, delle costituzioni dello Stato, delle
tradizioni nazionali e delle libertà pubbliche, s'innalza
rapidamente l'assolutismo del re. I giuristi Cesariani gli dicono,
come i loro predecessori dicevano al divo Augusto: «Il Re dei re, il
Sovrano dei sovrani … vi ha costituito come un dio corporeo
per essere rispettato, servito ed obbedito da tutti i vostri sudditi,
e dato ogni potere ed ogni suprema autorità, e liberato da
qualunque dominazione fuor della sua ... Iddio vi ha delegato
solo con ogni potere al governo e reggimento della vostra monarchia
(123)».
Nella
Politica sacra, destinata all'istruzione del regio suo alunno,
Bossuet sostiene le seguenti proposizioni:
«1°
Il principe non deve render conto a nessuno di ciò che ordina.
«2°
Quando il principe ha giudicato, non vi ha altro giudizio.
«3°
L'autorità regia debba essere invincibile. Se nello Stato vi ha
qualche autorità capace di arrestare il corso della potestà
pubblica, e d'imbarazzarla nel suo esercizio, niuno non è più
in sicuro. Il mezzo ai rassodare il principe, è di stabilirne
l'autorità, e ch'egli vegga che tutto è in lui. Ecco come
Iddio insedia i principi.
4°.
Per stabilire solidamente il riposo pubblico e per rassodare uno
Stato, abbiamo veduto che il principe ha dovuto ricevere una potestà
indipendente da ogni altra potestà che sia sulla terra» (124)
La
stessa dottrina discende da tutte le cattedre di diritto: essa
risuona nei parlamenti e nelle università. È dunque da stupire
delle lezioni e degli atti di assolutismo che la storia rimprovera
tanto giustamente a Luigi XIV: per esempio, che abbia scritto nelle
sue istruzioni al proprio nipote: «Scegliete per ministri i primi
che vi capitano: tutto si dee fare da voi solo e per voi solo
...? Quegli che ha dato re agli uomini ha voluto fossero rispettati
come suoi luogotenenti, riserbando a sé solo di esaminare la loro
condotta. È suo volere che chiunque è nato suddito obbedisca
senza discernimento ... Il difetto essenziale della monarchia
d'Inghilterra è che il principe non vi può far leve straordinarie
senza il parlamento, né tenere il parlamento convocato senza
diminuirne d'altrettanto la propria autorità ... Mi sembra che mi
si tolga la mia gloria, quando senza di me se ne può avere ....
Il primo fondamentodelle riforme era di rendere la mia volontà
assoluta (125)».
È
egli da stupire che, mettendo sotto i piedi tutte le convenienze,
tutte le libertà, tutte le tradizioni, sia egli entrato una volta in
parlamento con in mano il suo scudiscio da caccia; che abbia vietato
un'altra volta di fabbricare in Parigi o nel circondario sino alla
distanza di due leghe, e ciò sotto pena della galera, per avere a
miglior mercato i materiali necessari a compiere il Lovero (126); e
un’altra volta ancora che abbia voluto, a spregio di tutte le leggi
dello Stato, dare ai figli avuti da madama di Montespan il diritto di
succedere alla corona? (127)
Facendo
l'applicazione di questi principi alla proprietà, i giuristi dicono
recisamente: «Il re è il signore universale delle terre che sono
nel suo regno; perché esse non sono che concessioni fatte dai suoi
predecessori, a meno che non sia dimostrato il contrario (128)».
La
medesima dottrina trovasi riprodotta ben venti volte, specialmente
negli editti del 1629 e del 1692. Laonde Luigi XIV scrive al Delfino:
«Tutto quello che si trova nei nostri Stati, di qualunque natura
esso sia, ci appartiene per lo stesso titolo, e debba esserci
ugualmente caro. I denari che sono nella nostra cassetta, quelli che
stanno nelle mani dei nostri tesorieri, e quelli che lasciamo nel
commercio dei nostri popoli debbono essere egualmente da noi
economizzati.... Dovete dunque essere persuaso che i re sono signori
assoluti ed hanno naturalmente la libera e piena disposizione di
tutti i beni che sono posseduti tanto dagli ecclesiastici che dai
laici, per usarne in ogni tempo come savi economi (129) ».
Così
pensano ed operano, dopo il Risorgimento, la maggior parte dei re
dell'Europa, e fra gli altri Giuseppe II, imperatore d'Alemagna, cui
Federico re di Prussia chiamava mio cugino il sagristano,
perché in virtù dell'assolutismo cesariano, passò la sua vita, a
spogliare le chiese ed i monasteri.
«Di
tal guisa il sovrano intendeva l'alto dominio, dice a questo
proposito il dottore Audisio, che per poco non comprendeva la piena
proprietà di tutto. Pertanto nei moderni imperi aveva acquistato
vigore la servile giurisprudenza dei Greci Orientali ed in certa
guisa anche quella degli antichi romani (130)».
Quello
che vi ha di certo si è, che quando nel 1789 la rivoluzione
effettuerà la spoliazione del clero, della nobiltà e della corona
stessa, non farà che applicare a profitto della borghesia le
dottrine cesariane proclamate in favore del monarcato.
Politica
esterna. Ingrandire il re in casa, assorbendo a suo profitto
tulle le libertà, tutti i diritti, tutte le forze del suo regno, non
è che il principio del Cesarismo:, è d'uopo per condurre a
perfezionamento il tipo augustale ingrandire il re sopra tutti
i monarchi vicini. Tale sarà in ciascuna corte dell'Europa la
politica seguita dopo il Risorgimento. In nessun luogo essa si
manifesta sfolgorantemente che nella nostra patria. Il fine, secondo
Machiavelli, gran professore del Cesarismo, santifica i mezzi: e per
raggiungere il proprio scopo, la politica dell'assolutismo regio non
s'arretra a veruna bassezza, a verun tradimento, a veruna di quelle
alleanze adultere che il medio evo non avrebbe mai credute possibili,
o che avrebbe riguardato come uno scandalo ed una calamità pubblica.
Così,
per opprimere principi cristiani, Francesco I non arrossisce di
stringere alleanza con gli eterni nemici della cristianità, i
barbari settari di Maometto; così Arrigo IV, ritornato alla fede e
seduto sul trono di Francia, invece compiere, come aspettavano i
cattolici, la grande impresa, di San Luigi e di Carlomagno, il
trionfo del cattolicismo sull'islamismo e sulla eresia, negozia da
una parte coi Mori di Spagna per squassare la monarchia cattolica di
là dai Pirenei, e dall'altra coi protestanti di Alemagna per offrir
loro la secolarizzazione di tutti i principati ecclesiastici ed
ottenerne la cessione della sinistra riva del Reno, intanto che i
Turchi occuperanno l'Austria, e la Svezia opprimerebbe la cattolica
Polonia (131).
Sotto
Luigi XIII, l'Europa scandalizzata vede un principe della Chiesa, un
cardinal Richelieu, ponendo l'interesse del suo signore sopra ogni
cosa, folgorare il protestantesimo alla Rocella, e nel tempo stesso
prendere ai suoi stipendii il re protestante Gustavo Adolfo, e
tirarlo con le barbare sue bande nelle province più cattoliche, per
abbassare la Casa d'Austria, capace appena di difendersi da sé
stessa. Vedova dei suoi antichi monumenti, la Franca Contea porta
ancora scritte in fronte le tracce di questa politica pagana e lega
ai suoi figli il nome degli Svedesi per sinonimo d'incendiari e di
assassini.
Tuttavia
il Cesarismo non è che all'esordio. La politica che seguono riguardo
alla Germania, collegandosi coi protestanti contro i cattolici
mediante una guerra barbara di trent'anni, Luigi XIII e Richelieu,
Luigi XIV e Mazarino, la seguono riguardo all'Inghilterra, dove
fomentano rivoluzioni, contribuiscono al regicidio di Carlo I e
preparano l'espulsione della sua dinastia, e tutto questo per
innalzare la Casa di Francia sopra tutte le Case sovrane, e per
accaparrare la dignità imperiale per Luigi XIII e per Luigi XIV
(132).
«Qual
cristiano, aggiunge il signor di Montalelmbert, potrebbe perdonare a
Luigi XIV, non ostante il giusto fulgore di sua gloria, le colpevoli
sue simpatie per gli Ottomani, in acconcio di afferrare in Vienna la
chiave dell'Occidente sbigottito; la sua ostilità contro Sobieski,
che doveva spezzar per sempre la prepotenza della mezza luna; i suoi
sforzi per arrestare nel suo cammino ed abbassare nella sua gloria il
liberatore dell'Europa, il Carlo Martello del secolo XVII? (133)».
Quasi
volesse riepilogare in una sola parola tutto questo odioso Cesarismo,
Duverny, ministro di Luigi XIV, diceva ai ministri di Sobieski: «Non
conosco sopra di me che il mio padrone, Giove, e la sua spada; e il
mio padrone anche prima, di Giove» (134). Era difficile,
soggiunge con ragione il conte di Montalembert, l'essere più pagano
e nella sostanza e nella forma.
Qual
cristiano, aggiungeremo noi, potrà mai perdonare alle potenze
cattoliche d'avere col trattato di Vestfalia, nel 1648, abiurato
solennemente l'antica politica dell’Europa cristiana, e dato alla
Chiesa cattolica il più vergognoso schiaffo che abbia mai ricevuto,
sostituendo il diritto naturale al diritto cristiano, introducendo il
principio laico della secolarizzazione universale nella politica
europea e concedendo all'eresia gli stessi diritti che alla medesima
verità? (135)
Questa
politica pagana di Machiavelli, Luigi XIV non si contenta di
praticarla, ma l'insegna a suo figlio.
«Col
dispensarsi ugualmente d'osservare i trattati nel loro rigore, dice
egli al Delfino, non vi si contravviene punto, perché non si sono
prese letteralmente le parole dei trattati, sebbene non si possa
impiegar che quelle, come si fa nella società per quelle dei
complimenti, assolutamente necessari per vivere insieme, e che hanno
solo un significato ben minore di quello che non suonino le parole
... Quanto più straordinarie erano le clausole con cui gli Spagnuoli
mi vietavano di assistere il Portogallo, quanto più ripetute e piene
di cautele, tanto più esse indicavano, che non erasi creduto ch'io
dovessi astenermene (136)». In virtù di questi principi vedesi
Luigi XIV, dopo il supplizio di Carlo I, trattare nel tempo stesso
coi regicidi, e col re; e in ciò egli si propone per modello al
delfino: «Io blandii le reliquie della fazione di Cromwell, per
suscitare col loro credito qualche nuova turbolenza in Londra»
(137).
Questa
politica peraltro non è particolare ai re di Francia: lo spirito del
Risorgimento la spira dovunque.
Carlo
V, istruendo il proprio figlio, gli dice: «Impiegate tutta la vostra
scaltrezza per obbligare i Francesi a lasciare le armi ed a stare in
riposo, perché durante la pace vi sarà facile il suscitar
turbolenze in quel reame, e se trovate l'occasione di avvantaggiarvi
di queste intestine discordie, non la lasciate sfuggire (138)».
Politica
riguardo alla Chiesa. Coll'abbassare in casa e di fuori qualunque
potestà emula della propria, i re hanno attuato, per quanto hanno
potuto, la prima parola della divisa cesariana; sono divenuti
imperatori, imperator; per verificare la seconda, rimane ad
essi il farsi papi, summus pontifex. A questo tende la loro
politica riguardo alla Chiesa. Essa consiste interamente in dire:
«Per lunghissimo tempo tu hai regolato il cammino delle nazioni,
prevenute o composte le loro dissensioni, esercitato il supremo tuo
sindacato sopra i monarchi: ormai ei sono tanto saggi e tanto forti
da poter passarsi di te: rinchiuditi adunque nel tuo dominio
spirituale: ché il regno tuo sociale è finito. Nella lunga durata
del tuo impero hai usurpato i diritti dei principi, invaso le
proprietà dei loro sudditi, oppresso la loro libertà; il tempo è
venuto in cui principi e popoli ripigliando la loro eredità
spirituale e temporale, ti canteranno in ogni metro:
«Togliti
di qua che mi vi metta io».
Tale
è l'andamento costante del Cesarismo dopo il suo ritorno fra le
nazioni moderne:
«Fin
dai primi anni del Risorgimento delle lettere, dice il signor Matter,
vedesi una specie di decadimento nelle disposizioni morali
dell'Europa. Invano per ogni dove risuonano le chiamate di Pio II e
di Nicolò V contro i Turchi, la cui invasione nelle isole,
nell'Italia, nelle province del Danubio incuteva tanto sbigottimento
per l'antico impero della religione: niun popolo più non si riscuote
a quella voce già sì forte, al nome di quel sistema già sì
potente. La triplice conseguenza degli studi greci e dell'impulso
dato all'Europa dai due più chiari alunni dei profughi, Pomponio e
Machiavelli, fu l'ateismo religioso, l’ateismo morale e l'ateismo
politico, che è quanto il dissolvimento stesso del vincolo sociale
(139)».
La
spada non è più obbediente allo spirito: i secoli delle crociate
sono passati per non ritornare mai più; la politica ha perduto il
nobile suo carattere d'unità e di devozione; ciascun capitano
credesi indipendente sulla sua nave; e sconosce la voce
dell'ammiraglio. Invano Paolo III e San Pio V scongiuravano i re
dell'Europa a salvar la fede in Inghilterra, ponendo fine ai
saturnali d'Arrigo VIII, alle carneficine d'Elisabetta, alle torture
dell’Irlanda: invano per voce del suo inviato la Santa Sede
protesta contro il sanguinoso smembramento della nobile è cattolica
Polonia: il Cesarismo lascia che i carnefici sgozzino le loro vittime
e si dividano fra loro le membra mutilate.
I
giuristi ed i cortigiani rappresentano ai re che cotali importanti
consigli sono altrettante invasioni della Corte di Roma, e persuadono
loro di non più permettere al padre comune, cui essi chiamano un
sovrano straniero, di far udire la propria voce nel loro regno
che col loro beneplacito. Allora inventasi la formola ingiuriosa che
d'or innanzi servirà di passaporto agli insegnamenti del Vicario di
Gesù Cristo: «Visto (140) che nella della Bolla non vi ha nulla di
contrario alla libertà della Chiesa gallicana e ai diritti della
nostra corona, vogliamo che la detta Bolla sia ricevuta in tutto il
nostro regno (141)».
Dopo
di aver interdetto alla Chiesa d'immischiarsi nei loro affari, i re
invadono l'ordine spirituale, e s'impossessano del pastorale, della
mitra ed anche della tiara dei pontefici. In ciò parimente, per
sostenere le loro pretensioni, trovano i giuristi pagani. Nel 1650
apparvero le Rimostranze fatte al re intorno alla potestà ed
all'autorità che Sua Maestà ha sopra il temporale dello Stato
ecclesiastico. L'autore sostiene apertamente che la Chiesa è
nello Stato, subordinata allo Stato, che il suo patrimonio è
patrimonio del principe; che può e che debba essere venduto per
sovvenire alle necessità dello Stato, ed altre massime nelle quali
traluce il più pretto Cesarismo (142).
«Per
conseguenza, dice l'autore della Monarchia di Luigi XIV,
quantunque i beni della Chiesa conservassero in apparenza una
destinazione religiosa, furono realmente il patrimonio della nobiltà
e il prezzo dei servigi militari. Dapprima uomini d’armi ne
possedettero una parte considerevole. Luigi XIV continuò egli
stesso, fino al 1687 a conferire a gentiluomini laici benefici
semplici e pensioni sui vescovadi e sulle abazie, e gli sarebbe anche
riuscito, senza il perseverante rifiuto del papa, di riunire le
grandi dotazioni ecclesiastiche alle commende dell'ordine militare di
San Luigi» (143).
Ad
esempio di Luigi XIV, vediamo, dopo il Risorgimento, la maggior parte
dei re cattolici dell'Europa, da una parte contendere alla Santa Sede
il diritto d'annate; e dall'altra arrogarsi il diritto di regalia:
duplice saggio di spogliazione che la Rivoluzione francese
s'incaricherà poi di perfezionare. Non meno gravi sono poi le
usurpazioni fatte alla spirituale autorità della Chiesa. Leggete le
ordinanze e le rimostranze dei parlamenti, le tesi dei giuristi regi
ed anche gli scritti d'un grandissimo numero di teologi e di
canonisti: non vi si parla che delle invasioni della corte di Roma,
della necessità di porre un argine a questo torrente viepiù
minaccioso all'indipendenza dei re ed alla libertà dei popoli; chi
li ascolta direbbe che il pericolo della società muove da Roma.
L'abate
di Saint-Pierre, uno dei più moderati, scrive con tutta serietà:
«Finché
i vescovi ed i dottori della nazione non crederanno il papa
infallibile, non potrà assoggettarci mal nostro grado alle sue
decisioni: avremo sempre la libertà di esaminarle, di lasciar senza
eseguimento le sue costituzioni, e la via dell'appello al futuro
concilio; ma il miglior metodo è di lasciate senza
eseguimento quelle di cui non siamo contenti. Abbiamo per
nostro baluardo le antiche libertà della Chiesa di Francia, e le
quattro proposizioni del clero del 1682; difese da tutti i parlamenti
del regno» (144).
Difatti,
si fa senza la Santa Sede quanto si può senza cadere nello scisma.
Il re ha due grandi vicari perpetui: il cancelliere di Francia che
approva i libri (145) e ne permette la stampa: il parlamento che
successivamente promulga il diritto di regalia sopra tutte le Chiese
del regno, proibisce di pagare le annate, abolisce le immunità
ecclesiastiche, censura i predicatori, vieta di prendere il breviario
romano, mutila questo breviario, stralciandone gli uffizi che non gli
piacciono, interdice di pubblicare le indulgenze, regola il vestire
ecclesiastico, determina i diritti dei dignitari, ordina ai religiosi
di chiudere le porte dei loro conventi ad ogni novizio che non sia
suddito di Sua Maestà, comanda ai preti di amministrare i
sacramenti, e fa morire i giansenisti nel seno della Chiesa per la
grazia delle baionette (146).
Converrebbe
copiare da cima a fondo le luminose collezioni delle ordinanze dei
parlamenti, le memorie del clero di Francia, le enormi compilazioni
di Pithou, di Dumoulin e di altri legisti Cesariani, se si volesse
fare conoscere nei suoi particolari quest'incredibile periodo della
storia del Cesarismo moderno in Francia e negli altri paesi rimasti
cattolici.
Nelle
regioni protestantiche, cioè in una metà dell'Europa, il Cesarismo
si è mutato nella completa emancipazione dall'autorità della Chiesa
e nell'onnipotenza assoluta della potestà temporale: in Francia si è
ampliato nella costituzione civile del clero, nella spogliazione
completa dei suoi beni, nella sua oppressione, nel suo assoluto
decadimento come corpo sociale, e finalmente nell'esaltazione
dell'uomo, scritta nelle costituzioni e nelle leggi rivoluzionarie.
Ivi, Iddio non è neppur nominato: i delitti contro di lui, la
bestemmia, l'eresia, il sacrilegio non sono obbietto di veruna
repressione, dovechè le più lievi parole ingiuriose all'uomo, i più
lievi delitti contro il suo onore o la sua proprietà vi sono
accuratamente previsti e puniti con un rigore di logica spesso più
atroce della stessa penalità. La maestà di Cesare rifulge da
tutte parti, e rifulge sola: la maestà divina è completamente
cancellata: è il contrapposto d'una legislazione cristiana.
_____________________
CAPITOLO
XXI.
CONSACRAZIONE
DEL CESARISMO
Dichiarazione
del 1682.- Essa comprende quattro tradimenti. - Odiosa in sé stessa.
- Più odiosa in ragione dei tempi in cui fu fatta. - Affari di
Pamiers e d'Aleth. - I gesuiti di Parigi. - Il parlamento di Tolosa.
- Debolezza dei vescovi. - Loro lettera al papa. - Compilazione dei
quattro articoli. - Uso che fa Luigi XIV del diritto Cesariano di cui
viene investito. - Lagnanze di Fleury. - Doglianze di Bossuet. -
Conseguenze politiche della dichiarazione del 1682. - Opinioni di tre
teologi laici, del signor di Maistre, di Luigi Blanc, di Robespierre.
- Caratteri della politica dopo quel tempo. - Abusi preparatori della
rivoluzione. - Parole di Fénelon. - Perché la rivoluzione invece di
essere cristiana e salutare, è stata pagana e disastrosa.
-Conclusione.
***
La
storia ci ha mostrato i re d'Europa, dopo il Risorgimento, contendere
con ogni mezzo di far rivivere a loro profitto il Cesarismo antico.
Il paganesimo politico cammina d'egual passo col paganesimo artistico
e letterario; e, specialmente per la Francia, si vagheggia il ritorno
del secolo d'Augusto, con lo stesso Augusto; né in ciò si vede
decadimento, né vergogna, né pericolo: anzi tutt'altro.
I
nostri annali ci presentano uno spettacolo ben più doloroso. Mercé
l'insegnamento classico e l'opinione da quest'insegnamento formata,
il clero di Francia si vergogna del medio evo politico come del medio
evo filosofico artistico e letterario; dimentica la nozione della
politica cristiana e sconosce la parte sociale della Chiesa e della
Santa Sede; va più innanzi; la nega e la combatte.
In
seguito di una moltitudine di discorsi, di libri, di aspirazioni
cesariane uscite dalla Sorbona e dall'Università, vien fuori nel
1682 la troppo famosa dichiarazione, la quale altra cosa non è che
la consacrazione ecclesiastica del Cesarismo pagano.
Questa
dichiarazione si compone dei quattro articoli seguenti:
Art.
1° Né i papi né la Chiesa hanno ricevuto da Gesù Cristo nessuna
potestà diretta o indiretta sul temporale dei re. Per conseguenza i
re, responsabili a Dio solo, non possono essere deposti né
direttamente, né indirettamente per l'autorità del capo della
Chiesa, ed i loro sudditi dispensati dalla sommessione e
dall'obbedienza che debbono ad essi o assoluti dal giuramento di
fedeltà.
«Art.
2° Il concilio generale è superiore al papa.
«Art.
3° La potestà del papa debba essere regolata dai canoni, e le
regole, le consuetudini e le costituzioni ricevute nel regno debbono
essere mantenute, ed i limiti posti dai nostri padri rimanere
inconcussi.
«Art.
4° I giudizi del papa non sono irrefragabili, a meno che non
intervenga il consentimento della Chiesa» (147).
Domandata
instantemente da Luigi XIV, dettata da Colbert, distesa dal vescovo
di Meaux, soscritta e promulgata da 34 arcivescovi e vescovi e da 34
deputati ecclesiastici, questa dichiarazione, fino allora senza
esempio nella storia delle nazioni cattoliche, fu, non ostante le
proteste e le minacce reiterate della Santa Sede, difesa altamente da
Bossuet, acclamata dall'Università, soscritta solennemente dai
maestri della gioventù.
Ora,
questa dichiarazione, o piuttosto il Cesarismo ecclesiastico di cui
essa è la formola, comprende quattro tradimenti: tradimento verso
la Chiesa, sulla cui fronte si getta oltraggio negandole il
diritto suo nel presente, ed accusandola d'usurpazione e di tirannia
pel passato: tradimento verso i re, di cui si squassa il trono
spingendoli al dispotismo: tradimento verso il popolo, che si
abbandona alla schiavitù, senz'altro ricorso che alla forza:
tradimento verso la società che si slancia nella via delle
rivoluzioni, rendendo il potere, qualunque egli sia, irresponsabile
ed inammissibile, e provocando così alla ribellione ed alla
sedizione.
Odioso
in sé medesimo, quest'atto è ancora più odioso, se è possibile,
in ragione dei tempi in cui fu consumato.
Oberato
per le sue guerre e pel suo lusso insensato, Luigi XIV aveva bisogno
di danaro. Per conseguenza nel mese di febbraio 1673 dichiara, con un
editto emanato di sua sola autorità il diritto di regalia
inalienabile ed imperscrittibile in tutti gli arcivescovadi e
vescovadi del regno (148). Due vescovi soltanto hanno il coraggio di
difendere i diritti della Santa Sede e la libertà delle loro chiese;
e sono i vescovi di Aleth e di Pamiers. Luigi XIV non fa verun conto
della loro opposizione, nomina ai benefici vacanti che dipendevano
dalla loro collazione, e s'impossessa delle rendite durante la
vacanza. I due vescovi scomunicano i provveduti per regalia, i quali
interpongono appello all'arcivescovo di Narbona e all'arcivescovo di
Tolosa, metropolitani di Aleth e di Pamiers.
I
metropolitani annullano le ordinanze dei due vescovi, i quali
interpongono appello al papa. Innocenzo XI annulla le ordinanze
fatte dagli arcivescovi di Narbona e di Tolosa, scrive parecchie
lettere al re, e finalmente, il 1° gennaio 1684, indirizza al
capitolo di Pamiers un Breve col quale colpisce di scomunica
maggiore, incorso per quel solo fatto, i grandi vicari di Pamiers
stabiliti dal metropolitano, quelli che li favoriscono ed il
metropolitano stesso; dichiara nulle ed invalide le confessioni udite
ed i matrimoni celebrati dai preti che non esercitavano il loro
ministero se non in virtù delle facoltà concesse da quei grandi
vicari.
Ora,
il punto difficile era di far pubblicare il Breve. Il papa,
facendo assegnamento sulla fedeltà dei gesuiti, fa chiamare il loro
generale e gli ingiunge di scrivere ai religiosi della sua compagnia
residenti in Francia di provvedere alla pubblicazione. La lettera del
generale ed il Breve del Santo Padre giungono ai gesuiti di Tolosa.
Gli agenti del re hanno sentore della cosa: il parlamento di Parigi
si aduna il 21 gennaio 1681. Il procuratore generale denunzia il
fatto come un attentato contro la sicurezza del regno, e richiede che
i gesuiti di Parigi vengano citati a comparire alla sbarra della
corte. Si presentano i PP. di Verthamont, superiore della casa
professa di quella città; Deschamps e Donzaine, rettori del collegio
e del noviziato, e Pallu, procuratore della provincia di Francia.
Recano con sé il Breve del Papa e la lettera del loro generale. Il
padre Verthamont dice che egli poteva guarentire la corte per tutti i
gesuiti del regno, che non mancherebbero giammai di fedeltà e di
zelo pel servigio del re.
Per
conseguenza, mastro, Dionigi Talon, avvocato del re, fa requisitoria
siano staggiti i brevi del papa, lettere e missive e siano deposti
sul banco del parlamento; ed i RR. PP. vi acconsentono. «Poscia,
pronunciata la sentenza, il presidente si è rivolto verso i gesuiti,
ed ha loro detto: Il parlamento mi ordina di dirvi che è
soddisfatto della vostra obbedienza. Essi hanno messo i documenti sul
banco, e poscia gli agenti del re ed essi si sono ritirati
(149)».
Quanto
più il clero secolare e regolare si mostra avido di servitù, tanto
più gli agenti del re si fanno arditi ad umiliarlo. Il parlamento di
Tolosa va più avanti di quello di Parigi: condanna a morte il gran
vicario legittimo di Pamiers, lo fa giustiziare in effigie e
trascinare sul graticcio.
«Non
si vedevano allora, continuano a dire i processi verbali del clero di
Francia, da un lato che scomuniche lanciate per sostenere, dicevasi,
la definizione d'un concilio generale; e dall'altra, che
proscrizioni, esili, imprigionamenti e condanne, anche a morte, per
sostenere i pretesi diritti della corona. Regnava la massima
confusione, specialmente nella diocesi di Pamiers. Tutto il capitolo
era disperso; più di ottanta parrochi imprigionati, esiliati o
costretti a tenersi nascosti (150)».
Durante
questo conflitto, che fanno gli altri vescovi per tutelare la libertà
nelle loro diocesi? Appellano non al papa, ma al parlamento, ai
magistrati laici che li condannano. Dopo questa sconfitta abbandonano
i diritti delle loro Chiese per trasferirli nel re; e in una lettera
del 3 febbraio 1682, indirizzata al papa Innocenzo XI, si vantano
essi stessi della loro propria condotta. (151)». Il sommo Pontefice
fu tanto afflitto di questa lettera e dei sentimenti di debolezza che
i vescovi vi palesavano che stette quasi tre mesi senza rispondervi.
Per consolarlo, i medesimi prelati stesero il 19 marzo seguente la
dichiarazione dei quattro articoli (152).
Per
far conoscere l’importanza politica di questo scisma vigliacco,
non citeremo né i dottori oltramontani, né le bolle dei sommi
pontefici. Sarà cosa più singolare l'udire teologi laici, come sono
il conte di Maistre, Luigi Blanc e Robespierre: Insubordinazione
rispetto alla santa Sede; servilità verso il potere temporale,
dispotismo verso gl'inferiori: ecco quello che è, a loro
giudizio il Cesarismo ecclesiastico.
«Le
famose libertà gallicane, dice il conte di Maistre, non sono che mi
accordo funesto soscritto dalla Chiesa di Francia, in virtù del
quale essa si sottomette a ricevere gli oltraggi del parlamento, con
piena libertà ad essa di renderli al sommo pontefice» (153).
Infatti
Luigi XIV non indugia a far uso del diritto cesariano, di cui il suo
clero lo ha investito. Da una parte fa iscrivere per forza la
Dichiarazione nei registri della Sorbona; dall'altra parte,
essendo il papa giustamente sdegnato e negando le bolle ai vescovi
nominati, il re appella il futuro concilio ecumenico, senza timore
della scomunica che colpisce tal sorta di appelli. Poscia manda il
suo atto d’appello al clero congregato il 30 settembre 1688. Il
clero ringrazia umilissimamente Sua Maestà dell'onore che
egli fa all'assemblea nel darle comunicazione dei suoi atti, e gli
offre gli applausi più rispettosi per la saggia condotta che
esso tiene (154). Fatto animoso da questa nuova debolezza il nuovo
Cesare, per passarsi delle bolle che il papa ricusa ai suoi vescovi
nominati, li fa nominare, in onta dei concili, amministratori
spirituali dai capitoli rispettivi; poscia proibisce ai vescovi di
non stampar nulla senza la permissione del suo cancelliere; di
allegare in loro favore l'autorità del concilio di Trento e di fare
il più piccolo moto senza esservi autorizzati da parte del re.
E
Fleury se ne doleva dicendo: «Si toglie ai vescovi il conoscimento
di ciò che loro importa di più, la scelta degli uffiziali degni di
servire la Chiesa sotto di essi e la fedele amministrazione della sua
rendita ... Se qualche straniero ... volesse fare un trattato delle
servitù della Chiesa gallicana, non gli verrebbe meno la materia …
e riderebbe assai dei nostri autori di palazzo che, con tutto
questo, fanno tanto rimbombare questo nome di libertà, e la fanno
consistere in queste stesse servitù (155)»
E
Bossuet, così altezzoso verso il papa, gettarsi alle ginocchia di
Madama Maintenon, e scrivere sospirando al Cardinale di Noailles: «È
tempo che Vostra Eminenza faccia gli ultimi sforzi per la difesa
della religione e dell’episcopato ... Allorché si è detto al
signor Cancelliere che era cosa strana l'assoggettare i vescovi a non
poter insegnare che dipendentemente dai preti, ed a sottoporsi ad un
esame intorno alla fede, ha risposto che conveniva stare attenti a
ciò che potevano scrivere contro lo Stato. Ma i vescovi sono
persone conosciute, e, per così dire, ben domiciliate; ed é una
strana oppressione il legar loro le mani in ciò che concerne la
fede, che è l'essenziale del loro ministero ed il fondamento della
Chiesa .. Imploro il soccorso di Madama di Maintenon, a cui non
oso di scriverle (156) ».
Lasciamo
pensare a qual termine sarebbe riuscito nell'ordine religioso, senza
l'intelligente e vigorosa opposizione della Santa Sede, un clero che
si era così avvilito per opera sua! Quello che l'Europa sa oggidì
si è che nell'ordine politico, mediante la sua dichiarazione aveva
consacrata l'era ancora aperta delle rivoluzioni. Intanto domandasi
donde veniva tanta debolezza e tanta cecità? Come mai gli ordini
religiosi più dotti, come mai il clero di Francia, d'altra parte
così distinto, erano venuti a tale di abbandonare a balia della
potestà temporale la potestà spirituale? Come mai non vedevano essi
più che negare il primato politico del papato era un togliere la
chiave della vòlta dell'edificio sociale, e rendere l'Europa simile
ad un paese deve non vi fosse corte suprema per giudicare in ultima
istanza?
Imperocchè
alla fine, negando la suprema direzione del papa, non si fonda il
regno eterno della pace. Rimane dunque tutta intera la questione
divenuta così formidabile ai nostri giorni: Allorché sorgono
dubbi sull'obbedienza dei sudditi verso il Sovrano temporale,
a chi spetta, in ultima istanza a decidere questo caso di coscienza?
Né
in Bossuet, né in Fleury, né in alcuno dei giuristi cesariani di
quel tempo si trova una parola di risposta; tanto la nozione della
politica cristiana si era cancellata dopo il Risorgimento! E si osa
di sostenere che lo studio ammirativo dell'antichità letteraria,
artistica e politica non presenta nessun pericolo, non lascia veruna
traccia!
Tuttavia,
essendo impossibile il supporre una potestà temporale non dipendente
che da sé medesima, e pur supponendola possibile, essendo essa
impraticabile presso i popoli cristiani dove non può più
esistere la schiavitù, dalla dichiarazione cesariana del 1682 sono
scaturite tre conseguenze. La prima: Al sindacato
dell'intelligenza è succeduto necessariamente il sindacato della
forza. Non vi ha che tre supremazie possibili; e checché si
faccia, si debba eleggere fra la supremazia dei papi, la supremazia
dei re o la supremazia del popolo. Voi rigettate la supremazia dei
papi che per mille anni preservò il mondo dalla tirannide e mai non
la consacrò: ebbene: avrete o la supremazia dei re che
nell'antichità appellasi successivamente Tiberio, Nerone, Caligola,
Eliogabalo, e nei tempi moderni, Arrigo VIII; Elisabetta, Ivano,
Nicolò; o la supremazia del popolo, che sarà la Convenzione, il
Terrore, il socialismo: invece delle decisioni del Vaticano come
ultima ragione del diritto, avrete la teologia dell'assolutismo e
della ribellione: invece delle scomuniche oltramontane avrete
successivamente, e qualche volta insieme, i cannoni dei re, le
barricate del popolo, e il pugnale degli assassini!
«L'importanza
politica della dichiarazione del 1682, dice Luigi Branc, era immensa.
Innalzando i re sopra qualunque giurisdizione ecclesiastica,
togliendo ai popoli la guarentigia che loro prometteva il diritto
concesso al sovrano pontefice di vigilare i signori temporali
della terra; pareva che tale dichiarazione collocasse i troni in una
regione inaccessibile alle tempeste. Luigi XIV vi fu ingannato ... in
ciò l'error suo fu profondo è muove a pietà!
«Il
potere assoluto, nel vero senso della parola, è impossibile. Non vi
ebbe mai (157), grazie al cielo, né mai vi sarà dispotismo
irresponsabile. Qualunque sia il grado di violenza a cui la tirannide
si lasci trasportare, il diritto di sindacato esiste sempre contro
di essa, qui sotto una forma, colà sotto un'altra. La
dichiarazione del 1682 non mutava punto la necessità di questo
diritto di sindacato. Dunque essa non faceva che spostarlo
togliendolo al papa; e lo spostava per trasferirlo dapprima al
parlamento, poscia alla moltitudine ...
«Venne
in Francia il momento in cui la nazione si accorse che l'indipendenza
dei re era la schiavitù dei popoli. La nazione allora, stanca di
soffrire, si sollevò sdegnata domandando giustizia. Ma non essendovi
giudici del poter regio, la nazione costituì sé stessa in giudice,
e la scomunica fu surrogata da una sentenza di morte » (158).
Cosa
memorabile! nel processo di Luigi XVI, tutta l'argomentazione
regicida di Robespierre è fondata sul primo articolo della
dichiarazione del 1682. Rigettando come Bossuet il primato sociale
del papato, e d'altra parte negando con ragione l'esistenza d'un
potere irresponsabile, conclude logicamente che la nazione ha
il diritto di giudicare e di condannare Luigi XVI. «Non vi ha
processo da far qui, egli dice: Luigi non è un accusato: voi non
siete giudici: voi siete, voi non potete essere che uomini di Stato e
rappresentanti della nazione. Non avete una sentenza da proferire pro
o contro un uomo; ma un provvedimento di salute pubblica da
prendere, un atto di provvidenza nazionale da esercitare. Luigi deve
perire perché è d’uopo che la patria viva » (159).
Ora,
non potendo le nazioni adunarsi sempre per giudicare i loro re;
abbiamo veduto Mazzini e i suoi settari, trascinati dalla stessa
logica, attribuire agli assassini il diritto di vendicare la libertà
dei popoli, e, ad esempio dei democratici dell'antichità, consacrare
la teorica del pugnale. Tanto egli è vero che, uscendo dal sistema
cattolico, la politica entra necessariamente nel sistema pagano, e
che per amore o per forza le società ne sentono le finali
conseguenze.
La
seconda conseguenza, della negazione del primato sociale del papato è
la diffidenza irrimediabile che sorge tra i re e i re, e tra i re
e i popoli.
Tutti
hanno sentito che erano senza guarentigia morale, i deboli contro il
dispotismo dei forti, ed i forti contro la ribellione dei deboli. Per
surrogare il gran regolatore che il Figliuolo di Dio aveva dato alle
società cristiane, si dovette ricorrere alla politica d'equilibrio.
All'estero,
qual è lo scopo di tutti gli sforzi della diplomazia europea, dei
congressi e delle alleanze più o meno sante, dopo il Risorgimento?
La storia vi risponde: Equilibrare le forze, per rendere la guerra se
non impossibile, almeno viepiù difficile.
Nell'interno,
qual è stata l'opera costante dei re e dei popoli? Stipulare
condizioni fra governanti e governati; fare o disfare carte
costituzionali; le quali in realtà non costituiscono nulla, o non
costituiscono che un ordine materiale ed effimero; imperocchè esse
lasciano senza soluzione la questione fondamentale del sindacato del
potere. Così, non ostante i reciproci giuramenti, si sta da una
parte e dall'altra in sulla difesa, finché un nuovo conflitto faccia
intervenire l'ultima ratio del Cesarismo; e il duello della
scaltrezza o della forza, divenuto l'oracolo del diritto, duri
permanente e con esso anche la rivoluzione!
Dal
canto suo, la filosofia umana s'è ingegnata da quattro secoli di
trovare in qualche artificio di sua invenzione un mezzo diverso dalla
violenza per provenire i conflitti sociali o per finirli senza
effusione di sangue. Da ciò quel gran numero d'opere scritte in
favore d'un tribunale di re per decidere le questioni politiche. Dopo
il Nuovo Cinea, pubblicato nel secolo XVII, abbiamo il
Cattolico discreto del principe Ernesto di Assia-Rhinfels, e
nel secolo XVIII, il celebre Progetto di pace universale
dell'abate di Saint-Pierre. Finalmente, ai giorni nostri, in cui più
vivamente si fa sentire la necessità d'un mezzo pacificatore,
l'Europa ha veduto formarsi il Congresso della pace che va di
paese in paese a cantare i vantaggi della pace e ad invitare i re ed
i popoli all'unione ed alla concordia.
Tentativi
lodevoli, se vuolsi; ma che provano, da una parte la profondità del
male cagionato dal Cesarismo; e dall'altra, l'indebolimento della
ragione in materia di politica cristiana, come in tutto il resto,
poiché essa, non sa neppure trovar più un solo mezzo veramente:
pacificatore.
Tentativi
impotenti! L'Europa non ha disarmato: la spada non si è mutata in
vomero d'aratro: che dico? dopo l'invasione del Cesarismo, le nazioni
moderne, hanno veduto più guerre generali, più troni abbattuti, più
rivoluzioni sanguinose che non ne vide, per quasi mille anni,
l'Europa del medio evo soggetta al primato sociale del papato. Questo
fatto capitale faceva già impressione nello stesso Bossuet.
«Si
mostra più chiaro del giorno, dice egli, che se si dovessero
paragonare i due sentimenti, quello che sottopone il temporale dei
sovrani ai papi, o quello che lo sottomette al popolo, quest'ultimo
partito, dove maggiormente, domina o il furore, o il capriccio, o
l’ignoranza, o la violenza, sarebbe anche senza titubanza il più a
temersi. L'esperienza ha fatto vedere la verità di questo
sentimento, e la nostra età sola ha mostrato, fra quelli che hanno
abbandonato i sovrani alle crudeli bizzarrie della moltitudine, più
esempi e più tragici contro la persona e la potestà dei re, che non
se ne trovano in sei o settecento anni fra i popoli che, su questo
punto, hanno riconosciuto la potestà di Roma (160) ».
Un’ultima
conseguenza del Cesarismo sono gli eccessi e gli abusi nell'ordine
religioso e sociale, che, svolgendosi dopo il secolo XVI, e,
principalmente durante il regno di Luigi XIV, riescono poi alla
terribile reazione della rivoluzione francese.
Ecco
in quali termini Fénelon li caratterizza:
«Libertà
gallicane. Il re, in pratica, è più capo della Chiesa che non il
papa in Francia: libertà riguardo al papa, servitù verso il re.
«Autorità
del re sulla Chiesa deferita ai giudici laici: i laici dominano i
vescovi.
«Abusi
enormi dell'appello per abuso, e dei casi regii.
«Abuso
di non soffrire i concilii provinciali.
«Abuso
di non lasciare che i vescovi si concertino col loro capo.
«Abuso
di volere che i laici demandino ed esaminino le Bolle intorno alla
fede.
«Abuso
delle assemblee del clero che sarebbero inutili se il clero non
dovesse dar nulla allo stato (161)».
Fénelon
avrebbe potuto aggiungere:
«Distruzione
e corruzione sistematica della nobiltà (162). «Soppressione di
tutte le costituzioni dello Stato.
«Confisca
di tutte le franchigie provinciali e di tutte le libertà
comunitative a profitto del re.
«Spaventevole
aumento dell'imposta per alimentare guerre egoistiche di commercio e
d'ambizione, e per mantenere un lusso babilonico.
«Incoraggiamenti
dati al risorgimento del paganesimo con tutte le sue immagini
lascive; con tutte le sue massime razionalistiche, cesariane e
democratiche nella letteratura, nella pittura, nella scultura, nei
teatri, a Parigi, a Versaglia, a Compiègne, a Fontainebleau, a San
Germano, da per tutto.
«Opera
incessante per far rivivere, col concentramento del secolo d'Augusto,
una civiltà corrotta e corruttrice che, snervando la Francia nel
sensualismo, doveva poi abbandonarla come una preda al giogo del
dispotismo e ai furori dell'anarchia.
«In
una parola, abuso nella violazione dei principi fondamentali
dell'antica costituzione francese sì religiosa e sì liberale, a
profitto del Cesarismo di Luigi XIV, il quale nel dì che pronunziò
il famoso detto: Lo Stato sono io, pronunziò, la sentenza di
morte dell'antica monarchia francese e cristiana (163)».
Da
quel momento una rivoluzione, o, per parlare più esattamente, una
controrivoluzione politica era inevitabile; lo scoppio non era
che una questione di tempo. Dopo le orge della Reggenza, e gli
scandali della corte di Luigi XV, non era più soltanto una
rivoluzione politica che fosse inevitabile, ma una rivoluzione
sociale. Questa rivoluzione, salutare se fosse cristiana,
diventava funesta se non l'era. Qui risaltano nella spaventevole loro
profondità il male negativo ed il male positivo,
prodotti dal Risorgimento e dagli studi di collegio. Il secolo.
XVIII, ignorante per una parte e dispregiatore, anche per effetto di
sua educazione, del cristianesimo nei suoi principii politici e nelle
sue istituzioni sociali, quanto per lo meno ne dispregiava le lettere
e le arti; dall'altra parte ammiratore, parimente per effetto di sua
educazione, del paganesimo classico ne suoi principii politici e
nelle sue istituzioni sociali, ancor più che non ne ammirasse la
letteratura e le arti, il secolo XVIII, dico, non chiese gli elementi
della rivoluzione né al cristianesimo, né all'antica monarchia, ma
alle repubbliche di Roma e di Sparla, che continuò ad esibire
siccome il tipo della perfezione (164).
Dominata
da questa duplice influenza, la filosofia di quel tempo compì
l'opera di falsar l'opinione, ed invece d'una rivoluzione contro il
paganesimo politico di Luigi XIV, d'una risoluzione contro il
paganesimo sensualistico della Reggenza, si ebbe nel 1789 una
rivoluzione a profitto dell'assolutismo democratico e pagano di
Robespierre, del paganesimo ateistico e sensualistico d'Hébert e di
Chaumette. Invece di ripigliare le - tradizioni cristiane di San
Luigi, si ripigliarono le tradizioni pagane di Roma e di Sparta:
invece di riformare il clero, si annichilò la religione; invece di
ritornare al vero Dio, si ritornò alla mitologia (165); la dea
Ragione, rappresentata da prostitute, venne a prendere sugli altari
cattolici il posto di Gesù Cristo; e come al secolo d'Augusto,
l'uomo coperto del sangue dei re e della polve dei troni, l’uomo
prostrato ai piedi di Venere, poté dire come al secolo d'Augusto e
di Luigi XIV: Lo Stato sono io; la religione sono io; io divo
Cesare, imperatore e sommo pontefice: Divus Cesar, imperator et
summus pontifex.
Le
dottrine cesariane, formulate da Machiavelli e da tutti i giuristi
educati come lui dal Risorgimento, promulgate nel 1682 e sostenute
sino ai nostri giorni da una parte del clero di Francia, consacrate
in Germania da un vescovo famoso (166), bandite in Italia dal sinodo
di Pistoia, conservate fedelmente negli altri paesi cattolici dai
parlamenti, dai ministri e dai cortigiani dei principi (167),
praticate senza riserbo nelle contrade protestantiche, scritte nella
maggior parte dei codici e delle costituzioni moderne, cotali
dottrine hanno invaso l'Europa, o sotto un nome o sotto l'altro,
tendono a dominar le nazioni. Il giorno del loro trionfo sarà
l'ultimo della libertà ed il primo del più spaventevole dispotismo
che si sia mai aggravato sul mondo.
La
storia fedele della loro genealogia che abbiamo a grandi pennellate
tratteggiata, ha per scopo di far vedere la sorgente del male e
d'impedire a quelli che sono incaricati di sopravvegliare alla salute
delle società, di non cader in abbaglio, troncando i rami
dell'albero invece di reciderne la radice. Quest'albero è il vecchio
tronco pagano sul quale, al soffio del Risorgimento, sono rinverditi
tutti i rami avvelenati della scienza del male filosofico, artistico,
religioso, sociale e politico.
Nel
disegnare il quadro delle due politiche che hanno governato il mondo,
e delle due civiltà opposte che hanno prodotto, lungi da noi il
pensiero di voler far risorgere il medio evo. Poiché ci è stato
reso l'onore (168), associandoci al reverendo P. Ventura ed a Donoso
Cortes, di attribuirci quest'assurda intenzione, risponderemo con
questo:
«Due
cose vi ha da considerare nel medio ero: i fatti, i principii e le
istituzioni che hanno avuto origine nella civiltà propria di quel
tempo, e i fatti, i principii e le istituzioni che, quantunque
attuati allora, sono la manifestazione esterna di certe leggi
eternali, di certi principii immutabili e di certe verità assolute.
Io condanno all'oblivione quello che gli uomini hanno stabilito in
quei tempi, e che doveva passare con essi e con quei tempi; ma
domando instantemente il ristabilimento di tutto ciò che, tenuto per
certo in quell'età, è certo perpetuamente» (169).
Per
assolvere il Risorgimento e gli studi di collegio accusati dalla
storia d'aver partorito il Volterianesimo, non ostante gli sforzi e
le virtù delle congregazioni insegnanti, ci era stato detto che il
Volterianesimo aveva avuto per causa il malo spirito che nel XVIII
secolo soffiava sopra l'Europa. Si aggiungeva che questo malo spirito
era, da una parte il Cesarismo e dall'altra il Protestantesimo.
Abbiamo mostrato che lo stesso Cesarismo è figlio del Risorgimento e
degli studi di collegio: ci rimane a provare che anche il
Protestantesimo deriva dalla medesima fonte. Il che sarà l'obbietto
della parte seguente.
FINE
DELLA PARTE SESTA
__________________
LA
RIVOLUZIONE
_____________
PARTE
SETTIMA
Proemio
***
Dobbiamo
rispondere all'obiezione che ci è stata fatta; e questa risposta
costituisce il nesso tra la parte precedente di quest'opera e quella
a cui ci accingiamo.
Si
è detto: «Il Risorgimento e gli studi di collegio non hanno avuto
sul Volterianesimo tutta quell'influenza che gli attribuite. Uno
spirito maligno soffiava sul decimottavo secolo e pervertiva la
gioventù allorché usciva dalle mani dei pii suoi istitutori. Questo
sprito maligno era, da una parte, il Cesarismo, e, dall'altra parte,
il Protestantesimo. La prova che il Risorgimento e gli studi di
collegio sono meno colpevoli di quello che dite si è che con lo
stesso insegnamento si sono formate alla fine del sestodecimo secolo
ed in tutto il decimosettimo, generazioni veramente cristiane.
Ecco
l'obiezione. A parer nostro si sarebbe potuto spingerla più oltre. E
per completarla, domanderemo: «Forse che il sistema di studi
letterari, che in oggi è il medesimo come negli ultimi secoli, non
produce, specialmente in Francia, cattolici ferventi ed un clero
esemplare?»
Nostro
ufficio è di recar lume in queste dubbiezze.
Fedeli
al carattere di quest'opera, lo adempiremo non già con ragionamenti,
ma con fatti; non discutendo, ma narrando. Nella stessa guisa che
abbiamo fatto per la rivoluzione francese, pel Volterianesimo e pel
Cesarismo, interrogando il malvagio spirito che soffiava sul
decimottavo secolo, gli domanderemo: Chi sei tu? donde vieni? Quali
sono i tuoi caratteri? Quali furono i tuoi mezzi? E vero che tu sei
figlio del Protestantesimo? e se il Protestantesimo è tuo padre, chi
fu il tuo avo? Il Protestantesimo è forse nato da sé come il fungo
sotto la quercia dei boschi? E se non è nato da sé, quale ne è la
genealogia? Qual è il segreto della sua forza?
A
tutte cotali questioni, la cui importanza è superfluo il dimostrare,
l'istoria risponderà.
***
Dopo
la pubblicazione del Cesarismo, ci è venuto a mano un
documento importante pel gran processo che noi istruiamo. Il luogo
proprio di questo documento era in quella parte della nostra opera;
ma per non lasciarne privi i nostri lettori, noi gli diamo qui luogo.
Il
recente attentato commesso contro la persona del re di Napoli,
aggiungendo una nuova pagina alla storia del regicidio nei tempi
moderni, prova che non vi ha principe in Europa che oggi non sia
minacciato dal pugnale. Più d'ogni altro, il re Ferdinando doveva
paventare il ferro degli assassini. Alcuni giorni prima del misfatto,
i giornali italiani pubblicavano quanto segue:
«SENTENZA
DI MORTE CONTRO IL RE DI NAPOLI».
Crediamo
opportuno di richiamar la sentenza di morte pronunziata contro il re
di Napoli dal Comitato mazziniano d'Italia, e che, stampata a
migliaia di esemplari, è stata sparsa per tutto il regno. Ecco il
testo di questo documento:
«CONSIDERANDO
CHE L'OMICIDIO POLITICO NON È UN DELITTO, ed ancora meno quando si
tratta di disfarsi d'un nemico che ha in sua mano mezzi potenti, e
che può in qualche modo rendere impossibile l'emancipazione d'un
generoso e grande popolo;
«Considerando
che Ferdinando di Napoli è il nemico più, accanito
dell'indipendenza italiana e della libertà del suo popolo; «È
approvata la seguente risoluzione da essere pubblicata con tutti i
mezzi possibili nel regno di Napoli:
«Una
ricompensa di 100.000 ducati è offerta a colui, od a coloro che
libereranno l'Italia dal detto tiranno. E come non vi sono
nella cassa del comitato che 65.000 ducati disponibili per questo
scopo, gli altri 35.000 saranno esatti per soscrizione» (170).
Quando
si considera che tutti i mazziniani, Gallenga, Ruffini, Mazzini
stesso sono unanimi, in riconoscere coi regicidi del 1793 che hanno
negli autori pagani attinto quest'odio feroce contro i re, si chiede
dove sia la mente dei governi, dove la coscienza degli istitutori
della gioventù che, dopo tanti esempi, si ostinano a perpetuare un
sistema d'insegnamento che riempie l'Europa di Bruti e di
Aristogitoni!
IL
PROTESTANTESIMO
___________________
CAPITOLO
I.
Stato
della questione. - Duplice carattere dell'empietà Volteriana. Deriva
essa dal Protestantesimo? - Nell'ordine sociale? - Nell'ordine
religioso? – Autorità che invoca. – Mezzi che impiega.- Paesi
che devasta. - Scopo che si propone. - Donde è venuto il
Protestantesimo?
***
Considerata
in sé stessa e nelle sue opere, l'empietà del decimottavo secolo
presenta un duplice carattere: essa fu ad un tempo l'odio dell'ordine
religioso e dell'ordine sodale esistenti, e la tendenza costante
verso un nuovo ordine religioso e verso un nuovo ordine sociale.
La
storia del Volterianesimo non permette ai negare l'esattezza di
questa definizione.
Donde
procedeva cotal odio? Ci era stato detto che, nell'ordine sociale,
procedeva dal Cesarismo, i cui abusi e gli scandali accumulati per
due secoli concitavano gli animi. Quest'irritazione concentrata
preparava sordamente una reazione terribile ed alimentava i
sentimenti repubblicani, di cui i filosofi del secolo XVIII si fecero
gli organi pericolosi.
Noi
abbiamo ammesso questa spiegazione. Ma dimostrando che il Cesarismo è
figlio dell'insegnamento classico; che nella manifestazione dei suoi
principii generali è anteriore a Lutero; che è debitore della
propria formola e del proprio trionfo a Machiavelli, figlio
primogenito del Risorgimento, la storia assolve il Protestantesimo
d'una metà del male che gli viene imputato. Al Risorgimento ed agli
studi delle classi letterarie rimane tutta intera la responsabilità
del Cesarismo, principio dell'odio volteriano contro l'ordine sociale
stabilito, e preparatore della rivoluzione francese.
Che
il Protestantesimo abbia insegnato il Cesarismo; che lo abbia
praticato in vaste proporzioni è cosa irrepugnabile: Ma in ciò esso
non ha fatto se non quello che facciamo poi stessi riguardo alla
polvere, di cui ci serviamo senza averla inventata. Se l'odio del
secolo XVIII contro l'ordine sociale non può senza ingiustizia
essere attribuito al Protestantesimo come a cagione primiera, si
mantiene che nell'ordine religioso quest'odio procedeva non dal
Risorgimento né dagli studi classici, ma dalla pretesa Riforma.
Questa asserzione è il punto capitale della discussione. Al lungo
ripeterla essa è divenuta una specie di assioma, ed anche oggidì un
gran numero d'uomini rispettabili vedono nel Protestantesimo la
cagione prima dell'empietà volteriana, della rivoluzione e del male
attuale. Per fermo il Protestantesimo ha cagionato nell'ordine
religioso immensi guasti, stantechè fra tutte le eresie è quella il
cui principio dà il crollo più formidabile all'edifizio cattolico.
Ma la questione non è in ciò: essa consiste tutta nel sapere se il
Protestantesimo basta per spiegare l'empietà del secolo XVIII, la
rivoluzione, il socialismo brutale e saccheggiatore, la corruzione
dei costumi, il disprezzo dell'autorità, in una parola il male che
divora l'Europa moderna.
Per
rispondere è bene esaminare dapprima le questioni seguenti. Nel suo
odio contro l'ordine religioso, quali nomi invoca l'empietà
volteriana? quali sono i mezzi che impiega? quali paesi ha invaso?
quale scopo si propone?
Se
nella sua guerra accanita contro la religione, l'empietà volteriana
ha di continuo o almeno di frequente i nomi di Lutero, di Calvino, di
Zuinglio, di Ecolampadio, di Carlostadt in sulle labbra; se essa
invoca la loro testimonianza; se si colloca sotto il patrocinio della
loro autorità, converremo schiettamente che l'empietà volteriana si
dichiara figlia non dell'antichità pagana, ma del Protestantesimo, i
cui fondatori essa riguarda come suoi avi e come suoi maestri. Ma se
non le accade mai d'invocare i loro nomi, né di ripararsi dietro
alla loro autorità; se, per lo contrario, essa non può metter fuori
una massima anticristiana, pronunciare una bestemmia, provocare una
distruzione senza puntellarsi sui poeti, su gli oratori, sui filosofi
pagani, non si deve forse, a meno che non si abbiano due pesi e due
misure, riconoscere con uguale schiettezza che l'empietà volteriana
si dichiara figlia non del Protestantesimo ma dell'antichità pagana,
i cui grandi uomini riguarda come suoi avi e come suoi maestri?
Ora,
abbiamo veduto che il nome dei fondatori dei Protestantesimo non si
trova mai sulle labbra dei filosofi del secolo XVIII; che mai non ne
invocano né la testimonianza, ne l'autorità. Alcune lodi date alla
sfuggita, spesso accompagnate da qualche lepidezza, costituiscono
tutti gli omaggi che ad essi tributano. Per lo contrario, ei sembra
che non sappiano dir parola senz'ispirarsi agli autori pagani: ecco
un primo fatto.
Esaminano
poscia quali furono i mezzi impiegati dall'empietà del secolo XVIII
per distruggere la religione. Anche qui facciamo lo stesso
ragionamento di poc'anzi. Se le sue macchine di distruzione procedono
dal Protestantesimo, se vi procedono originariamente, diremo eziandio
che il malvagio spirito che soffiava sul XVIII secolo era uscito
dalla bocca di Lutero, e che il patriarca di Ferney, con la numerosa
sua famiglia, non fu che il continuatore del frate di Vittemberga.
Per lo contrario, se nessuno di tali mezzi procede dal
Protestantesimo o se non ne procede originariamente, diremo che
l'empietà volteriana non è figlia né di Lutero, né di Calvino, e
che conviene cercarle altri avi.
Ora,
i mezzi impiegati dal Volterianesimo per distruggere la religione si
dividono in due classi: gli uni assaltano le credenze, gli altri i
costumi. Assalto dei dommi mediante la negazione delle verità
cattoliche e dell'autenticità persino dei libri santi: assalto
mediante la calunnia, il sarcasmo ed il ridicolo, versati a piene
mani sopra gl'insegnamenti, le istituzioni, gli uomini, le lettere,
le arti ed i secoli cristiani: assalto dei costumi mediante i libri
licenziosi in verso e in prosa, il teatro, le mode, tutte le arti,
pittura, scultura, intaglio, danza, musica, divenute altrettanti
strumenti di corruzione.
Riguardo
alla negazione delle verità cattoliche, mostreremo quanto prima che
essa è figlia del libero pensare e che il libero pensare ossia il
Razionalismo è figlio del Risorgimento e non del Protestantesimo.
Mostreremo di più che in fatto di calunnia, di sarcasmo e di
ridicolo, Lutero non è che l’eco dei più celebri risorgenti. Se
si tratta degli assalti contro i costumi, chi oserebbe sostenere che
i libri osceni, il teatro, le arti corruttrici, le mode indecenti, il
lusso sensualista non entrino per nulla nella scostumatezza che aveva
invaso le classi letterate del secolo XVIII?
Ora
tutti questi possenti mezzi di corruzione non procedono dal
Protestantesimo a cui sono anteriori, e che spesso li ha combattuti,
ma sì dal Risorgimento che il primo li ha rimossi in onore, e che ne
ha costantemente favorito l'applicazione. Ecco un secondo fatto.
Passando
ad un'altra questione, dobbiamo esaminare quali parti dell'Europa lo
spirito d'empietà aveva invaso nel secolo XVIII.
Se
viene dal Protestantesimo avrà fatto sentire la propria influenza e
dovrà farla ancora sentire prima di tutto e soprattutto nei paesi
dove regna da signore assoluto. Ma così non avviene. Trattasi dello
spirito d'insubordinazione e di ribellione? Si è costretti a
confessare che l’Inghilterra e certi paesi protestanti sono scevri
delle agitazioni e delle rivoluzioni che ruinano oggidì i paesi
cattolici. Si è costretti a confessare che gli organi più potenti
dello spirito di ribellione nel secolo XVIII furono cattolici e non
protestanti, e che la grande rivoluzione, quella che è divenuta la
madre ed il modello di tutte le altre, è scoppiata non in un paese
protestante, ma in seno di un paese cattolico, nel regno
cristianissimo. Si è costretti di confessare che anche oggidì la
rivoluzione trova simpatie per lo meno così vive, soldati per lo
meno così ardenti e numerosi in Francia, in Ispagna, in Italia, cioè
in paesi dove il Protestantesimo non regnò mai che nei paesi
luterani o calvinisti.
Trattasi
della negazione dei dommi? È egli provato che nel secolo XVIII vi
aveva in Francia, fra le classi letterate minor numero d'empi è
d'increduli, oppure empi ed increduli meno avanzati, per esempio, che
non in Inghilterra? È egli provato che oggidì, nelle medesime
classi, avvi in Francia, nella Spagna, in Italia minor numero di
miscredenti che non in Inghilterra, nella Svezia, in Prussia, in
Danimarca? Quello che tutti sanno si è che in generale il
protestante crede ancora nella Bibbia, ed i paesi cattolici sono
pieni di letterati che fanno pompa di non creder nulla, nemmeno a
Dio. Il protestante osserva ancora la domenica, e fra noi quanti
uomini non vi ha pei quali la domenica non esiste più che nel
calendario! Finalmente è forse più frequente fra noi e più
splendido il ritornare alle pratiche della religione che non é fra
protestanti il ritorno alla verità cattolica?
Se
parlassi della corruzione di costumi, è egli certo che nel secolo
XVIII fossero più puri in Francia, dico sempre nelle alte classi,
che non in verun paese protestante? Dove trovavasi allora, dove si
trova anche, presentemente, maggior corruttela nei teatri, maggiori
oscenità nei libri, maggiore lascivia nelle pitture, nelle sculture
nelle stampe, maggiore indecenza nelle mode? Nei paesi protestanti
forse o nei cattolici? chi non sa che l'Inghilterra e la Germania
protestante hanno sempre interdetto ed interdicono ancora sui teatri
la rappresentazione d'un gran numero di componimenti drammatici che
sono in gran voga fra noi (171)?
Ma
ammettiamo che sopra tutti questi punti lo svantaggio sia pel
Protestantesimo: rimane un'ultima relazione il cui esame recide la
questione. Lo spirito d'empietà che soffiava sul XVIII secolo non
era solamente distruzione, era anche ricostruzione. Se
era protestante, doveva tendere naturalmente a ristabilire il
Protestantesimo. Ora, quali furono in politica, in religione, in
letteratura, in sociali istituzioni le costanti tendenze del XVIII
secolo? Per far prevalere forse in Europa le idee religiose,
letterarie, artistiche e sociali di Lutero, di Calvino, di Zuinglio,
combatterono Voltaire, Rousseau, Cordorcet, Elvezio, Mably e tutti
gli altri filosofi? Non è lucido come il giorno che il sogno di
tutti quei letterati cattolici era il ritorno all'antichità pagana,
e la sua restaurazione sotto tutti gli aspetti? La Rivoluzione, nata
dai loro scritti, non ha forse rivelato agli occhi del mondo intero
lo spirito che gli animava e lo scopo supremo a cui miravano con
tutta la potenza dei loro sforzi?
E
d'altra parte, quello spirito protestanico di cui si pretende fossero
infetti, donde saria venuto? La storia ci fa sapere che la maggior
parte degli empi del passato secolo, tali erano all'uscir di collegio
quali furono per tutta la vita: anime vuote di cristianesimo ed ebbre
di paganesimo. Come mai così giovani conoscevano il Protestantesimo?
Forse che nei collegi ecclesiastici, dove tutti senza eccezione
furono educati si davano per libri classici le opere di Lutero e di
Calvino? I temi, le versioni avevano per obbietto le vite, le
sentenze, gli alti fatti degli eroi della Riforma? La storia che si
faceva leggere ed ammirare ora forse quella dei protestanti
d'Inghilterra e di Germania? I grandi uomini che si cantavano in
verso e in prosa si chiamavano forse Zuinglio, Farel, Ecolampadio,
Carlostadt?
Si
dirà che lo spirito del Protestantesimo fosse nell'aere, che
passasse sopra le mura dei collegi e che andasse a pervertire i
giovani cattolici sino nelle scuole degli oratoriani e dei gesuiti?
Per quanto sia fantastica, ammettiamo pure quest'ipotesi; ammettiamo
di più che quel Protestantesimo aereo sia bastato per attutire gli
sforzi degl'istitutori religiosi, e rendere sterile il loro
insegnamento: rimarrebbe ancora a dirsi donde sia uscito questo
Protestantesimo e quali sono le cagioni che ne hanno favorito lo
sviluppo. Al che risponderemo nel Capitolo seguente.
__________________
CAPITOLO
II.
LUTERO.
Il
libero pensare, anima del Protestantesimo. - Origine del libero
pensare, il Risorgimento. - Prove: vite, scritti, atti dei
riformatori. -Testimonianze della storia. - Caratteri del
Protestantesimo. - Vita di Lutero. Suoi primi anni. - Studia ad
Eisenach e s'invaghisce dell'antichità pagana. - Studia ad Erfurth -
Parole decisive di Melantone. - Atto più decisivo di Lutero. - Con
chi entra in convento. - È ordinato prete. - Insegna a Vittemberga.
- Va a Roma. - Sue impressioni.
***
Il
libero pensare è l'anima del Protestantesimo: tutti ne convengono; e
le incessanti variazioni della riforma ne sono una prova palmare. Ma
col contentarsi a dire che il libero pensare è il padre del
Protestantesimo tedesco, del deismo inglese, del filosofismo francese
e della rivoluzione, é un fare incompletamente la genealogia del
male; lo stipite rimane sconosciuto. Facciamovi bene attenzione,
perché la cosa è gravissima; fermiamovici non già come sopra
un'incidenza secondaria, ma come sul merito stesso e sulla sostanza
della questione. Importa di non mettere dal lato di Lutero se non
quello che realmente gli appartiene, e di lasciare al Risorgimento la
sua vera parte. Di tal guisa s'avranno in modo bastantemente chiaro e
nella loro esatta misura, gli elementi del problema che ci occupa e
della soluzione che debba intervenire.
Ciò
che è emana da ciò che fu; il protestantesimo non è nato da sé
stesso. La ribellione di Lutero non è un avvenimento isolato: essa
ha i suoi precedenti ed i suoi sincronismi. L'eresiarca, è vero,
rivolse contro l'autorità religiosa, in modo violento e solenne, il
principio del libero esame; ma questo principio non era stato
prodotto da lui.
Prima
di lui un gran numero di Risorgenti, e fra essi Pomponacio e
Machiavelli, i due più splendidi alunni dei Greci, avevano
fatto della sovrana indipendenza della ragione un uso più radicale;
imperocchè si erano ad un tempo emancipati e dalla Chiesa e dalle
sante Scritture.
Pomponacio
aveva separato la morale dalla religione, e Machiavelli ne
aveva separato la politica (172). L'uno e l'altro trovarono
nell'antichità pagana il principio e l'applicazione dal libero
pensare; in altre parole, una leva ed un punto d'appoggio per
schiantare l'Europa cristiana dai suoi fondamenti, e lasciarla in
balia a tutti i venti delle speculazioni indipendenti (173).
Risulta
da ciò che se il Protestantesimo è figlio del libero pensare, il
libero pensare è figlio del Risorgimento. Per provare questa
genealogia dobbiamo dimostrare da una parte che il principio della
Riforma è lo stesso che quello del Risorgimento, applicato ad
oggetti differenti; dall'altra parte che questo principio si trova
esclusivamente nell'antichità pagana, e che era sconosciuto in
Europa prima del Risorgimento. Così il nostro studio si dividerà in
due parti: la prima conterrà la storia del Protestantesimo; la
seconda quella del Risorgimento. Per riunire tutti i generi di prove,
studieremo il Protestantesimo nei suoi fondatori, nelle testimonianze
della storia, nella sua intima natura e nei suoi grandi caratteri; ed
uno studio eguale sopra i Risorgenti ci mostrerà, i vincoli di
parentela che uniscono le due famiglie.
Fin
da principio questa comunanza d'origine si rivela in un fatto che
domina e che riassume tutto il Protestantesimo. Il fatto è questo:
l’opera di Lutero e dei suoi compagni d'armi fu una rivoluzione.
- Ora qualunque rivoluzione consiste in due cose; essa è distruzione
e ricostruzione.
Lutero
ed i riformatori hanno distrutto nell'ordine religioso il principio
di fede o di autorità, e vi hanno sostituito il principio del libero
esame o della sovranità della ragione in materia di credenze, e
specialmente d'interpretazione biblica .
Per
raggiungere il loro duplice scopo, qual via seguono essi?
Precisamente la stessa che è stata seguita dal Risorgimento, dal
Cesarismo, dal Volterianesimo e dalla Rivoluzione francese. Per anni
interi fanno piovere il sarcasmo, l'ingiuria, la calunnia sul passato
cristiano dell'Europa e sul principio d'autorità che la reggeva: sul
medio evo, che per essi è un tempo di barbarie; sulla filosofia e
sulla teologia scolastiche che presentano siccome le fonti di tutte
le ignoranze e di tutte le vergogne che disonorano lo spirito umano:
sulle dottrine cattoliche e sugli ordini religiosi, complici
interessati, dicono essi, degli abusi che segnalano alla pubblica
indignazione.
Col
medesimo ardore che impiegano per caricare di disprezzo i secoli
cristiani, esaltano l'antichità pagana. Come il Risorgimento, come
il Cesarismo, come il Volterianesimo e la rivoluzione francese,
dicono che l'Europa, per rigenerarsi, debba risalire ai secoli
splendenti di Virgilio e di Platone, che tutto lo spazio interposto è
schiavitù e barbarie.
Per
buona sorte, dicono, è sorto in Italia l’aurora d'un nuovo giorno.
La bella antichità è ritornata a noi coi dotti espulsi da
Costantinopoli.
Dopo
di aver così preparato gli animi, e battuto in breccia le opere
avanzate, una logica implacabile trascina i riformatori ad assaltare
il cuore della fortezza, l'edifizio cattolico. Tali furono, se
abbiamo fede nella storia, cui lasciamo parlare, lo spirito generale,
il procedere e la tattica dei fondatori della riforma.
Incominciamo
da Lutero.
Martino
Lutero nacque il 10 novembre 1483, ad Islebia, contea di Mansfeld,
nella Sassonia.
«I
miei genitori, scrive egli, erano poveri. Per mantenermi mio padre
era obbligato di zappar la terra, e mia madre si caricava sulle
spalle i fasci di legne necessarie per la famiglia » (174).
Giovanni, padre di Lutero, era uno di quei buoni contadini di
Alemagna, intesi al lavoro e alla preghiera. La, sera, nel canto del
fuoco, dopo aver ascoltato qualche racconto biblico, faceva la
preghiera e veniva spesso ad inginocchiarsi a piè del letto di
Martino, domandando a Dio che il figlio ingrandisse nel timor del
Signore (175).
Nel
1407 Lutero, in età di quattordici anni, andò a Magdeburgo per
incominciare i suoi studi. E poiché era povero, mendicava il pane
due volte la settimana, cantando sotto la finestra delle case, e
salmeggiando in coro. E stantechè gli abitanti di Magdeburgo si
mostravano poco caritatevoli, preso il suo sacco e il suo bastone di
pellegrino e si trasferì ad Eisenach, piccola città di Turingia
dove sua madre aveva parenti. Una vedova, chiamata Cotta, ebbe
compassione del giovane scolaro, gli diede l'ospitalità e gli
comperò anche un flauto e una chitarra. Nei suoi momenti d'ozio
Lutero suonava su quegli strumenti qualche antico cantico del medio
evo, come: Benediciamo il fanciullo che ci è nato; oppure:
Buona Maria, stella del pellegrino. Finora Lutero è un
fanciullo cattolico di nascita, di fede, di costumi, che non ha altre
ammirazioni che ammirazioni cristiane, non altra vita intellettuale
che quella che ha attinto in seno della pia sua famiglia, e che
riflette d'intorno a sé in tutto ciò che vede, in tutto ciò che
ode.
Non
più angustiato dalle strettezze del bisogno, il giovane scolaro si
dà con ardore allo studio. Nel ginnasio di Eisenach ebbe a maestro
di grammatica Giovanni Trebonio. La grammatica abbracciava allora lo
studio della lingua latina. Risorgente, o, come allora si diceva,
umanista, di qualehe fama, Trebonio faceva quello che ancora
non si faceva altrove. Presumeva d'insegnare la bella latinità con
cura speciale; e ben s'intende che ne cercava il tipo non nei Padri
della Chiesa, né nei grandi scrittori del medio evo, ma negli autori
pagani (176).
Lo
spirito vivace del giovane Lutero, la rara sua facilità di comporre
in versi e in prosa, lo pongono alla testa dei suoi condiscepoli.
Passa quattro anni ad Eisenach e ne esce ebbro della dolcezza
delle lettere. Uscendo dal ginnasio anela all'Accademia, ch'egli
riguarda come una fontana dove potrà dissetarsi a lunghi sorsi di
letteratura e di scienza. Ripigliando il suo sacco, ed il suo
bastone, s'incammina verso Erfurth: aveva diciotto anni.
Nel
sistema degli studi del medio evo, la dialettica succedeva alla
grammatica. Sotto la disciplina del dottor Giodoco, Lutero si applica
a questa scienza. Ma ben tosto l’amore dell'antichità, che ha
attinto nelle prime sue classi, gli fa trascurare la dialettica, e lo
trascina allo studio profondo degli autori pagani. Tre secoli dopo
abbiamo veduto Mably, già suddiacono e nel seminario di San
Sulpizio, dominato dalla stessa passione, bevuta alla stessa fonte,
abbandonare i libri di teologia e lasciare la carriera ecclesiastica
per andar a vivere fino alla morte in mezzo ai Greci ed ai Romani.
L'autore della vita di Lutero ben è lontano dal farne un rimprovero
al suo eroe: Il suo animo avido di sapienza, dice Melantone, cerca
le fonti più copiose e più pure: legge la maggior parte degli
antichi autori latini: Cicerone, Virgilio, Tito Livio ed altri
ancora. Li legge, non come un fanciullo per cercarvi soltanto parole,
ma per attingervi la scienza ed il modello della vita umana. Più
profondamente degli altri si addentra nel senso dei loro insegnamenti
e delle loro massime; e poiché era fornito di mirabile memoria,
nulla dimenticava di quanto aveva letto o udito. Di tal guisa quel
giovane prodigioso divenne l’ammirazione di tutta l'accademia di
Erfurth (177).
Invano
il dottore Giodoco Truttveller contende d'infondere in Lutero gusti
più seri e più conformi alle istruzioni di suo padre che lo
destinava al foro: il posto era occupato. Come Voltaire, e per gli
stessi motivi, Lutero invaghito della bella letteratura, oblia i
consigli del proprio padre. Riguardo al suo professore lo trafigge
coi suoi motteggi contro la scolastica. Egli stesso, in un
luogo, si accusa di aver affrettato la morte del professore con la
sua ostinatezza contro quel metodo d'insegnamento, sconosciuto
all'antichità (178).
Eppure,
se invece di passar la sua gioventù coi Greci e coi Romani, Lutero
avesse imparato a conoscere i secoli cristiani, avrebbe veduto i più
illustri dottori della Chiesa, capitanati da San Tommaso d'Aquino,
conciliare in un armonioso tutto le scienze divine e umane, ordinarle
fra loro come un esercito schierato in battaglia sotto il supremo
comando del Verbo di Dio, la Sapienza Eterna, dalla quale emanano
tutte. Avrebbele veduto, per mezzo del metodo scolastico o
geometrico, distribuir tutto l'insieme come un campo, come una
fortezza, dove la filosofia e il vanguardo o il baluardo esterno, e
la teologia il grosso dell'esercito, il corpo della fortezza (179).
Ma
il Risorgimento aveva dispettato questo metodo, e Lutero condivideva
le idee di suo padre è ne ripeteva il linguaggio. Quantunque le sue
predilezioni fossero altrove, nondimeno il giovane adolescente imparò
tanto di filosofia da prenderne i gradi accademici. Ciò avvenne nel
1504: aveva allora ventidue anni. Si poneva anche a studiare la
filosofia ed i morali d'Aristotele; allorché un accidente
impreveduto venne a mutar il corso delle sue idee. Alessi, uno dei
suoi migliori amici, gli morì a fianco, colpito dal fulmine.
Temendo, di essere fulminato esso pure, Lutero cade in ginocchio e
prende la risoluzione di abbracciare la vita monastica. Raccoglie per
l'ultima volta i suoi amici per esercitarsi con essi nella musica.
Venuta la notte, senza dir nulla a veruno va a battere alla porla del
convento degli eremitani di Sant'Agostino ad Erfurth, ed ottiene di
esservi ricevuto come novizio.
Ma,
indovinate che cosa porta seco, come il suo tesoro più prezioso,
come il suo inseparabile vademecum! Forse l'Imitazione di Gesù
Cristo, una Bibbia, qualche libro ascetico? Nulla di tutto questo.
Per viatico intellettuale e morale, questo giovane cristiano che va a
consacrarsi a Dio, porta seco sotto un braccio un Plauto ed un
Virgilio! (180)
Questo
fatto, forse unico nella storia, e che rivela tutto, nulla ha però
che debba farci stupire. L'uomo non è forse figlio della sua
educazione, e Lutero stesso, Lutero educato da religiosi e da preti,
non ha scritto: «Di venti anni io non aveva ancor letto un verso
delle scritture? (181)». Checché ne sia, questo fatto riferito
da tutti i diversi storici della sua vita, ci mostra assai meglio che
tutti i discorsi quello che era Lutero di ventitré anni, quale
educazione aveva ricevuto, quali erano le ammirazioni della sua mente
e quali le affezioni del suo cuore. Ora, quello che Lutero era
all'uscire dell'università, vedremo che sarà per tutta la sua vita:
il convento non ne cangerà nulla. Adolescens juxta viam suam.
Vestito
dell’abito di novizio Lutero ne adempie i doveri con fervore. Lo si
vede ora nettare dalle immondezze la casa, scopare i dormitori,
aprire e chiudere le porte della chiesa, tirar i pesi dell'orologio
ed andar mendicando con la bisaccia sulle spalle per le contrade di
Erfurth; ma principalmente egli studia. La sacra Scrittura, i teologi
del medio evo, i Padri della Chiesa, e specialmente Sant'Agostino,
occupano tutto il suo tempo. La regola così vuole; così richiedono
le funzioni del sacerdozio a cui Lutero è destinato. Nel 1507
proferisce i voti, è ordinato prete, ed il 2 maggio dello stesso
anno celebra la prima messa. L'anno seguente, il suo superiore,
Giovanni di Staupitz, manda fra Martino ad insegnar filosofia
nell'università di Vittemberga.
Quell'università
era stata fondata da Federico elettore di Sassonia. Fedele allo
spirito del suo fondatore che si vantava di saper a memoria tutti
i poeti classici dell'antichità, l'università di Vittemberga
divenne in Alemagna uno dei focolari del Risorgimento (182). I suoi
vasti cortili, le numerose sale rimbombavano continuamente delle lodi
date dai maestri e dagli scolari ai grandi uomini ed alle grandi cose
di Roma e della Grecia. In mezzo a quell'atmosfera è facile il
comprendere quanto dovesse soffrire Lutero, obbligato com'era
d'insegnare la filosofia scolastica, la filosofia d'Aristotele, di
quel maestro diabolico, com'ei lo chiamava (183). «Sto bene,
scriveva egli, ma starei ancor meglio se non fossi costretto
d'insegnar la filosofia (184)».
Un'impensata
circostanza venne a stornare la sua pena. Nel 1510 fu mandato a Roma
per trattare un negozio concernente gli Agostiniani di Germania; quel
viaggio gli fu funestissimo. Lutero comprendeva il Risorgimento, come
lo comprese la stessa Alemagna dal punto di veduta letteraria e
filosofica. Per lui era il risorgimento del bel linguaggio e del
libero pensare. Ei non dubitava punto che fosse né che potesse
essere il risorgimento di tutte le impudicizie artistiche di cui
erano piene le città esemplari di Atene e di Roma. Vedendo da
lontano la città dei pontefici, cade in ginocchio, alza le mani al
cielo, e salutando la città eterna con tutti i nomi di amore e di
riverenza, esclama: «Roma santa, tre volte santificata dal sangue
dei martiri (185)». Ma tosto l'anima sua si rimescola vedendo nelle
contrade, sulle piazze, nei musei, nelle feste della città dei papi,
un risorgimento delle nudità e delle follie del paganesimo. «Cerca
egli una santa immagine, non scorge che divinità olimpiche, Apollo,
Venere, Marte, Giove, a cui lavoravano mille mani di scultori. Sono
gli dei di Demostene, di Prassitele, le feste e le pompe di Delo. il
movimento del Foro, follie tutte mondane: ma quella follia della
croce, preconizzata dall'Apostolo, non la vede rappresentata in
nessun luogo. Ei crede di sognare, e si sdegna, e perché Roma non
è fatta a sua immagine, è pronto a condannarla » (186).
D'altra
parte, la sua educazione che gli ha fatto conoscere gli antichi
Romani, la loro mitologia, i loro eroi, i loro iddii, gli ha lasciato
ignorare la Roma cristiana. Tra Angusto e Leone X tutto il passato
per lui è morto. Di tutti i papi che si sono succeduti sulla
cattedra di San Pietro, ignora i titoli all'ammirazione ed alla
riconoscenza.
«Ei
neppure sospetta che l'intelligenza non ha protettore, dopo Dio, che
nel suo vicario sulla terra; che il papato, spezzando la forza
materiale e costringendola a piegare davanti alle leggi della morale,
ha dato il più bello spettacolo a cui l'uomo potrà mai assistere »
(187).
Era
entrato in Roma da pellegrino e ne esce come Coriolano, sclamando col
Bembo: «Addio Roma, cui debba fuggire chiunque vuol vivere
santamente: addio, città dove tutto è permesso eccetto che di
essere uomo probo » (188).
Quando
udiremo Lutero chiamar Roma una Babilonia, e stimolare il mondo ad
abbandonarla, ci ricorderemo questi versi del Bembo e le parole di
Machiavelli, e sapremo che Lutero non è stato che l'eco dei più
famosi Risorgenti.
_____________________
CAPITOLO
III.
LUTERO
(Continuazione).
Lutero
ricevuto dottore in teologia. - Manifesta tutto il suo disprezzo pel
medio evo. - Suoi sermoni. - Sue tesi. - Origine e cagione della sua
antipatia. - Parole del signor Audin. - Influenza del Risorgimento
sulla Riforma. - Nuova testimonianza del signor Audin.- Disposizioni
generali degli animi, specialmente in Alemagna. - Lettera del
canonico Adalberto.
***
Ritornato
a Vittemberga, Lutero riceve col titolo di dottore in teologia quello
di predicatore della città: Ciò era nel 1512. Questo nuovo ufficio
gli agevola il modo di potere abbandonarsi a tutto il suo disprezzo
per la scolastica, e di ripetere al cospetto di numerosi uditori i
sarcasmi ed i motteggi di cui Ulrico di Hutten e Reuclino facevano
rimbombare l'Alemagna a spese del filosofo di Stagira e del medio
evo. «Le risa suscitate da Lutero erano così fragorose, dice uno
storico, che si udivano sino ad Erfurth ed a Colonia; e tutti gli
umanisti di quelle due città facevano plauso all'arrivo di
questo nuovo combattente, che contendeva, con l'aiuto della
Scrittura, di abbattere l'autorità della scolastica (189)».
Lutero
non si ferma alle prediche. Nel segreto della sua cella, compone tesi
in regola contro tutto ciò ch'egli riguarda siccome una piaga della
Chiesa. Giovane ancora e fervente religioso, scrive di Vittemberga,
l'8 febbraio 1516 al priore, degli Agostiniani d'Erfurth: «Padre
mio, mando all'eccellente Jose d'Eisenach questa lettera piena di
questioni contro la logica, la filosofia e la teologia, cioè anatemi
ed esecrazioni contro Aristotele, Porfirio e gli scolastici o, in
altre parole, contro i pessimi studi dei nostri tempi … Niente
desidero con tanto ardore, se ne avessi tempo, che di mettere
Aristotele a nudo davanti al mondo intero, e di mostrare in tutta la
sua vergogna questo commediante che ha ingannato sì lungo tempo la
Chiesa con la maschera greca ... Una delle principali porzioni della
mia croce, si è di essere condannato a vedere le migliori teste dei
nostri fratelli, che sarebbero proprie alle belle lettere,
perdere il loro tempo e le loro fatiche in questo fango ed in
queste immondezze (190)». E mandava novantanove tesi contro la
scolastica.
L'anno
seguente scrive allo stesso priore: «Aspetto con grande dolore, con
ansietà e sollecitudine quello che dite dei miei paradossi.
Informatemi adunque il più presto possibile ed assicurate i
reverendi padri della Facoltà di teologia che sono pronto a venire a
disputare pubblicamente, sia in conferenza, sia nel monastero,
affinché non pensino ch'io voglia borbottar nulla di simile in un
cantuccio, essendo infatti la nostra università bastantemente
mediocre da sembrare un cantuccio (191)». Tutto ciò precede la
famosa questione delle indulgenze. Lutero non è ancora un eretico;
anzi è un fervente religioso. Donde procede in lui quell'antipatia
profonda pel metodo d'insegnamento seguito nel medio evo e di cui i
dottori cattolici hanno fatto un uso così magnifico? Per trovarne
l'origine e la cagione, conviene risalire al Risorgimento. Ascoltiamo
un autore non sospetto:
«Era
allora consuetudine in Germania che, uscendo dalle scuole di diritto
o di medicina, i giovani andassero a perfezionare i loro studi in
Italia, a Bologna o a Padova. Perché poesia, pittura, musica,
scienza naturale, tutte le mode del pensiero germogliano ad un tempo
in quella terra privilegiata ... Questo spettacolo dovette far vivo
colpo sulle fantasie tedesche, che non avevano ancora afferrato la
scienza in nessuna intuizione attiva o passiva (192).
Tutti
dunque partivano dall'Italia recando germi d'indipendenza
intellettuale che andavano, a loro volta, a diffondere nel loro
paese. .. il dubbio trovava il suo conto in questi pellegrinaggi, il
cui gusto esso manteneva: vi faceva plauso; vi impelleva le
menti, persuaso che da quelle scientifiche migrazioni nascerebbe
qualche bel trionfo per lui, e per la fede un prossimo
oscuramento. Ciò che aiutar doveva il trionfo del Razionalismo
era lo stato del pensiero che avevano lasciato in Germania così
sommesso, così austero, così devoto, e che trovavano a Roma, a
Venezia, a Firenze, emancipato, indipendente, non riconoscendo né
giogo né padrone.
«Questo
pensiero beffardo, libertino, incredulo rideva di tutto, del
cristianesimo, della morale, del clero, dei papi stessi. Esso ha per
suoi banditori Dante che mette pontefici ancor vivi nell'inferno;
Petrarca che fa di Roma una meretrice, e persino un frate chiamato
Battista di Mantova che si è messo a cantare gli amori dei preti
(193). I loro libri, sebbene proibiti, circolavano in Roma sotto
Giulio II e Leone X, e si trovavano nella biblioteca della maggior
parte dei cardinali: Sadoleto e Bembo ne sapevano a memoria lunghi
brani che si divertivano a declamare ad alta voce (194)».
All'amore
per le arti e per le lettere antiche si aggiungeva in Italia, un
grande entusiasmo per la filosofia poetica di Platone. «I Greci
sbandeggiati da Costantinopoli l'avevano recentemente recata seco
dall'esilio e rivelata alle menti italiane, che si erano
improvvisamente invaghite dei sogni misteriosi del discepolo di
Socrate. Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, Lorenzo de'
Medici, padre di Leone X, contribuirono in mirabile modo a diffondere
i dommi di quella filosofia, la quale, non ostante la sua
eterodossia, seduceva molti uomini religiosi. In vece d'un Dio in
tre persone, i platonici ammettono un'anima unica; anima, raggio,
particella della divinità unita alla materia; dopo le prove della
vita, l'anima spezza i suoi vincoli e va a perdersi nel seno della
divinità, come una goccia d'acqua nel mare. L'Italia tutta intera
co' suoi chierici, co' suoi laici e persino co' suoi papi,
abbracciò avidamente le dottrine platoniche (195); di qualità
che per un momento i cantici della sua Chiesa ne furono tutti
impregnati (196)».
Dopo
aver detto, sotto forma di rimprovero, quello che per altri sarà un
encomio, che il clero di Germania invece di andare, come in Italia,
ad ispirarsi alle fonti antiche, preferì di rimanere nei suoi
chiostri, di studiarvi i grandi teologi, e di attenersi al metodo di
insegnamento del medio evo, l'autore aggiunge: «Dal clero in fuori,
Platone trovò più di un'anima entusiasta. Gli umanisti, i
letterati inclinavano per Platone: Ulrico di Hutten, Reuclino,
anime poetiche, ripudiavano Aristotele e spingevano la
moltitudine verso l'antichità. La moltitudine obbediva e si
rideva dei frati.
«Voi
ora comprendete che il giorno in cui il prete tedesco poté essere
berteggiato e la sua parola discussa, in cui si poté ridere con
tutta sicurezza delle sue dottrine letterarie, il dubbio, mediante
una reazione naturale al nostro orgoglio, dovette necessariamente
investire la parola dogmatica; l'esame adunque venne ad indebolire la
fede. Per un popolo così religioso come quello di Germania era
una sventura che spezzava il cuore. Così, per ciò che alcuni
frati hanno mal compreso il loro secolo, hanno, a torto, avuto paura
dei lumi, quanto fracasso non fece Reuclino e la sua scuola!
«Come volete ch'io creda a questo purgatorio, diceva egli,
annunziato da un labbro peloso, che non sa neppur declinar musa?
E si rideva» (197).
Noi
non possiamo ammettere il giudizio del signor Audin. L'esperienza ha
provato troppo bene che col resistere al Risorgimento, il clero
d'Alemagna non comprendeva male il suo secolo, e che non a torto
aveva paura dei nuovi lumi. Sopra questo punto capitale uno storico
protestante ha veduto più giusto dello scrittore cattolico. Parlando
del Risorgimento letterario e filosofico anteriore alla riforma,
Bruchero si esprime in queste parole:
«Il
risorgimento delle lettere contribuì potentemente al risorgimento
della filosofia (198). L'Italia fu la prima a disgustarsi
dell’antica filosofia, di quella filosofia stretta dal vincolo
dell'autorità, auctoritatis capistro. Ma la nostra
Germania non si addormentò nelle sue antiche tenebre; e come
l'Italia, non ostante i vivi lumi che la rischiaravano, non patì di
rimanere schiava della grande superstizione. Appena ebbe ella
intravisto l’aurora del Risorgimento delle lettere, e ricevuto
nelle scuole d'Italia i loro preziosi germi, i suoi figli reduci
nella loro patria, riunirono i loro sforzi per proscrivere la
barbarie, inaugurare una filosofia ed un insegnamento più in armonia
col buon senso, animare i dotti, deridere l'ignoranza, mostrare la
corruzione che sformava la repubblica cristiana e la repubblica
delle lettere, ed indicare coraggiosamente il rimedio eroico che
richiedeva questo male pestilenziale» (199).
Da
queste preziose testimonianze risulta che i giovani tedeschi reduci
dallo studio fatto in Italia, andavano in estasi sulle cose d1e
s'insegnavano, e sul modo onde si insegnavano a Firenze, a Padova, a
Bologna. «L’Europa, dicono essi; è caduta nelle tenebre, le
lettere sono perdute, la filosofia è divenuta barbara, la Chiesa
stessa è corrotta: noi siamo bestie guidate dal guinzaglio
dell'autorità, tutti questi mali vogliono un rimedio potente che
trovasi nella restaurazione dell'antichità artistica, filosofica e
letteraria. Imitiamo l'Italia: ivi si parla come Cicerone, si
filosofeggia come Platone. Al linguaggio ed ai metodi barbari usati
fra noi è succeduto un linguaggio di squisita eleganza e metodi,
che, non imprigionando più la mente in vergognose catene, permettono
al pensiero di lanciarsi e di tentare nobili ed utili investigazioni.
Ivi, invece di possedere, come noi, alcuni trattati soltanto dei
grandi filosofi dell'antichità, si hanno tutte intere le loro opere;
invece di studiarle come noi nelle traduzioni, leggonsi nella loro
lingua originale. Invece di giurare sulla parola di Aristotele e
delle formole che gli hanno attribuito i nostri dottori, si esamina,
si discute, si apprende e non si giura sulla parola di nessun
maestro».
Nella
sostanza di tutto ciò, come si vede, respira l'amore appassionato
della forma pagana e del libero pensare. Questo linguaggio, ispirato
dal Risorgimento, riepiloga fedelmente i numerosi libelli degli
umanisti anteriori alla Riforma, come Ulrico di Hutteno, Reuclino, e
principalmente Erasmo, il Voltaire del secolo XV, la cui vena
inesauribile rallegrò per trent'anni i'Europa letterata a spese del
passato.
«Tanta
era in Germania, dice Bruchero, la celebrità di Erasmo, che tutti
gli amici della bella letteratura si schierarono sotto le sue
bandiere per far la guerra alla barbarie del medio evo, e per
conquistare il diritto del libero pensare (200)».
Gli
uomini più gravi anche nel clero si lasciano sbigottire dai motteggi
del letterato di Rotterdam, dai sofismi di Reuclino, e fanno eco alle
odiose e loro deplorabili calunnie. Fra una moltitudine di documenti,
la storia ci ha conservato la lettera singolare che nel 1483 scriveva
a Reuclino, Bernardo Adelmanno, canonico d’Augusta.
«O
delitto! esclama, noi disprezziamo, che dico? Aborriamo come veleno,
e tal volta siamo impediti di studiare ciò che formava le delizie e
la voluttà degli antichi! No, no; a meno che non siano immersi nelle
lettere latine e greche, i nostri giovani non faranno mai nulla.
«Non
ignoro che molti uomini, non amici della sapienza, ma dell'orgoglio,
non professori di sante lettere, ma di tenebre, non giureconsulti ma
parassiti di diritto, esecrano il nome di poesia, e gridano
dappertutto che i poeti sono pieni di oscenità e di frivolezze.
Perciò, mio amatissimo Giovanni, ricorro a te come al più sicuro
rifugio degli umanisti, affinché tu pigli sotto la tua protezione
tutti coloro che sono avidi di belle lettere, affinché invigili
alla salute dello Stato, e persuadi bene al nostro sovrano che niuno
non potrà mai giungere al vero conoscimento delle cose, se non
comincia a studiare gli autori pagani (201)».
Credere
che la salute dello Stato dipenda dal conoscimento di Virgilio o
d’Orazio! Riguardar come delitto il divieto di leggere le oscenità
poetiche degli dei dell'Olimpo. Pretendere che non si possa giungere
alla verità che per la via della menzogna! Se gli fosse stato
proibito di recitare il breviario o di studiare la Scrittura, il buon
canonico avrebbe fatto udire più dolorosi lamenti? Tale è per altro
il fanatismo per l'antichità pagana a cui il Risorgimento conduceva
gli uomini più gravi; che doveva poi essere dei cervelli più
leggeri, e specialmente dei giovani? Cotal lettera ha ancor questo di
prezioso che mostra la ripulsione che ispirava alla fine del secolo
XV lo studio degli autori pagani, e le proteste che si sollevavano
contro quel sistema nuovo, e per conseguenza sconosciuto o quasi nel
medio evo.
Bruchero
è premuroso di aggiungere che cotale entusiasmo pel Risorgimento non
era personale al canonico di Augusta, ma che aveva invaso tutta la
Germania, e specialmente la gioventù, grazie ai letterati ritornati
dall'Italia, col proposito di scacciar la barbarie dal seno della
Chiesa.
«Al
momento, continua il signor Audin, in cui questi nuovi magi (i
giovani tedeschi ritornati dall'Italia), venivano ad annunziare ai
loro compatrioti la stella luminosa che li aveva guidati in
Italia, dove erano andati ad adorarla, i cittadini tedeschi erano
emancipati ... Perciò furono veduti questi emancipati dello ieri,
una volta ch'ebbero assicurata la sorte futura del loro corpo, pensar
subito ad affrancare la loro anima (202). Questa luce spirituale che
risplendeva dalle Alpi attrasse dapprima i loro sguardi: libri, arti,
idee, filosofia, tutto ciò che veniva dall’Italia occupò i loro
pensieri. I cittadini sassoni sono i primi discepoli della scuola
filosofica tedesca rappresentata da Reuclino; scuola scettica e
beffarda, la quale ha per divisa: Odio ai frati ed a tutto ciò
che viene dai conventi!
«Voi
li vedete appigliarsi, come se le comprendessero, a quelle dispute
platoniche ed aristoteliche le quali cominciano ad agitare in
Germania tutte le persone, e come a Roma adottare per rappresentante
chi parla, all'anima, chi sogna, chi infiltra un po' di poesia in
tutte le sue speculazioni. Queste dispute, in cui il monachismo
lasciava una parte troppo larga agli umanisti laici, contribuirono
all'avvenimento della riforma.
«L'Alemagna
voleva imitare l'Italia. Tubinga nel 1477; Magonza, nel 1482;
Vittemberga nel 1502, e Francoforte sull'Oder nel 1506, avevano
fondato e dotato scuole; e, come di là dalle Alpi, università nelle
quali spiegavasi l'antichità e si commentava avanti ad una turba di
ferventi discepoli ... Così i vescovi, col fondar quelle
università avevano, senza pur sospettarlo, adoperato al trionfo del
razionalismo, ed apparecchiato la strada alle novità religiose
(203)».
Senza
rammentare quello che ha detto, il signor Audin, grande ammiratore
del Risorgimento, soggiunge: «Il clero cattolico avrebbe potuto
dispensare al popolo la nuova manna, se avesse voluto cercarla
dove la trovavano i laici; ma prese un'altra via, e poiché vide che
il passato era la grande sorgente d'ispirazione, pensò a
richiamarlo. Ma invece di quelle ombre che avevano riempito
l'antichità della loro gloria, richiamò altri morti: ed erano
Durando, d'Ailly, San Tommaso, Scoto ..., garruli dii che
spirarono nei loro discepoli uno spirito di sofismi, di astuzie,
d'equivoci, di sottigliezze grammaticali, e li aiutarono a
ricominciare quelle lotte il cui segreto avevano con sé portate»
(204).
Chiamare
i più grandi dottori del medio evo professori di sofismi,
d'equivoci e di sottigliezze grammaticali, e San
Tommaso un garrulo iddio! Allorché anche al giorno d'oggi
cadono tali parole dalle labbra d'un cattolico istruito, si può egli
stupire agli oltraggi onde i Risorgenti del sedicesimo secolo furono
così prodighi riguardo a tutte le glorie cristiane e nazionali
dell'Europa?
___________________
CAPITOLO
IV.
LUTERO
(Continuazione e fine).
Il
Protestantesimo prima di Lutero. - Disprezzo del medio evo. -
Entusiasmo per l'antichità pagana.- Querela delle indulgenze. - Essa
non è la cagione del Protestantesimo. - Lutero assalisce l’autorità
della Chiesa. - Parole notevoli di Bruchero – Lutero sempre simile
a se stesso, e sino alla morte quale lo ha fatto l’educazione. - Ei
non è altro che un Risorgente.
***
Eccoci
all’anno 1517, anno famoso nella vita di Lutero, e nella storia del
mondo moderno. I fatti che abbiamo allegati e quelli in maggior
numero che potremmo allegare ancora riepilogano in tal modo la
condizione intellettuale dell'Europa in generale e dell'Alemagna in
particolare: grande fermento delle menti dei letterati; grande
dispregio pel medio evo, per la sua scienza, pei suoi metodi, pei
suoi dottori: grande entusiasmo per l'antichità pagana, per la sua
letteratura, per le sue arti, per la sua filosofia: grande desiderio,
o, come si direbbe oggidì, grande aspirazione verso un nuovo
ordine di cose e d'idee diverso dal passato, che si riguardava
siccome il regno della barbarie: tali erano, grazie al Risorgimento,
le disposizioni generali degli animi.
Ora
che è ciò, se non il Protestantesimo, nella più larga
significazione della parola! Col preconizzare la nuova filosofia, la
nuova poesia, la nuova pittura, la nuova musica, la nuova storia, la
nuova politica, la nuova lingua, e col presentarle siccome il tipo
del vero, del bello, del buono, che facevano i filosofi, i letterati,
gli artisti ed i politici del Risorgimento, in Italia e altrove, se
non protestare altamente contro tutte queste cose quali il
medio evo le aveva conosciute, insegnate, praticate; ed invitare per
tal modo l'Europa a ripudiare la propria filosofia, la propria
letteratura, le sue arti, la sua politica, la sua civiltà, la stessa
sua lingua, per adottare la filosofia, la letteratura, le arti, la
politica, la civiltà, la lingua dell'antichità greca e romana? Da
questo universale Protestantesimo un punto solo fino 'altora era
eccettuato, l'autorità dogmatica della cattolica Chiesa. Sopra tutto
il resto si affrancava la ragione e la si chiamava all'indipendenza,
Da
tutte parti la ragione rispondeva a quest'appello. Con un ardore che
non ha esempio nella storia dei Barbari allorché devastarono il
mondo pagano e lo distrussero coi suoi palagi, coi suoi templi, coi
suoi dii e con le sue istituzioni per far luogo al cristianesimo, si
vide l'Europa gettare al vento il patrimonio dei suoi avi,
distruggerne i monumenti, abiurare la propria letteratura, e le sue
arti tradizionali, ripudiare la politica sua nazionale e la domestica
sua civiltà per dar luogo all'antichità pagana.
Intanto
che le lettere e le arti emancipate dalle regole del pudore, la
filosofia dal vincolo dell’autorità, la politica dalle
leggi della giustizia inondavano l'Europa di scandali greci e romani,
si udiva il suono del martello che nella stessa Roma demoliva la
prima chiesa del mondo, l'antica e tante volte venerabile basilica di
San Pietro, per sostituirvi, non ostante le rimostranze del
sentimento cristiano, un edificio greco costruito secondo le regole
di Vitruvio (205).
Con
maggior zelo che non impiegò il medio evo a ricercare le opere dei
Santi Padri, a ritrovare le reliquie dei martiri, o a conquistare il
sepolcro del Figliuolo di Dio, si ricercarono i libri dei pagani, le
statue dei loro iddii, le ruine dei loro templi, i busti dei loro
grandi uomini; se ne festeggiò la scoperta con solennità pubbliche;
si collocarono onorevolmente nei palazzi dei principi, e l'Europa,
briaca di fanatismo, non si stancava di ammirare quelle vergognose
vestigia d'un mondo che aveva gettato i suoi avi alle tigri ed ai
roghi, e che Iddio nella giusta sua collera aveva distrutto. Si
sarebbe detto l'adempimento, in senso contrario affatto della parola
di San Remigio al capo dei Franchi: «Fiero Sicambro, brucia quello
che hai adorato, e adora quello hai bruciato».
Questa
duplice predicazione di disprezzo per l'antichità cristiana e di
entusiasmo per l’antichità pagana durava già da cinquant'anni; e
per la sua educazione, Lutero, come abbiamo veduto, ne era uno dei
più ferventi apostoli. In compagnia di Utteno, di Reuclino, di
Nizolio e d'Erasmo continuava a far ridere la Germania a spese del
medio evo, dei suoi dottori e dei loro discepoli. «Tutti i suoi
sforzi, dice Bruchero, tendevano non solamente a screditare la
filosofia scolastica, ma, a farla discacciare dalle scuole. Cotal
odio (non è punto a dubitarne) aveva lo stesso principio che nella
letterata Italia. Inebriati dell'amore della bella letteratura,
non potevamo sopportare il giogo della filosofia scolastica; perciò
Lutero, educato fino dagli anni suoi giovanili fra gli antichi era
penetrato d'orrore per la barbarie delle scuole (206)».
Melantone,
soggiunge: «Quest'odio diventava ogni giorno più vivo, per lo
spettacolo che agli occhi di Lutero presentava la gioventù, alemanna
di cui gli scritti di Erasmo avevano rivolta l'ammirazione verso la
bella antichità, e risvegliato il disprezzo per la barbara e
sofistica dottrina dei frati» (207).
Lutero
stesso, aprendo tutto il proprio pensiero, in tal modo si esprime in
una sua lettera a Giodoco: «Insomma, io credo assolutamente essere
impossibile il riformare la Chiesa se non si aboliscono da capo a
fondo il diritto canonico, le decretali la teologia scolastica, la
logica, la filosofia quali ora esistono e non si rifabbrica tutto di
nuovo (208)».
Come
ciascun vede, qui vuolsi scalzare il principio di autorità. Troppo
accorto per dire avanti tempo l'ultima sua parola, il Paganesimo
risorgente, sempre simile a sè medesimo nasconde il proprio scopo
sotto pretesti mendaci. Nel sestodecimo secolo, la barbarie del medio
evo gli serve di maschera: in appresso, la superstizione; poscia, il
fanatismo e le ricchezze del clero; sempre larve per coprirsi la
faccia; sempre pretesti, per ingannare, insino a che finalmente la
verità, la Chiesa, la religione stessa siano scrollate nella
riverenza dei popoli. Allora i nemici si fregano le mani; e gli amici
esclamano: Ah! nol sapevamo!
Lutero
e l'Europa erano al punto che abbiamo detto allorché si suscitò la
controversia delle indulgenze. Non è del nostro disegno di
richiamare le particolarità, assai note per altro, di questo
deplorabile negozio, che non avrebbe avuto luogo, se non fosse stato
necessario di ricostruire la chiesa di San Pietro di Roma, demolita
dal Risorgimento.
Ci
basti il dire che la questione delle indulgenze non fu la cagione del
Protestantesimo, come il disavanzo delle finanze non fu la cagione
della rivoluzione francese; come le ordinanze di Carlo X non furono
la cagione della rivoluzione del 1830, o il banchetto elettorale
quella della rivoluzione del 1848. La controversia delle indulgenze,
fu, se vuolsi, la scintilla che diè fuoco alle polveri, ma le
polveri erano fabbricate e riunite già prima.
Sia,
come si è preteso, gelosia di corporazione nel vedere affidata ai
domenicani la missione d'annunziare l'indulgenza del giubileo in
Alemagna, sia, come pare più verisimile, desiderio di approfittare
di un’occasione solenne per fare una formale campagna contro i
dottori cattolici del medio evo, cioè contro il principio
d’autorità, Lutero, alla vigilia d’Ognissanti del 1517 va
affiggere alle porte del castello di Vittemberga novantacinque tesi
contro le indulgenze.
In
quel momento decisivo che successe nel suo anima? Due scrittori
protestanti, Bruchero e Seckendorf ce lo diranno: «Lutero, nutrito
della bella antichità, era convinto che la filosofia e la teologia
scolastiche erano la causa degli errori che vedeva germogliare nella
Chiesa; vedeva i sostegni della superstizione romana puntellarsi su
quei due mezzi per difendere come la pupilla dei loro occhi la
barbarie della dottrina e la barbarie dei costumi: vedeva la Chiesa
romana posare sopra questa immensa base il suo potere e la sua
ambizione: vedeva tutte le persone dabbene impazienti di
scuotere quel giogo imposto alle coscienze e ne concluse che avanti
tutto si doveva strappare al nemico la sua armatura. Al vedere il
pericolo che lo minaccia ci sta titubante ... ma rivolge gli
sguardi sopra i grandi uomini dell'Italia che gli hanno aperto la
strada; il loro esempio rafferma la sua grand'anima, e dà principio
all'assalto (209)».
Così
è: il libero pensare, nato dal Risorgimento, ha trovato un logico
più ardito e più consentaneo dei suoi predecessori:
L'autorità
dogmatica della Chiesa, rispettata fino allora, è combattuta di
fronte: il protestantesimo è completo.
Predisposti
com'erano gli animi dagli ammiratori dell'antichità pagana, la
Riforma s'appiccò in Alemagna come il fuoco negli aridi spini. Una
gran parte di questa gloria, dice Bruchero, è dovuta al
letterati cattolici, fra i quali Erasmo, Vives, Lefèvre, Nizolio.
Questi non osarono, è vero, di assalire Roma di fronte, ma
contribuirono grandemente al buon esito della battaglia, propagando
la bella filosofia, coprendo di disprezzo quella dei secoli
precedenti, e suscitando gli altri a scacciare quegli spettri dalla
repubblica letterata. Si aspettava una mano tanto ardita che sapesse
metter fuoco alla bomba: e questa mano fu quella di Lutero (210)».
Fatto
il primo passo, la logica, trascinò Lutero da una all'altra
negazione. Ciò non di meno però, cosa veramente notevole! non andò
così avanti come certi Risorgenti d'Italia, i cui mostruosi errori
furono, come vedremo, condannati nel concilio di Laterano. Ma
coll'assalire la filosofia e la teologia scolastiche, egli aveva ad
un tempo scompigliato tutto il sistema cattolico della scienza che
della filosofia faceva un'ancella della fede, ed abbattuto l’argine
che sosteneva il torrente del Razionalismo (211).
Noi
non seguiremo Lutero nelle continue lotte che compongono la seconda
parte della procellosa sua vita. Come nella prima, egli si mostra
costantemente simile a sé stesso e figlio della propria educazione.
Disprezzo del medio evo, disprezzo della sua scienza, disprezzo dei
suoi dottori, disprezzo della Chiesa e dei suoi insegnamenti ch'ei
tratta da errori nati nelle tenebre dei secoli d'ignoranza:
ammirazione non meno costante per la letteratura dell'antichità
pagana di cui vantasi d'essere un modello, pel suo libero pensare di
cui si gloria d'essere l'apostolo. Leggiamo alcune pagine del
Tisch-Reden in cui lo stesso Lutero fa di sé stesso questa
rivelazione.
«Trent'anni
addietro, dice egli, la Bibbia era ignota, i profeti non compresi. Di
vent’anni io non avevo ancor letto nulla delle Scritture …
(212). I frati sono le colonne del papismo: essi difendono il papa
come certi ratti il loro re … Ma io, io sono l'argento vivo del
Signore sparso; nello stagno, cioè nella frateria. I francescani
sono i pidocchi che il diavolo attaccò alla pelle di Adamo; i
domenicani, le pulci che punzecchiano continuamente ... Nel chiostro
non si studia, ma si oscura la Scrittura. Un frate non sa che cosa
sia studiare; in certe ore ei brontola certe preghiere, dette
canoniche; ma il dono concesso a me di leggere le Scritture non vi ha
neppure un frate che l’abbia ricevuto (213).
San
Bonaventura, San Tommaso erano pidocchi e pulci! San Bernardo,
Alberto Magno, Rogerio Bacone non avevano né dottrina né
intelletto; erano specie di barbari che non studiavano ma che
ottenebravano la Scrittura! Non è forse quanto, in altro parole,
avevano detto i Risorgenti prima di Lutero, e quanto pensano ancora
oggidì?
Dagli
ordini religiosi Lutero passa ai giuristi. Il medio evo, convinto di
non intender nulla in teologia, né in filosofia, né in belle
lettere, non è meno ignorante in materia di giurisprudenza e di
diritto canonico. «Che cosa è un giurista? chiede Lutero. Gli è un
ciabattino, un rigattiere, un tagliasuole che fa mestiere di
disputare di cose che non mandano buon odore, del sesto comandamento
di Dio, per esempio .... Non avrei mai creduto ch'ei fossero così
papisti come sono. Veggo che sono tuffati nella m… sino al collo:
luridi che non sanno discernere lo zucchero dalla m …. Omnis
jurista est aut nequista, aut ignorista (214)».
I
Padri della Chiesa non sono trattati meglio dei dottori del medio
evo: ignoranti, eretici, imbecilli, ecc., tali sono gli epiteti di
cui Lutero li onora. In quanto ai cattolici in generale,
principalmente quelli che non sono Risorgenti: «Sono papisti che non
sanno una parola di latino, esseri scaduti, senza dottrina;
senza discernimento, meschini scolaretti che si trascinano sulle orme
d'Aristotele, che non hanno mai saputo leggere; umanisti tutti
infarciti d'un latino che moverebbe a pietà un pedante di
villaggio; teologi che cantano vittoria quando hanno citato
Tommaso o Scoto (215)».
Lutero,
falsamente accusato di essere nemico del Risorgimento, si reputa uno
dei più squisiti latinisti del suo tempo. È d'uopo udirlo con qual
superbo disdegno ei parli della latinità dei suoi avversari.
Rispondendo alla costituzione di papa Adriano VI, si esprime in
questi termini. «Duolmi di perdere il tempo a rispondere a lettere
ignoranti e veramente papali. Esse sono scritte in modo così sciocco
ed in uno stile così barbaro, che sono indegne di essere
confutate anche da un fanciullo. Ma Iddio colpisce miracolosamente
l'Anticristo, sino a togliergli qualunque successo, sino a togliergli
la conoscenza stessa di qualunque lingua ed ogni specie di abilità,
di qualità che in ogni cosa egli è caduto nell'infanzia e nella
follia. È il colmo della vergogna il mandare un tal latino a
Tedeschi, ed il proporre a persone ragionevoli spiegazioni cotanto
sciocche della Scrittura. Tutto questo è veramente e mirabilmente
papistico, monacale e lovaniano (216)».
Le
sue pretensioni alla bella latinità non sono uguagliate che dalla
sua ammirazione per la bella grecità. Scrivendo al suo amico Eobano
Hesso, gli dice: «Senza lo studio delle lingue, non vi ha
teologia: teologia e belle lettere ci sono state recate nel
medesimo naufragio … la gioventù adunque si dedichi alle muse,
tale è il mio voto più ardente. Vengono a turbe e poeti e
retori per iniziare gli uomini ai misteri delle Scritture ... Mio
dotto amico, sérviti del tuo e del mio nome, se vuoi invocarlo, per
poetizzare la gioventù. Tutto il mio cordoglio è che il
nostro secolo e le mie occupazioni m'impediscano di svolgere i poeti
ed i rétori antichi, per diventar greco a mio agio (217).
Lutero
però li aveva svolti, e svolti esclusivamente sino a vent'anni, come
ce lo fa sapere egli stesso: continuava a svolgerli ed a marciare
alla pugna sotto la loro scorta, come gli rimprovera il conte di
Carpi. «Fedele alle tue astuzie, gli dice, citi le insulsaggini e
le favole dei poeti, perché esse si acconciano con le tue
menzogne, scegli negli autori pagani nomi ed esempi talmente profani,
che non solo è vera sconvenienza il ricordarli in questioni sacre,
ma eziandio manifesta empietà. Che hanno di comune le verità della
teologia con Oreste, Proteo, Ercole, Enea, e loro simili onde tu
rabeschi i tuoi scritti? Ed intanto che ti appoggi a simili cose,
tu, schernisci quel genere di letteratura che si oppone alla tua
dottrina; perché non ignori essere un coltello che facilmente apre
le tue piaghe. Ecco perché rifuggi da un metodo d'insegnamento il
quale, rigettando le parole e le inezie recide al vivo tutto ciò che
è superfluo e va diritto allo scopo» (218).
«Affinché
sia bene stabilito che, sotto il nome di Risorgimento e di
Protestantesimo, vi ha il vecchio paganesimo, la cui essenza è
insiememente orgoglio e voluttà che ritornano in Europa, Lutero
deifica la carne dopo di avere indiato la ragione. Il famigerato suo
sermone sul matrimonio, predicato nel 1522, nella gran chiesa di
Vittemberga, non è che un eco dei canti più osceni dei poeti
dell'antichità. Dalla predicazione del Vangelo in poi, il mondo non
aveva udito un simile appello alla ribellione dei sensi. Dopo di aver
parlato in tedesco pel popolo, Lutero traduce in latino il suo
sermone per uso degli umanisti di tutti i paesi. Erasmo, principe dei
letterati, si contenta di chiamarla una burletta: gli altri vi
applaudiscono.
Fatto
ardimentoso da questo trionfo, Lutero continua nelle sue lettere la
deificazione della carne. Ad ogni voto di castità infranto ei batte
le mani. Carlostadt, arcidiacono di Vittemberga, Bernhard, abate di
Kemberga, Gerbel parroco di Strasburgo si maritano; e Lutero se ne
rallegra e se ne congratula. «Salutate, dice loro, risalutate
vostra moglie ... Essa, se piacerà a Cristo, partorirà un figlio
che con la sua verga di ferro stritolerà i papisti, i sofisti, i
religiosisti e gli erodisti. Oh quanto siete felici d'aver trionfato
di cotesto impuro celibato!... Il matrimonio è un paradiso» (219)
Ed
egli stesso entra nel paradiso della carne sposando una religiosa,
Caterina Bora, che ha tratto fuori del suo convento. Ben tosto
d'accordo con gli umanisti suoi ammiratori e suoi discepoli, Lutero
spezza gli ultimi impacci imposti alla carne, negando
l'indissolubilità del vincolo coniugale ed autorizzando la
poligamia. Anche da questo lato il paganesimo è teoricamente e
praticamente restaurato.
Per
completare il proprio trionfo restava a rendergli nell'ordine sociale
e potitico il posto che gli aveva preparato la bella antichità.
Allora non più papa, non più vescovo, non più Chiesa che
controbilanci il potere di Cesare. Nella mano dell'uomo, imperatore e
sommo Pontefice, si riunivano la potestà dei corpi e la potestà
delle anime, ciò era il dispotismo brutale. Il paganesimo sociale
ricomparisce in Europa quale era in Roma e nella Grecia. Con voce
instancabile, Lutero, eco fedele di Machiavelli e degli antichi, non
cessa di predicare l'emancipazione del potere politico dalla tutela
della Chiesa. Usurpazione, tirannide, abuso, vergogna dell'Alemagna e
del mondo, in tal modo ci rappresenta l'autorità temporale della
Santa Sede.
Il
più piccolo segno di rispetto pel diritto antico lo mette in furore.
Dopo la dieta d'Augusta, ei grida: «Guai a voi tutti che avete
sostenuto il papismo ad Augusta! Infamia su di voi! Di voi arrossirà
la posterità; né potrà credere di aver avuto simili antenati. Oh
dieta infame che mai non avesti né avrai l'uguale! tu copristi di
vergogna i nostri principi e la patria. Che dirà il Turco all’udire
un tale scandalo? Che diranno i Moscoviti e i Tartari? Chi d'ora
innanzi, sotto il cielo, avrà qualche timore o qualche rispetto di
noi Tedeschi, quando si saprà che ci siamo lasciati così
disonorare, braveggiare, trattar da bambini, da stupidi, da macigni,
dal papa e dal suo codazzo» (220).
E
in altro luogo: «Principe, dice all'Imperatore, sii padrone. Il
potere che ha Roma lo ha rubato a te: il papa mangia il grano e noi
la paglia (221)». Quest'inno alla Tirteo sommuove tutta la nobiltà,
e Lutero fa così bene, che le potenze temporali dell'Alemagna
rompono gli ultimi vincoli di sociale subordinazione che le uniscono
alla Santa Sede. Da quel dì in poi un ostinato dualismo si pone fra
i re e i popoli. Vere o pretese doglianze insorgono ed un gran
duello, cioè guerra, saccheggio, arsione, sterminio, ritorna ad
essere, come nella bella antichità, l'ultima ragione del diritto.
Finalmente,
la parola divina si compie in Lutero come negli altri: l'adolescente
camminerà sino alla tomba nella via dove stampò le prime sue orme.
Prima di morire da libero pensatore, cioè da vero pagano, Lutero
proclama per l'ultima volta ch'esso riguarda, come ne ha detto
Melantone, gli autori pagani siccome i modelli della vita e i
maestri della dottrina, di cui il mondo non può assolutamente
far senza. «Metto innanzi a Cicerone Aristotele ... Cicerone ha
scritto egregiamente e dato ammaestramenti delle virtù; di prudenza,
di temperanza e di altre. Aristotele similmente in modo perspicuo e
con erudizione nei suoi morali. I libri dell'uno e dell'altro sono
utilissimi e sommamente necessari per la condotta della vita (222)».
Lutero morì in patria, il 18 febbraio 1546.
Se
nel suo principio il Risorgimento fu il libero pensare, e nelle sue
manifestazioni il disprezzo del medio evo congiunto con l'ammirazione
e con la restaurazione completa per quanto era possibile
dell'antichità pagana, si è proprio in obbligo di concludere dai
fatti che precedono che Lutero non fu altra cosa che un Risorgente.
Il libero pensare che i suoi predecessori applicavano alla filosofia,
alla letteratura, alle arti, alla politica, egli lo applica
all'ordine religioso. Tra essi e lui questa è tutta la differenza.
Per fermo quest'applicazione è più audace delle altre, ma essa è
logica, ed inoltre è inevitabile.
___________________
CAPITOLO
V.
ZUINGLIO.
Progressi
del libero pensare. - Nascita di Zuinglio.- Sua educazione. - Essa
produce in lui gli stessi effetti che in Lutero. - Zuinglio studia a
Berna e s'invaghisce degli autori pagani. - Si reca all'università
di Vienna. - Raffronto fra lui e Lutero. - Che è Zuinglio, compita
l'educazione; anima vuota di cristianesimo ed ebbra di paganesimo. -
È ordinato prete e nominato parroco di Glarona. - Nuovo raffronto
con Lutero. - Occupazioni di Zuinglio nella sua parrocchia. - Studio
degli autori pagani. - Loro influenza. - Influenza d'Erasmo. - Nuovo
raffronto con Lutero.
***
Lo
spirito del Risorgimento, il cui focolare era di là delle Alpi,
soffiava sopra tutta l'Europa. Niente l'arrestava: non la distanza
dei luoghi, non l'altezza delle montagne, non la differenza
degl'idiomi. Questo spirito, come abbiamo veduto, era il libero
pensare che da una parte si manifestava mediante il disprezzo dei
secoli cristiani, e dall'altra, mediante l'ammirazione dell'antichità
pagana. Nel momento in cui esso pervertiva il giovane Martino Lutero
in seno del ginnasio cattolico di Eisenach, faceva un'altra vittima
nel cuore medesimo della Svizzera.
Il
1° gennaio 1484 nasceva a Wildhaus, nel contado di Tockenburgo, in
Isvizzera, Ulrico Zuinglio. I primi suoi anni li passò coi fanciulli
del suo villaggio. I suoi genitori, buoni contadini svizzeri, pieni
di fede e di semplicità, avendo scorto nel piccolo Ulrico buone
disposizioni, lo confidarono ad un suo zio, parroco di Wesen, sulle
rive del Lago Wallenstadt. Presto imparò a leggere e a scrivere. Di
là fu mandato a Basilea, alla scuola di Gregorio Binzli. Questo
nuovo istitutore gli diede i primi rudimenti delle lingue e non tardò
a consigliare i genitori d'Ulrico di mandarlo a Berna.
Intorno
a questa importantissima circostanza della sua vita, udiamo un
biografo non sospetto: «La scuola di quella città, dice Chauffour,
aveva un maestro che i contemporanei chiamano l'uomo più dotto e più
illustre che fosse nella confederazione. Questi era Velflino, o, per
conservargli il suo nome da erudito, Lupulus. Era iniziato ai
primi risultamenti del Risorgimento, e nell'insegnamento del latino,
aveva rinunziato ai metodi puerili del medio evo, ed al linguaggio
scolastico. Apprezzava i capolavori della classica antichità, e
sotto l'esperto suo magistero, Zuinglio penetrò in quelle ricche
miniere ed informò il proprio giudizio, il gusto e lo stile
(223)».
Precisamente
lo stesso avveniva nel medesimo tempo a Lutero nel ginnasio
d'Eisenach. Velflino Lupulus è un Risorgente come Giovanni Trebonio.
Tutti e due hanno scosso il giogo dei metodi tradizionali: tutti e
due sono pieni di disprezzo pel medio evo e di ammirazione per la
classica antichità: tutti e due trasfondono i loro sentimenti
nell'animo dei giovani loro alunni; e questi, entrati essendo
cristiani nello loro scuola, ne escono pagani e pagani per tutta la
vita. Giudizio, gusto, stile, tutta la loro vita intellettuale,
attinta alle fonti antiche, sarà lo svolgimento della loro
educazione di collegio, e si riepilogherà, come quella di Voltaire,
di Rousseau, di tutti i Risorgenti, consentanei con sé stessi, in
due parole: disprezzo del cristianesimo, ammirazione del paganesimo.
Uscendo
dal ginnasio d'Eisenach, Lutero, come abbiamo veduto, si recò
all'università d'Erfurth, per studiare la dialettica e le arti
liberali. Zuinglio passa da Berna all'università di Vienna per farvi
gli studi medesimi: aveva allora quindici anni. Non abbiamo
dimenticato l'avversione di Lutero per la scolastica, e la sua
passione per gli autori pagani, durante la sua dimora ad Erfurth; in
Zuinglio sono le stesse disposizioni. «Nel 1499, continua a dire il
suo biografo, si trasferì a Vienna per studiare, in quella, famosa
università, la filosofia, o quello che allora chiamavasi filosofia.
Dalla forte sua educazione letteraria era premunito ...
contro le meschine sottigliezze d'una vana dialettica ... come
tutti i grandi uomini del XVI secolo, Zuinglio ebbe un odio gagliardo
per la scolastica ... Continuò ad esercitarsi nella musica ed a
coltivare le lettere in compagnia di alcuni amici che poscia
furono illustri: Vadiano, Glareano, Giovanni Faberto» (224)
Tali
erano le disposizioni di Zuinglio riguardo alla filosofia del medio
evo. A motivo della forte sua educazione letteraria, Lutero ad
Erfurth sentiva, come abbiamo veduto, una somma, avversione,
manifestava un profondo disprezzo per la teologia scolastica, per San
Tommaso, Scoto, Alberto Magno e per tutti i dottori che l’avevano
insegnato con tanto lustro. Sotto quest'aspetto vi ha somiglianza
perfetta tra Lutero e Zuinglio. «Riguardo alla teologia scolastica,
dice Miconio, contemporaneo di Zuinglio e suo amico d'infanzia, vide
subito come fosse un gettare il tempo a studiarla. Questa pretesa
scienza non era che pura confusione, sapienza mondana, vaniloquio,
barbarie; e non si poteva trarne veruna sana dottrina (225)».
L'ignoranza
e il disprezzo del cristianesimo, delle sue glorie scientifiche,
artistiche, filosofiche, teologiche, letterarie, ecco, in tutti i
tempi, il risultamento inevitabile dell'educazione classica. Questo
male negativo è immenso, e per mala sorte non è il solo.
Nauseato del suo naturale, alimento lo spirito della gioventù cerca
necessariamente un altro nutrimento: l'antichità, oggetto dei suoi
studi fanciulleschi, l'antichità che gli è stata rappresentata
siccome ciò che mai vi è stato di più grande, di più bello, di
più ricco al mondo, traggelo a sé. Cotale attrai mento, è pur
forza il dirlo, tanto è più forte in quanto che l'antichità è il
paese dove l'uomo decaduto respira a suo miglior agio. Ivi niun giogo
difficile a portarsi dal cuore; ivi niun freno all'indipendenza del
pensiero. In cotale pericoloso attraimento e nell'ammirazione che ne
è ad un tempo causa ed effetto, consiste il male positivo
della classica educazione. Supposto che tutta una generazione sia
educata in tal modo, basterà una circostanza accidentale, per
trascinarla lontana dal cattolicismo e gettarla nei più grandi
errori religiosi e sociali. Tale era Zuinglio all'uscire dagli studi:
nave senza bussola e senza zavorra che al primo soffio di procella
vedremo rompere in naufragio.
«Già
la Riforma, continua il suo biografo, gettava alcuni raggi
precursori. L'insegnamento iniziatore degli umanisti aveva reagito
anche sui teologi: non si può avvicinarsi ai grandi uomini della
Grecia e di Roma senza ritrarre dal loro commercio un supremo
disdegno per ogni sottigliezza. Zuinglio udì a Basilea uno di
quegli uomini che, come il nostro Lefebvre d'Étaples preparavano
le vie portando sopra un gran numero di delicate questioni le
investigazioni del loro spirito indipendente (226)».
Quest'uomo era Wittembacbh.
Teodoro
Wittembach era un umanista, quale se ne foggiavano in Europa a inizio
del XVI secolo. La lunga consuetudine coi grandi uomini di Roma e
della Grecia ne aveva fatto un libero pensatore, e per mala sorte ei
pensava ad alta voce. «Wittembach, dice Leone Jud, uno dei suoi
alunni, era riguardato come una meraviglia ed una fenice. Alla sua
scuola Zuinglio ed io fummo educati non solo alle belle lettere,
che gli erano famigliarissime, ma anche nella vera dottrina
evangelica. Perché Wittembach ... antiveniva e presagiva molte
cose, in ordine alle indulgenze e ad altre dottrine di cui il
Pontefice romano aveva riempito il mondo da sì lungo tempo (227)».
E Zuinglio riconosce ch'egli, per la prima volta, ha raccolto il
principio fondamentale della Riforma, la giustificazione mediante
Cristo (228).
Zuinglio
uscì da Basilea recando il germe del libero pensare. Più tardi, per
un giusto ritorno, sviluppò nel suo maestro il male che aveva da lui
ricevuto. Nel 1523, Wittembach, eccitato dall'esempio di Zuinglio,
lasciò l'università di Basilea e venne a dimorare a Bienna sua
patria, dove incominciò la Riforma. Quanto a Zuinglio, in età di
soli ventidue anni, il comune di Glarona lo elesse per suo parroco.
Ordinato prete prima dell'età canonica, prese possesso del suo
beneficio nel 1507.
Lutero
entrò in convento con Plauto e con Virgilio. Vuolsi sapere di che si
occupa nella sua parrocchia il giovane pastore di Glarona, qual
società frequenta, quali teologi consulta? ascoltiamo ancora
Chauffour. «A Glarona Zuinglio terminò la propria educazione di
riformatore. Da lungo tempo teneva dietro al movimento che traeva
l'umanità in quel tempo. È noto quale influenza lo studio delle
lingue esercitò sul cammino della civiltà nel XV e XVI secolo.
Aprendo allo spirito i grandi geni dell'antichità,
forniva all'umanità un punto di partenza in tutte le direzioni
(229), i risultamenti finali della civiltà grecoromana.
«Applicate
alla religione, le lingue spezzavano il giogo delle prescrizioni
papali, permettendo di raffrontarle col testo non adulterato
della Scrittura. Esse ebbero nelle rivoluzioni del XVI secolo
un'importanza molto simile a quella che le scienze matematiche e
naturali hanno preso ai nostri tempi. Perciò tutti i grandi
intelletti di quell'età ne celebrano a gara e ne raccomandano lo
studio.
«A
Berna, a Vienna, Zuinglio si era fatto famigliare con la letteratura
latina. A Basilea aveva incominciato senza maestro ad accostarsi ai
Greci, tanto superiori ai Latini, come dice egli stesso. A
Glarona continuò con ardore i suoi studi. Il suo carteggio in
questo tempo è quasi esclusivamente letterario (230)».
Il
giovane parroco passa a rassegna tutti i classici pagani, e di
ciascuno fa un elogio speciale. In posto luminoso colloca le Vite di
Plutarco, il primo dei libri da studiarsi: parla di quel vasto
fiume delle storie di Tito Livio: commenta Omero e Luciano,
studia Demostene, fa una tavola per Cicerone, una prefazione per
Pindaro. Pindaro in modo speciale lo invaghisce: ei, ne fa un santo.
«Chi potrebbe dire, esclama, se il genio di Pindaro fu più dotto o
più santo, più dilettevole o più virtuoso? La sua dirittura non ha
chi la pareggi, la sua purezza è tale che invano nelle sue poesie si
cercherebbe una frase lasciva. Niuno più di lui ebbe un cuore
incorruttibile, innamorato del giusto, del vero, del santo (231)».
Erasmo,
il grande panegirista degli antichi in Alemagna, ebbe, come abbiamo
notato, una grande influenza sopra Lutero; a tal segno che Erasmo
stesso scrisse quel celebre eletto che la storia ha pienamente
confermato: «Io ho fatto l’uovo, Lutero l'ha fatto schiudere.
Ego peperi ovum. Lutherus exclusit». Nuovo raffronto tra Lutero
e Zuinglio. Il parroco di Glarona attribuisce ad Erasmo l'onore di
avergli aperto la strada alla piena indipendenza del pensiero.
«Fra
i promotori del gran moto del Risorgimento, dice Chauffour, Erasmo è
uno di quelli che sopra Zuinglio ebbero più profonda e più
durevole influenza. Per lungo tempo ebbero commercio di lettere
.... Si separarono poi quando Erasmo, volgendo le spalle al
progresso, cominciò a scrivere contro Lutero. Zuinglio non ammirava
in lui soltanto la sua erudizione e la inesauribile vena onde si
giovava in servigio delle lettere. A lui attribuisce un'influenza
decisiva sopra le sue idee come riformatore. A lui ed a
Wittembach fa risalire la sua conversione al principio della
giustificazione mediante Cristo» (232).
Chauffour
ha cura di confermare il giudizio di Zuinglio dicendo che infatti la
Riforma, questa grande emancipazione della libertà dell'umana
coscienza fu preceduta da una grande e profonda opera di
risorgimento morale, la cui immediata conseguenza era il
ripudio dell'autorità della Chiesa. Non si può dire né di più né
di meglio.
_____________________
CAPITOLO
VI.
ZUINGLIO.
(Continuazione).
Raffronti
fra lui e Lutero.-Viaggio d'Italia, impressioni. - Zuinglio studia la
Scrittura, come Lutero, sotto l'ispirazione del libero pensare. - Sue
dottrine. - Come Lutero ingiuria i suoi contraddittori. - Invoca gli
autori pagani. - Sua professione di fede, ultimo limite del libero
pensare. - Paradiso di Zuinglio, panteon dei pagani. - Come Lutero,
emancipa la carne. - Applica il principio pagano all'ordine sociale.
- La guerra. - Morte di Zuinglio.
***
Per
agevolare l'ufficio dello storico che attribuisce il Protestantesimo
al Risorgimento, e per provare l'autenticità di questa genealogia,
la Provvidenza ha permesso che nell'educazione dei riformatori, nei
loro gusti, nei loro atti, nelle loro dottrine vi avesse relazioni di
somiglianza in sì gran numero e sì parventi, che fosse impossibile
il negare l'esistenza di un medesimo principio generatore. Non sembra
forse che, scrivendo la storia di Zuinglio a Berna, a Vienna, a
Basilea, a Glarona, abbiamo riprodotto quella di Lutero? Ma le
somiglianze continuano.
Giovane
ancora, e religioso pieno di fervore, Lutero fa un viaggio a Roma, ed
abbiamo veduto le funesto, impressioni che ne riporta. «Giungo, dice
Chauffour, ad un altro fatto ch'ebbe sul carattere di Zuinglio e
sopra le sue opinioni un'influenza incalcolabile. Il viaggio
d'Italia è decisivo nella storia della Riforma. Tutti i riformatori
vanno ad acuirvi la loro indignazione e le loro ire. Zuinglio lo
compì, credente come Lutero; e, come Lutero, ne ritornò turbato
nella sua coscienza (233)».
Matter
discorre come Chauffour: «Dal 1506, dice egli, semplice sagrestano
di Glarona, Zuinglio leggeva ad un tempo, nei testi originali,
Platone, Tucidide, Plutarco, Cicerone e il Nuovo Testamento.
Cappellano delle truppe svizzere in Italia, vi aveva preso la sua
porzione di entusiasmo per l'antichità che inebriava quel paese
(234)».
Un
poema allegorico intitolato il Bue fu per Zuinglio il frutto
del suo viaggio. Vi si trovano parecchie malevole allusioni contro il
papato ed il germe delle diatribe che ad esempio di Lutero scaglierà
poi contro Roma.
Entrato
in convento, Lutero si mise a studiare la Scrittura, non con la fede
sommessa di un cattolico, ma sotto l’ispirazione pagana del libero
pensare. A Glarona, Zuinglio fa lo stesso, e si conserva ancora a
Zurigo un esemplare delle Epistole di San Paolo scritte di sua mano.
Gonfio della sua scienza profana Zuinglio, divenuto parroco
d'Einsideln nel 1516, si sollevò improvvisamente, in virtù
dell'indipendenza del pensiero, sopra la tradizione cattolica, sopra
la fede della Chiesa e sopra l'insegnamento dei Santi Padri:
Dall'alto di questo piedistallo d'orgoglio, annunzia ai molti
pellegrini accorsi al venerabile santuario di Maria che Cristo è
il solo mediatore, che il solo modo d'onorar Maria è di aver fede e
fiducia nel suo Figliuolo, e di consacrare, ai poveri le somme di
danaro che si votano alle sue immagini.
«Ognuno
può immaginare, dice Chauffour, la commozione prodotta da queste
parole. Molti se ne sdegnarono, scrive Bullinger, e le
ebbero per empie, strane, inaudite: altri altamente le
approvarono. I pellegrini lasciavano Einsideln, riportando le
loro offerte, e seminando in ogni paese la nuova dottrina. Turbe che
erano in viaggio ritornavano indietro, meditando su quelle grandi
parole, che, sino alle conquiste della filosofia moderna, fu la
più potente parola d'emancipazione che sia stata pronunziata nel
mondo dopo Cristo ... Ciò avveniva nel 1516, prima del fragoroso
colpo che vibrò Lutero, e che ancor risuona: per tutto il mondo»
(235).
Però
contro queste scandalose dottrine s'innalzano rimostranze.
Zuinglio
nella Svizzera, vi risponde con ingiurie, come fa Lutero in Alemagna.
Scrivendo al suo amico Miconio: «Tutti coloro che amano la gloria
dell'umanità credevano poc'anzi che fossimo per veder rifiorire le
scienze come nelle più belle età; ma ecco che questa
speranza ci è tolta dall'ignoranza o più veramente
dall'impudenza di alcuni uomini che congiurano contro ogni
scienza per non dover arrossire di sé stessi» (236).
Abbiamo
udito un principe cattolico rimprocciare a Lutero d'introdurre nelle
più gravi disputazioni teologiche gli dei dell'Olimpo, i semidei e
gli eroi del paganesimo: e Lutero medesimo ci ha detto che la sua
passione per gli autori pagani, maestri della dottrina, modelli della
vita, non solo non l'aveva lasciato dopo la sua infanzia, ma eziandio
che la maggior sua ambizione era di godere di un poco di riposo per
divenir Greco a suo bell'agio. Or ecco Zuinglio che nei suoi sermoni
invoca promiscuamente i nomi di Mosè, di Paolo, di Sacrate, di
Plinio e principalmente di Seneca, di cui dice paragonandolo a San
Basilio: «Questi, era cristiano e grande teologo; l'altro pagano
e più grande teologo ancora» (237). Poscia, come Lutero, studia
senza posa, pei bisogni della lotta, la Scrittura ed i classici
greci e latini (238). Finalmente per mostrare di qual latte sia
stato nutrito, scrive nella sua ammirazione per Lutero: «Non
dimenticherò mai quello che è dovuto all'illustre atleta della
Riforma, a quel valoroso Diomede che ha perseguitato la Venere
romana (239)».
In
Zuinglio come in Lutero non solamente il linguaggio è paganizzato,
giusta la frase di Erasmo; ma non lo sono meno i sentimenti e le
credenze. Applicando in tutta la sua pienezza all'ordine religioso il
libero pensare portato in Europa dai grandi uomini dell'antichità
che ne furono gl'illustri apostoli, Zuinglio indirizza a Francesco I
la sua professione di fede. Spiegando l'articolo della vita eterna,
dice a questo principe: «Vedrete nel cielo i due Adami, il redento,
e il Redentore. Vi vedrete Abele, Enoch, Noè, Abramo, Isacco,
Giacobbe, Giuda, Mosè, Giosuè, Gedeone, Samuele, Finees, Elia,
Eliseo, Isaia con la Vergine Madre di Dio da esso annunziata, David,
Ezechia, Giosia, Giovanni Battista, San Pietro, San Paolo, Ercole,
Teseo, Socrate; Aristide, Antigono, Numa, Camillo, Catone, gli
Scipioni. Che si può pensare di più bello, di più gradevole, di
più glorioso di un simile spettacolo»? (240)
«Chi
mai, scrive Bossuet, aveva pensato di mettere così Gesù Cristo alla
rinfusa coi Santi, e in sequela dei Patriarchi, dei Profeti, degli
Apostoli, e dello stesso Salvatore, persino Numa, il padre
dell'idolatria romana; persino Catone che si uccise da sé come un
furioso, e non solamente tanti adoratori delle false divinità, ma
anche gl'iddii, e gli eroi, un Ercole, un Teseo ch'essi hanno
adorato? Non so perché non vi abbia messo anche Apolline, Bacco e lo
stesso Giove; e se egli ne è stato distolto dalle infamie che i
poeti attribuiscono ad essi, quelle di Ercole erano forse minori?
«Ecco
di che è composto il cielo secondo il capo del secondo partito della
Riforma: ecco quello che ha scritto in una professione di fede ch'ei
dedica al più grande dei re della cristianità, ed ecco quello elle
Bullinger suo successore ci ha dato come il capolavoro e l'ultimo
canto di questo cigno melodioso (241). E non si stupirà che tali
genti abbiano potuto essere tenuti in conto d'uomini
straordinariamente inviati da Dio per riformare la sua Chiesa»!
(242)
Che
si abbia da stupire il vedere cotali genti darsi pei riformatori
della Chiesa, egregiamente; ma quando vi si guarda da vicino, nulla è
meno sorprendente delle loro aberrazioni. Il paradiso di Zuinglio è
il panteon dei pagani; fabbricati tutti e due dal libero pensare. Il
cristianesimo venendo nel mondo, aveva demolito il primo; il
paganesimo ritornando sulla terra lo ha ricostruito e ripopolato.
Aggiungiamo che la prima pietra dell'edificio, non è, stata portata
dai protestanti, ma dai figli del Risorgimento.
Prima
di Zuinglio, Erasmo non aveva aperto il cielo a Socrate? non voleva
egli metterlo nelle litanie: «Sancte Socrates, ora pro nobis?» E
Pomponio a Roma, non aveva deificato Romolo? E prima di Pomponio e di
Erasmo, Ficino non aveva fatto a Firenze ciò che si rimprovera a
Zuinglio? Cosa singolare! intanto che i successori divenissero i
distruttori dei Santi del cattolicismo, i Risorgenti del
secolo XVI si erano fatti i canonizzatori dei santi del
paganesimo. «La legge naturale, dice il canonico italiano, consiste
in due cose; nel culto d'un solo Dio, e in una vita ben costumata.
Pitagora, Socrate, Platone ed altri simili, adoratori d'un solo Dio e
di esemplare purezza di costumi, discepoli di Mosè o della legge
naturale, hanno evitato l'inferno. Ma la grazia sola di Cristo poteva
loro aprire il cielo. Perciò furono trasportati in una regione
mediana, dove riposando nel limbo, seppero la venuta del Messia o
dalla bocca, degli angeli, o per voce dei profeti che abitavano lo
stesso soggiorno. Di che i pagani come i giudei, prima per la
speranza, poi per la presenza di Cristo, sono saliti fra gli celesti
(243)».
Quello
che vi è di riprensibile in questa dottrina, si è il diritto che si
arroga il libero pensare di distribuire a questi od a quei personaggi
brevetti di santità e bolle di canonizzazione. Se una tale temerità
è condannabile in Zuinglio, è essa forse innocente in Ficino che
gliene ha dato l'esempio? Ma noi siamo così fatti. Siamo avvezzi a
far risalire tutto il male o alla filosofia del secolo XVIII, o al
protestantesimo: più in là non vediamo nulla. Somigliamo ad uno
sciagurato padre che percuotesse il proprio figlio perché è affetto
da una malattia ereditaria che egli stesso ha comunicato alla madre
di questo figlio; la quale l'ha poi comunicata al frutto delle sue
viscere.
Queste
mostruose conseguenze del libero pensare scandalizzarono Lutero. Egli
non risparmiò Zuinglio, e dichiarò apertamente «che disperava
della sua salute, perché non contento di continuare a combattere il
sacramento, era divenuto pagano, mettendo empii pagani e perfino un
Scipione epicureo, perfino un Numa, organo del demonio per istituire
l'idolatria presso i Romani, nel novero degli spiriti beati.
Imperocchè a qual cosa ci giovano il battesimo, gli altri
sacramenti, la Scrittura e lo stesso Gesù Cristo, se gli empi, gli
idolatri e gli epicurei sono santi e beati? E ciò non è altra cosa
che insegnare poter ciascuno salvarsi nella sua religione e nella sua
credenza (244)».
Ecco
quello che pensava or ha tre secoli, il capo del protestantesimo
alemanno. Ascoltiamo quello che dice oggi un cattolico. «Io debbo,
scrive Chauffour, citare un passo della professione di fede di
Zuinglio, il quale, sin dai giorni nostri ha suscitato un grande
scandalo fra i protestanti, e che mostra a quale altezza Zuinglio
si innalzava sopra ai suoi contemporanei» (245).
Dopo
aver citato il passo che abbiamo riferito, l'autore aggiunge: «Mi
sembra essere la conseguenza logica, necessaria dei principii che ho
avuto l'occasione di rilevare nell'opera di Zuinglio ... Questa
grande pacificazione nel dominio religioso, questa riconciliazione
dell'antichità pagana e del cristianesimo, quest'apoteosi generosa
della virtù, sotto qualsisia domma siasi riparata, è il
punto culminante a cui Zuinglio siasi sollevato come riformatore.
Con ciò egli dà la mano al mondo moderno, ed apre la via a coloro
che dovevano più tardi promulgare la legge di continuità nella
storia del genere umano» (246).
Unito
a quello, che vediamo intorno a noi, questo giudizio ci dà la misura
dei progressi del razionalismo. Se ne spaventi ognuno, ma non ne
stupisca niuno! Dopo il Risorgimento l'antichità pagana, quel vasto
focolare dell'indipendenza intellettuale e morale, è divenuta la
scuola delle generazioni letterate: sarebbe cosa ben più da stupirne
se ne divenissero sommesse e credenti.
Quello
che Lutero faceva in Alemagna, Zuinglio, come abbiamo veduto, lo fa
nella Svizzera. Loro mercé, emancipata è la ragione. Il paganesimo,
che è ad un tempo orgoglio e voluttà, trionfa nella metà di sé
stesso: resta a compiere la sua vittoria emancipando la carne. Anche,
qui vediamo Lutero e Zuinglio camminare, di passo pari. L'abolizione
delle leggi del celibato, il matrimonio dei religiosi e dei preti
compariscono fra le prime e più costanti predicazioni del dottore di
Wittemberga: egli stesso conferma le sue dottrine col proprio
esempio. Le stesse prediche e la stessa condotta da parte del parroco
di Glarona.
Nel
1522, manda innanzi come saggio un libro sulla libertà degli
alimenti; poscia indirizza al vescovo di Costanza una tesi
formale soscritta da dieci preti riformati, per chiedere
l'abolizione del celibato ecclesiastico (247). Ben tosto egli
medesimo inalbera lo stendardo dell’emancipazione sposando una
ricca vedova chiamata Reinhard. Da quel momento la carne è liberata
dai vincoli in cui l'aveva costretta il cristianesimo. Sotto il
duplice aspetto della ragione e dei sensi, l'uomo ha riconquistato la
libertà di cui godeva in seno della classica antichità: il trionfo
del paganesimo è completo.
Restava
a fare all'ordine sociale l'applicazione di questo gran principio
d'indipendenza. Nel sistema antico, la potestà temporale e la
potestà spirituale sono raccolte nella stessa mano. Per salvare la
coscienza umana, il Vangelo ha diviso il potere e sottoposto la
potestà temporale all'alta direzione della potestà spirituale.
Ritornando
al secolo XV, il paganesimo trova occupato il posto. Per organo di
Machiavelli dice al cristianesimo: Togliti di là che mi ci metta
io. Lutero, figliuolo del Risorgimento, ha raccolto questo detto.
I costanti suoi sforzi mirano a riprodurre il Cesarismo antico;
scacciare la Chiesa dalla politica; affrancare dalla potestà
spirituale i re e le società, cioè sostituire i re ai papi, lo
scettro alla tiara. Quante lotte furibonde non ha esso su questo
punto ingaggiate! Iddio, nel suo sdegno, gli ha dato la vittoria; e
il potere senza sindacato è divenuto il dispotismo; ed i popoli
senza guarentigia non hanno cessato di vagheggiare il regicidio e la
ribellione; e nel seno dell'Europa cristiana si è persino
scancellata la nozione della libertà!
Quello
che Lutero fa in Germania, Zuinglio lo compie nella Svizzera.
L'autorità sociale della Chiesa è negata: i vescovi sono spogliati
dei loro diritti temporali; i consigli urbani, composti di laici,
decidono i casi di coscienza; Zuinglio è condotto a bandire il
principio della insurrezione.
«Il
cristiano, dice egli, deve obbedire al tiranno sino a quell'occasione
di cui parla San Paolo: Se puoi renderti libero, fallo (248).
Gli
anabattisti credono di essere oppressi, ed essere venuta l'ora di
scuotere il giogo. Fra essi ed i discepoli di Zuinglio si accende una
guerra furiosa; e la Svizzera come l'Alemagna, l'Alsazia, la
Franconia è tostamente inondata di sangue e coperta di ruine.
Zuinglio sostiene la propria dottrina con l'armi in mano. Con
l'alabarda in sulla spalla, sale a cavallo e si fa uccidere alla
battaglia di Cappel il giorno 11 ottobre dell'anno 1531.
______________________
CAPITOLO
VII.
CALVINO.
Libero
pensatore come Lutero e Zuinglio.- Nascita e prima educazione di
Calvino. - Centro in cui si trova a Parigi. - Suoi primi studi nel
collegio della Marche. - Come Lutero ad Eisenach, Zuinglio a Basilea,
Calvino s'invaghisce degli autori pagani. - Il suo maestro Maturino
Cordier. - Calvino commenta Seneca. - Studia diritto ad Orléans, e
il Bourges sotto due famosi Risorgenti. - Notizia sopra Alciati. -
Come Lutero ad Erfurth e Zuinglio a Glarona, Calvino si dà al culto
delle muse. - Com'essi studia la Scrittura e la teologia. - Lascia
Bourges.
***
Sotto
qualunque clima sia seminata la ghianda produce la quercia. Il libero
pensare, insegnato dal Risorgimento, produce Lutero in Alemagna;
nella Svizzeral Zuinglio; nella Francia, produrrà Calvino. La stessa
educazione, le stesse ammirazioni, gli stessi disprezzi, le stesse
applicazioni all'ordine religioso e sociale; in una parola, le stesse
manifestazioni del medesimo principio generatore, attinto alla
medesima sorgente.
Il
10 luglio 1509 nacque a Noyon Giovanni Cauvin. Suo padre fu Gerardo
Cauvi, prima bottaio, poi procuratore fiscale del conte di Noyon e
finalmente segretario del vescovo. Povero e padre di numerosa
famiglia Gerardo nei momenti di penuria trovava pane e vestimento
nella nobile e pia famiglia dei Mommor. Giovanni cresceva e suo padre
scorgendo in lui disposizioni allo studio, lo destinò alla carriera
ecclesiastica. Nella famiglia Mommor ricevette i primi rudimenti di
latinità. Di dodici anni anelò a continuare al collegio della
Marche a Parigi lo studio degli autori pagani che aveva incominciato
a Noyon.
Non
ostante le gagliarde rimostranze della Sorbona, e fra le altre del
dottor Beda, le cui profetiche parole citeremo altrove, l'università
di Parigi, si popola di umanisti. Ivi si facevano udire Aleandro,
venuto da Venezia col capo pieno di greco e di latino; Giovanni di
Bellay, talmente invaghito d'Orazio, che dormiva con essolui, Ramo,
che per pensare, parlare e vivere alla socratica più a suo agio
andava a respirare l'aria libera di Ginevra; Melchiorre Wolmar, uno
di quei puristi che Lutero chiamava censori di parole che,
all'uopo, rifarebbero il Paternostro (249). Agli umanisti in
prosa e in verso si aggiungevano alcuni teologi che commentavano la
Scrittura assai meno sotto l'ispirazione dello Spirito Santo e della
tradizione cattolica che al lume del libero pensare, come fra gli
altri: Le Febvre d'Étaples, già precettore dei principi di Francia;
Guglielmo Farel, Arnaldo Roussel, e Gerardo Roussel, chiamati nella
diocesi di Meaux dal vescovo Briçonnete che sotto il manto della
parola di Dio, spandevano la parola dell'uomo ed il principio
razionalista, il cui veleno avevano portato dalla scuola di
Strasburgo. Tutti questi umanisti lavoravano copertamente sotto il
manto d'ermellino di Guglielmo Budeo e di Pietro della Stella, «i
quali tutti s'infarcivano di greco e d'un po’ d'ebraico, con grande
fastidio della Sorbona, la quale si oppose a tutto con tanta furia,
che se si avesse voluto prestar fede ai nostri maestri, lo studiar
greco era una delle più grandi eresie del mondo» (250) Tal era il
centro in mezzo a cui Calvino si trovava.
Ospitato
in casa di suo zio Richard, fabbro ferraio e cattolico eccellente,
dimorante presso San Germano d'Auxerre, Calvino andava a prendere le
lezioni al collegio della Marche. Vi ebbe per professore dei primi
rudimenti grammaticali Maturino Cordier, il quale degli scrittori
latini dell'antica Roma aveva fatto i suoi amici, i suoi ospiti, i
suoi dei. «Ottima persona, dice Beza, di grande semplicità ed
accuratissima nel suo stato; che dappoi ha logorato la propria vita
insegnando ai fanciulli a Parigi, a Nevers, a Bordò, a Ginevra,
Neuchàtel, Losanna, e finalmente ancora a Ginevra dov'è morto nel
1564, in età di ottantacinque anni, istruendo la gioventù nella
sesta classe, tre o quattro giorni avanti la sua morte che avvenne il
dì 8 settembre (251)».
Il
fatto è che Maturino Cordier era un Risorgente appassionato ed uno
degli uomini che hanno maggiormente contribuito a render pagana la
gioventù. Invece di educare i fanciulli affidati alle sue cure
proponendo loro per soggetti di temi e di versioni massime cristiane,
pubblicò, dice du Verdier, l'Interpretazione e costruzione in
francese dei distici latini attribuiti a Catone, opera stampata
più di cento volte a Lione e poi altrove, essendo un
libro che i fanciulli hanno a mano comunemente nelle scuole» (252).
Il
signor Audin, la cui testimonianza noti è sospetta, aggiunge:
«Cordièr era un vero spirito rivoluzionario il quale, dopo di aver
gettato un salutare disordine nell'insegnamento, avrebbe
voluto trattare il catechismo come una gramatichetta. Era in cattedra
elegante e fiorito; la sua frase, alquanto famigliare, sentiva
l'odore antico; poeta dopo la sua lezione, lasciava, all'uscir
dalla scuola, tutto l'Olimpo pagano per cantare qualche inno al
Signore ... Cordier inclinava per le novità germaniche,
perché erano dottrine del giorno, perché quelli che le propagavano
intendevano a meraviglia la lingua d'Omero e di Virgilio
(253)».
Questa
disposizione condusse Cordier al Protestantesimo, e vedremo che non
fu solo. Intanto quello che Trebonio fu ad Eisenach per Lutero,
Lupulo a Berna per Zuinglio, Cordier fu a Parigi per Calvino. Dal
collegio delle Marche passa a quello di Montacuto, dove, sotto la
direzione d'un professore di nascita Spagnolo, si dedica per
formalità, come Lutero ad Erfurth, come Zuinglio a Vienna, allo
studio della filosofia scolastica: le sue migliori ore sono
consacrate alla bella antichità. Lo stesso Calvino ce ne ha lasciato
la prova nel suo commentario di Seneca che pubblicò uscendo di
collegio, all'età di ventuno anni. E per ringraziare in certa guisa
la famiglia Mommor e mostrargli i frutti preziosi che ha ritratti dai
benefizi di essa, dedica il suo libro all’abate di Hangest, nella
cui casa e con cui aveva passato i primi suoi anni (254). Questo
libro è un monumento prezioso o piuttosto spaventevole
dell'entusiasmo per l'antichità pagana che trasportava Calvino
uscendo di collegio. Per lui, ben s'intende; Seneca il filosofo, che
lo scolaretto confonde con Seneca il Tragèdo, è un essere
sovrumano, una specie di semidio, un santo. Ei rifulge fra i principi
della bella latinità: puro è il suo stile come raggio di sole,
limpido siccome specchio: gli è la cima della filosofia e
dell'eloquenza romana. Non ebbe nessuno dei difetti che gli vengono
imputati e morì come un eroe». Niuno mi contraddirà, dice
classicamente il giovane commentatore, eccettochè egli non sia in
ira alle Muse e alle Grazie (255)».
Per
commentare i pochi capitoli del Trattato della clemenza,
Calvino sfodera tutta la sua erudizione di fresca data; ei ne fa
pompa, se ne compiace. A ciascuna frase sembra ch'ei dica: Guardate
un po' se io mi conosco bene di antichità! Si ha da spiegare una
frase, una parola, un fatto che spesso non abbisognano di spiegazione
alcuna? invoca i classici gli uni dopo gli altri, talvolta tutti
insieme, Cicerone, Orazio, Ovidio, Virgilio, Plinio, Quinto Curzio,
Claudiano, Plauto, Cesare, Tito Livio, Sallustio, Terenzio,
Giovenale, Omero. Per imprimere alla sua opera il suggello dei fini
umanisti di quel tempo, frammette nelle sue citazioni alcune parole
greche; poscia come ultimo mezzo di schiarimento riferisce le diverse
storielle di Scevola, di Coclite, di Curzio, certe usanze militari, e
descrive battaglie. Da tutto questo vano sfoggio risulta un
commentario più oscuro del testo e soprattutto più noioso. Per
coronar l’opera, Papirio Masson afferma che ad esempio dei celebri
Risorgenti, Calvino segnò il suo libro: Lucius Calvinus civis
Romanus (256).
L'amore
per la bella antichità disgusta Calvino dalla carriera
ecclesiastica. Per conformarsi ai desideri ambiziosi del proprio
padre, incomincia lo studio del diritto (257). In quel tempo entra in
una continuata relazione con uno dei suoi parenti, Pietro Robert,
chiamato Olivetano dal suo nome classico, il quale aveva tradotto la
Biblia sotto l'ispirazione del libero pensare. «Olivetano, dice
Teodoro di Beza, fece gustare a Calvino qualche cosa della pura
religione. Egli cominciava a distrarsi dalle superstizioni
papali, e seguì piuttosto lo studio delle leggi che della teologia,
essendo essa allora nelle scuole tutta corrotta (258)».
Tale
è l'oltraggioso opinione che il Risorgimento aveva accreditato a
Parigi, a Vienna e ad Erfurth. Calvino che ne era partecipe come
Lutero e Zuinglio, si trasferisce all'università d'Orléans dove
leggeva diritto un celebre Risorgente, Pietro della Stella, che fu
poscia presidente del parlamento di Parigi. Al dire di Beza, Calvino
era assiduo, docile e pieno di ardore per lo studio: ben presto non
lo si tenne più come scolare, ma come maestro (259). Un altro
storico aggiunge: «Calvino non faceva altro mestiere in collegio che
calunniare i suoi compagni: perciò l'avevano soprannominato
l'Accusativo, e dicevano di lui: Giovanni sa declinare sino al
caso accusativo» (260).
Da
Orlèans Calvino passa a Bourges per compiere il corso di diritto.
Alciato, chiamato dall'Italia da Francesco I, al prezzo di mille
dugento scudi d’oro all'anno, traeva la moltitudine a
quell'università. Quel famoso giureconsulto è il padre della scuola
così detta storica del diritto: «Alciato, dice Terrasson, fu il
primo che abbia assunto d'associare insieme il diritto e la
letteratura» (261). Invaghito dell'antichità pagana, non vede,
non sa, non ammira, non insegna che il diritto romano. Ai suoi occhi,
finché le nazioni cristiane non avranno sostituito al loro diritto
indigeno e nazionale la ragione, la sapienza, la giustizia stessa che
hanno parlato per bocca di Numa, dei decemviri e dei giuristi di
Giustiniano, saranno condannate alla barbarie. Questo è nell'ordine
civile e politico quello che tutti i Risorgenti non cessano di
ripetere nell'ordine filosofico, artistico e letterario.
Giurista,
poeta, filosofo, un po' teologo, vero tipo dell'umanista del
sestodecimo secolo, Alciato può dire dell’antichità pagana:
Nutrito nel serraglio, ne conosco gli andirivieni. Roma antica
gli è famigliare come se vi avesse abitato; lo si direbbe un
arringatore della Via sacra, che spieghi le leggi, le
consuetudini, le usanze del paese latino. Talvolta, in mezzo alla
lezione, il poeta succede al giurista, ed Alciato mette in versi le
sue massime alla foggia d'Orazio. Del resto così libero pensatore
che ride di tutto gusto delle satire di Melantone contro
l'insegnamento della teologia cattolica, tenendo la religione per
cosa indifferente all'insegnamento del diritto, ed allontanandola
allorché essa si trova sul suo cammino con questo detto che la
storia ha conservato: Nihil pertinet ad praetoris edictum. Ciò
non riguarda l'editto del pretore.
Alle
lezioni di Alciato niuno era più assiduo di Calvino. Scolpita nella
memoria o scritta sul classico limbello di pergamena, neppur una
parola del professore andava perduta per lo scolare. «Ritornato a
casa, dice Teodoro Beza, scriveva, studiava sino a notte; e per far
questo, mangiava ben poco a cena; poi risvegliatosi la mattina, stava
ancora un poco nel suo lettuccio, richiamando e ruminando tutto
quello che aveva imparato la sera (262)». Dal convento, Calvino non
sarebbe uscito che con un solo Dio, Aristotele: dai banchi
dell'università di Bourges ne annoverava mille che Alciato davagli
da adorare. Essi erano tutti quei fondatori del diritto romano che,
nel lirico suo entusiasmo, il Milanese paragonava a Romolo (263).
Quantunque
alla scuola di Alciato, Calvino vivesse in pieno Paganesimo, cioè
quantunque imparasse da una parte ad ignorare ed a disprezzare il
diritto civile e politico introdotto dal cristianesimo, la missione
sociale della Chiesa e del papato; e dall'altra parte ad ammirare
l'antichità sotto l'aspetto legislativo, dopo averla ammirata
nell'infanzia dal lato letterario, ciò non gli basta. Abbiamo veduto
Lutero ad Erfurth, Zuinglio a Glarona intermettere gli studi più
gravi per coltivare le muse. Trascinato dal medesimo gusto, Calvino
cammina sulle medesime orme.
«Ben
presto, dice uno dei suoi biografi, lo scolare cambiò gl'imperatori,
i consoli, gli edili e la magistratura di Roma per la Grecia, pei
suoi dei e pei suoi poeti, di cui un tedesco chiamato Wolmar, per
ordine del re, aveva incarico di spandere il culto in Francia.
Melchiorre Wolmar amava gli alunni ch'esso rigenerava a Sofocle ed a
Demostene come i figli della propria sua carne. Di che avviene che in
particolar modo prediligeva Calvino. Frequentemente il maestro,
discendendo dalla cattedra, prendeva lo scolare sotto il braccio, e
conversava con lui nel cortile del collegio sulla mitologia
greca, di cui era veramente innamorato (264) »
Dopo
essersi rimpinzati di studi pagani, Lutero e Zuinglio si risolvono un
giorno di studiare la Sacra Scrittura e la teologia. Si pongono a
questo studio col disprezzo del medio evo e dell'autorità,
coll'ammirazione per l'antichità e col culto del libero pensare. Una
sera Wolmar, passeggiando con Calvino, gli dice: «Tuo padre si è
ingannato intorno alla tua vocazione. Tu non sei chiamato come
Alciato a dettar diritto, né come me ad insegnar il greco. Volgiti
alla teologia, perché la teologia è la scienza maestra di tutte le
scienze (265)». Wolmar era luterano, e certamente non insegnò a
Calvino le regole cattoliche per studiare la Scrittura. Il giovane
discepolo delle Muse prende la traduzione del suo parente Olivetano,
e nel suo ardore di neofito si mette a spiegare i sacri testi, come
avrebbe potuto fare di una di quelle commedie antiche che commentava
Melchiorre Wolmar, e come egli aveva fatto del trattato di Seneca.
Tale era Calvino, quando uscì dall'università di Bourges nel 1552.
______________________
CAPITOLO
VIII.
CALVINO
(Continuazione e fine).
Disprezzo
pel Cristianesimo. - Ammirazione pel Paganesimo. - Lettera di
Ficino.- Calvino a Parigi. - Ei dommatizza in virtù del libero
pensare come Lutero e Zuinglio. - Suo linguaggio classico. -
Restaurazione del Paganesimo sotto il duplice aspetto dello spirito e
della carne. - Dispotismo razionalistico di Calvino. - Egli deifica
la carne. - Applica il Paganesimo all'ordine sociale.- Governo di
Ginevra. - Morte di Calvino. - Conclusione.
***
Orgogliosi
del loro greco e del loro latino i Risorgenti d'Italia che si davano
il titolo di bilingui e di trilingui, bilingues et trilingues,
facevano pompa di un profondo disprezzo pel medio evo, cioè per
l'insegnamento dei dottori, dei vescovi e dei papi medesimi. Secondo
loro, né i filosofi né i teologi cattolici meritavano di servir di
regola, poiché, ignorando l'antica latinità ed il greco antico, non
avevano potuto attingere alle medesime fonti della scienza. Per
ritrovare la vera filosofia, il vero senso delle Scritture, la vera
teologia, conveniva, da una parte studiare i testi primitivi, e
dall'altra parte, leggere non solamente alcuni trattati, ma tutte le
opere dei filosofi e dei Padri e tutta intera la Scrittura.
«Avvi
ai nostri giorni, scriveva Marsilio Ficino, un gran numero non di
filosofi, ma di filopompi che orgogliosamente si vantano di
conoscere il senso di Aristotele; eppure costoro non hanno mai udito
parlare Aristotele, e non hanno ricevuto che alcune delle sue parole.
Ed anche in questo caso non l'hanno udito spiegarsi in greco, ma in
una lingua barbara; perciò non intendono neppur una parola della sua
dottrina (266)».
Che
mai era questo se non un gettare l'oltraggio in viso al passato, e
bandire per ciascuno il diritto e il dovere di rifare a suo modo la
scienza teologica, filosofica, politica, artistica e letteraria,
risalendo alle fonti antiche, senza tener conto né dell'insegnamento
tradizionale, né del principio d'autorità? Questo principio
d'orgoglio e d'indipendenza di cui Lutero e Zuinglio erano debitori
alla pagana loro educazione, Calvino l'aveva attinto alla medesima
sorgente, e com'essi ne fece l'applicazione all'ordine religioso ed
ecclesiastico.
Venuto
a Parigi si mette a dommatizzare. Ciascuna novità che egli annunzia
la sostiene con la Scrittura interpretata da lui sotto l'ispirazione
del libero pensare. Come Lutero in Alemagna, come Zuinglio nella
Svizzera, Calvino trova nei sacri testi l'inutilità della
confessione, la negazione dei sacramenti e dell'autorità della
Chiesa. Com'essi e come tutti i Risorgenti mette in ludibrio i frati,
i conventi, i dottori, i preti cattolici; declama contro gli abusi
della Chiesa e contro la ignoranza del sacerdozio; annunzia una
parola che dee mutare il mondo, rendere morale la società,
distruggere la superstizione e recar la luce.
Mercé
lo spirito d'indipendenza che spira sul mondo, queste dottrine
trovano molti seguaci. Lo stesso Calvino scrive: «Io era tutto
attonito che in meno d'un anno tutti coloro che avevano qualche
desiderio della pura dottrina accorrevano a me per impararla, sebbene
non facessi quasi che cominciare io stesso. Per parte mia, tanto più
che essendo d'indole un po' selvatica e vergognosa, ho sempre amato
la quiete e la tranquillità, incominciava a cercare qualche
nascondiglio e qualche mezzo da tenermi occulto alle persone; ma non
potei riuscire nel mio desiderio, ché anzi tutti i ritiri e luoghi
appartati mi erano come pubbliche scuole (267)». Il vero è che
Calvino, riparatosi in casa d'un mercatante chiamato Stefano della
Forge, dogmatizzava di nascosto, a porte chiuse, di notte. La notizia
delle sue prediche giunse all'orecchie dell'autorità, e Calvino,
travestito da vignaiolo, ebbe per grande ventura di poter uscir di
Parigi e scampar dalla polizia. Riparatosi a Nérac, come Lutero a
Wartburgo, compose la sua Istituzione cristiana (268). Ad
esempio di Lutero che nelle sue dispute teologiche fa intervenire gli
dei e gli eroi del paganesimo, Calvino, educato alla stessa scuola,
toglie le sue immagini dalla storia mitologica di cui è nutrito.
Parlando
dell'augusto sacrificio degli altari, osa così esprimersi:
«Certamente Satanasso non innalzò mai una più forte macchina per
combattere ed abbattere il regno di Gesù Cristo. Questa messa è
come un'Elena per la quale i nemici della verità oggi
battagliano tanto crudelmente, con sì gran furore e con tanta
rabbia. E veramente essa è un'Elena con la quale bordellano con
spirituale fornicazione la quale è la più esecrabile di tutte
(269)».
Non
seguiremo Calvino nelle sue diverse fughe a Strasburgo, a Basilea, a
Francoforte, a Vormazia, a Ratisbona, in Italia, nella Svizzera.
Basti il sapere che da per tutto ei conduce il libero pensare in
materia di religione come altri fanno in tutti i paesi in materia
d'arte, di filosofia e di politica. Alla sua voce come a quella di
Lutero e di Zuinglio sorgono, principalmente fra i letterati,
generazioni di liberi pensatori che gettano il superbo loro disdegno
sopra tutto ciò che aderisee al principio di autorità, e si danno
vanto di non più piegar il capo che davanti la sacra Scrittura.
Quest'emancipazione della ragione, o, per parlare con più di
esattezza, quest'apoteosi dell'orgoglio, è la prima parte
dell'assunto di Calvino, di Lutero, di Zuinglio e degli altri
riformatori.
Ma
il Paganesimo, ritornato a vita dal Risorgimento e dalla Riforma sua
figlia, non è soltanto orgoglio, ma anche. voluttà. Come i liberi
pensatori di Vittemberga e di Zurigo, Calvino non manca di
restaurarlo anche da questo lato. Dopo le declamazioni contro il
celibato che rammentano quelle di Lutero e di Zuinglio, Calvino
abolisce i voti religiosi, nega il sacramento del matrimonio;
proscrive la confessione, le astinenze ed i digiuni; in una parola
rompe tutti i vincoli imposti alla carne. Per quanto lo può
permettere l'influenza del Cristianesimo, ecco dunque il Paganesimo,
nei suoi due essenziali principii, ristabilito in seno all'Europa.
Per
confermare la propria dottrina, Calvino dà l'esempio dell'adorazione
costante delle due divinità, Giunone e Venere, che nella classica
antichità personificano l’orgoglio e la voluttà. Niuno più di
lui fu despota. «Che vuoi tu, Calvino? gli grida un protestante dei
nostri giorni: convertire la Francia al calvinismo, cioè
all'ipocrisia, madre di tutti i vizi? Non vi riuscirai. Ti chiami
pure Beza a sua voglia il profeta del Signore: è una menzogna.
Espulso dalla Francia, troverai ricovero a Ginevra dove sarai colmato
di tutti gli onori immaginabili tu che parli di povertà! Acquisterai
un'autorità illimitata con ogni sorta di mezzi; e quando
sarai sicuro d'avere una fazione potente, convertirai la Riforma a
tuo profitto; farai sbandeggiare i fondatori della ginevrina
indipendenza che avevano dato il loro sangue e i loro beni per la
libertà. A quelle anime cittadine griderai dal pulpito : Bricconi,
furfanti, cani: farai ardere, dicollare, affogare, impendere alle
forche quelli che vorranno resistere alla tua tirannide. Lungo sarà
il tuo regno, e le barbare tue istituzioni ti sopravvivranno per un
secolo e mezzo (270)».
Questo
ritratto di Calvino si attaglia a Lutero, a Zuinglio, a tutti i
razionalisti, a tutti i rivoluzionari, loro figli e loro nipoti. Al
giogo legittimo dell'autorità non mancano di sostituire il
despotismo della loro ragione individuale. «Si dice che il pensiero
oppresso dormiva incatenato, e che alla voce di Lutero si risvegliò.
E per verità che faceva dunque Lutero se non che fondare un’altra
schiavitù sotto il nome di ragione individuale, strumento di verità
nell'opinion sua, e di verità assoluta, non derivante che da sé
stessa, raggio che non ha che un'origine umana, il cervello donde
guizza? Osservate dunque come Lutero preme per lo contrario il
pensiero, obbligato a riconoscere in proprio padre il frate, senza
che Lutero gli dice: «Tu non sei più mio figlio, tu ti smarrisci
nelle vie di perdizione, tu sei la progenie delle scuole.
«E
sapete quello ch'esso intende per scuole, l'insegnamento della Chiesa
che si è perpetuato di secolo in secolo, da Cristo al suo vicario,
dal vicario ai vescovi, dai vescovi ai preti, dal prete alla
comunione dei fedeli: divina e stupenda aurea catena che esso è
venuto a spezzare di sua privata autorità; perché pontefice,
vescovo, Chiesa di Cristo, sacerdozio, tutto ciò è opera di
Satanasso. Non avvi più che un prete, è desso, è l'uomo (271)».
In
Calvino come in Lutero, l’uomo, divenuto suo proprio pontefice e
suo dio, si adora nella propria ragione e nella propria carne. Lutero
prende moglie; Zuinglio esso pure si ammoglia, e lo stesso fa Calvino
(272), altrettanto Viret e non dissimilmente Farel. Erasmo ride di
questo furore matrimoniale onde sono tormentati i liberi pensatori; e
la storia ci fa sapere che in Sassonia definivasi il predicante
luterano: un uomo cui la moglie è più necessaria del pane (273).
Così era nella bella antichità.
Calvino
però non aveva aspettato il matrimonio per emancipare la sua carne.
Leggesi in Stapleton, grave e dotto inglese, che aveva più di
trent'anni, quando morì Calvino, e che passato aveva una gran parte
della sua vita nella vicinanza di Noyon: «Oggidì si vedono ancora
nella città di Noyon, nella Piccardia, gli archivi ed i monumenti di
quello che vi è avvenuto. Oggidì vi si legge ancora che Calvino,
convinto di pederastia, fu soltanto marchiato sulla spalla per
indulgenza del vescovo e del magistrato, e che uscì dalla città; e
uomini onorevolissimi della sua famiglia, che vivono ancora, non
hanno potuto ottenere finora che fosse cancellato dagli archivi della
città la memoria di questo fatto che imprime una certa infamia in
tutta la famiglia (274).
Dal
canto suo Campiano rinfacciando ai protestanti la vita infame di
Calvino, e dicendo loro ch'esso era stato gigliato, non ha
ottenuto da Wittaker che questa insulsa risposta: «Calvino è
stato bollato; ma lo fu anche S. Paolo ed altri con lui (275)».
Finalmente i luterani di Germania ne parlano come d'un fatto
innegabile. E riguardo al silenzio di Beza, rispondono che il
discepolo essendosi reso famoso pei medesimi delitti del maestro, non
merita su questo punto la fede di nessuno (276).
Se
dobbiamo credere ad un testimonio oculare l'età non aveva spento in
Calvino le fiamme delle più turpi passioni. Quando fu morto si ebbe
premura di gettare sul viso del cadavere un nero lenzuolo, tanto si
temevano gli sguardi indiscreti. Ma accadde che un giovane studente,
penetrato essendo nella camera del morto, sollevò il drappo e vide
misteri che s'aveva interesse di tenere occulti. Niuno gli aveva
chiesto il segreto ed egli scrisse: «Calvino è morto colpito dalla
mano d'un Dio vendicatore, consumato da una turpe malattia che finì
nella disperazione (277)». Questo studente era Arranio venuto a
Ginevra per udirvi le lezioni di Calvino.
La
carne emandpata s'abbandona senza ritegno all'adorazione di sé
stessa. Il Paganesimo greco e romano ricomparisce a Ginevra come in
Germania. «Mostrerò, scrive un protestante ginevrino a coloro che
pensano non avere il riformatore prodotto se non del bene, i nostri
registri formicolare di figli spurii; se ne esponevano in tutti gli
angoli della città e della campagna; turpi processi di oscenità;
transazioni per atto notarile tra fanciulle e i loro amanti che loro
davano, alla presenza dei genitori, di che allevare i loro bastardi:
moltitudini di matrimoni coatti; in cui i delinquenti. erano condotti
dalla prigione al tempio; madri che abbandonavano i loro figli allo
spedale, mentre esse vivevano nell'abbondanza col loro secondo
marito; fasci di liti tra fratelli; mucchi di segrete denunzie: e
tutto questo in mezzo alla generazione nutrita dalla mistica manna di
Calvino» (278).
«Di
dieci evangelici, aggiunge lo stesso Calvino, ne troverete
appena uno solo che sia divenuto evangelico per altro motivo
che per potere abbandonarsi più liberamente alla crapula ed alla
lascivia ... Ma vi ha una piaga ancor più deplorabile: i
pastori, sì, i pastori stessi che salgono in pulpito sono in oggi i
più vergognosi esempi della perversità e degli altri vizi ....
Io stupisco alla pazienza del popolo; stupisco che i fanciulli e le
donne non li coprano di fango e d'immondezze (279)».
Lutero
e Calvino danno l'ultima mano alla risurrezione del Paganesimo
applicandolo all'ordine sociale. Ora, nell’ordine sociale, il
Paganesimo è l'antica unità dello Stato personificata in Cesare.
Calvino incomincia col rovesciare l'ordine sociale cristiano negando
la missione politica della Chiesa, la distinzione delle potestà, lo
scopo supremo delle società; poscia stabilisce a proprio profitto un
despotismo che unisce la crudeltà di Nerone all'ipocrisia di
Tiberio.
Sotto
il nome di concistoro, ha un tribunale inquisitorio che fa eseguire
le sue leggi. Esso imprigiona i delinquenti, li ammonisce, li
scomunica, li esilia, li marchia in fronte con un ferro arroventato,
li fa dicollare, affogare, bruciare. Dopo il codice rivoluzionario,
in nessuna legislazione ricorre così frequentemente la parola
fatale: Morte. Sopra parecchie piazze di Ginevra sono rizzate forche
con un cartello su cui si legge: Per chi dirà male del signor
Calvino (280).
Si
determina all’abitante di Ginevra il numero dei piatti, la forma
delle scarpe; l'acconciatura della moglie, i sollazzi che debbono
interdirsi e le prediche cui debbono assistere sotto pena di multa.
«Allora, dice Audin, Ginevra presenta un tristo spettacolo allo
storico. La Chiesa tende ad essere assorbita nello Stato. Lo Stato
non è più una dualità, ma un'unità, in cui il potere fa
l'ufficio d’apostolo e tratta la più bell'opera di Dio come
Caterina Bora la masserizia di Lutero, discendendo alle più minute
particolarità della cucina (281)». Un protestante, fanatico
ammiratore di Calvino, Paolo Henry, continua: «Le leggi di Calvino
sono scritte non solamente con sangue ma con fuoco: direbbonsi
istituzioni rapite a Decio o a Valente .... Avvi nel codice
calvinista tutto quello che si trova nella legislazione pagana,
anatemi, verghe, piombo liquefatto, tanaglie, corde per dar la colla,
forche, una spada, un rogo, una corona di zolfo (282)».
Dopo
aver attuato infatti il principio pagano della deificazione
dell'uomo, ed effettuato la servitù intellettuale, il libertinaggio
dei costumi e il dispotismo civile, Calvino morì a Ginevra il 27
maggio 1564.
Ed
ora se la storia merita qualche fede, se i fatti significano ancora
qualche cosa; come si potrà negare che lo spirito che ispirò
Calvino,Zuinglio, Lutero, i tre patriarchi della Riforma, è lo
spirito del libero pensare; che questo spirito che si manifesta ad un
tempo col disprezzo profondo dell'antichità cristiana, e con
l'ammirazione non meno profonda dell'antichità pagana, Lutero,
Zuinglio, Calvino l'avevano attinto negli studi di collegio; che
cotale spirito che si esala dallo studio dell'antichità e che
inebria la gioventù, spirava sull'Europa, e specialmente
sull’Italia, dopo l'arrivo dei Greci da Costantinopoli, che Lutero,
Zuinglio, Calvino, non hanno fatto che applicare all’ordine
religioso ed ecclesiastico quello spirito o quel principio del libero
pensare che un gran numero di letterati cattolici avevano
precedentemente applicato, e che applicavano ancora all'ordine
politico, filosofico, artistico e letterario?
Resta
dunque stabilito che Lutero, Zuinglio, Calvino non sono stati altro
che Risorgenti, più audaci degli altri, se vuolsi, ma pur partiti
dal medesimo principio; cioè, secondo il detto di Erasmo: il
risorgimento partorì l’uovo e Lutero l’ha fatto schiudere.
____________________
CAPITOLO
IX.
MELANTONE
Il
Protestantesimo figlio del Risorgimento. - Melantone. - Sua
educazione. -S'invaghisce dell'antichità pagana. - Il suo maestro
gl'insegna il greco di nascosto. - Reuclino gli dà un dizionario. -
Melantone fa una commedia di tredici anni. - Riceve il battesimo alla
greca. - Lascia il ginnasio per l'università. - Fa quel che fecero
Lutero, Zuinglio, Calvino. - A Tubinga s'inebria ed inebria gli altri
della bella antichità.- È professore a Vittemberga. - Suo discorso
inaugurale. - Due idee. Disprezzo del passato cristiano,
ammirazione dell'antichità pagana. - Effetti di quest'insegnamento.
***
Per
stabilire la genealogia del Protestantesimo, basta l'aver provato che
Lutero, Zuinglio e Calvino non furono che Risorgenti. Ma in una sì
grave questione è bene il moltiplicare le prore. Qui l'evidenza non
giova soltanto a dissipare l'errore generalmente diffuso che il
Protestantesimo è la prima origine del male attuale; nel mostrare
che quest'origine è altrove, concentriamo le nostre forze e
prepariamo la vittoria.
I
tre generali della Riforma hanno ciascuno il proprio aiutante di
campo, o, se così vuolsi, un altro sé stesso. A fianco di Lutero si
colloca Melanlone; di Zuinglio, Miconio; di Calvino, Teodoro Beza. Il
farne la biografia è un completare la storia del Protestantesimo nei
suoi principali fondatori, per conseguenza nella sua origine, nel suo
spirito e nel suo scopo.
Giorgio
Schwartzerde, divenuto poscia Filippo Melantone, nacque a Bretten,
nel Palatinato, il 16 febbraio 1497, tredici anni dopo Lutero. La sua
famiglia occupava un grado assai distinto nel paese. Ancor
giovinetto, Giorgio fu mandato al ginnasio di Pforzheim, dove
insegnava con un certo grido un urnanista nomato Giorgio Simlero.
«Era questi, dice Camerano, un dotto ed erudito uomo per quei tempi.
Infatti, in molte parti la gioventù era meglio istruita che pel
passato; riceveva una scienza meno barbara, stantechè le si
mettevano in mano le opere dei buoni autori (283). In alcuni
ginnasi si giungeva persino ad insegnarle gli elementi della
lingua greca, con grande ammirazione dei vecchi e con immenso
giubilo dei giovani (284). Questo duplice sentimento, fondato
allora, non sopra un ragionato giudizio, ma sulla novità del
fatto, indusse Simlero a dar nel principio poca pubblicità al
suo insegnamento. Contentavasi adunque di far imparare il greco di
nascosto ad un piccolo numero dei suoi scolari più prediletti, fra i
quali si annoverava Melantone (285)».
Niuno
palesava tanto ardore per lo studio dell'antichità quanto il giovane
Schwartzerde. Se gli autori latini erano suoi amici e suoi maestri,
gli autori greci erano suoi dii. Un caso impensato sollevò a
passione l'amor suo per Roma e per Atene. Il famoso Reuclino, suo
parente, andava a visitare di volta in altra il ginnasio di
Pforzheim. Un giorno donò a Giorgio un lessico greco-latino. Lo
scolare è al colmo della beatitudine. Per significare la propria
riconoscenza, compone una commedia all'antica, distribuisce le parti
ai suoi compagni, ed alla prima visita di Reuclino la commedia viene
recitata con grande contentezza del celebre Risorgente: Giorgio aveva
tredici anni. Reuclino non trova miglior mezzo di significare la
propria gioia che amministrando, in presenza di tutto il ginnasio, al
giovane emulo di Plauto, il battesimo pagano, che egli stesso aveva
ricevuto in Italia da Ermolao Barbaro: Giorgio Schwartzerde pertanto
diviene Filippo Melantone (286).
Il
neofito delle muse stette due anni a Pforzheim. Nella guisa stessa
che Lutero da Eisenach era passato ad Erfurth; Zuinglio, da Berna a
Vienna; Calvino, dal collegio della Marche ad Orléans ed a Bourges,
Melantone abbandona il ginnasio di Pforzheim per frequentare
l'accademia d'Eidelberga. Ivi prende calorosamente le parti di Bebel
che difendeva la tesi delle lettere umane contro i
religiosi che ne segnalavano il pericolo. Ricevuto baccelliere,
parte, per Tubinga, dove studiando ad un tempo la medicina, il
diritto e la teologia, continua come Lutero, Zuinglio e Calvino a
coltivare con fervore le lettere antiche. In lui, come negli altri
Risorgenti e negli altri Riformatori avvi lo stesso fastidio per
l'insegnamento del medio evo. Secondo essi, la scienza che aveva
parlato per l'organo di San Tommaso non era punto la teologia, ma un
cumulo di sottigliezze spinose ed inestricabili, buone soltanto a
stancare l'intelletto, ma non ad illuminarlo (287).
Durante
il suo soggiorno a Tubinga, Melantone s'inebria sempre più e
continua ad inebriare gli altri della bella antichità. Cosi avevano
fatto i suoi predecessori ad Erfurth, a Vienna, a Bourges. D’accordo
con Ecolampadio si dedica allo studio assiduo degli autori greci, per
richiamar a vita la vera filosofia di Aristotele. Nel tempo
stesso spiega in segreto, Virgilio e Terenzio ad alcuni giovani, come
era stato fatto per lui al ginnasio di Pforzheim (288). Conosciuta la
cosa, gli viene conferita una cattedra di rettorica dove interpreta
Cicerone e Tito Livio (289); né dimentica il suo caro Terenzio, di
cui pubblica una edizione. Nella prefazione ne raccomanda le commedie
siccome propriissime a formare la gioventù; e lo chiama un modello
di vita e di eloquenza.
Il
suo disprezzo per le scienze e per l'insegnamento del medio evo
cresce in ragione diretta del suo entusiasmo pei Greci e pei Romani.
Il primo di questi due sentimenti trova ben presto occasione di
manifestarsi splendidamente. Reuclino era nel più forte calore della
sua disputa contro i teologi cattolici, rappresentati dai dottori di
Colonia: Melantone gli viene in aiuto, somministrandogli ingiurie ed
acuendo gli epigrammi contro i suoi avversari (290).
La
parte ch'ei prendeva nel conflitto congiunta alla sua riputazione
d'umanista, lo fece chiamare nel 1518 dall'elettore Federico
all'università di Vittemberga per insegnarvi le lingue antiche:
Melantone aveva ventuno anni. Nel primo suo discorso rivela ai suoi
uditori tutto intero il suo animo. Quest'animo, come quello di
Lutero, di Zuinglio, di Calvino e dei Risorgenti più celebri non ha
né tre pensieri, né tre sentimenti: non ne ha che due: il disprezzo
del passato cristiano, e l'ammirazione dell'antichità pagana,
sospinti agli estremi.
La
riforma degli studi, tale fu il subbietto della sua orazione
inaugurale. Dopo aver fatto un quadro orribile della barbarie del
medio evo, il professore aggiunge: «Si prese, è vero, a studiar
Aristotele; ma Aristotele mutilato e non più intelligibile: ciò fu
l'inciampo della scienza e della fede. Di che i buoni studi negletti,
obliata la greca erudizione, il male insegnato pel bene. Di che
uscirono i Tommasi, gli Scoti, i Durandi, i Serafici, i Cherubici ed
altrettale genia più numerosa della progenie di Cadmo (291)».
Ma
quello che Melantone non può perdonare al medio evo, si è d'aver
disprezzato gli autori pagani, fiaccole immortali che avrebbero
impedito la scienza cadesse nella barbarie, e la Chiesa nella
corruzione. «Si aggiunge inoltre che non solo furono disprezzati gli
antichi, ma quel poco che di loro rimaneva perì nelle acque di
Lete. Questa maniera di studi regnò circa trecent'anni in
Inghilterra, nelle Gallie ed in Germania … corruppe i riti
cristiani e i costumi della Chiesa, ed imbastardì gli studi delle
lettere ... e i vecchi, due volte fanciulli, si perdettero in inezie
(292)».
Queste
cose dicevansi il 29 agosto 1518 all'università di Vittemberga, alla
presenza di meglio di duemila uditori! Stabiliamo solamente un fatto,
ed è che, per confessione di Melantone, durante i tre secoli che
precedettero il Risorgimento, gli autori pagani non erano studiati né
in Inghilterra, né in Francia, né in Germania.
Al
disprezzo del medio evo succedono le lodi del Risorgimento, «Mi
congratulo a voi, o giovani, della fortuna che vi tocca d'essere
nutriti di alimenti incomparabilmente più salutari. Mercé
gli eccellenti autori che avete fra le mani, voi attingete alla fonte
medesima delle buone arti. Qui avete Aristotele stesso, in originale
e intero che v'insegna filosofia: ivi Quintiliano che v'insegna
rettorica: altrove Plinio, la storia naturale. Alle lettere latine
aggiungete le lettere greche, affinché leggendo i filosofi, i
teologi, gli storici, gli oratori, i poeti afferriate la sostanza e
non l'ombra delle cose (293)».
Qual
uso dovranno poi fare di tutta quest'erudizione pagana? Dovranno
servirsene per divenir filosofi. Ma quale filosofia segurranno? La
filosofia del libero pensare, l'eclettismo, che, prendendo quello che
vi ha, ciòè quello che si crede il meglio in ciascun filosofo, ne
fa un sistema, una guida, una regola di costumi. Studiare
profondamente Omero, Platone e Aristotele fra i Greci, Virgilio e
Orazio fra i latini è il mezzo, infallibile di effettuare questo
capolavoro: (294)
Tale
è il programma di Melantone; tale è la nuova via, nella quale
condurrà quella gioventù ancor cattolica, ma che ben presto, per
fatto di lui; non lo sarà più. Docile agli insegnamenti del proprio
maestro, scuoterà il giogo dell'autorità, si renderà prima
protestante, poscia razionalista; e, dopo aver adorato la propria
ragione, adorerà la propria carne. Allora sarà completamente
rifatto ad immagine degli antichi; e per un giusto castigo Melantone
fu condannato a vedere coi suoi propri occhi gli effetti del suo
insegnamento.
In
una lettera a lui indirizzata, Schwenzfeld, professore a Vittemberga,
si esprime così: «La condizione dell’università è miserevole:
non si conosce né disciplina né timor di Dio. Il dottor maggiore
anche ultimamente ha predicato che si credeva di trovarvi angeli, ma
che venendo a Vittemberga ognuno è rimasto attonito di non vedervi
che demoni ... L'università di Vittemberga era chiamata una cloaca
del diavolo, e si diceva pubblicamente che una madre avrebbe fatto
meglio a soffocare il proprio figlio anziché mandarlo a Vittemberga
(295).
Il
male progredisce col libero pensare; e nel 1568, Rodolfo Walter,
amico di Melantone, scrive a Bruchero sull'università di Marburgo in
particolare: «Tale è in oggi lo stato delle università di Germania
che, lasciando stare il fasto e la pigrizia dei maestri, e la
spaventevole corruzione dei costumi, nulla presentano di notevole
(296)
A
Francoforte sull'Oder è così grande, nel 1562, la selvaggia vita
degli scolari che i professori stessi ed i cittadini non sono sicuri
della propria vita: a Jena l'università non produce che rissosi: a
Tubinga, la bestemmia, l'ubriachezza e la crapula regnano
impunemente. Nel 1577 il sotto-rettore si lamenta di questo stato di
cose in pieno senato e lo paragona a quello di Sodoma e di Gomorra.
Parlando di cotali eccessi, Camerario scrive a Lutero: «piacesse a
Dio che rimanesse almeno qualche asilo al pudore, o che si
nascondessero in caverne siffatte turpitudini (297).
Nel
1556, un altro protestante esclama: «Direbbesi che si avvicina la
fine del mondo, tanto si guastano i costumi! Su tal punto tutte le
persone dabbene non hanno che una voce. Se voglionsi esaminare la
vita ed i costumi del giorno d'oggi, qual differenza col secolo
passato! Dove sono i gradi, le condizioni che non abbiano calpestato
gl'insegnamenti dei nostri antichi, e che non tengano una condotta
diametralmente opposta alla loro? Dov'è quella gravità e quella
virtù che risplendono nelle parole e nelle azioni dei padri nostri?
Dov'è la fede, la costanza che il passato secolo ammirava sì
giustamente nei suoi figli»? (298).
Tali
furono, sotto il duplice aspetto della fede e dei costumi, i
risultamenti immediati del Risorgimento, cioè l’andazzo per
l'antichità pagana.
___________________
CAPITOLO
X.
MELANTONE
(Continuazione e fine).
Melantone
diventa protestante. - Prepara reclute a Lutero, innamorando la
gioventù dell'antichità pagana. - Sua ammirazione pel Risorgimento.
Elogio di Firenze. - Le belle lettere ausiliari del
Protestantesimo. - Parole notevoli. - Passo di Bruchero. - Opera di
Sadoleto. - Lettera del Bembo. - Riflessioni.-Disprezzo del medio
evo. - Fine di protestare opposto alle condanne delle università
cattoliche. Preziosa testimonianza di Beda. - Come Lutero, Zuinglio,
Calvino, Melantone deifica la carne. - Bigamia del langravio d'Assia.
- Morte di Melantone.
***
Melantone,
libero pensatore in filosofia non doveva tardare a divenirlo poscia
anche in materia di religione. Nel novero dei suoi auditori era
Martino Lutero, suo collega all'università. Riferisce la storia,
ch'esso più volte interruppe con applausi il primo discorso del
giovane professore. Melantone si annunziava come riformatore:
avversava l'antica scolastica e le tradizioni del passato. Da quel
giorno, una segreta simpatia, simile in certa guisa a quella che
esiste fra un principio e la sua conseguenza, tirò quelle due anime
l'una verso l'altra. Per parte di Melantone, questo passo fu presto
superato: da protestante parziale divenne protestante completo; e
Lutero ebbe un altro sé stesso (299).
Intanto
che Lutero sostiene la causa del libero pensare sul terreno della
Scrittura e della teologia, Melantone gli prepara reclute continuando
ad innamorare la gioventù della antichità pagana. Ben presto la
vasta sala dell’università non può contenere gli uditori che si
affollano per udire il nuovo maestro. Vi si veggono borghesi; conti,
marchesi, baroni, principi, dignitari. Melantone spiega
successivamente le commedie di Aristofane, le arringhe di Demostene;
Esiodo, Omero, Teocrito, Tucidide ed Apollonio (300).
Quand'egli
ha comandato l'ammirazione per questi grandi uomini, si prostra ai
piedi del Risorgimento ed invita i suoi uditori ad offrirgli solenni
azioni di grazie, per aver reso all'Europa cristiana le splendide
faci il cui fulgore dissipa le tenebre della barbarie. «L'Europa
intera, dice egli, è debitrice alla città di Firenze del più
grande benefizio. Essa per la prima chiamò poc'anzi nel suo seno i
maestri delle lettere greche, espulsi dal loro paese. Non solamente
li soccorse concedendo loro ospitalità, ma retribuendo anche
sontuosamente le loro lezioni. Nel resto dell'Italia niuno badava a
quei professori della bella letteratura; e se Firenze non fosse
venuta in loro aiuto, pressappoco la era finita per la lingua e per
le lettere greche ... «Ma avendo le belle arti trovato vita in
Firenze, l'Europa intera è stata partecipe di quest'immenso
benefizio. In ogni dove si è manifestato il desiderio di studiare le
migliori cose che vi abbia al mondo. L'ardore dei Greci a
restaurare la loro lingua è divenuto, pei latini un possente motivo
di risuscitare quella del Lazio, quasi del tutto sformata. Le
leggi sono state corrette; e la religione che prima era soffocata
ed oppressa nei sogni dei monaci, venne purificata. Non vi ha
dunque verun dubbio che Firenze non sia la benefattrice del genere
umano. Ad esempio dunque di quella città, in questi tempi
calamitosi, sappiate combattere per le belle lettere, poiché per
assicurarne il trionfo, i vescovi stessi prendono le armi (301)».
Melantone
è talmente convinto che il Protestantesimo filosofico e letterario
introdotto dal Risorgimento conduce al Protestantesimo teologico e
dommatico, che scrive: «Spero che lo studio delle belle lettere,
che comincia ad aver voga, farà nascere qualche nuovo
Ercole che libererà il mondo da tutti i mostri che vi vivono,
e renderà alla filosofia e alla dottrina cristiana la loro purezza e
la loro gloria primitive (302)».
I
mostri, erano i teologi cattolici: l'Ercole, fu Lutero,
cui Melantone diede questo soprannome. In ogni pagina dei suoi
scritti, Melantone ritorna su questa necessità di rigenerare il
cristianesimo alle fonti primitive, di ripudiare il medio evo, di
sprezzare le opere e le istituzioni della Chiesa, di mutare
l'insegnamento dei teologi cattolici che, per difetto del
conoscimento dell'antichità, avevano, secondo lui, riempito la
Chiesa di empie e perniciose dottrine (303).
Per
rendere poi maggiormente autorevoli le sue parole, Melantone, come
Lutero, come Zuinglio, come Calvino mette continuamente in evidenza
ciò ch'egli chiama rozzezza, ignoranza, barbarie del medio evo, e
gli splendenti lumi della pagana antichità. Nella sua opera
intitolata: Dell'odio della sofistica, ricomincia tutte le sue
diatribe contro i Tommasi, gli Scoti e i Durandi, e dichiara che il
loro insegnamento è stato la sorgente della barbarie e della
corruzione della Chiesa (304).
«Queste
incessanti declamazioni, dice schiettamente, il Protestante Bruchero,
produssero un effetto eccellente: esse reagirono potentemente
sugl'intelletti, e li innamorarono della letteratura e della
filosofia pagane. Tutte le menti elette s'accesero di grande zelo per
la riforma della filosofia; e quantunque tutti non si dedicassero
allo studio di questa scienza, nondimeno furono unanimi a
rigettare il fimo che sin allora contaminava pressappoco tutte le
scienze, e contesero con ardore ad acquistare una sapienza ed
un'erudizione più degne d'uomini ragionevoli. Per amore della
filosofia studiarono gli antichi filosofi greci e latini, si fecero
loro interpreti, illuminati dalla face della letteratura antica;
e l'opera loro non poco contribuì all'avanzamento della filosofia
(305)».
In
questa guerra fanatica contro l'insegnamento tradizionale, cioè
contro il principio d'autorità, i riformatori avevano avuto per
capi, e continuavano ad avere per compagni d'armi, gli scrittori
cattolici. «Fra cotali artefici del libero pensare, continua
Bruchero, è giusto il nominare Jacopo Sadoleto, che ha scritto un
bel libro delle Lodi della filosofia. Questo libro piacque sì
fattamente al cardinale Pietro Bembo, che scrivendo al cardinale
Polo, dice: «Dopo il secolo d'Augusto, che per fermo ha prodotto i
più alti intelletti ed i più grandi scrittori che mai furono,
non è mai apparsa, a mio giudizio, opera migliore; né più bella,
né più magnifica né più prossima allo stile, alla forma ed
all'eloquenza ciceroniana. L'illustre autore è certamente debitore
di ciò all'amicizia che manteneva con Erasmo e con Melantone.
Vedendo in essi i campioni delle lettere, e come volgessero la
loro eleganza a giovamento della filosofia, con laudabile
accorgimento li seguì » (306).
Ecco
dunque tutti i Padri della Chiesa d'Oriente e d'Occidente, ecco tutti
i grandi dottori ed i grandi scrittori del medio evo, impallidire, a
detta d'un cardinale, davanti ai pagani del secolo d'Augusto: ecco
quello stesso secolo offerto come l'apogeo dell'intendimento umano;
ecco il progresso intellettuale, filosofico, artistico, letterario,
compito dal Vangelo, come non avvenuto; ecco per le nazioni
cristiane, se vogliono rigenerarsi, la necessità d'andar a mendicare
nel seno del Paganesimo idee filosofiche e bellezze letterarie che il
cristianesimo non ha saputo loro dare!
Coloro
che professano siffatto disprezzo pel passato cristiano, e siffatto
entusiasmo per l'antichità pagana e che perciò diventano gli
ausiliari del libero pensare, sono uomini illustri e superiori ad
ogni encomio! Quando udiamo tali cose, uscite da tali bocche,
domandiamo quello che pensar doveva il secolo sestodecimo, e quello
principalmente che la gioventù doveva diventare. Essi nell'ordine
religioso, filosofico e letterario pensarono quello che la
generazione del 1789 pensò nell'ordine politico, cioè che il
passato non era che barbarie, e che conveniva rifare la società sul
modello del secolo d'Augusto e di Pericle. Ed abbiamo avuto il
Protestantesimo e la Rivoluzione.
La
pretesa barbarie di cui Melantone, i Riformatori ed i Risorgenti
accusano i secoli cristiani non è soltanto il tema inesauribile dei
loro sarcasmi; essa serve di fine di protestare contro la condanna
dei loro errori. Prova evidentissima che il libero pensare dispettava
non la sola forma, ma la sostanza stessa della dottrina. Abbiamo
udito Reuclino esclamare: «Come potrei credere ad un purgatorio
annunziatomi da una bocca pelosa, che non sa declinare Musa?
Quando nei satirici dialoghi e nelle buffonesche loro commedie,
Reuclino, Utteno, Erasmo, Lutero hanno trasformato i teologi di
Colonia, di Lovanio, di Parigi in altrettanti barbari che non
conoscono né la bella grecità, né la bella latinità, non credono
forse di aver risposto vittoriosamente a tutte le loro ragioni?
Cotal
rimprovero faceva già ad essi nel 1526 il celebre dottore della
Sorbona Beda. Nelle sue note sopra Lefèbre d'Etaples e sopra Erasmo,
così si esprime: Per opera dei letterati, giurati nemici del
medio evo ed orgogliosi del loro capo si spande l'eresia. Per ciò
ch'essi hanno una certa tintura di belle lettere e delle lingue, si
credono capaci di ragionare di tutte le scienze sacre. Mercé
quest'artifizio il male progredisce e diventa tanto più incurabile,
in quanto che i medici chiamati a guarirlo, cioè i maestri della
religione, sono trattati da teologastri da questi umanisti che
li disprezzano come uomini al tutto ignoranti di quello che insegnano
... In ciò, lo scopo di cotali grecizzanti è di arrogarsi il titolo
di teologi e di farsi credere i veri maestri della scienza sacra: -
Noi, dicono, attingiamo la scienza delle cose divine e la vera
nozione della teologia nelle fonti medesime, non nei rigagnoli: noi
studiamo la Scrittura nei testi originali, non nelle opere dei
teologi scolastici. - Noi leggiamo le opere degli antichi dottori,
non i trattati degli autori del medio evo. - Ecco i titoli che a sé
medesimi decretano quegli umanisti e che annunziano a suono di tromba
a tutto il mondo. Nel tempo stesso qualificano i dottori scolastici
da uomini spregevoli, sporchi, barbari, ignoranti in fatto di belle
lettere e perciò nemici dei lumi (307).
Educato
alla scuola degli autori pagani, maestri e modelli di Lutero,
Zuinglio e Calvino, non rimaneva più a Melantone che d'imitare sino
alla fine l'esempio dei suoi predecessori. Abbiamo veduto i capi
della Riforma, dopo aver deificato l'orgoglio dell'uomo, riuscire
invariabilmente in deificare i propri sensi. Tale è in tutti i tempi
ed in tutti i luoghi l'ultima parola del Paganesimo.
Ora,
un dì, Filippo, langravio d'Assia, libero pensatore dal guanto di
ferro, si mette in testa d'aver due mogli. La Biblia interpretata
secondo i principii di Lutero gli somministra testi, che ne
giustificano i desideri. Chiede una decisione o più veramente
un'approvazione solenne ai capi della Riforma: la risposta non si fa
aspettare. Essa è divisa in ventiquattro articoli, il ventunesimo
dei quali è così concepito: «Se Vostra Altezza è risoluta di
sposare una seconda moglie, giudichiamo che debba farlo
clandestinamente, come abbiamo detto in occasione della dispensa che
Vostra Altezza domandava, cioè che non vi sia che la persona che
sposerà, e alcune altre all'uopo che lo sappiano, obbligandole al
segreto sotto il sigillo della confessione. Qui non vi ha a temere né
contraddizione né scandalo considerevole; poiché non è cosa
straordinaria ai principi il mantenere concubine, ed allorché il
popoletto se ne scandalizzerà, i più veggenti intravedranno il
vero. Non si dee darsi molto pensiero di quello che se ne dirà,
purché la coscienza sia tranquilla. In tal modo l'approviamo »
(308).
Questa
consulta è soscritta da Lutero, Melantone, Bucero, Corvino, Adam,
Leningen, Vinfert, Melanther, cioè da tutte le glorie della Riforma
di quel tempo. L'atto di bigamia si celebrò il 3 marzo 1540 a
Rothenburg sulla Fulda, in presenza di Melantone, Brucero e di altri
teologi.
Riguardo
alla politica di Melantone, essa fu quella di Lutero, di Zuinglio, di
Calvino, che fu quella di Machiavelli e del Risorgimento; voglio dire
il Cesarismo antico.
Datosi
in balia ad ogni vento di dottrina, in virtù del libero pensare,
Melantone, ad esempio dei filosofi dell’antichità, suoi maestri e
suoi modelli, cangia continuamente d'opinione e di sistema (309).
Disperando, com'essi, di trovar la verità, mediante il raziocinio,
finisce col domandarla alle pratiche superstiziose. Melantone morì a
Vittemberga nel 1560 in età d'anni 73.
_______________________
CAPITOLO
XI.
TEODORO
BEZA.
I
capi del Protestantesimo sono Risorgenti.- Detto di Melantone. -
Nascita e prima educazione di Teodoro Beza. - S'invaghisce degli
autori pagani. - Culto della carne. - Come Lutero, Zuinglio, Calvino,
Melantone reca questa passione all'università. - Invece di studiar
diritto, coltiva le Muse. - Facilità con cui diventa protestante.
-Pubblica le sue poesie. - È costretto a fuggire. - Si ritira a
Ginevra. - Calvino lo manda ad insegnare il greco a Losanna. - Vi
semina il libero pensare. - Ritorna a Ginevra. - È fatto ministro
del santo Vangelo. - Sua polemica simile a quella dei Risorgenti e
degli autori pagani. - Applica il Paganesimo all'ordine sociale. -
Muore come ha vissuto. - Pagano, è celebrato da poeti pagani.
***
A
fianco di Lutero abbiamo veduto Melantone, venuto dall'antichità
alla Riforma, passar la propria vita a predicare il disprezzo del
medioevo e l'ammirazione pei grandi oratori e pei grandi filosofi di
Roma e di Atene, dicendo: «Volete raccogliere liberi pensatori?
seminate umanisti» . Presso Zuinglio troviamo Osvaldo Miconio,
il risorgente evangelico di Lucerna, la cui vita è scritta in quella
di Melantone (310). Finalmente a fianco di Calvino apparisce Teodoro
Beza; l'alter ego del riformatore francese. La sua biografia
non è meno istruttiva di quella dei suoi maestri.
Teodoro
Beza nacque a Vézelay, antica città, degli Edui, il 24 giugno 1519,
e fu battezzato nella chiesa dove San Bernardo aveva predicato la
crociata. Suo padre, balio della città, si chiamava Pietro Beza, e
sua madre Maria Bourdelot, amendue di nobile stirpe. «La famiglia
Beza, scriveva in appresso Teodoro, è antica nel paese di parecchi
secoli, e se ripigliasse ai frati quello che ha loro dato, sarebbe
oggidì ricchissima (311) ».
Teodoro
aveva un zio, Nicolò Beza, consigliere al parlamento di Parigi e
priore di Villeselve. Presso di lui andò, in età di appena nove
anni, per fare gli studi in compagnia di un suo cugino pressappoco
della stessa età. Gli autori pagani che si cominciava, come
ci hanno detto Camerario e Melantone, a mettere nelle mani dei
fanciulli, furono il latte di cui si nutrirono quei due animi. Per
Teodoro questo latte diventò una bevanda inebriante che primamente
agì sopra i suoi sensi, e poscia sopra la sua ragione. Cosa degna di
essere notata! a dodici secoli di distanza vediamo lo stesso
risultamento in Sant'Agostino.
«Nei
sette anni che passò nella casa di suo zio, dice il protestante
Faye, non ci ha un autore greco o latino di qualche fama ch'egli
non abbia letto ». (312)
Un
altro protestante, Corrado Schlusselburg, aggiunge: «È un fatto
innegabile che Teodoro Beza s'inebriò fin dall'infanzia delle
impudicizie e delle insolenze dei poeti: e che ha passato la propria
vita a soddisfare le sue passioni, a cantare i suoi amori, ad
ingiuriare i suoi avversari ed a trasformarsi in Laide e in Cupido
(313)».
La
lettura degli autori pagani, che dicesi tanto innocente, aveva in
Beza emancipato la carne: lo spirito non stette molto a spezzare i
suoi vincoli. Teodoro aveva sedici anni: era il momento di dedicarsi
a studi speciali. La sua famiglia lo destina al foro, ed egli recasi
all'università d'Orléans a studiarvi diritto.
Come
Lutero, Zuinglio Calvino, e Melantone avevano recato dal ginnasio
all'università il loro amore appassionato per l'antichità pagana,
nel cui seno furono nutriti. Teodoro Beza giunge ad Orléans, poscia
a Bourges nelle medesime disposizioni. Il giovine adolescente per non
studiare diritto si serve del medesimo pretesto che i re del
Protestantesimo avevano allegato per dispensarsi dallo studio della
filosofia e della teologia. «In quel tempo, dice Faye, il diritto
era insegnato in modo barbaro ed incomprensibile, di che accadde che
Beza prese in orrore questa scienza, e che impiegò il tempo a
studiare la bella letteratura e gli autori greci e latini. I
poeti in particolar modo avevano per lui grande attraimento; non si
contentò soltanto di leggerli, ma si studiò d'imitarli. Prima
dell'età di ventuno anni compose quasi tutte le sue poesie e le
dedicò al suo maestro. Catullo ed Ovidio furono i suoi modelli
prediletti. Benché egli non volesse imitarne i costumi, ma lo stile,
compose alcuni epigrammi più licenziosi di quello che poscia avrebbe
voluto (314)».
Né
Pietro della Stella che insegnava ad Orléans con grande riputazione,
né Alciato che riempiva la città di Bourges dei suoi uditori si
procacciarono l'attenzione di Beza. Le sue simpatie erano pei grandi
uomini dell'antichità e per Wolmar che lo iniziava a tutte le loro
bellezze. Wolmar, come abbiamo già detto, era protestante: Beza lo
diventò prontamente e senza fatica. Così naturalmente come la
calamita tira il ferro, il principio tragge la conseguenza. Il libero
pensare in materia di costumi e di filosofia, conduce al libero
pensare in materia di fede e di teologia. Nell'età di sedici anni,
il che vuol dire pochi mesi dopo il suo arrivo ad Orléans, Beza,
come ce lo fa sapere egli stesso, gustò la dottrina della pura
religione. All'apoteosi della carne aggiunge l'apoteosi della
ragione. In lui il Paganesimo è completo, e la sua educazione è
finita. Tutta la vita di Beza non sarà che lo svolgimento di questo
duplice fatto psicologico. Le muse latine continuano, ad essere i
soli suoi amori. Non sogna che giambi e ne scrive di quelli che si
direbbero dettati dal cantore del passere di Lesbia. Dopo averli
letti ai suoi compagni ed averli diligentemente ritoccati per dar
loro tutto il sapere antico, viene a Parigi, e, nel 1548, pubblica la
raccolta delle sue opere liriche (315). Per mala sorte Teodoro erasi
creduto in Roma pagana e aveva celebrato amori che il parlamento
condannava al fuoco. Fra gli epigrammi della raccolta, uno
principalmente fece grande scalpore; ed è quello in cui canta uno
scolare di Orléans, chiamato Audeberto, e Candida, moglie d'un
sartore abitante a Parigi nella contrada della Calandra (316).
Il
parlamento era in acconcio di far metter le mani sul poeta che prese
la fuga dopo aver venduto o affittato i suoi benefizii, e, con
Candida riparò a Ginevra, sotto il nome di Tebaldo di May. Il
ministro Launay non ha avuto nessun riguardo alla riputazione del suo
correligionario: «Dappoichè, dice egli, si fu contaminato di ogni
sorta d'infamie e del peccato ch'egli stesso non ha citato, sedusse
la moglie del suo prossimo, vendette i suoi benefizii, e ritirossi
per fuggire, non già la persecuzione, ma il supplizio e la punizione
dei suoi misfatti. Ma prima di partire, truffa ai suoi fittaioli e si
fa pagare anticipatamente le rendite dei benefizi che più non
possedeva; di che fummo assai impacciati durante la conferenza di
Poissy; perché una delle vedove coi figli venne a gridargli dietro
per essere soddisfatta. Questa povera donna mi disse ch'egli aveva
loro truffato più di mille dugento lire.
«Per
prova di sua conversione e che era assistito dallo Spirito Santo,
compose l'epistola di Passavanti: leggiadro scherzo contro il
presidente Liset, cui odiava cordialmente, perché lo aveva
condannato a restituire i calici e gli ornamenti della nazione di
Borgogna di cui era stato procuratore all'università d'Orléans, e
che era venuto a venderli sul ponte del Cambio, senza accommiatarsi
dai suoi compagni che ne ottennero sentenza (317)».
Calvino
accolse con premura l'antico suo condiscepolo. Persuaso come tutti i
riformatori d'Alemagna, che un mezzo eccellente di spingere innanzi
l'opera del Protestantesimo era di appassionare la gioventù per
l'antichità pagana, inviò Beza ad insegnar il greco a Losanna. Così
faceva Melantone a Vittemberga.
Per
nove anni Beza poté lasciarsi andare a tutto il suo entusiasmo pei
Greci e pei Romani e trasfonderlo nell'animo dei molti suoi uditori.
Ebbe uno splendido successo: che per udirlo, si veniva da Berna, da
Friburgo, e perfino dalla Germania. Coloro che l'ascoltavano
credevano di udire Melantone.
Ad
imitazione di questo, Beza fa succedere all'interpretazione degli
autori pagani la spiegazione dell'epistola? di San Paolo ai Romani.
«Egli ne dà, dice Faye, il senso proprio ed apostolico» (318).
Cioè ch'esso, la interpretò non secondo la tradizione, ma guidato
dal solo lume del libero pensare. Quest'opera è il preludio
dell'intera traduzione del Nuovo Testamento con note. Nello studiare
la Scrittura, per sostenere la lotta, Beza lasciasi andare, come a
Bourges, alle favorite sue inclinazioni: compone tragicommedie e
s'abbandona ad azioni infami che lo costringono a fuggire da Losanna.
Viene
a cercare rifugio a Ginevra, dove Calvino lo fa ammettere nel numero
dei pastori: nel che s'ebbero ad incontrare non poche difficoltà.
Cop, Raimond, Enoch, ministri del Santo Vangelo e membri del
concistoro, si opposero all'ordinazione di questo priore «inamidato,
inanellato, azzimato, facendo ancora il damerino, cantando coi suoi
capelli grigi le ninfe del Parnaso, e gli antichi Cupidi»
(319) .. Divenuto il compagno inseparabile di Calvino, come Melantone
era di Lutero, Beza serve d'aiuto al suo maestro nei conflitti
incessanti contro i cattolici e contro i protestanti di Germania. Il
poeta dalla frase fiorita e dolce, il languido cantore di Candida,
intinge ormai la sua pena nel fiele. Lutero e Melantone riversano
fiumi d'ingiurie contro i loro avversari cattolici o protestanti.
Calvino tratta i suoi oppositori da bricconi, da pazzi, da
ubriachi, da furiosi, da arrabbiati, da bestie, da tori, da asini, da
cani, da porci. La scuola di Vestfalia, secondo lui è un
fetido porcile (320). Se dice frequentemente che il diavolo
partorisce i papisti, ripete cento e cento volte ch'esso ha
affascinato i luterani, e che non può comprendere perché
accaneggino più violentemente lui che tutti gli altri, se non perché
Satanasso, di cui, sono vili schiavi, li anima tanto più contro di
lui in quanto che vede più utili le opere di lui che le loro al bene
delle Chiesa (321). E conchiude dicendo: «Mi intendi, o cane?
m'intendi bene, o frenetico? m'intendi, o bestiaccia? (322)» Beza
rincalza il suo maestro: «L'urbanità di Beza, dice il luterano
Schlusselburg, non è quella dei teologi educati alla scuola della
pietà, ma quella dei libertini sfrontati, dei laidi saltimbanchi
usciti dai lupanari di Taide la prostituta o di Candida la fuggitiva.
Se alcuno ne dubita, legga i suoi due famosi dialoghi contro Hessus.
Essi sono di tal fatta che direbbonsi scritti non da un uomo, ma da
Belzebù incarnato. La penna rifugge a riferire le bestemmie, le
oscenità, scritte veramenle con l'inchiostro del diavolo, di cui
questo sporco oltraggiatore, quest'ateo ha riempito quei dialoghi nei
quali si tratta delle più gravi questioni (323)».
Questo
linguaggio sconosciuto dal medio evo, ha il suo tipo nella classica
antichità. Se ne trovano molti esempi in Cicerone contro Antonio; in
Demostene contro Filippo, nei filosofi più ammirati. Vedremo che i
primi Risorgenti, come Poggio, Filelfo e Valla ne introdussero l'uso
in Europa. Tanto è vero che il Paganesimo antico ci è ritornato in
tutta la sua interezza!
Dopo
averlo applicato all'ordine religioso, Beza, ad esempio degli altri
riformatori, ne ha fatto l'applicazione, all'ordine sociale. Calvino
ha fatto ardere Servet, decapitare Gruet: riempie le prigioni di
Ginevra di pretesi eretici e li sottopone a crudeli torture. Re e
pontefice, Calvino esercita a proprio profitto il Cesarismo antico:
Beza lo giustifica.
L'autorità
che nega alla Chiesa, la concede ai principi secolari. I laici sono
ad un tempo giudici della dottrina ed esecutori delle loro proprie
sentenze. Tale è la teorica svolta nell’opera: De haereticis a
magistratu puniendis. Nulla avvi di più contrario agli stessi
principii del Protestantesimo.
«L'utilità
di questo libro, dice Bayle, è ben poca cosa a confronto del male
che produce tuttodì: imperocchè, dal momento che i protestanti
vogliono lamentarsi delle persecuzioni che soffrono, si allegano ad
essi i diritti che Calvino e Beza hanno riconosciuto nei magistrati.
Fin qui non si è veduto nessuno che non sia stato sconfitto con
quest'argomento ad hominem (324) ».
Come
Calvino, Lutero, Zuinglio e Melantone, Teodoro Beza cammina sino alla
morte nella via pagana dove lo ha fatto entrare la sua educazione. Il
culto della ragione ed il culto della carne compongono tutta la sua
religione. Ai piedi di questi due idoli morì a Ginevra il 13 ottobre
1605, in età d'anni 86.
I
Risorgenti gareggiano in ritenerlo come uno dei loro; e fanno piovere
sulla sua tomba un nembo di epicedi. in latino, in greco ed in
ebraico. Questi componimenti, eloquenti testimonianze dello spirito
di quell'età, sono vuoti di Cristianesimo, e tutti ingemmati di
classiche rimembranze: ciò vuol dire che sono egualmente degni di
coloro che li scrissero e di colui al quale sono diretti. Ecco quello
d'un Risorgente evangelico, chiamato Giovanni Jacomot. Gli è un
dialogo tra un viaggiatore ed un abitante di Ginevra.
VIAGGIATORE:
«È forse questo, di grazia, il mausoleo di Beza? Che! un monumento
così piccolo per rinchiudere i mani di Beza?
GINEVRINO:
Beza ha vietato gli si rizzasse un marmoreo sepolcro, ed un monumento
sontuoso.
VIAGGIATORE:
«Chi sono quelli che piangono qui? chi è questa turba che si
stempera in lacrime intorno al suo sepolcro? e chi sono queste
vergini che si percuotono il nudo seno?
GINEVRINO:
«Ecco le Muse che piangono il loro cantore: ecco Pallade
che piange il suo alunno: ecco le tre Grazie che piangono il
loro amico: ecco Apolline, padre della cetra; la Dea
dell'eloquenza; la Bellezza, la pura e graziosa Innocenza
(325)».
Non
vi manca che l'acclamazione: Sit tibi terra levis!
_______________________
CAPITOLO
XII.
PROPAGAZIONE
DEL PROTESTANTESIMO
Detto
di Erasmo. - Propagare lo studio dell'antichità pagana per giungere
al libero pensare: parola d'ordine data dai capi del Protestantesimo.
Ben compresa e bene osservata. - Ermanno Buschio, apostolo del
Risorgimento. - Percorre la Germania predicando Omero e Virgilio. -
Camerario predica pei ginnasi e per le università. Sua vita. - Se i
protestanti furono nemici delle arti. - Parole di Zuinglio. - Opere
di Camerario. - Trattato di pedagogia. - Trattato di morale pagana. -
Composizioni poetiche di Camerario.
***
Il
risorgimento ha partorito l'uovo: il protestantesimo è il pulcino
che ne è uscito.
Le
biografie precedenti, scritte dietro originali documenti, hanno
giustificato questo detto pittoresco di Erasmo. Ora, gli esseri si
perpetuano con gli stessi mezzi che li producono. Se è vero che il
Protestantesimo é figlio del Risorgimento, i riformatori dovranno
instantemente raccomandare lo studio dell'antichità, e nulla
omettere per propagarne il culto e per renderla anche popolare. Sopra
questo proposito che risponde la storia? Breve è la sua risposta, ma
perentoria. Essa, si trova nell'autore protestante Gottlieb Buble il
quale discorre così:
«I
riformatori Lutero, Melantone, Zuinglio, Calvino, Bellingero,
Ecolampadio, Camerario, Eobano Hessus, e gli altri dotti collegati
con essi, per giungere al medesimo scopo, si trovarono in tale
condizione, in mezzo ai grandi interessi della Riforma, che appena
era loro possibile di far altro che raccomandare assolutamente lo
studio delle lingue antiche, come il miglior mezzo di condurre ad una
teologia più ragionevole» (326) della teologia cattolica.
Il
che in altre parole vuol dire: «Seminate umanisti e raccoglierete
protestanti». Così appunto l'intendevano i riformatori: e
conviene render loro questa giustizia che sapevano quel che facevano.
In questa raccomandazione si celano ad un tempo e il sospetto mal
palliato che la Chiesa e i dottori cattolici hanno falsificato i
testi sacri, e l'apoteosi della ragione individuale che, mediante il
conoscimento delle lingue, debba trovare il vero senso della
Scrittura, purificare la dottrina e riformare il mondo. Come si vede,
al libero pensare non erasi mai dato impulso più gagliardo:
adulazione più inebriante non era mai stata indirizzata all'orgoglio
dell'uomo.
Che
tale sia stato l'intendimento dei capi del Protestantesimo è un
fatto la cui prova si trova in mille luoghi delle loro opere. Né le
versioni dei Padri della Chiesa, né le interpretazioni della Chiesa
stessa, né l'esegesi di Lutero loro maestro non bastavano ai loro
occhi, per tranquillar l'animo: è d'uopo di tutta necessità
l'interpretare da sé stesso i testi originali: tale è l'unico
mezzo, il mezzo obbligatorio di giungere alla verità ed all’unità
della dottrina. Cotal mezzo sembra loro infallibile.
«Qual
forza di convincimento, sclama Melantone, il grande istitutore
dell'Alemagna, sentiamo ogni giorno, quando in mezzo al conflitto
delle opinioni opposte, scopriamo da noi stessi il vero senso dello
Spirito Santo! (327)»
Laonde,
guai ai teologi cattolici che osano sollevarsi contro questo studio
pagano dei testi sacri e delle lingue antiche, strumento di tale
studio. Barbari, pedanti, succiole, ecco gli epiteti che sono ad essi
dati dagli umanisti; il pacifico Melantone vi aggiunge quelli di
sacrileghi e di dannati (328).
Lutero,
Chemnitz e tutti gli altri non parlavano diversamente da Melantone
(329). Per mostrare la necessità di coltivare con passione la bella
antichità, gli uni mettevano pubblicamente in ludibrio la pretesa
barbarie letteraria dei dottori cattolici, gli altri divulgavano i
pretesi errori commessi dalla Chiesa e dai Padri nell'interpretazione
dei libri sacri. Era il parossismo dell'orgoglio, e quest'orgoglio fu
punito come sempre fu: il Protestantesimo divenne una Babele! Invece
dell'unità di dottrina che doveva essere il risultamento dello
studio dei testi originali, ebbevi migliaia d'interpretazioni
contraddittorie, anatemi reciproci, scissure sanguinose.
Checché
ne sia, la parola d'ordine dei primi riformatori fu perfettamente
compresa e fedelmente osservata. Ad esempio d'Erfurth e di
Vittemberga, tutte le università, tutti i ginnasi dell'Alemagna
divennero ben presto tanti fomiti di studi appassionati, e di
entusiasmo fanatico per l'antichità pagana. La stampa, scoperta
poc'anzi, secondò il moto ma non lo creò; la stampa fu uno
strumento, non un principio. Né si stette paghi all’insegnamento
sedentario delle Accademie. Nella stessa guisa che si erano veduti
gli apostoli, con la croce in mano, viaggiare, il mondo per
annunziare il Vangelo, si videro i missionari dell'antichità, con in
mano un Virgilio, un Omero, un Cicerone, passare d'una in altra città
e predicare alla moltitudine le glorie di Roma e della Grecia. Fra
gli altri esempi, rammemoriamo un uomo che spese quarant'anni di
vita in tale apostolato.
Ermanno
Buschio, nato a Sassenburgo nel 1468, ebbe in maestro il famoso
risorgente Rodolfo Agricola. Uscì dal ginnasio talmente fanatico per
l'antichità pagana che diedesi il sopranome greco di Pasifilo, e si
dedicò particolarmente al culto di Cicerone. Giovane ancora mosse
verso l'Italia per attingere alla fonte stessa del Risorgimento.
Ritornato in patria, due occupazioni ne divisero la vita; denigrare
il Cristianesimo ed esaltare il Paganesimo. Sdebitossi religiosamente
della prima cooperando alla compilazione dell'opera Epistolae
obscurorum virorum. Quest'opera è un libello di cinquecento
pagine contro l'insegnamento, i dottori e le istituzioni cattoliche.
Con
zelo non minore Buschio compì la seconda parte del suo incarico.
Giorno e notte con gli autori pagani, li legge, vi si addentra,
l'impara a memoria, li postilla e li chiosa. Né le oscenità di
Petronio, né i nauseosi equivoci di Plauto e di Marziale risvegliano
in lui veruna ripugnanza. Anzi arricchisce il mondo cristiano di
lunghi commentarii sopra quei laidi poeti, sopra Silio Italico, sopra
Persio, sopra Claudiano, ed incorona la sua opera, con la Vita di
Seneca e con osservazioni sopra Virgilio. Per mostrar poi i progressi
che ha fatto, alla scuola di questi grandi maestri, scrive egli
stesso poesie sul gusto antico, compone epigrammi e finisce col darci
un Florilegio poetico del latinissimo Plauto, Plauti latinissimi
poetae.
Era
Buschio a tal punto, allorché Lutero e Melantone innalzarono lo
stendardo del Protestantesimo. Il principio del libero pensare che,
com'essi, aveva abbondantemente attinto alle fonti antiche, si spinse
molto agevolmente all’ultima sua conseguenza: Buschio si rese
protestante. Fedele all'ordine dei capi ed ai suggerimenti del
proprio cuore, il nuovo convertito percorre l'Alemagna per insegnare
non già la teologia, la filosofia o la pura parola di Dio, ma per
predicare Virgilio, Omero, Orazio, Ovidio, e principalmente i suoi
amatissimi Plauto e Marziale. Munstor, Osnabruck, Brema, Amburgo,
Minden, Deventer, Amsterdam, Utrecht e le principali città della
Germania trassero successivamente alle sue lezioni, come mezzo secolo
prima le città e le provincie dell'Europa traevano a turbe ai
sermoni di San Vincenzo Ferreri.
L'entusiasmo
era lo stesso: l'oggetto solo era diverso. All'uscire dalle lezioni
del Risorgente si veniva alle mani: all'uscir dalle prediche del
prete cattolico, tutti si percotevano il petto. Dopo aver udito
Buschio, il popolo stesso rideva della scolastica, di San Tommaso, di
Scoto, di Durando: credeva alla barbarie del medioevo con la stessa
fede con cui credeva alla bella antichità, ai suoi lumi, alla
splendida sua civiltà. Gli oratori, i poeti, i filosofi della Grecia
e di Roma per lui diventavano colossi: l'insegnamento tradizionale
gli pareva una catena alla libertà, un ostacolo al progresso, ed
anticipatamente faceva plauso a coloro che, in un modo o nell'altro
venissero a spazzare la terra da questa gotica stupidezza. Tale era
il pericolo che le esegesi letterarie di Buschio facevano correre
alla fede, che l'università di Colonia ebbe cura di tenerlo mai
sempre lontano da quella città. Buschio morì nel 1534 (330).
Intanto
che Buschio predica l'antichità sulle pubbliche piazze, con ardor
non minore Camerario la predica nei ginnasi e nelle università.
Intimo amico di Lutero e storico di Melantone, meglio d'ogni altro
conosco il loro pensiero ed il segreto di farlo trionfare. Gioachino
Camerario, nato a Bamberga nel 1500, divenne, mercé i suoi studi
classici, uno dei più famosi umanisti d'Alemagna, ed uno degli
apostoli più fervidi del libero pensare.
Diciamolo
di passaggio: le opere di Camerario e quelle d'una turba dei suoi
correligionari dimostrano la falsità di un'asserzione che si ripete
ancora oggidì, cioè: che i protestanti in generale, e quelli di
Alemagna in particolar modo, furono nemici del Risorgimento. Il vero
è che, dopo gl'Italiani, niuno palesò maggior entusiasmo per gli
autori pagani dei protestanti, e dei protestanti d'Alemagna. A chi
sono dovute la maggior parte delle numerose ed interminabili opere
filologiche, commentari, traduzioni, annotazioni, elucubrazioni
pagane onde il XVI secolo fu inondato? Le loro tipografie non hanno
quanto e più di tutte quelle d'Europa, esse sole contribuito a
spandere le opere ed a propagare il culto dell'antichità?
Ecco
l'origine dell'errore: per gl'italiani il Risorgimento fu
specialmente il culto della forma, il sensualismo; pei Tedeschi, fu
il libero pensare, il razionalismo. Gli uni l'afferrarono dal lato
materiale; gli altri dal lato spirituale. Da questa differenza in
fuori, i protestanti della Germania si mostrarono costantemente gli
ammiratori del bello letterario. Riguardo al loro odio per le
opere di arte, esso prendeva origine non da un sentimento di ostilità
contro il Risorgimento, ma da un errore religioso. Se essi
distruggono i quadri, le statue, i crocefissi, perché secondo essi,
rendono materiale il culto e conducono il popolo all'idolatria, si
fanno solleciti di aggiungere: «Dipingete Apollini, Mercurii, Giovi,
Giunoni e Veneri: scolpite quanti vorrete dei, semidei, eroi ed
eroine, e vi applaudiremo, ché le arti sono doni di Dio».
Sopra
questo punto niuno è stato più esplicito del rigorista Zuinglio. E
quello che vi ha di sommamente notevole si è che se ei distrugge o
conserva, è sempre ispirato dall'antichità pagana. Nel mese di
giugno 1524, egli predicò contro le immagini. Uscendo dalla predica
i membri del consiglio di Zurigo, con legnaioli, con scarpellini e
con muratori si recano nei templi, chiudono le porte, e tolgono le
immagini con molta cura. Si deposero primamente in una cappella per
rimetterle a chi le reclamasse: ma non essendosi presentato nessuno,
furono spezzate od arse (331).
«In
tal modo, aggiunge Chauffour, fu compita a Zurigo con tutta la
gravità d'un atto ufficiale, e con la calma d'una risoluzione
maturata, la più grave innovazione che si sia mai tentata nel culto.
Mentre che le altre religioni invitano tutte le arti e tutte le
magnificenze per le loro cerimonie, Zuinglio voleva astrarre
unicamente l’animo nella meditazione religiosa. Egli era
profondamente compreso di questa massima di Catone: «Se Iddio è
spirito, debba essere onorato spiritualmente;» e di questo gran
detto di Seneca: «Iddio sfugge allo sguardo: ei non può essere
contemplato che dal pensiero (332)».
In
conseguenza di queste possenti autorità, Zuinglio temeva tutto
ciò che poteva distrarre l'animo dalla contemplazione interna, e
faceva spezzare le immagini. «Non è inutile, continua a dire
Chauffour, il far notare che questa semplificazione del culto non
procedeva già dà un’opposizione sistematica alle arti: Zuinglio
non dispettava le arti, ed ancor meno le considerava come
corrompitrici. Le escludeva dal culto, ma fuori del culto
concedeva loro un ampio ed alto posto nella vita. Abbiamo già veduto
l'entusiastica sua ammirazione pei poeti; la sua passione per
la musica. Non pensava certamente a proscrivere queste arti divine,
coltivandole egli con tanto amore; ma non ributtava seppure la
pittura. Egli stesso dice: «Mi piacciono le belle immagini, le belle
statue ... Dove non v'ha pericolo d'idolatria non è a pigliarsi
inquietudine delle immagini. Ben si possono conservare le statue
degli antichi dei, che niuno adora né venera: se fossero
adorate, converrebbe toglierle (333)». Finalmente si trova un passo
in cui Zuinglio applica alla pittura ed alla statuaria un nome ch'ei
riserba alle cose che ai suoi occhi hanno maggior pregio: le chiama
doni di Dio (334).
Ritorniamo
a Camerario. Per preparare agli altri la strada che conduce tanti
Risorgenti al Protestantesimo, impiega i suoi studi a far rivivere i
liberi pensatori dell'antichità greca e romana. Grazie a lui,
Demostene, Senofonte, Omero, Luciano, Galieno, Erodoto, Aristotele,
Teofrasto, Archita, Sofocle, Tucidide, Esopo, Teocrito, Plutarco,
Tolomeo, Teone, ecc., parlano in latino, e giungono nelle mani della
gioventù in mezzo alle lodi superlative del traduttore: Dalla penna
dell'infaticabile apostolo dell'antichità escono, chiosati,
annotati, raccomandati Plauto, Terenzio, Cicerone, Virgilio,
Quintiliano, ecc., in una parola tutti i grandi maestri, di Roma e
della Grecia:
Camerario
non si fermò a questo. Fedele alla sua missione di render pagana la
gioventù per renderla protestante, compone dapprima un trattato di
pedagogia, in cui non vedesi comparire neppure un autore cristiano
(335).
Al
trattato di educazione tiene dietro un libro ancor più pagano, se è
possibile, Preludendo al naturalismo moderno, che riduce tutta la
religione alla pratica di alcune umane virtù buone tutt'al più a
fare probi pagani, Camerario pubblica le sue Regole della vita o i
Sette Savii: Praxepta vitae, seu Septem Sapientes. Per
dirigere il fanciullo nel cammino della vita e condurre l'uomo
all'ultimo fine, non si chiamano presso di lui né nostro Signore, né
i profeti, né gli apostoli, né i martiri, né i santi; ma Talete,
Pittaco, Biante, Cleobolo, Solone, Misone, Chilone (336) .
Non
basta a Camerario l'aver dettato regole per rendere la gioventù
greca e romana: per adempiere il proprio ufficio in tutta la sua
pienezza, ai precetti aggiunge l'esempio. Il mondo letterato gli va
debitore d'una doviziosa collezione di egloghe, fra le quali: Tirsi,
Lupo, Licida, Melibeo, Dafni, Pane, Meri, Fille, Coridone, ecc.
Questo egloghe, brutte copie delle antiche, sono da cima a fondo
ingemmate di centoni virgiliani, e di divinità olimpiche. Vi si
trova Cupido, Pane, le Furie, gli dei infernali, Lete, i Ciclopi, le
Muse Siciliane, Palemone, la zampogna, i Fauni, le Naiadi, le Ninfe,
l'inevitabile faggio bucolico. Vi ha le pecorelle di Menalca e le
caprette di Titiro che pascolano il timo della Germania come un
giorno pascevano quello della regione mantovana (337).
A
queste scipitezze aggiungete l'esegesi od esposizione di alcuni libri
sacri, nell'interesse del conflitto e sotto l'ispirazione del libero
pensare, ed avrete, a un di presso, la somma delle opere di colui che
il Protestantesimo chiama l'occhio, il fiore, e la fenice
dell'Alemagna. (338).
______________________
CAPITOLO
XIII.
PROPAGAZIONE
DEL PROTESTANTESIMO (Continuazione).
Eobano
Hessus. - Sua vita, sue opere. - Gio. Caio in Inghilterra. Ardore pel
Risorgimento. - Il vescovo di Winchester. - Francia, Giulio
Scaligero. - Sue opere - Parole di Bayle. - Ingiurie dirette dai
Risorgenti ai grandi uomini del Cristianesimo. - Lodi date ai pagani.
Tratto e detto di Walkenaer. - Le stamperie protestanti. -
Edizioni degli autori pagani di Enrico Stefano.- Fedeltà alla parola
d'ordine dei capi della Riforma.
***
Alla
coda di Buschio e di Camerario vediamo un numero incalcolabile di
protestanti rivolgere per ogni verso il campo dell'antichità. Per un
secolo tutte le forze vive del Protestantesimo sono impiegate ad
innamorare l'Europa dei Greci e dei Romani quanto della Bibbia.
Durante questo periodo si può citare appena un riformatore o un
riformato di qualche vaglia che non abbia esordito con traduzioni,
con annotazioni, con commentari d'autori pagani, e che non gli abbia
insegnati alla gioventù delle università e dei ginnasi: citiamo
ancora alcuni nomi.
Uno
degli amici intimi di Lutero e di Melantone, il fedele depositario
dei loro pensieri, Eobano Hessus, nacque nel 1488. Invaghito fin
dalla giovinezza dell'antichità greca e romana, mutò il proprio
nome di battesimo che era Elia in quello di Elio, preferendo
d'aver il nome d'un dio della favola che non quello d'un profeta. Il
suo amore alla poesia gli fece adottare preferibilmente questo nome
greco che significando il sole o Apollo, dio dei poeti, gli
richiamava continuamente la sua passione favorita. Il suo gusto per
l'antichità lo trasse dapprima verso Erasmo, poi verso Melantone,
poi al Protestantesimo (339).
La
vita sua privata aggiunge un nuovo carattere alla vita della maggior
parte dei Risorgenti di quell'età. Eobano, non si gloriava soltanto
di essere buon umanista ed elegante poeta; ma di essere anche solenne
bevitore. In quelle cene letterate del Risorgimento, preludio
dei simposi filosofici, del secolo XVIII, i più gagliardi bevitori
tedeschi non osavano di venire alla prova con Eobano. Un giorno per
altro ve ne ebbe uno che volendo contendergli la vittoria, fece
recare un secchio pieno di birra di Danzica.
Bevilo
alla mia salute, disse ad Eobano, ed in premio della tua vittoria ti
do un diamante.
A
tali parole trae dal dito un diamante e lo getta nel secchio. Senza
scomporsi, Eobano prende il secchio e lo tracanna in un fiato: poscia
lo capovolge e getta sulla tavola il diamante.
-
Bravo! esclamano i convitati; e l'avversario di Eobano presenta egli
stesso il diamante al vincitore.
-
Credi tu, gli dice allora Eobano, ch'io beva per interesse? tieniti
il tuo diamante, ed imitami se puoi.
Si
riempì il secchio, ed il dotto emulo incomincia a bere; ma prima
d'aver vuotato il secchio cade ubriaco fracido.
Il
tempo che Eobano non passa a bere, lo impiega a tradurre gl'idilli di
Teocrito, l’Iliade d'Omero, ecc.; poscia, aggiungendo l'esempio al
precetto, compone elegie e poemi ad imitazione di Ovidio; finalmente,
per mostrare qual fosse l'ultima sua idea, canta, esalta Lutero nelle
molte sue lettere, fra cui ci basterà di citar quella che ha per
titolo: Ecclesia captiva Luthero (340).
In
Alemagna troviamo anche Peutingero, Rafelingio, Gronovio, Grevio, i
due Perei, Ringelbergo, Cellario, che passò quarant'anni della sua
vita a postillare gli autori pagani; Irmischio, che trovò il modo di
fare cinque grossi volumi di note sopra Erodiano, storico di secondo
ed anche di terzo ordine, la cui opera non ha più di centocinquanta
pagine in ottavo. Uno dei suoi colleghi passò la propria vita a
commentare i ventisette idilli di Teocrito; un altro riempie due
immense sale soltanto di opere scritte sull'Arte poetica d'Orazio.
In
Inghilterra i letterati adempiono lo stesso ufficio e giungono allo
stesso termine di quelli dell'Alemagna.
Tommaso
Linacero, nato a Cantorbery nel 1460, nel momento in cui il
Risorgimento era nel primo suo fervore, abbandonai il proprio paese e
va a cercare in Italia quello che non poteva trovare altrove.
Firenze, soggetto della sua ammirazione, ebbe la sua prima visita.
Lorenzo de' Medici lo accolse con favore e permise che avesse gli
stessi maestri dei suoi figli. Questi maestri erano i padri del
risorgimento letterario, Demetrio Calcondila ed Angelo Poliziano. Il
giovane Linacero attinge avidamente a quella fonte e va a
perfezionarsi a Roma nell'intimità di Ermolao Barbaro.
Ben
pasciuto della bella antichità, ma soltanto della bella antichità,
ritorna in Inghilterra. La filosofia, la teologia, le arti, i
magnifici monumenti cristiani del suo paese, quella splendida,
cattedrale di Cantorbéry che ombreggiò la sua culla, non sono per
lui che barbarie.
Nel
1515, provveduto d'un beneficio, è ordinato prete: ma, oimè! egli
aveva ricevuto uno spirito ben diverso da quello del sacerdozio
cattolico. Prete di nome, Linacero fu un pagano in realtà. La sua
vita passò nello studio degli autori classici. Pubblicò: Proclus
de sphaera, greco e latino; poscia, De emendata latini
sermonis structura; e finalmente il trattato di Galieno: De
tuenda valetudine.
Questo
primo apostolo del Risorgimento in Inghilterra si dava così poco
pensiero di studiare la religione, che non rivolse mai gli occhi
sulla sacra Scrittura, se non al termine della sua vita. E la lettura
che ne fece lo adirò anche grandemente. Sentendosi assai male, si
fece recare il libro divino, e l'occhio cadde su quel luogo di San
Matteo, in cui nostro Signore proibisce di giurare pel cielo.
Stantechè Linacero era grande bestemmiatore, se ne scandalizzò sì
fattamente che si mise a bestemmiare, a giurare, a spergiurare con
tutte le sue forze, dicendo: «O questo libro non è il Vangelo, o al
mondo non vi ha cristiani». Poco dopo spirò: era nel 1524.
Linacero
aggiunge una trista conferma all'esperienza di Sant'Agostino e di S.
Girolamo. Risponde anche a coloro che pure ai nostri giorni non
temono di dire: Non vi ha nessun inconveniente a nutrire la gioventù
degli autori profani; il gusto degli autori cristiani, dei Padri
della Chiesa e della Scrittura verrà più tardi. Passiamo ad un
altro.
Giovanni
Caio, così dal suo nome di Risorgente, e Caye dal suo nome di
famiglia, nacque a Norwich nel 1518. Appassionato fin dai più teneri
anni per l’antichità, partì ancor giovane per l'Italia al fine di
perfezionarsi sotto gli abili maestri che vi insegnavano. Con un
ridicolo fanatismo pei letterati e pei filosofi pagani, riportò dal
suo viaggio il libero pensare in materia di religione. Provò il suo
amore pel Risorgimento facendo fabbricare quasi a sue spese il
collegio di Cambridge, che divenne uno dei focolari delle lettere
pagane, di cui, nel 1821, Giovanni Bussel diceva: «Poco mancò che
l'amore degli studi i classici nel XVI secolo non abbattesse la
costituzione inglese». Egli stesso pagò il suo tributo di
scrittore: al Risorgimento con diverse opere, fra le quali un
Trattato in quarto della Pronunzia greca e latina. In tutte le
rivoluzioni religiose, cattoliche, scismatiche, luterana, puritana,
Caio fu sempre del parere del principe regnante: non si può
praticare più perfettamente il libero pensare!
Verso
il 1540 l'opera di Caio fu impugnata da uno dei suoi colleghi.
Questi, risorgente appassionato cui l'amore dell'antichità aveva
condotto al Protestantesimo, insegnava il greco a Cambridge.
Intraprese di riformare la pronunzia. Questa innovazione venne
riguardata per lo meno tanto pericolosa quanto un'innovazione
religiosa. S'accese la guerra: si lanciarono scomuniche da una parte
e dall'altra; il clero intervenne. Il vescovo protestante di
Winchester pubblica un'ordinanza il primo giugno 1542 con la quale
proibisce sotto gravi pene di fare verun mutamento nella pronunzia
del greco. Tanto per la sostanza come per la forma, le espressioni di
questo singolare documento meritano di essere riferite: In sonis
ne philosophator, sed utitor praesentibus. In his si quid emendandum
sit, id omne autoritati permittito.
Lo
zelo dell'antichità classica non si rallentò punto nei protestanti.
Alla fine del secolo XVI lo troviamo tanto operoso quanto nel
principio. Per la massima parte gli autori pagani tengono luogo della
Bibbia anche nelle mani dei loro figli. Il famoso Bartio ne è un
nuovo esempio. Nato nel 1585 impara a leggere in quei libri che San
Girolamo chiama il pascolo dei demoni. Un giorno, alla
presenza di suo padre e di tutta la sua famiglia, recita a memoria
tutte le commedie di Terenzio, senza sbagliarne parola: aveva nove
anni. I suoi costumi furono degni del suo maestro. Giovane
ancora, mettesi in viaggio, pellegrino della bella antichità. Una
gran parte della sua vita l'impiega a percorrere l'Europa letterata,
pubblicando le sue Juvenilia, le sue Amabilia, imitate
da Anacreonte. Il resto del tempo, sino alla morte, avvenuta nel
1658, lo spende a chiosare Esopo e Petronio (341).
Tutte
le opere di questi Risorgenti riuscivano ordinariamente pei loro
autori alla professione del Protestantesimo: pei lettori il disprezzo
solenne del passato cattolico dell'Europa e all'ammirazione fanatica
dell'antichità pagana. Fra mille esempi, alleghiamo soltanto quello
di Giusto Scaligero.
Nato
nel 1540, e risorgente fin dalla culla, Scaligero esordisce in età
di quindici anni con una tragedia di Edipo. Divora Omero: tutti gli
autori pagani sono cosa sua. Passa la lunga sua vita a chiosare,
postillare, illustrare per la centesima volta Terenzio, Festa,
Catullo, Tibullo, Properzio, Virgilio, Marziale, Seneca il tragedo,
Galieno, Cesare, Empedocle, Ippocrate, Orfeo, Eschilo, Teocrito,
Bione, Sofocle ed una moltitudine d'altri. Tanta è la sua passione
che in ciascuna frase, in ciascuna parola di questi grandi modelli
trova bellezze infinite che non vi furono giammai.
«Non
so, dice lo stesso Bayle, se non si potrebbe dire che Scaligero
avesse troppo spirito e troppa dottrina per fare un buon commento.
Perché, a forza d'essere spiritoso (342), trovava negli autori che
chiosava più ingegno e più finezza che realmente non avevamo ...
Non è neppur da supporre che gli autori abbiano pensato a tutto
quello che fa dir loro. Non devesi credere che i versi d'Orazio e di
Catullo comprendano tutta l'erudizione che ai signori commentatori
piace di trovarvi (343).
Di
quanto Scaligero esalta i più piccoli autori pagani, di altrettanto
deprime i più illustri autori cristiani. Ei non teme di trattar
Origene da visionario; San Giustino da semplice; San Girolamo da
ignorante; Ruffino da villano briccone; San Giovanni Crisostomo da
villano orgoglioso; San Basilio da superbo; Sant'Epifanio da ignaro;
San Tommaso da pedante. Da questi giudicate degli altri.
Ben
diverso è il rovescio della medaglia. Ecco un saggio degli encomi
dati al cospetto dell'Europa, e specialmente della gioventù, agli
autori pagani. Udiremo Scaligero, Erasmo, Ficino, Gemisto Pletone,
Pontano, Cardano ed i più celebri Risorgenti.
Chi
è Cesare? Se non fosse morto sarebbe un dio. Erodoto? Il
latte delle muse.
Tito
Livio? Un mare tranquillo.
Cicerone?
L'anima dell'eloquenza.
Virgilio?
La musa sovrana.
Omero?
Il divinissimo, il solo poeta del mondo.
Ovidio?
Il tesoro delle muse. Catullo? Il pettine delle muse.
Stazio?
Un corriere malato.
Platone?
Un fiume perenne; il padre, il migliore ed il maggiore dei
filosofi.
Aristotele?
Una mente vasta quanto il mondo.
Demostene?
Ercole nudo.
Socrate?
Il Nereo degli oratori.
Pindaro?
L'aquila.
Sofocle?
La cima del Parnaso.
Catone?
Il più grande dei mortali.
Tacito?
Il maestro della politica, l'arbitro dell'immortalità.
Dione
Prusia? Un filosofo ed un oratore cui niuno si trova da anteporre.
Ennio?
Una reliquia che si dee adorare come le antiche quercie de' boschi
sacri.
Euripide?
Il poeta moralista tutti i cui versi sono gemme.
Esopo?
Il filosofo dei fanciulli.
Orazio?
La fenice dei lirici.
Terenzio?
Il più bello, il più elegante, il più latino dei latini.
Petronio?
Il candore, la grazia e la dolcezza.
Plutarco?
L'educatore di Traiano.
Polibio?
Il santuario della politica.
E
così degli altri (344).
Quello
che pensavano nel secolo XVI degli autori pagani e degli autori
cristiani, i protestanti letterati continuano a pensarlo e a dirlo.
Nel passato secolo esisteva in Olanda il celebre triumvirato della
filologia. I triumviri erano Walkenaer, HemsterHuys e
Ruhnkenius. Si avevano in conto di depositari di tutte le buone
tradizioni del Risorgimento e d'interpreti aristocratici della bella
antichità. Ora il primo, parlando dei Mimi di Sofrone e di
quelli di Laberio, così si esprime nel commentario sopra le
Adoniazasi di Teocrito: «Siamo qui ben cento amatori
dell'incorrotta antichità che assai volentieri daremmo gli undici
volumi di S. Agostino per ricuperare questi due opuscoletti, non
volendo per altro che andasse perduta l'erudita opera della città di
Dio (345)».
Tutte
le opere del più vasto ingegno cristiano per due cattivi ed inutili
libercoli pagani! Ecco il voto dei Risorgenti luterani e il caso che
facevano dei monumenti del Cristianesimo! E si verrà a dirci poi che
i riformatori ed i riformati furono nemici delle lettere pagane?
La
febbre dell'antichità che agitava i protestanti del XVI secolo non
può paragonarsi che alla febbre dell'oro che si è indonnata
dell'Europa attuale. Mentrechè con un ardore instancabile questi
smuovono i campi della Grecia e di Roma, quelli con non minor ardore
convertono in volumi i risultamenti di tante investigazioni e li
versano nel pubblico.
Reca
veramente stupore il numero prodigioso di libri pagani che uscirono
dalle loro tipografe. Oltre i dizionari e le grammatiche greche e
latine, i trattati di pronunzia e di prosodia, le filosofie delle
lingue antiche, le illustrazioni poetiche, veggonsi messi in luce con
note, commenti, glosse, osservazioni ed encomi interminabili tutti
gli autori profani greci e latini, ora in gran sesto per gli uomini
più dotte ora in piccolo formato ed in trattati separati pei
giovani.
Alla
testa di quest'esercito pagano che s'avanza al conquisto dell'Europa
procede l'Andria di Terenzio, uscita dai torchi di Carlo
Stefano nel 1547; e che ha per titolo: P. Terentii, afri comici,
omni interpretationis genere, in adolescentulorum gratiam facilior
effecta; adjectus est index latinarum et gallicarum dictionum. Un
tal libro, con un tal titolo prova meglio di tutti i discorsi lo
spirito di quel tempo. Nello stesso ordine trovasi la Medea di
Euripide che si spiega ai fanciulli e che si fa loro declamare.
Questa recita, accompagnata sempre da applausi, piaceva in mirabil
modo al giovane Enrico Stefano, il quale concepì un ardente
desiderio di divenire anch'esso attore. Ei divora la grammatica
greca; ben presto gli si mette in mano la Medea; l'impara a memoria,
la declama, diventa greco ed anche protestante.
Successore
di suo padre, inonda l'Europa delle sue edizioni di autori pagani.
Nel
1549, pubblica Orazio completo, con note ed argomenti.
Nel
1554, Anacreonte completo, con traduzione latina e commenti;
Nel
1556, tutti i lirici greci, con versione latina, note e
varianti;
Nell'anno
medesimo, gl'idilli di Mosco di Bione e di Teocrito,
con traduzione latina ed argomenti;
Nel
1557, Aristotele e Teofrasto;
Nell'anno
stesso, Eschilo, con note, Massimo da Tiro il
platonico;
Nel
1559, Diodoro Siculo;
Nel
1560, Pindaro, con traduzione latina a fronte; Nel 1561,
Senofonte, con copiose, note;
Nel
1562, Sesto Empirico, filosofo pirroniano, graece numquam,
latine nunc primum editus;
Nell'anno
stesso, Temistio;
Nel
1563, frammenti di tutti gli antichi poeti latini, di Ennio,
Accio, Lucilio, Laberio, Pacuvio, e di molti altri;
Nell'anno
stesso, Tucidide greco e latino. con note e commenti;
Nel
1566, l'Antologia, raccolta di poeti epigrammatici, con doppio
testo, con note e con tutto ciò che è necessario per sentire il
sapore di quei componimenti sì acconci a formare lo spirito ed il
cuore della gioventù cristiana.
Dal
1566 al 1592, tre volte Erodoto, greco e latino;
Nel
1566, i grandi poeti greci; Omero, Orfeo, Callimaco, Arato,
Nicandro, Teocrito, ecc. ecc., con note e prefazioni a gloria
degli autori.
Nel
1567, Polemone ed Imerio, greco, con ampio commento;
Nello
stesso anno i Medici greci, con note ed aggiuntovi un indice
non solum copiosus, sed etiam ordine artificioso omnia
digesta habens;
Nello
stesso anno, scelta delle tragedie d'Eschilo, di Sofocle
e di Euripide, con traduzione latina a fronte;
Nel
1568, Sofocle, con un commentario su tutte le tragedie;
Nell'anno
stesso, Sofocle ed Euripide, con un trattato
dell'ortografia di questi due autori.
E
nello stesso anno ancora le Massime dei re, dei capitani, dei
filosofi, e di altri personaggi antichi, in greco con traduzione
latina.
Nel
1569, Massime e Pensieri, dei comici greci, in greco e in
latino;
Nel
1570, Epigrammi greci, interpretati a parola per parola;
Nello
stesso anno, Diogene Laerzio, vite, dottrine, massime dei
filosofi, greco-latino;
Nello
stesso anno ancora, Conciones, scelta dei discorsi tratti
dagli storici greci e latini, con indice ed applicazioni;
Nel
1572, Plutarco completo, greco e latino, arricchito di note e
di appendici;
Nel
1573, la poesia filosofica della Grecia, Empedocle, Senofonte,
Timone, ecc., con note e prefazioni;
Nel
1573, Lodi della virtù, tratte dagli autori greci e latini;
Nel
1574, Apollonio Rodio, con note;
Nel
1575, discorsi d'Eschine, Lisia, Andronide, Dicearco, Licurgo,
ecc., in greco e in latino;
Nello
stesso anno, Orazio, con note, argomenti, avvertenze di ogni
genere;
Nel
1076, Plauto e la sua latinità:
Nel
1577, Cicerone, epistole, con lunghi commenti;
Nello
stesso anno, Callimaco di Cirene, inni, epigrammi, con note e
commenti;
Nello
stesso anno, Virgilio, con note d'ogni genere;
Nel
1578, Centoni d'Omero e di Virgilio;
Nello
stesso anno ancora, Platone completo;
Nel
1579, Teocrito e gli altri poeti greci, idillii, epigrammi,
ecc., con grande corredo di note;
Nel
1581, Erodiano, con commenti;
Nello
stesso anno, Plinio il giovane;
Nel
1585, Aulo Gellio e Macrobio;
Nel
1587, i Critici greci, con note;
Nel
1588, Dionigi d'Alicarnasso;
Nel
1589, Dicearco, greco e latino;
Nel
1592, Dione Cassio; Appiano, Csifilino, greco e latino;
Nel
1593, Isocrate, orazioni e lettere, in greco e io latino, con
note;
Nel
1594, Memnone, storie scelte, greco-latino, e molti altri.
Ciò
non è che una piccola parte dei lavori della Riforma in favore della
classica antichità. Durante l'intero secolo XVI, le tipografie
protestanti di Lipsia, di Basilea, d'Amsterdam e di Ginevra
gareggiarono di operosità con quelle di Stefano per riprodurre le
opere dei pagani di Roma e di Atene. Che ve ne pare? Questi fatti
irrepugnabili provano forse che i riformatori e i riformati, come
pretendesi, fossero, nemici del Risorgimento? Non provano anzi la
voga universale di quel tempo per l'antichità pagana, ed in
particolar modo l’importanza estrema che la Riforma dava alla
parola d'ordine dei suoi capi: Seminate umanisti e raccoglierete
protestanti?
______________________
CAPITOLO
XIV.
PROPAGAZIONE
DEL PROTESTANTESIMO (Continuazione e fine).
Riprovazione
della filosofia e della poesia del libero pensare.- Leone X, Paolo
III. - Il libero pensare conduce al Protestantesimo.- Giustezza della
parola d'ordine dei capi della Riforma.- Vermiglio. - Curione.
Dudith. - Gilberto di Longueil. - Altri nomi. - Le famiglie Gentilis
e Beccaria. - Averrani. - Landi. - Giudizio reso sopra tutta questa
progenie di umanisti.
***
Lo
studio appassionato degli antichi produceva immanchevolmente un
grande disprezzo pel Cristianesimo ed una grande ammirazione pel
Paganesimo. Da questo duplice sentimento nascevano e l'impazienza del
giogo dell'insegnamento cattolico e il desiderio del libero pensare.
Ora, il libero pensare aveva suo complemento nel Protestantesimo. Di
che il fatto notevolissimo c non meno doloroso d'una moltitudine di
Risorgenti che passano dal Cattolicismo al Protestantesimo per poter
filosofare a tutto loro agio.
Fin
dal principio del secolo XVI, nel 1512, il pontefice. Leone X aveva
solennemente riprovato la nuova filosofia e la nuova poesia
dichiarando che le erano guaste fino nelle loro radici: Philosophiae
et poeseos radices esse infectas. (346).
I
suoi successori, e specialmente Paolo III, repressero gagliardamente
i propagatori del libero pensare in Italia.
«Ebbevi
un papa, dice il protestante Leibnizio, così caparbio da
formare una specie d'inquisizione contro i poeti nel tempo che
le buone lettere incominciavano a rinascere. Ei credeva che essi
volessero ripristinare il Paganesimo; ma si rise dei suoi
sospetti (347)».
Quante
le parole tanti gli errori. Paolo III non era punto un papa caparbio,
ma il custode zelante e vigile del deposito della fede. In altro dei
volumi di quest'opera abbiamo veduto ch'egli non proscrisse già i
poeti, ma i filosofi dell'accademia pagana di Callimaco; non
si rise punto de' suoi sospetti, stantechè avevano buon
fondamento, e stantechè i suoi successori sbandirono realmente, e
con ragione, il platonismo e la filosofia greca dall'Italia.
Nulladimeno
i germi di questa filosofia, come anche l'ardente coltura del
paganesimo letterario produssero i loro frutti in Italia e nelle
altre regioni rimaste cattoliche. Adduciamo qualche esempio. Abbiamo
già veduto tutti i capi del Protestantesimo giungere, mediante lo
studio dell'antichità, all’emancipazione del pensiero, li
abbiamo uditi raccomandare questo studio come un mezzo eccellente
d'arruolare l'esercito dei liberi pensatori. Il loro istinto, la loro
esperienza non li traevano in inganno.
Pietro
Martire Vermiglio, nato a Firenze nel 1500, fin dalla culla aveva
succhiato un latte pagano.
Siccome
un gran numero di dame italiane di quel tempo. così anche sua madre
erasi invaghita degli autori dell'antichità. Essa stessa insegnò la
lingua latina a suo figlio, facendogli studiare le commedie di
Terenzio. Dalla scuola della madre, o piuttosto da quella di
Terenzio, Vermiglio passò sotto il magistero di Marcello Virgilio,
celebre Risorgente che insegnava allora latinità ai nobili giovani
fiorentini. Ebbe a condiscepoli Francesco de' Medici, Alessandro
Capponi e Pier Vettori.
Nella
sua ammirazione per l'antichità, quest'ultimo erasi imbevuto di tal
disprezzo del medio evo o, più veramente, di un tal odio del
cristianesimo, che essendo ambasciatore della sua repubblica,
scriveva: «Se vediamo quanto prima i Turchi riversarsi sull'Italia
sarà pel meglio. Perché io m'acconcio male all'ubriachezza
di questi preti, non dico del papa, che, se non fosse prete, sarebbe
un grand'uomo» (348). Intorno al che uno scrittore protestante
aggiunge: «Ognuno lo vede, qui non si tratta del capo, si tratta dei
ministri della religione: non si tratta di alcuni abusi di potere, si
tratta del carattere stesso che costituisce il sacerdozio e che dà
azione sulle coscienze; questo è che si assalisce» (349).
Con
l'animo tutto pieno dell'antichità, ed assai leggermente provveduto
di spirito e di cognizioni cristiane, Vermiglio entra nell'ordine dei
Domenicani di Fiesole, e con ardore intende all'eloquenza. Dopo tre
anni è mandato a Padova, dove studia la filosofia d'Aristotele. Ma,
persuaso che non era un conoscere Aristotele; conoscendolo come San
Tommaso, impara il greco per poter leggere il filosofo di Stagira nel
testo originale. In età di ventisei anni, gli viene affidato il
ministero della predicazione, che adempì con lustro nelle principali
città dell'Italia. Ma i suoi gusti d'infanzia non l'abbandonano.
Come Lutero ad Erfurth, Zuinglio a Vienna e Calvino a Bourges,
Vermiglio, anche facendo le sue prediche, impiega la maggior parte
possibile del tempo al culto della bella antichità. Lo vediamo
insegnare successivamente la filosofia e la poesia greche. A Vercelli
spiega Omero, ad instanza di Benedetto Cusani con cui passa
sovente le intere notti sui libri greci.
La
buona opinione che si aveva del suo merito lo fa nominare abate di
Spoleto. Ivi gli vengono nelle mani i Commentarii di Bucero sui
Vangeli ed il Trattato di Zuinglio sulla vera e falsa
religione. Il Protestantesimo incontrando il libero pensare, è
il lampo che s'incontra nel lampo. Vermiglio che, come tanti altri,
aveva attinto nei suoi studi pagani il libero pensare, sentesi tirato
verso il Protestantesimo. Il missionario cattolico diventa in pulpito
un libero pensatore. Grande fu lo scandalo prodotto dalle sue
dottrine, e non meno grande l'ostinazione di Vermiglio a sostenerle.
Una
sera va a trovare alcuni Risorgenti, suoi amici, Paolo Lancisi,
maestro di lingua latina nel collegio di Verona, Antonio Flaminio,
Giovanni Valdès, e Galeazzo Caracciolo. Incoraggiato da loro,
abbandona segretamente l'Italia, si reca a Zurigo, poscia a
Strasburgo, si ammoglia. passa in Inghilterra, di là nei Paesi
Bassi, poi a Ginevra e finalmente ritorna a Zurigo, dove muore nel
1562.
Sulle
vestigia di Vermiglio, alcuni anni dopo, vediamo un altro Risorgente
prendere la stessa strada ed andare in Alemagna ad aprire il suo
libero pensare: questi è il famoso Curione, nato nel 1503, nutriti
di prosa e di poesia pagana, e che di ventidue anni va a farsi
luterano. Parte con due giovani suoi amici ed animati dalle medesime
disposizioni, Giacomo Cornelio e Francesco Guarini. Questi due
diventano ministri del santo Vangelo (della ragione), e
Curione professore di belle lettere a Losanna ed a Basilea. Tito
Livio, Cicerone, Appiano, Giovenale, Plauto; i maestri della sua
infanzia, sono i compagni inseparabili della sua vita ed i modelli
della sua morte. Nelle loro braccia rese l'estremo sospiro nel 1569.
Scrivendo
la storia d’un gran numero di Risorgenti, ritorna volontariamente
sotto la penna il detto di Erasmo. Fatti pagani fino dall'infanzia,
questi letterati tendono al Protestantesimo come il pulcino tende ad
uscire dal suo guscio, per respirare all’aria libera. Ova partorite
da Erasmo, desiderano Lutero che debba farle schiudere: Ego peperi
ovum, Lutherus exclusit. Il famoso Dudith ne è un nuovo esempio.
Nato in Ungheria nel 1533, riceve nel suo paese i primi rudimenti
delle lettere e viene a perfezionarsi in Italia nella
filosofia e nella letteratura. A Venezia, a Padova, a Firenze ha per
maestri i più celebri Risorgenti: Manuzio, Robertello, Vettori.
Prende
tale passione por Cicerone che non può più separarsene come l'ombra
dal corpo, e scrive tre volte di sua mano tutte le opere, per
imprimersene profondamente nella memoria i pensieri, e pigliarne con
più di sicurezza lo stile. Lasciando l'Italia, Dudith viene a
Parigi, dove sotto il magistero di Francesco Vicomercato, celebre
Risorgente, si applica alla filosofia. Ma, come tutti coloro che
abbiamo nominato, s'abbandona allo stesso tempo alla sua tendenza per
l'antichità pagana, studiando alla scuola di Angelo Caninio, la
greca letteratura.
Ricco
di tutte queste cognizioni, debole baluardo contro le passioni del
cuore e specialmente contro l'orgoglio della ragione, Dudith ritorna
nel suo paese, dove è provveduto d'un canonicato di Strigonia.
Il
Protestantesimo gli si affaccia ben presto siccome il complemento
dell'emancipazione dell'uomo e come il rappresentante del progresso.
Dudith scuote il giogo dell'autorità ed entra nel Protestantesimo
per la porta del matrimonio. Postosi sul terreno della libertà,
socratizza a suo agio; da luterano si fa sociniano; poi, dopo una
breve sosta, continua il suo cammino: nega persino le verità
fondamentali del cristianesimo e finisce coll'addormentarsi
nell'indifferenza. In questo stato, ultimo termine del razionalismo,
la morte viene a colpirlo il 23 febbraio 1589.
Dudith
pagò il suo tributo all'antichità classica, dotando l'Europa d'un
volume in foglio di Commenti sulla meteorologia d'Aristotele,
di poesie latine del gusto di quel tempo, e di lettere
ai capi principali della Riferma.
A
quest'esempio aggiungiamo quello di Bullingero. Nato nel 1504 in
Isvizzera, nel cantone cattolico di Lucerna, Bullingero è destinato
agli studi da suo padre, che non mancava pur esso di coltura
intellettuale. Ma in quel tempo gli autori pagani non erano spiegati
alla gioventù, di guisa che, dice il biografo protestante, gli
studi erano pressappoco nulli da per tutto. Bullingero fu dunque
mandato, in età di dodici anni, nel ducato di Clèves, alla scuola
di Mosellano, celebre Risorgente, cui lo studio dell'antichità
pagana condusse, come tanti altri, al Protestantesimo. Sotto la
disciplina di questo nuovo maestro, Bullingero si diede con passione
allo studio della bella antichità. Da Clèves passa a Colonia, dove,
studiando logica, coltiva, ad imitazione di Lutero e di Zuinglio, le
muse. Divora Aulo Gellio, Macrobio, Quintiliano, Plinio, Solino, ecc.
Però diventa prete e poscia parroco nel proprio paese. Scoppia il
Protestantesimo; Bullingero rinunzia al sacerdozio, ritorna al culto
della bella antichità, si rende protestante, si ammoglia, è creato
ministro e diviene il successore di Zuinglio (350).
Verso
lo stesso tempo, l'Olanda ci presenta un nuovo esempio dell'influenza
degli studi pagani sulla fede della gioventù. Nel 1507 nacqne ad
Utrecht Gilberto di Longueil. Fornito di grande ingegno, il
giovinetto ode i suoi maestri levare a cielo gli autori pagani che
gli fanno spiegare. S'invaghisce di quei grandi modelli, impara
profondamente la loro lingua e si trasferisce in Italia per
perfezionarsi nel conoscimento dell'antichità. Ne ritorna convinto
che ben pensare è pensare come i grandi ingegni di Grecia e di Roma,
le cui lodi ha udito ripetersi da ogni voce di Firenze, di Venezia e
di Padova.
Rientrato
nel suo paese, gli vien parlato di valenti umanisti che in nome di
Platone e di Aristotele, meglio conosciuti guerreggiavano
l'insegnamento cattolico. La verità non può essere che dalla parte
della scienza e dei lumi, e non già con l'ignoranza e con la
barbarie. Ora, cotali umanisti il cui nome è nelle bocche di tutti
si chiamano Ulrico Utteno, Lutero, Camerario, Melantone. Longueil si
schiera dalla loro parte: è protestante; A tutto suo agio, nel seno
della Riforma, prepara agli altri la strada battuta da lui. Vent'anni
di fatiche sono impiegati a volgarizzare, chiosare, illustrare la
vita di Apollonio Tianeo, di Filostrato; le Metamorfosi di Ovidio, le
epistole di Cicerone, le vite di Probo e le commedie di Plauto! Con
questo tesoro di meriti Longueil, spogliato della fede del suo
battesimo, comparve alla presenza di Dio nell'entrante dell'anno
1543.
Potremmo
estendere molto più questa nomenclatura; e mostrare con nuovi esempi
tolti da tutti i paesi la giustezza della parola d'ordine data dai
capi della Riforma: seminate umanisti, e raccoglierete
protestanti. Ci basti il nominare, in Inghilterra, Milton; in
Alemagna, Cisner, Schuler che prese il nome di Sabino; in Francia,
Lefèbre, di Caen, la Ramée, Bartolomeo Aneau, Cordier, Chandieu; in
Italia, Gregorio Leti e quell'Averrani di Firenze, che a lungo
studiare l'antichità divenne non solo protestante, ma stoico. Si
giudicherà di ciò che era quando si saprà che ci ha lasciato
ottantasei dissertazioni sopra gli epigrammi greci: ventisei sulle
tragedie d'Euripide; cinquantotto su Tucidide; trentuno su Tito
Livio; quarantacinque, sopra Virgilio, novantadue, sopra Cicerone.
Non passeggiava mai senza declamare versi d'Omero, di Pindaro, di
Tibullo. Per coronare tutte le sue opere tradusse Sallustio in greco.
Talvolta
famiglie intere passavano dal Risorgimento al Protestantesimo. Così,
vediamo la famiglia dei Gentilis, della Marca Anconitana, valicare i
confini dell'Italia e dare al Protestantesimo, elvetico non solo
proseliti, ma apostoli: vediamo un membro dell'antica famiglia
Beccaria di Firenze, appassionato per l'antichità pagana,
abbandonare la città sua nativa, abbracciare il Protestantesimo, e
fermare sua stanza in Danimarca, dove prese il nome di Becker, e
divenne il capo d'una famiglia che esiste ancora. In Francia, al
seguito di Calvino, di Beza, di Cordier, di Farel, di Ramo vediamo il
famoso Dolet, dare un tale scatto al suo libero pensare che d'errore
in errore cade nell'empietà più ributtante. Egli era amico intimo
d'Ortensio Landi, altro Risorgente, intorno al quale un
contemporaneo ha scritto alcune linee che palesano che cosa fosse in
generale tutta questa progenie di umanisti.
«A
Bologna, dice quest'autore, abbiamo conosciuto ben addentro Ortensio
Landi. A Lione ei ci ripeté questo aforisma: «Altri leggono altri
libri; a me piacciono soltanto Cristo e Tullio: Cristo e Tullio mi
bastano». Ma intanto non aveva mai Cristo né in mano né nei libri;
se poi lo avesse in cuore, lo sa Iddio. Questo noi sappiamo dalla sua
bocca, che fuggendo in Francia non portò seco né l'Antico né il
Nuovo Testamento, come consolazione del viaggio, ma le lettere
famigliari di M. Tullio. Noi non ci saremmo indotti a brevemente
descrivere la sorte di quest'uomo, degna della sua vita, né la sua
leggerezza, né la sua mollezza, né i suoi costumi niente
religiosi, se non sapessimo essere della stessa malvagità e
petulanza quante abbiamo da vicino conosciuto di queste scimmie di
Cicerone».
È
facile comprendere che Ortensio Landi divenne protestante (351).
______________________
CAPITOLO
XV.
TESTIMONIANZE
Il
protestantesimo venuto dal Risorgimento. Testimonianza dell'autore
protestante Gottlieb Buhle. - Dallo studio dell'antichità è uscito
il libero pensare. - Il disprezzo del cristianesimo. - La ribellione
contro la Chiesa. - Parola d'ordine dei capi del Protestantesimo.
-Testimonianza del dottor Beda. - Disprezzo d'Erasmo e dei Risorgenti
pei Padri e pei dottori della Chiesa che non sapevano il greco. -
Confutazione. - Testimonianza del conte di Carpi. - Sua lettera ad
Erasmo. - Il Risorgimento vera causa del Protestantesimo. - Stato
dall'Alemagna prima e dopo il Risorgimento. - Effetti degli studi
pagani sugli animi.- Conclusione.
***
Abbiano
dimostrato, da una parte, che i capi della Riforma furono gli alunni
appassionati e gli ardenti propagatori del Risorgimento filosofico e
letterario; d'altra parte, ch'essi riguardavano lo studio
dell'antichità greca e romana come un mezzo potente di disporre gli
animi al Protestantesimo; ed i fatti ci hanno rivelato la giustezza
di loro previsioni. Ma la parte che qui imputiamo al Risorgimento non
è forse esagerata? Gli esempi che abbiamo allegato e quelli in
maggior numero che ancora si potrebbero allegare, sono poi così
dimostrativi come sembra? Non appartiene a noi il rispondere, ma alla
storia.
L'autore
protestante Gottlieb Buhle così si esprime nella sua Storia della
filosofia: «Nel medio evo, in cui l'uomo, digiuno di ogni
cognizione scientifica, dominato da una cieca credulità, è tuffato
ogni dì più nella barbarie, la letteratura e la filosofia
dell'antichità cessano per noi, come si vedono succedere le tenebre
ad un bel giorno. La storia moderna dello spirito umano incomincia
allo studio della classica letteratura. Il contrasto saliente del
gusto squisito che dirigeva gli antichi artisti, poeti, storici e
rétori e della libertà di pensare che guidava i filosofi coi
caratteri di barbarie che la gerarchia (352) e la scolastica avevano
impresso in tutte le produzioni dei secoli in cui dominarono, fecero
vivamente sentire all'uomo la vergogna dell'oppressione sotto cui
aveva gemuto fino allora (353)».
Dopo
aver richiamato l'ardore incredibile con cui si studiarono gli
antichi, non omette d'aggiungere che da questo studio nacque il
libero pensare, e che allora si stabilì il duello fra il principio
d'autorità e il principio d'indipendenza intellettuale, tra la
Chiesa e gli umanisti. «Di che, dice egli, scaturirono avvenimenti
di cui la propagazione dei lumi e la libertà di pensare
dovevano essere il necessario risultamento. La lotta, a vero
dire, fu lunga fra la gerarchia e coloro che, illuminati dalla
lettura dei greci e dei romani, lacerarono il velo di cui la
Chiesa copriva il suo sistema, ne smascherarono la perversità e
dimostrarono il poco fondamento delle sue pretensioni.... essa non
poté evitare il disprezzo di tutte le persone illuminate dal momento
che si consultarono le opere originali dei greci ... la filosofia
moderna ha principio dal ripristinamento degli antichi (354)».
Qui
sarebbe superfluo qualunque commento. Cotale preziosa testimonianza
rivela chiaramente il pensiero intimo dei riformatori, il frutto che
traevano dagli studi classici e la giustezza della loro parola
d'ordine. Insistendo sopra questo punto fondamentale, l'autore ci
descrive la maniera che tennero i capi del Protestantesimo, aiutati
dal Risorgimento per inaugurare il regno del libero pensare: «I
lumi, dice egli, di cui il Risorgimento e lo studio della letteratura
e della filosofia antica avevano riacceso la fiaccola in Italia,
diffusero anche la loro influenza benefica nelle vicine
contrade e specialmente in Alemagna:. Verso la fine del XV e
all'inizio del XVI secolo, i dotti italiani annoverano fra i loro
discepoli un gran numero di stranieri che studiavano con loro le
opere classiche dell'antichità. Ritornati nel loro paese nativo vi
spandevano i germi delle più profonde cognizioni, che non
tardarono a germogliare fra i nostri, ed a produrvi frutti
abbondevoli (355)».
Al
vedere le novità e lo spirito d'indipendenza che, sotto il mantello
dei Greci e dei Romani, si manifestavano da tutte parti, il principio
cristiano di fede e d'autorità gridava al pericolo e combatteva con
vigore: sentivasi fino d'allora che in tutto questo vi aveva ben
altro che una questione di forma e di letteratura. «Ciò nondimeno,
continua l’autore, la dura lotta che Petrarca, Boccaccio, i dotti
greci e i loro amici avevano dovuto sostenere in Italia contro la
barbarie della scolastica, le pretensioni della gerarchia e le
tenebre della superstizione, cotal lotta, dico, dovette estendersi
nei paesi vicini. Perciò gl'uomini illuminati di quelle
regioni appigliaronsi dapprima a segnalare il nulla della
scolastica, a stenebrare gli occhi del popolo sia con motteggi,
sia con gravi dicerie sull'ignoranza, sui pregiudizi, sulla pigrizia,
sul libertinaggio e sulla turpitudine dei frati, finalmente a
mostrare il bisogno stringente di riformare gli studi letterari,
e d'introdurre una filosofia meno assurda. Conveniva sterpare dal
terreno tutte le male erbe che lo inselvatichirono. Quest'era l'opera
più meritoria che si potesse intraprendere in quel tempo; cotal
opera preparava gli animi a ricevere una nuova filosofia»
(356)
Disprezzo
del medio evo, ammirazione dell'antichità pagana: ecco tutta
l'industria ed eccone i risultamenti. Lo storico filosofo aggiunge:
«Dacché fu ripigliato lo studio delle lingue antiche e degli
scrittori profani, si stupì della differenza enorme che vi era
tra la filosofia antica, attinta alla sua fonte, e la scolastica
dominante, e si sentì vivamente quanto l'una fosse deforme e l'altra
all'incontro attraente per la ragione. I dotti dovettero
dunque finalmente studiare la Bibbia e gli antichi Padri della Chiesa
nella loro lingua originale. Questi studi fecero ad essi scorgere
una differenza non meno mirabile fra il cristianesimo evangelico e
l'antica costituzione della chiesa, da una parte; la teologia
dogmatica moderna ed il papato, dall'altra;
«Tale
scoperta non poté mancare di produrre a poco a poco nella credenza
dei teologi istruiti e ragionevoli una rivoluzione non meno grande di
quella che era stata in filosofia la conseguenza del ristauramento
delle belle lettere antiche ... L'indignazione delle persone
illuminate dal popolo non fece che aumentarsi man mano che lo studio
della classica letteratura dell'antichità, della Biblia, nella
lingua originale e dell'antica storia della Chiesa si estese per
tutta l'Alemagna. Questo studio fornì loro anche le armi più
formidabili di cui si potessero giovare contro la gerarchia. Non è
a stupire che i primi assalti mossi nel 1517 da Martino Lutero,
abbiano avuto un successo maggiore d'ogni speranza» (357).
Come
è ben ragionevole, lo scrittore protestante gioisce a questi bei
risultamenti: benedice il Risorgimento che li ha prodotti, e richiama
con gioia mista ad orgoglio la profonda sapienza e l'immensa forza
del motto dei capi della Riforma: Seminate umanisti e
raccoglierete protestanti. «Stantechè, dice egli, era nello
spirito del Protestantesimo il far progredire grandemente il genio
filosofico, i riformatori Lutero, Melantone, Zuinglio,
Calvino, Bullingero, Ecolampadio, Camerario, Eobano Hessus e gli
altri dotti collegati con essi per giungere al medesimo scopo, si
trovarono in tale condizione, in mezzo ai grandi interessi della
Riforma, che appena era loro possibile il fare altra cosa che di
raccomandare instantemente lo studio delle lingue antiche come il
miglior mezzo di condurre ad una teologia più ragionevole»
(358).
Se,
riassumendo questa testimonianza perentoria, si fa l'enumerazione dei
benefici prodotti e da prodursi dallo studio assiduo dell'antichità,
si trova, a giudizio dei capi del Protestantesimo, la libertà di
pensare, il disprezzo dell'insegnamento e dell’autorità cattolica,
la prova che la filosofia cristiana e la letteratura cristiana non
sono che barbarie, che la Chiesa è caduta nell'errore e nella
corruzione, la necessità di riformar tutto questo, non consultando
la tradizione, né i dottori, né la Bibbia interpretata dalla
Chiesa, ma leggendo da sé medesimo nel greco e nell'ebraico i Padri
e la Scrittura, e spiegandoli sui testi originali sotto l'ispirazione
del libero pensare.
Agli
scrittori protestanti si aggiungono, per confermare, questi
risultamenti dello studio appassionato dell'antichità pagana, gli
autori cattolici. Fino dal 1529, il dottor Beda, una delle glorie
della Sorbona, rinfacciando ad Erasmo le sue ingiurie verso i secoli
cristiani, si esprime in queste parole: «Di qual valore sarebbero
stati gli antichi dottori cattolici se non avessero conosciuto il
greco? Non ne so nulla, dice Erasmo. - Osserva, o lettore, con quale
iattanza pone sé stesso, Lefebvre d'Étaples e pressappoco tutti i
discepoli di Lutero, sopra a tutti i dottori puramente latini. Così,
secondo Erasmo, si debba contare per poca cosa in teologia i sommi
pontefici San Leone le San Leone III, San Gregorio Magno, S. Isidoro,
Alcuino, Rabano, Aimone, Sant'Anselmo, San Bernardo, Ugo e Riccardo
di San Vittore, Pietro Lombardo, Guglielmo d'Auxerre, San Tommaso,
San Bonaventura, Alessandro di Halès ed i loro illustri colleghi! -
Quale
poteva essere, dice Erasmo, in fatto di teologia, il valore di tutti
questi uomini, poiché non conoscevano la grammatica greca? È come
se dicesse: Pressappoco, nulla. E non vede che se i Greci hanno la
loro grammatica, gli Ebrei hanno la propria e noi la nostra, e
nondimeno non vi ha che una sola teologia, e che tutta questa
teologia, per quanto lo Spirito Santo l'ha giudicato utile, è
avventurosamente infusa o tradotta nella lingua latina!
«Credete
voi che Erasmo dia a San Gregorio il soprannome di Grande? Non già.
- Follie e sciocchezze (359): tali sono agli occhi suoi le opere del
pontefice immortale. Ei non sapeva di greco, ed io lo conosco e così
pure l'ebraico: laonde né egli né gli altri autori e dottori latini
non sono di veruna autorità in teologia (360) - Vuolsi rispondergli:
Se non credete a nessuno, credete almeno alle opere di teologia che
vi hanno lasciato i dottori puramente latini: credete all'ubertosa
messe che hanno prodotto le sementi delle lettere deposte nel campo
della Chiesa latina. Poscia mettete a confronto i bei frutti che
hanno dato alla Santa Chiesa con tutte le loro lingue i Lefebvre, i
Luteri, gli Ecolampadii, i Melanloni e tutti i bilingui e i
trilingui tanto orgogliosi del loro sapere, dopo quel furore
di linguistica che da circa dieci anni si è manifestato (361). Le
tue opere, o Erasmo, e quelle di cotali scrittori sono monumenti
autentici e tristamente famosi che ci fermano su questo punto (362)».
Questa
voce sollevata contro il pericolo dalla prima università dell'Europa
veniva potentemente ripercossa anche in Italia fra i cattolici
intelligenti che avevano saputo munirsi contro il torrente generale.
In fra tutti ascoltiamo un uomo disinvolto, buon letterato e
famigliare della corte di Leone X. Rispondendo ad Erasmo, il celebre
conte Alberto di Carpi diceva, or ha più di tre secoli, le stesse
cose che diciamo noi stessi oggi; e, il che è da notarsi, a niuno
pareva strano, niuno pensava ad accusarlo d'oltraggiare la Chiesa. La
stupenda sua lettera stabilisce i punti seguenti:
1°
Lo studio della letteratura antica non è essenzialmente
cattivo;
2°
nondimeno è una vivanda leggera, che debilita il temperamento
morale;
3°
nutrisce di vento gli animi che vi si abbandonano;
4°
conduce alla nausea degli studi gravi e al disprezzo della scienza
cattolica;
5°
forma uomini superficiali, senza forza di resistenza contro l'errore;
6°
esalta l'orgoglio e conduce all’indipendenza ed alla ribellione;
7°
è la vera causa del Protestantesimo.
«L'Alemagna
è in fiamme, gridava egli, il resto dell'Europa è sopra un vulcano,
e tu dici, o Erasmo, che la prima causa del male è la condotta
scandalosa di alcuni preti, l'orgoglio di alcuni monaci. Io punto non
negherò che il torrente devastatore abbia più affluenti; ma la
cagione principale di questa procella è altrove, e tu medesimo lo
riconosci, quando dici: «il principio di tutto questo è la
guerra dei teologi contro le lingue e le belle lettere (363)».
«Tale
è la più vera cagione del male.
«Di
là è venuto l'odio tra i legisti ed i teologi da una parte ed i
Risorgenti dall'altra. Di là, la controversia di Reuclino, prima
emanazione del torrente impuro. Io posso parlarne, poiché non fui
estraneo a questo negozio. Mercé le mie relazioni con uomini
eminenti, non ho debolmente giovato presso Leone X agl'interessi di
Reuclino: le lettere ch'egli mi ha scritto ne fanno fede. Da questo
uscirono le Lettere degli uomini oscuri che misero in ludibrio
i teologi che non parlavano la bella latinità. Da ciò finalmente, e
tu lo riconosci ingenuamente, è accaduto che fra voi tutti gli
amatori della bella letteratura sono divenuti i fautori di Lutero.
Tale è la cagione di tanti mali (364).
«Sostenuto
da tali aderenti, Lutero, naturalmente temerario, non pose più
limite alla sua audacia ed al suo orgoglio. Oh Dio! quali sventure
avrebbero risparmiate al mondo cotesti campioni di Lutero, nella sua
lotta contro la teologia cattolica, se si fossero dati con minor
passione allo studio delle belle lettere! Quanto meglio sarebbe
stato che non le avessero mai apprese anziché servirsene per
allumare un vasto incendio che mette in combustione quasi tutta
l'Alemagna! Qual fortuna per la Germania se queste belle lettere non
avessero mai valicate le Alpi, e se i Tedeschi, contenti della loro
propria lingua o d'una lingua, latina qualsisia, non avessero mai
suscitato fra loro così atroci dissensioni! Quanto sarebbe stato
meglio il parlar male e il pensar bene, che divulgare empie dottrine
elegantemente scritte, e scompigliare tutta la repubblica cristiana;
il commettere barbarismi e solecismi piuttosto che abolire la vera
religione ed i costumi degli antichi!
«Ben
la sai: innanzi che le belle lettere avessero invaso la
Germania si vedeva regnare in quel paese la pace, l’unione, la
tranquillità: i Tedeschi si distinguevano per la loro gravità e per
loro fermezza, per la loro modestia, pel loro amore, degli studi
gravi: presso di loro, filosofi distinti, illustri matematici,
teologi eminenti, una religione ammirabile, una pietà squisita, una
felicità somma (365)».
Ecco
l'effetto, dell'educazione cristiana del medio evo. Come l'olezzo
indica la natura del fiore, questo profumo di vita sparso in tutta la
società manifesta la qualità dell'educazione ché l'aveva formata.
Ecco ora gli effetti della nuova educazione. «Oggi, continua
l'illustre scrittore, tutto ha cangiato. In luogo della pace, la
guerra; in luogo della quiete, il tumulto; in luogo della calma, la
tempesta. Quale città fruì della quiete? che dico? qual casa non è
il teatro d'una guerra intestina? Guerra tra i mariti e le mogli, tra
i genitori ed i figli, tra i fratelli e i fratelli, tra i padroni e i
servitori. Gli uni rimangono cattolici, gli altri si fanno eretici.
In tutti i paesi avete, per le leggi, la rapina, i ladronecci, gli
omicidi, la devastazione delle castella; pel pudore, lo stupro delle
vergini consacrate a Dio e tupanari; per la gravità, la leggerezza e
il motteggio; per la disciplina, la licenza; per gli studi gravi, il
cicaleccio e l'impertinenza; per la modestia, l'arroganza, le risse e
le contese; per la religione, l'eresia e la bestemmia; per la
felicità, l'estrema miseria (366)».
Riconoscendo
come noi che lo studio delle lettere antiche non è essenzialmente
cattivo, fa a questo proposito quelle stesse riserve che facciamo noi
stessi, mostra il vuoto ed il pericolo di tale studio ed indica le
precauzioni di cui debba premunirsi sotto pena d'esser sempre quello
che fu fino da principio una fonte perenne di errori e di calamità.
«La
grammatica, dice egli, la retorica e la poetica sono per fermo belle
ed utili cose: ma esse non formano il saggio. Per lo
contrario, troppo spesso rendono arroganti e presuntuosi coloro che
ne fanno l'esclusivo loro studio. Tutti gli aderenti di Lutero ne
sono la prova. Ma altrimenti avviene degli studi gravi. La filosofia
di tanto sta innanzi all'eloquenza di quanto la dirittura del
giudizio sopravanza la facilità dell’elocuzione; la saggezza, il
cicaleccio; la ragione, la loquela. Silenziosi e muti non possiamo
essere sapienti; senza il conoscimento delle cose, senza lo studio
della sapienza non possiamo essere uomini che di nome. Non usiamo
dunque le cose a ritroso: il linguaggio serva alla ragione,
l'eloquenza alla sapienza, e sia suo strumento e suo condimento. È
assurdo il sacrificare il nutrimento al condimento: la sapienza è
quella che conduce alla felicità, non l'eleganza del discorso»
(367).
Ci
sembra impossibile che si possa caratterizzar meglio il vuoto
lasciato negli animi dal Risorgimento e dal sistema di studi da esso
introdotto. Prima di esso, l'educazione era tutta scientifica;
dopo divenne tutta letteraria: nel medio evo l'educazione era un
corso continuo di filosofia: dopo il risorgimento essa è un corso
continuo di retorica. Allora essa insegnava a pensare prima
d'insegnare a scrivere; dopo, insegna a scrivere innanzi d'insegnare
a pensare. Allora essa formava uomini del loro tempo e del loro
paese, formando cristiani; dappoi essa non ha formato che
farneticanti ed utopisti, formando pagani. Allora essa formava uomini
operosi e devoti, dappoi non ha formato, secondo il detto dello
stesso Erasmo, che ciarloni in versi e in prosa.
Ma
ascoltiamo ancora il nobile scrittore: se l'avessimo indettato, non
avrebbe detto meglio: «Lo studio dell'eloquenza è spesso un
ostacolo allo studio della filosofia e della religione.
L'uomo
è troppo debole da guidar di fronte parecchie scienze ad un tempo:
quanto che dà all'una toglie all'altra. Facendo dell'arte di ben
dire l'obbietto principale degli studi, siete obbligati di passare il
tempo a studiare le bellezze della lingua, le proprietà dei
vocaboli, i colori ciceroniani e i precetti di Quintiliano. Laonde,
da ciò che avvi di più importante, cioè dalle cose, cadete alle
parole, dal grave al leggiero, dal vero all'appariscente. In luogo
dei filosofi siete costretti a leggere gli storici; i poeti pagani
invece dei teologi; gli autori di favole, invece degli scrittori che
trattano delle scienze più gravi (368).
«Pertanto
se non si dà opera a questo studio con prudenza e con sobrietà, il
vantaggio non sarà mai compensato dalla perdita. Tale è la
verità che Salomone, il più savio fra gli uomini conferma con
queste parole: La caccia dei vocaboli non produce nulla; la
cognizione di sé stesso produce l'amore dell'anima propria. Il
cacciatore di parole si farà osservare per la volubilità del
discorso, ma poca o niuna cognizione delle cose, sebbene questi
professori di loquacità s'arroghino il diritto di parlare di tutto
... Dove non vanno le pretensioni di questi retori e di questi
letterati che per saper voltare tre o quattro parole greche e cucire
alcune formole sonore, si credono capaci d'insegnare quello che non
hanno mai imparato, compongono sopra ogni sorta di argomento dei
libri con pomposi titoli che pubblicano quasi prima d'averli
composti, e che scrivono prima di averli concepiti? Opere vane, nelle
quali non trovate né sugo, né midollo, ma soltanto scipitezza e
parole vuote di senso. Per quanto fortemente si premano, che può
uscire da vesciche piene di vento, se non vento? (369)»
L'illustre
autore termina ritornando là dove prese le mosse.
Dimostra
nuovamente ad Erasmo il male fatto dal Risorgimento alla religione,
gettando il disprezzo sul cristianesimo filosofico, artistico,
teologico, e dando innumerevoli proseliti al Protestantesimo:
«Infatuati dei loro studi pagani dice egli, tutti questi ammiratori
dell’antichità conoscono appella alcune parole delle scienze
gravi, e queste parole le hanno imparate come le gazze ed i
pappagalli, col lungo averle udite ripetere; e quanto più le
ripetono, tanto meno le comprendono. Ciò non di meno si fanno beffe
di tutti coloro che non hanno la loro eloquenza, siano anche i
filosofi più esatti o i teologi più sapienti: li giudicano indegni
di toccare le scienze sacre, stantechè non sono trilingui né
bilingui» (370).
Nelle
sue relazioni col Protestantesimo, tutto il Risorgimento si compendia
in queste parole: Parlate la latinità di Cicerone? intendete il
greco? voi siete un grand'uomo, l'oracolo della verità. Ignorate
queste lingue? foste anche San Bernardo o San Tommaso, siete un
ignorante, un barbaro, un zotico, che non sapete quello che dite e
non meritate nessuna fiducia» (371).
Lo
storico tedesco di Lutero, Ulenberg, tiene precisamente lo stesso
linguaggio del principe di Carpi, e prova con evidenza, che Lutero
non è altra cosa che un risorgente (372).
____________________
CAPITOLO
XVI.
TESTIMONIANZE
(Continuazione e fine)
La
Sorbona e l'università di Colonia. - Rodolfo di Lange alza in
Alemagna lo stendardo del Risorgimento. - Condannato dai teologi di
Colonia. Influenza della sua scuola. - Sua morte. - Budeo in
Francia. - Opposizione al Risorgimento. - Passaggio di Maimbourg. -
Testimonianza di Bayle, - di Cousin, - di Buhle. - di Zuinglio, -
d'Alloury - e di Chauffour.
***
Il
Protestantesimo è venuto dal libero pensare, ed il libero pensare è
venuto dal Risorgimento. A prova di questo fatto capitale nella
storia genealogica del male attuale, rechiamo qui alcune nuove
testimonianze, ancor più significative, se pur è possibile, di
quelle che abbiamo allegate.
Fra
le grandi scuole teologiche del XV secolo si distinguevano la società
della Sorbona e l'università di Colonia. I loro dottori venivano
riguardati come gli oracoli della scienza, e meritamente. Depositari
fedeli dello spirito sì fortemente cattolico del medio evo, avvezzi
allo studio delle cose divine, conoscitori profondi della continua
lotta del male contro il bene, dai principii e dei progressi delle
diverse eresie, questi uomini pensatori furono compresi da
inquietudine, vedendo la febbre dell'antichità pagana impossessarsi
dell'Europa letterata.
Per
reagire contro questa funesta tendenza, Colonia non aspettò lo
scoppio del Protestantesimo; attaccò il male in germe. In sullo
scorcio del XV secolo, tra il 1480 e il 1590, un canonico di Munster,
Rodolfo di Lange, inalbera per primo e con grande scalpore lo
stendardo del Risorgimento. Aveva avuto in maestro Alessandro Egio;
direttore della famosa scuola di Deventer. Questa scuola che formato
aveva Tommaso da kempis, aveva slanciato nel mondo Erasmo
Agricola, Cesario ed Ermamno Buschio, amendue espilsi di Colonia,
Goclenio, maestro di Giovanni Sturm e finalmente Erasmo.
Come
un grandissimo numero di giovani tedeschi, Rodolfo di Lange era
andato a perfezionarsi in Italia; e com'essi n'era ritornato
pieno di disprezzo per l'insegnamento tradizionale e di ammirazione
per la letteratura pagana. Ripudia i libri usati nelle scuole e
vuole, sostituirne altri. L’università di Colonia, per la sua
postura geografica ai confini della Germania, della Francia e
dell'Italia, era più d'ogni altra in grado di giudicare delle
influenze delle nuove dottrine. Essa dunque si oppone vigorosamente
alla riforma di Lange. Scrive ai capi delle scuole cattedrali, e fa
loro divieto di mutare i libri classici. Lange dal canto suo, resiste
ostinatamente e si richiama agli umanisti italiani. Questi
sentenziano in favore di Lange, e nella loro risposta trattano da
imbecilli i professori di Colonia (373).
Forte
del loro appoggio, Lange favorisce per quarto può, coi suoi consigli
e col suo danaro, i giovani amatori della bella letteratura. Quelli
che l'università di Colonia espelle dal proprio seno a cagione del
loro amore per gli autori antichi, vengono da lui accolti in sua
casa. Fra i discepoli di questo ardente nemico dell'insegnamento del
medio evo, vuolsi annoverare Ennanno Buschio, il quale si fece
apostolo della bella letteratura e percorse tutte le città della
Germania per predicarla (374). Come la maggior parte dei loro
discepoli, il maestro ed il propagatore del Risorgimento
giustificarono pur troppo le previsioni dei dottori di Colonia. Gli
alunni di Lange e di Egio, divenuti liberi pensatori, s'abbatterono
in Muntzer, dove prepararono il regno degli anabattisti, in
Eidelberga, Tubinga e Schelestadt in Alsazia, dove introdussero il
Protestantesimo. Riguardo a Rodolfo di Lange, ei viene a sapere, al
suo letto di morte, lo scandalo delle tesi di Lutero, ed esclama:
«Venuto è il tempo in cui le tenebre verranno cacciate dalla
Chiesa e dalle scuole, e che nella Chiesa entrerà la purezza della
fede, e nelle scuole la primitiva eleganza della lingua latina
(375)
Una
delle loro vittime fu Melantone, il quale studiò successivamente ad
Eidelberga ed a Tubinga. In questa città, prese le parti di Bebel,
il quale difendeva animosamente la tesi delle belle lettere, facendo
prevalere gli studi classici contro gli sforzi dei monaci che li
dicevano anticristiani. Melantone poi sedusse Ecolampadio.
Questi, dapprima fervente religioso, si lasciò prendere alle reti
filologiche di Melantone e di Koepfteim, ossia Capitone. Ne fecero un
umanista, poscia un apostata. In tal guisa, come abbiamo già notato,
Eobano, Bucero, Capitone e molti altri cominciarono e finirono in
eguale maniera (376). «L'educazione classica, aggiunge Raumero, è
talmente collegata con la riforma della chiesa, che lo stesso Erasmo
le più volte non ha saputo se avesse a fare con questa educazione o
con disputazioni religiose » (377).
Non
dissimile è l'opinione che se n'aveva anche in Francia. La Sorbona,
rappresentata principalmente dai suoi dottori Natale Beda e Gabriele
Depuy-Herbaut, teneva l’occhio aperto sulle nuove dottrine
filosofiche e letterarie: i Risorgenti le erano sospetti. Essa,
dichiarò loro la guerra, e senza la protezione di Budeo è
verosimile che il loro trionfo avrebbe corso grave pericolo, o
sarebbe stato almeno, lungamente differito. Ma Budeo si adoperò per
modo che la sua passione per l'antichità non lo rese sospetto
agl'inquisitori: «Così rimanendo intatta la sua riputazione fu essa
un valido patrocinio alle belle lettere che si tentano di soffocare
al loro nascere, siccome madri e nudrici delle opinioni che
non piacevano alla corte di Roma (378)».
Ma
vuolsi ascoltare il classico storico di Budeo: «In mezzo ai
terribili conflitti d'opinioni, dice egli, ed alle formidabili
procelle che suscitarono, lo studio del greco corse i più grandi
pericoli. Esso fu riguardato come la radice e il germe di tutti i
mali. Da tutte le parti i cattivi, con la fiaccola in mano,
concitarono all'incendio; sotto il pretesto dello scompiglio
dell'antico metodo d'istruire pretendevano di offuscare, non solo lo
splendore della bella le letteratura, ma anche di farla discacciare
dai principi. In queste difficili contingenze, gli amici delle
belle lettere essendo quasi tutti sospetti in materia di religione,
non si tenevano sicuri in mezzo a quelle mandrie d'imbecilli. Il solo
Budeo godè d'una intatta riputazione. Niuno poté appuntare né la
sua vita, né i suoi discorsi: in ciò fu la salvezza della
letteratura. Se le belle lettere non avessero trovato un tal
protettore, che ne tolse la difesa alla corte, al parlamento, nelle
assemblee dove erano gagliardamente impugnate, che offrì loro
durante la maggior furia della tempesta un rifugio in propria casa ed
un baluardo contro gli assalti degli scellerati, non è da dubitare
che sarebbero state sbandite dal regno (379)».
Da
questa notevole testimonianza si scorge che la resistenza fu vigorosa
e che in Francia come in Alemagna è fondata sugli stessi motivi,
cioè che i Risorgenti erano sospetti in materia di religione; in
altri termini, che erano liberi pensatori. Erasmo stesso conviene che
tale era la generale opinione in Europa. Il che per altro non
gl'impedisce di deridere gli avversari del Risorgimento e di
somministrare ai protestanti le ingiurie plebee ond'essi fecero uso
così frequente contro i difensori del cattolicismo. Parlando di uno
di quegli uomini a cui la storia ha dato ragione sì recisamente,
Erasmo lo chiama una bestia curiosa, un pazzo, applaudito da altri
pazzi che si nomano teologi e certosini (380).
Se
Erasmo fosse stato meno cieco, avrebbe veduto che i teologi non erano
tanto bestie quant'egli dice. Avrebbe veduto il Protestantesimo
invadere l'Europa sotto la larva della bella letteratura.
«La
Chiesa gallicana, dice Maimbourg, godeva di una pace profonda per le
cure di Francesco I, allorché a questo principe venne desiderio di
far rifiorire nel suo regno la gloria delle lettere ... La
strada da lui presa per riuscirvi aprì l'adito nel suo regno
all'eresia. In breve tempo l'università di Parigi si trovò
piena di forestieri, i quali, perciocché sapevano un po' d'ebraico o
tanto di greco da parere molto più dotti di quello che non erano
realmente, s'insinuarono nelle case delle persone distinte, che, ad
esempio del re, facevano grande stima degli uomini dotti. La Sorbona
deputò due dei suoi più sapienti dottori al re per rimostrargli
essere cosa pericolosa, che i grammatici venuti da un paese infetto
di eresia, non portassero questa contagione in Francia. Ma il re, che
allora era tutto prevenuto in loro favore, e che non considerava
in essi che la qualità d'uomini dotti (381), non volle che
fossero molestati, per tema che ciò non distornasse i grandi ingegni
dal venire in Francia. In tal modo il male andava sempre crescendo,
ed il veleno delle opinioni ereticali che si chiamavano i
sentimenti dei begli spiriti e dei dotti, si spandeva insensibilmente
(382)».
Per
dichiarare la Riforma, figlia del Risorgimento, i protestanti ed i
filosofi s'aggiungono agli scrittori cattolici. «Quello che vi ha di
certo, dice Bayle, si è che la maggior parte dei begli
spiriti e dei dotti umanisti che rifulsero in Italia, allorché
incominciarono a rinascere le belle lettere, dopo la presa di
Costantinopoli, non avevano molta religione. Ma dall'altro
lato, la restaurazione delle lingue dotte e della bella
letteratura ha preparato la via al riformatori, come avevano
preveduto i monaci e i loro partigiani, che non rifinivano di
declamare contro Reuclino e contro Erasmo e contro gli altri flagelli
della barbarie. Così, mentre i cattolici romani hanno motivo di
deplorare le conseguenze prodotte dagli studi delle belle lettere, i
protestanti hanno di che lodarne Dio e glorificarnelo (383)».
Si
può egli dire più chiaramente: Il Protestantesimo è figlio del
Risorgimento: senza lo studio appassionato delle lettere pagane, la
Riforma non sarebbe nata? Ritorniamo pur sempre al detto di Erasmo:
Ego peperi ovum, Lutherus exclusit.
Se
la Francia letterata del XVI secolo non è divenuta protestante in un
maggior numero dei suoi membri, ciò non é, come abbiamo veduto, per
difetto degli studi classici. Senza l’energica sollecitudine dei
sommi pontefici che espulsero il paganesimo filosofico dall'Italia, è
egli certo che questa contrada avrebbe conservato la fede? In
Germania, la filosofia platonica non incontrò dalla parte del clero
né la stessa vigilanza, né la stessa opposizione che a Roma, ed il
paganesimo filosofico vi si sviluppò liberamente. Abbattuta la
scolastica, dispettata la filosofia di San Tommaso, il platonismo
pubblicamente insegnato in tutte le cattedre delle università: ecco
quanto avvenne in Alemagna dal 1460 al 1520; ecco quello che preparò
le menti alla Riforma e pose le fondamenta del Protestantesimo (384).
Il
signor Cousin ha riconosciuto questo fatto capitale nelle linee
seguenti: «Quando all’Europa del XV secolo apparve la Greca
filosofica, giudicate qual impressione dovettero produrre i suoi
molteplici sistemi, animati da un'assoluta indipendenza, in
quei filosofi del medio evo chiusi ancora nei chiostri e nei
conventi! L'effetto di quest'impressione doveva essere una specie di
fatagione e di affascinamento momentaneo. La Grecia non ispirò
soltanto l’Europa; la inebriò; ed il carattere della filosofia
di quel tempo è l'imitazione della filosofia antica, senza critica
veruna ... L'alleanza del platonismo con la riforma è un fenomeno
che non voglio né posso tacere (385)».
Il
fenomeno accennato da Cousin era stato avvertito prima di lui
da molti scrittori, ed ha fatto dire ad un protestante: «Si è
sempre considerato il ripristinamento degli studi classici come la
causa principale dei movimenti religiosi e morali che aprono la scena
del mondo nel sestodecimo secolo (386) ».
«Quella
memoranda rivoluzione, dice Gottlieb Buhle, cui Martino Lutero,
Filippo Melantone e i loro amici e seguaci incominciarono nel 1517,
fu occasionata dal perfezionamento della filosofia, conseguenza
nel risorgimento degli studi classici» (387).
Ma
che bisogno vi ha di tutte queste testimonianze e di altre simili che
si potrebbero riferire, poiché su questo punto abbiamo le
dichiarazioni formali dei capi medesimi della Riforma? I nuovi
lumi, dice Zuinglio, che si sono sparsi dopo il risorgimento
delle lettere infievoliscono la credulità del popolo, gli aprono
gli occhi sopra una quantità di superstizioni e gli impediscono di
adottare ciecamente ciò che gl'insegnano i preti (388)».
Fra
i contemporanei alleghiamo soltanto alcune testimonianze. «Per
l'uomo che riflette, dice Michiels, é uno spettacolo singolare il
vedere la civiltà greco-romana, ferita a morte e sepolta dal
cristianesimo, uscir lentamente dal suo sepolcro, piena di sdegno è
sitibonda di vendetta, piombare la volta sua sul proprio nemico,
balestrarlo, combatterlo senza posa, incalzarlo, con la punta della
spada alla gola, e precipitarlo nell'abisso del Volterianesimo. Qual
singolare vicenda di fortuna! qual effetto bizzarro di quella gran
legge d'equilibrio che si trova da per tutto»! (389)
E
cosa non meno singolare il vedere la Francia impiegare dapprima il
ferro, il fuoco, la ruota e la forca: ordire anche una grande
strage per comprimere in casa la Riforma: poscia accogliere questa
stessa Riforma sotto un abito posticcio, lasciare i filologi, gli
archeologi, i poeti, i moralisti, i novellieri, i drammaturghi
spandere nelle menti il dubbio, l'amor della licenza, il sensualismo,
i principii anticristiani dei greci pensatori! Blandire così il
proprio avversario, spartire, con esso l'acqua ed il fuoco, la mensa,
ed il letto, perché ha preso un altro nome, si é vestito di altri
panni, questo si chiama mostrar discernimento! E quello che ancora
dee parere più straordinario si è che il clero, signore di tutto
l’insegnamento gli abbia spalancato la porta, offerto un seggio al
focolare, rimesse, le chiavi della casa! Si poteva mai aspettare che
i capi stessi della religione la lasciassero senza difesa in balia
del politeismo e dello scetticismo mascherati? (390)
Ecco
quello che il semplice buon senso appoggiato sui fatti, ispira agli
uomini mondani: ed il clero continuerebbe a mostrarsi indifferente od
anche ostile alla riforma d'un insegnamento che riconduce l'Europa al
paganesimo!
Ascoltiamo
ancora il signor Alloury, uno dei redattori filosofi del Giornale
dei Dibattimenti. Se niun testimonio è più esplicito, niuno
anche è meno sospetto. Facendo in nome della generazione
razionalistica del nostro tempo la genealogia della Rivoluzione, del
Volterianesimo, del libero pensare, della religione di Socrate, di
cui egli si gloria, e molti altri con lui, d'essere figlio e seguace,
si esprime in queste parole: «È impossibile lo sconoscerlo: lo
spirito del Risorgimento era ciò che in oggi noi chiameremmo
spirito nuovo, spirito rivoluzionario, spirito di reazione contro le
idee, le credenze, le istituzioni del medio evo. La scuola del
Risorgimento non si cura di dissimulare i vincoli che l'uniscono alle
diverse fazioni, che sono state in opposizione contro la Chiesa.
«Resta
a sapere qual parte d'influenza si dee riconoscere ed attribuire al
Risorgimento nell'opera ben altramente ostile, ben altramente
rivoluzionaria compita da Lutero. In quanto a noi, non abbiamo nessun
motivo da negare quest'influenza; non sappiamo per quale scrupolo il
signor Charpentier tituba a riconoscerla, e come possa egli affermare
che il Risorgimento è stato al tutto innocente di quel grande
avvenimento. Non è da stupire che lo spirito di esame,
entrato, una volta nel mondo, abbia prodotto nelle diverse parti
dell'Europa delle conseguenze più o meno estese, più o meno
radicali, più o meno contrarie all'ordine stabilito ... Non vi ha
dubbio, che vi furono novatori ed eretici prima del Risorgimento, e,
come è stato detto, ebbevi riformatori prima della Riforma ... Ma
non è meno vero che tutti quei tentativi parziali riuscirono indarno
fino a Lutero; non è meno vero che, per produrre un incendio, la
fiaccola della riforma ha dovuto accendersi alla face del
risorgimento.
«Il
dire che la riforma è uscita dal Risorgimento, non è dunque un
calunniare il risorgimento; è un riconoscere soltanto ch'esso ha
prodotto effetti diversi, più o meno avventurati, più o meno
legittimi, secondo i luoghi, le circostanze, l'indole particolare dei
popoli» (391).
Se
la storia ha qualche valore, resta dunque bene stabilito, come dice
il signor Chauffour, che la riforma è la figlia diretta del
Risorgimento» (392).
______________________
CAPITOLO
XVII.
IL
PROTESTANTESIMO IN SÉ STESSO
Detto
di Erasmo.- Riepilogo.- Origine e natura del paganesimo antico,
composto di tre elementi: l'elemento intellettuale o filosofico, ed è
il libero pensare; l'elemento morale, ed è l'emancipazione della
carne; l’elemento politico, ed è il Cesarismo. - Caduta del
paganesimo. - Riscossa del paganesimo. - Apparizione di Lutero.- Il
protestantesimo composto degli stessi elementi del paganesimo antico.
- Questo è l'opera del demonio in persona. - Intervento personale e
sensibile del demonio nella fondazione del Protestantesimo. - Fatti e
testimonianze.
***
Secondo
il detto pittoresco di Erasmo: Il Risorgimento ha partorito
l’uovo: il Protestantesimo è il pulcino che ne è uscito. Tale
é la genealogia che dovevamo provare. Perciò abbiamo esaminato la
vita e i discorsi dei fondatori del Protestantesimo; abbiamo citato i
testimoni pro e contro di questa grande rivoluzione. Ora, questo
studio corroborato costantemente da documenti irrefragabili, dimostra
i due fatti seguenti:
Il
primo, che Lutero, Zuinglio, Calvino e gli altri riformatori non
fecero che applicare all'ordine religioso il principio del libero
pensare, che i Risorgenti, discepoli dei Greci di Costantinopoli,
trovavano espediente di applicare, da sessant'anni, all'ordine
politico, filosofico, artistico e letterario.
Il
secondo che negli autori pagani che si cominciava a mettere
nelle mani della gioventù, innamorandonela, sì i Riformatori come i
Risorgenti attinsero il principio del libero pensare, che si
manifestava simultaneamente pel disprezzo del cristianesimo e per
l'ammirazione dell'antichità pagana.
Per
compiere la dimostrazione del punto capitale che ci occupa, cioè che
il Protestantesimo é figlio del Risorgimento, ci resta a studiare il
Protestantesimo in sé stesso ed a mostrare i suoi vincoli di
parentela col Paganesimo antico, il cui ritorno in seno all'Europa è
dovuto al Risorgimento. Di che scaturiscono due questioni da
risolversi: Che cosa fu il Paganesimo antico? Che cos'è il
Protestantesimo?
Considerato
nella sua origine, nei suoi elementi costitutivi e nelle sue
manifestazioni, il Paganesimo ci dice: «Io nacqui il dì che
l'angelo ribelle, prese le sembianze di rettile, fece accettare ai
padri del genere umano questa parola: Disobbedite e sarete come
Iddii». In quel momento vi ebbe una specie di incarnazione di
Satana nel seno dell'umanità: lo spirito del male ne prese possesso.
Ora Satana è costantemente chiamato spirito d'orgoglio, e spirito
immondo; spiritus superbiae, spiritus immundus. Con queste due
qualità ritiene l'uomo tutto intero. Sottomettendosi a Satana,
l'uomo riceve questa duplice infezione; nella guisa che
sottomettendosi a Dio, l'uomo diventa uno stesso spirito con lui: qui
adhaeret Deo unus spiritus est. Perciò vediamo che la ribellione
originale, primo germe del Paganesimo, fu ad un tempo orgoglio della
ragione e dilettazione dei sensi.
Col
tempo questo germe funesto va sviluppandosi. Dal cuore dell'uomo,
dove è per così dire in serbo, passa in atto e veste una forma
sensibile. Con mille riti, sotto mille diversi emblemi, l'uomo pagano
adora la propria ragione e la propria carne con tutte le loro
cupidigie. Continua parodia del regno di Dio, il regno di Satana
sull'uomo è ad un tempo religioso e sociale. Nell'ordine religioso
ci apparisce coi suoi oracoli, coi suoi libri, coi suoi prestigi,
colle sue ossessioni, coi suoi invasamenti: tutte cose più reali che
non si crede comunemente. Nell'ordine sociale, ordina il mondo
materiale al duplice profitto dell'orgoglio e dei sensi.
Laonde,
il Paganesimo antico, opera del demonio, considerato in sé stesso
non è altra cosa che un vasto sistema d’indipendenza dell'uomo
rispetto a Dio. Esso si compone di tre elementi: l'elemento
intellettuale, l’elemento morale e l'elemento politico.
L'elemento
intellettuale, è l'emancipazione della ragione.
L'elemento
morale, l'emancipazione della carne.
L'elemento
politico è il Cesarismo, ossia il regno assoluto dell'uomo
sull'ordine religioso e sull'ordine sociale.
In
una parola, il Paganesimo antico, veduto nel suo insieme, è un
ordine di cose in cui tutto era Dio, eccetto Dio stesso; e, in
ultima analisi questo tutto si riduceva all’uomo, schiavo e
zimbello del demonio. Aggiungiamo, per non omettere nulla, che tutto
questo sistema d’indipendenza era dominato dal domma della
fatalità.
Nulladimeno
il regno visibile del demonio, inaugurato dalla proclamazione dei
pretesi diritti dell'uomo nel Paradiso terrestre, fu abbattuto in
quel giorno in cui, dall'alto del Calvario, il Redentore, morendo,
proclamò di nuovo i diritti di Dio. Ma la virulenza satanica non fu
inaridita nel cuore dell'umanità. Dopo quell'epoca vediamo Satana
che continua ad agitarsi nei suoi ceppi, come la iena nella sua
gabbia. I secoli anche più cristiani odono alcuni dei suoi ruggiti.
Ario, Pelagio, gl'ignobili settari del Settentrione e del
Mezzogiorno, i Cesari non meno ignobili di Lamagna e d’Oriente; qua
e colà alcuni scrittori contendono di sguinzagliarlo nel seno delle
nazioni cristiane. La gloria perenne del medio evo sarà d'aver resi
vani tutti quegli sforzi. Durante quel periodo, il regno di Satana
non giunge mai a ricostituirsi sia nello stato intellettuale, sia
nello stato morale, o nello stato politico. Per lo contrario, si vede
allora un ordine religioso, filosofico, politico, artistico e
letterario che nel suo complesso ha per movente, per fine, per
reggitore lo spirito di sommessione dell'uomo a Dio in tutte le cose.
Mille
anni sono scorsi, e di nuovo Satana spezzando i suoi ceppi, irrompe
nel seno dell'Europa cristiana. La prima parola che pronunzia, quella
che pronunzierà sempre, poiché non ne sa altra, è questa: Popoli
troppo lungamente schiavi, scuotete il giogo della barbarie, della
schiavitudine e della superstizione, cioè il giogo dell'autorità:
contemplate i bei secoli in cui l'uomo visse emancipato, fateli
rivivere e sarete come Iddii».
In
Germania, in Inghilterra, in Francia, in Italia, migliaia di voci
rispondono alla sua. Gli uni, assumendo di spezzare il giogo,
spendono la loro vita a mettere in ludibrio, in disprezzo e in odio
l'ordine politico, filosofico, artistico e letterario dei secoli
cristiani. Barbarie, ignoranza, schiavitù, abusi, superstizioni:
tale è la definizione ripetuta tuttodì a viva voce nelle accademie
e nei ginnasi, in presenza della gioventù, o lanciata nel pubblico a
migliaia d'esemplari, ch'essi danno dei secoli di Carlomagno e di San
Bernardo, di San Luigi e di San Tommaso, delle crociate e delle
cattedrali. Le loro contumelie diventano assiomi; passano di bocca in
bocca, e la generazione che le ripete non è per anco spenta.
Intanto
che gli uni sono larghi di oltraggi al passato cristiano, gli altri,
spingendo l'uomo alla propria apoteosi, esaltano in ogni
maniera l’antica età del suo preteso trionfo. Ingegno, cognizioni,
incivilimento, libertà, eloquenza, poesia, arti, scienze, grandi
uomini e grandi cose, tutto questo apparve nella durata del suo
regno. Tale è la dottrina di cui i letterati, i filosofi, gli
oratori, i pedagoghi di ogni colore o di ogni paese abbeverano le
generazioni nascenti e le generazioni formate. Sono creduti; e il
tempo in cui Satana regnò da padrone assoluto sul mondo, in cui
l'orgoglio era dio, in cui la carne era dio, in cui la forza era il
diritto, in cui la virtù era quello che sono le lucciole
nell'oscurità della notte (393); in cui i tre quarti del genere
umano erano schiavi; in cui l'uomo spandeva come acqua il sangue
dell'uomo; in cui le arti erano prostituzione: i teatri ed i templi,
lupanari; i circhi, macelli; tutte le città, Sodoma: in cui
finalmente la vita religiosa e sociale era di tal natura ch'era
dispettata da Dio stesso (394): Questa lunga fornicazione di satana
con l'anima umana si chiamò e chiamasi ancora la bella antichità!
Ed i poeti e gli oratori che cantarono questo mostruoso ordine di
cose furono presentati come i più grandi ingegni che il mondo abbia
mai veduto!
L'Europa
era a tal punto quando apparve Lutero. Collocato fino dall'infanzia
nella scuola dell'antichità pagana, nutrito sino all'età di
vent'anni delle dottrine che S. Girolamo chiama il cibo dei
demoni, cibus demoniorum, fa più completamente suo sangue questo
mortifero nutrimento. Vi attinge ed applica in tutta la sua pienezza
il principio di emancipazione che i suoi antecessori più fortunati o
più timidi non avevano acquistato o non osarono applicare che in
modo incompleto. Che poi sia tale la storia psicologica di Lutero, le
considerazioni seguenti, aggiunte ai fatti già riferiti, non
permettono, per quanto ci sembra, il minimo dubbio su questo punto.
Che
mai è infatti l'opera di Lutero o il Protestantesimo? Considerato
come eresia, il Protestantesimo è la più grande di tutte, in questo
senso che rende generale il principio stesso di tutte le eresie, il
libero pensare. Ora dove si trova il libero pensare in tutta la sua
pienezza, il libero pensare messo come assioma e ridotto in pratica?
Invano lo cercate negli eretici anteriori a Lutero, nei filosofi
posteriori alla predicazione del Vangelo. Per ritrovarlo, è d'uopo
risalire agli autori pagani che Lutero, a detta di Melantone, studia
con passione come modelli della vita e maestri della dottrina.
Ma
agli occhi nostri il protestantesimo è più che una eresia: è il
paganesimo stesso, tranne la forma materiale. Non dimentichiamo
anzitutto che l'antico paganesimo era un vasto sistema
d’indipendenza, composto di tre elementi: l'emancipazione della
ragione, l'emancipazione della carne ed il Cesarismo; Ora, il
Protestantesimo, è mai altra cosa che un vasto sistema
d'indipendenza composto degli stessi elementi?
Nell'ordine
intellettuale o filosofico, il Protestantesimo è l'emancipazione
della ragione. Questo primo fatto non ha bisogno di prova; in ciò
anche il Protestantesimo fa consistere la sua gloria. In apparenza,
esso piega la ragione dell'uomo davanti alla Biblia, ma, in
realtà; lascia l'interpretazione e l’autenticità stessa del
libro, divino alla ragione individuale, operando nella pienezza della
sua infallibilità. Ed è a tal punto che se gli vien talento di
negare la divinità della Scrittura e la realtà dei fatti ch'essa,
contiene, la ragione protestantica lo può legittimamente fare, senza
cessare d'essere protestante. Così era dell'antico paganesimo. Anche
allora vi aveva un corpo di verità, che si potrebbero chiamare la
Biblia della tradizione. Ma la ragione dell'uomo, e
soprattutto la ragione dei savi, operava sulla verità tradizionali a
voglia della sovrana sua indipendenza. Invece di crederle con
rispetto, le ammetteva o le rigettava, le discuteva le interpretava,
senz'altra regola che il principio stesso della sua infallibilità.
Nell'ordine
morale, il Protestantesimo è l'emancipazione della carne. Che
hanno fatto Lutero, Zuinglio, Calvino e gli altri fondatori della
Riforma? Essi hanno costantemente declamato contro tutto le pratiche
cattoliche che tendono a sottomettere la carne allo spirito. Hanno
abolito i digiuni e le astinenze, hanno abolito la confessione;
hanno, abolito i voti monastici; hanno escluso il matrimonio dal
novero dei sacramenti; hanno, giustificato le relazioni passeggere e
clandestine dei due sessi; hanno negato l'indissolubilità del
vincolo coniugale: hanno autorizzata la poligamia (395). Ora, che è
tutto ciò? se non l'emancipazione della carne? Ammesse alcune poche
differenze; in più o in meno, il paganesimo antico faceva forse
altra cosa?
Quello
che hanno predicato, tutti i riformatori l'hanno confermato col loro
esempio. Preti e religiosi; Lutero, Zuinglio, Carlostadt,
Ecolampadio, Federico Miconio, Bullingero, Giovanni Hessus, Bucero,
Farel, Viret, Ochino, Capitone ed una moltitudine di altri,
calpestando i più sacri vincoli e facendoli calpestare ai loro
discepoli, si sono ammogliati sovente con religiose tratte dal loro
monastero. Che è questo, se non l'emancipazione della carne nella
loro persona?
Nell'ordine
politico il Protestantesimo è il Cesarismo antico. Tutti i
principi protestanti si sono fatti papi. L'autorità spirituale e
temporale, la potestà dogmatica e politica l’hanno concentrata
nelle loro mani; l'hanno esercitata, la esercitano ancora, e possono
dire con verità come i Cesari d'una volta: Imperatore e sommo
Pontefice; Imperator et summus Pontifex.
Emancipazione
della ragione, ed emancipazione della carne, Cesarismo: cioè
apoteosi dell'uomo nell'ordine intellettuale, nell'ordine morale e
nell'ordine sociale: tali sono i tre elementi costitutivi del
Protestantesimo. Questi tre elementi non li trovate riuniti in
nessuna delle grandi eresie che hanno desolato la Chiesa, mentre
furono, a parola per parola, quelli del paganesimo antico. Supponiamo
ora che questi elementi, prendendo corpo, si personifichino negli
esseri chiamati Giunone, Venere, il divo Cesare, o con un altro nome
qualunque: che questi, esseri simbolici abbiano statue e templi; che
siano onorati con invocazioni e sacrifici, non è manifesto che
avremmo il paganesimo antico in tutta la sua integrità? Infatti, per
esserlo, non manca dunque al Protestantesimo che la forma plastica ed
il culto materiale (396)?
Mercé
l'azione del cristianesimo, nel seno stesso delle nazioni
protestanti, né questa forma, né questo culto saranno ristabiliti.
Tuttavia
è notevole che, nei tempi moderni, la prima apologia, in certa guisa
dommatica, del paganesimo antico, sia stata fatta da un protestante,
Gibbon: è parimenti notevole che la Rivoluzione francese, ultima,
figlia del Protestantesimo e del libero pensare, abbia tentato di
ristabilire e la forma e il culto materiale del paganesimo. Tanto
egli è vero che non vi ha mezzo per l'uomo tra il cattolicismo e il
paganesimo, tra la religione di Gesù Cristo e la religione di
Satana, sotto una forma o sotto l'altra. Non omettiamo un nuovo
carattere di somiglianza: come il paganesimo antico, il
Protestantesimo ha rinnovato la dottrina del fatalismo, e ne ha fatto
uno dei suoi dommi principali.
Finalmente
il paganesimo antico fu l'opera del demonio operante in persona ed in
modo sensibile. Ciò vedesi non soltanto nel paradiso terrestre, ma
anche in tutto il seguito della storia. Essa ci mostra il demonio
sotto diversi nomi, intervenire materialmente nella fondazione
dell'idolatria presso le differenti nazioni dell'antichità: nella
Grecia, in generale, sotto il nome di Apolline e d'oracolo di
Delfo o di Dodona: in Atene, sotto il nome di Minerva; in Roma, sotto
quello di ninfa Egeria. In appresso lo vediamo sotto il falso nome
d'angelo Gabriele conferire col falso profeta della Mecca e fondare
con lui l'impero formidabile che tenne sì lungo tempo in pericolo il
regno, di Gesù Cristo. Ora i due primi fondatori del
Protestantesimo, Lutero e Zuinglio, dicono apertamente d'aver avuto
colloqui col demonio in persona e che essi hanno operato dietro i
suoi suggerimenti: nessun fatto è più irrepugnabile.
Zuinglio,
pensando ad assalire il cattolicismo nel sacramento che ne è
l'anima, era assai imbarazzato per certi passi della Scrittura dai
quali risulta chiaramente il domma della presenza reale. Passa dodici
giorni per cercare in quei testi un altro senso. Inutili sforzi:
finalmente alla duodecima notte apparve a Zuinglio un fantasma nero o
bianco, uno sconosciuto, e gli detta una risposta. Zuinglio si alza e
va a predicare la spiegazione dello spirito, e Zurigo cessa di
credere alla presenza reale (397).
Riguardo
a Lutero, racconta egli stesso con una specie d'orgoglio le molte sue
conferenze con Satana; e se abolisce il sacrificio dell'altare,
giustamente chiamato dai Padri il perno della Chiesa e del mondo, ne
attribuisce l'onore allo spirito delle tenebre.
«Mi
accadde una volta, dice egli, di risvegliarmi d'improvviso verso la
mezzanotte, e Satana incominciò così a disputar meco:
Ascolta,
mi disse, dottore illuminato: sai che per quindici anni hai celebrato
quasi tutti i giorni messe private. Che sarebbe mai se tali messe
fossero un'orribile idolatria»? (398) I luterani dubitano così poco
della realtà della conferenza che per provare contro ai cattolici
che la messa è un'opera pagana, allegano la testimonianza di Satana
(399). Questa circostanza non è la sola in cui il demonio mostrasi a
Lutero. Il riformatore confessa che l'intera sua vita è stata una
serie di conflitti e di dispute con Satana. Lo spirito gli apparisce
e viene a tormentarlo di giorno, a tavola, in mezzo ai suoi libri, e
fino nella sua cantina. Se Lutero fa mostra di non badargli, il
diavolo va in furore, mette sossopra le sue carte, chiude e lacera i
libri, spegne la candela. Di notte gli apparisce sotto le sembianze
di tutte le divinità dell'Olimpo, sedute al suo capezzale: Un dì
che a cena si parlava dello stregone Fausto, Lutero disse: «Il
diavolo non impiega contro di me il soccorso degli stregoni, se con
tal mezzo potesse nuocermi, l'avrebbe già fatto da gran tempo. Egli
mi ha già tenuto più volle per la testa, ma convenne per altro che
mi lasciasse andare. Ho bene sperimentato che compagno sia il
diavolo; egli mi ha spesse volte serrato sì dappresso che non sapeva
se fossi morto o vivo (400).
Tutti
gli storici di Lutero, cattolici e protestanti, riconoscono la realtà
di questo intervento satanico: e non è possibile il negarlo. «Ma,
chiede l'autore della Storia universale della Chiesa, come si
spiegherà in modo soddisfacente questo fatto innegabile che riempie
tutta la vita di Lutero? E evidente che Lutero vi credeva: eppure
egli non è né una mente mediocre né d'indole pusillanime. Il modo
più ragionevole di spiegarlo, o piuttosto il solo, non è di
riconoscervi un'azione incessante, una specie di ossessione di quello
che il Vangelo chiama spirito delle tenebre, principe di
questo mondo, dio di questo secolo, che dopo di aver sedotto i
nostri primi padri, sedusse l'intero mondo con gli idoli»? (401)
Senza
che sia bisogno di dirlo, si vede tutta l'importanza di questo studio
del Protestantesimo considerato in sé stesso. Mostrando nel vero suo
aspetto l’opera di Lutero, esso giustifica pienamente la gran tesi
che sosteniamo: perocchè non lascia sussistere veruna incertezza
sull'origine della pretesa riforma ed insegnandoci con chi abbiamo a
fare, reca la questione nel vero suo campo. Invece di cominciare la
genealogia del male, il Protestantesimo non fa che continuarla;
invece di esser causa, è effetto. Allora invece di concentrare tutto
l'assalto contro a questo punto secondario, i difensori della
religione e della società sono avvertiti di raccogliere i loro
sforzi contro il punto culminante: in una parola, rimane stabilito
che in oggi specialmente il conflitto è tra il cattolicismo da
una parte, ed il paganesimo, dall'altra.
Aggiungiamo
che, fra i Riformati ed i Risorgenti di quel tempo, un gran numero
dei più celebri praticarono l'astrologia giudiziaria e le scienze
occulte, il cui scopo è, come è noto, di mettere l'uomo in
relazione più o meno diretta col demonio. Tali sono, fra gli altri,
Bodino, Agrippa, Ficino, Melantone, Ringelbergo, Giuniano. Il male
diventò talmente contagioso, che nello spazio di sessant'anni, per
fede dei registri della città, centocinquanta individui furono arsi
a Ginevra per delitto di magia (402).
Non
solamente i due primi fondatori del protestantesimo, Lutero e
Zuinglio, ma i loro principali discepoli, Munzer, Pélasge,
Carlostadt ed altri ancora parlano in tutta serietà dei loro
colloqui col demonio e delle costui apparizioni sensibili. «Infatti,
dice Ulenberg, nulla era più frequente in quel tempo che il veder
Satana trasformarsi in angelo di luce» (403). Domandiamo ora noi ad
ogni uomo imparziale se da ciò che precede non risulti questa
conclusione storicamente e logicamente irrepugnabile, cioè: il
protestantesimo, nato dal Risorgimento, essere il paganesimo stesso,
tranne la forma plastica?
______________________
CAPITOLO
XVIII.
ESAME
DI ALCUNE DIFFICOLTÀ
Lutero
non era Risorgente. - Risposta: Tutta la sua vita prova il contrario.
- Egli ha proscritto le arti. - Distinzione essenziale. - Ha
declamato contro gli autori pagani. - Ragione di tali declamazioni;
esse nulla provano. - Il Protestantesimo ha avuto altre cause che il
Risorgimento. Esame e natura di queste cause; distinzione
fondamentale. - Il Protestantesimo avrebbe avuto luogo senza il
Risorgimento. - Esame di questa questione. - Risposta. - Il
Risorgimento non ha prodotto da per tutto il Protestantesimo. -
Ragione di questo fatto. - Ha prodotto il libero pensare. - Fenomeno
notevole. - Soggetto del volume seguente.
***
Contro
la genealogia che la storia, sopra autentici documenti, assegna al
Protestantesimo, si oppongono parecchie difficoltà.
Si
dice: - 1° Lutero non era risorgente: egli ha proscritto le arti; ha
declamato successivamente contro Aristotele e contro San Tommaso,
contro gli autori pagani e contro gli autori cristiani».
Lutero
non era risorgente! - Tutta la sua vita prova il contrario. Abbiamo
già veduto che niuno, dopo gl'Italiani, acclamò con maggior
entusiasmo il Risorgimento filosofico, letterario e politico;
niuno studiò con maggior ardore gli autori pagani: niuno ne fece
maggior conto; poiché riguardavali come i modelli della vita umana e
i maestri della dottrina, poiché entrando in convento non recò
seco che Plauto e Virgilio, poiché raccomandava instantemente di
studiarli, siccome un mezzo di affrancar la ragione, poiché uno dei
suoi cordogli, in mezzo alle tempestose sue lotte, era di non poter
vivere in loro compagnia e di divenire greco a suo talento poiché
finalmente niuno più di lui e, dei suoi discepoli si è industriato
a diffondere il conoscimento ed il culto dell'antichità pagana.
Lutero
ha proscritto le arti! - Egli ha vietato di fare statue e quadri di
santi e di sante, e soprattutto di esporli nelle chiese, lo sappiamo:
ma sappiamo anche, come tutti gli altri, che a ciò era costretto
dalla necessità della lotta: Lutero voleva giustificare l'accusa
d'idolatria lanciata contro il Cattolicismo. Ma che egli abbia
proscritto le arti profane; fatto lacerare o spezzare i ritratti o le
statue dei grandi uomini, non ne abbiamo trovato traccia nella sua
storia. Forse ch'egli non applaudiva, e tutti i suoi discepoli con
lui, alle pitture ed alle caricature di Cranach e di Holbein? Il
compagno d'armi di Lutero, Zuinglio, non chiamava forse le arti doni
divini? Forse che il Protestantesimo tedesco del secolo XVI, non
ha chiamato più d'ogni altro, in suo aiuto il pennello ed il bulino
degli artisti? I pittori e gli scultori protestanti non andavano
forse in Italia a cercare nei monumenti pagani, modelli del bello,
come i letterati e i filosofi protestanti vi andavano ad attingere,
nello studio degli autori classici, la vera filosofia e la bella
letteratura?
Lutero
ha declamato contro gli autori pagani. - Nei suoi impeti d'ira Lutero
faceva la guerra a tutto ciò che non era lui. Aristotele e San
Tommaso, i Padri della Chiesa ed i filosofi dell'antichità, Bucero e
Zuinglio, Carlostadt ed Ecolampadio, gli autori pagani e gli autori
cristiani, nulla era risparmiato. Ma non dobbiamo riportarci a Lutero
nello stato d'ubriachezza, ma a Lutero signore di sé stesso. Ora
abbiamo veduto per chi erano, nella calma della ragione, le sue
ammirazioni e le sue preferenze. Dopo aver sostenuto che la Riforma è
uscita dal Risorgimento, «la sola cosa che possa stupire, soggiunge
il signor Alloury, si è il veder comparire Lutero fra i detrattori
più disdegnosi e più accaniti della letteratura antica e di ogni
letteratura profana (404). Il signor Charpentier ha dato la vera
spiegazione di questa anomalia. La missione che aveva assunto Lutero
dichiarando la guerra alla Chiesa e al papa, era di ricondurre il
Cristianesimo alla primitiva sua austerezza ... La contraddizione non
era che apparente. Il terribile riformatore, scagliando i suoi
fulmini contro il movimento letterario, era consentaneo con sé
stesso: era nella sua pesta (405)».
2°
«Il Protestantesimo ebbe altre cause che il Risorgimento».
Lo
sappiamo: alcuni attribuiscono lo scoppio del Protestantesimo alla
controversia delle indulgenze ed agli abusi che regnavano nel clero.
Similmente molti attribuiscono lo scoppio della rivoluzione del 1789
ad un disavanzo nelle finanze ed agli abusi dell'antico regime. Gli
altri accusano la cupidigia dei principi ingordi delle spoglie della
Chiesa e dei conventi; quelli, la scostumatezza di certi monaci
impazienti del giogo imposto alle loro passioni. Finalmente vi ha
alcuni che in Vicleffo, in Giovanni Huss, in Girolamo da Praga vedono
i precursori di Lutero.
Che
tutte queste circostanze riunite abbiano formato una specie di
preparazione al Protestantesimo; che abbiano anche cooperano a
propagarlo, niuno pensa a metterlo in dubbio. Ma altro sono le cause
determinanti d'un fatto, altro la causa efficiente. Le
prime, essendo estrinseche, influiscono sul fatto, ma non lo
costituiscono: la seconda soltanto, essendo intrinseca, dà vita al
fatto di cui determina la natura: ad essa sola spetta veramente
l'onore di esser causa. Quest'importante distinzione è passata nel
linguaggio ordinario. Non accade a nessuno d'attribuire un effetto
qualunque alle cause determinanti, ma sempre alla causa efficiente.
Così, l'acqua, l'aria, il calore contribuiscono alla formazione dei
frutti: però non si attribuiscono i frutti né all'aria, né al
calore, ma agli alberi: e nulla vi ha di più ragionevole.
Ora,
se dall'albero si conosce il frutto, si riconosce parimente l'albero
dal frutto. Se non abbiamo perduto di vista gli elementi costitutivi
ed in certa guisa le proprietà del frutto protestantico,
siamo ricondotti a dire col conte di Carpi, con Erasmo e con tutti i
testimoni che abbiamo citato, il Protestantesimo essere il frutto del
libero pensare, e il libero pensare essere il frutto del
Risorgimento.
3°
«Senza il Risorgimento il Protestantesimo avrebbe avuto luogo,
perché una riforma era divenuta necessaria.
Che
una riforma sia stata necessaria, niuno lo nega. Ma il dir questo è
un dir nulla, poiché ovunque esiste l'umanità, sono sempre)
necessarie riforme. La questione è di sapere in quale misura e sopra
quali punti era necessaria la riforma nel secolo di Lutero, e da chi
ed in quali circostanze doveva essere eseguita. E poi, una riforma
non è una rivoluzione: se era necessaria quella, non era questa. La
Chiesa che reca in sé stessa il principio e la scienza della propria
immortalità, la Chiesa, che raggiunge il suo fine con forza e con
soavità, aveva essa sola il mandato di riformare sé medesima, o più
veramente di riformare abusi che erano in essa, ma che non
procedevano da essa. Incominciata nel Concilio di Laterano, questa
riforma, sola salutare perché era la sola legittima, fu, non ostante
le opposizioni del secolo, felicemente compita nel concilio di
Trento. Così niente prova che senza il Risorgimento il
Protestantesimo avrebbe avuto luogo. In qualunque caso poi questa non
è la questione; essa consiste in sapere se il Protestantesimo è
venuto dal Risorgimento. Ora, questa genealogia è un fatto che non
si può più negare.
4°
«La prova che il Protestantesimo non è la conseguenza necessaria
del Risorgimento si è che il Risorgimento è stato generale in
Europa, mentre il Protestantesimo è stato fin da principio, e rimane
locale».
Richiamiamo
qui le parole del signor Alloury: «Il dire che la Riforma è uscita
dal Risorgimento, non è un calunniare il Risorgimento: è soltanto
un riconoscere ch'esso ha prodotto effetti diversi e più o
meno felici, secondo i luoghi, le circostanze e l'indole speciale dei
popoli (406)».
Il
signor Alloury ha ragione. Il libero pensare, uscito dal
Risorgimento, è un principio talmente generale e talmente fecondo
che produce infallibilmente il suo effetto; se non che quest'effetto
é vario secondo i luoghi e le circostanze. Se ha precipitato
l'Alemagna e l'Inghilterra nel paganesimo filosofico e dommatico, ha
gettato l'Italia e la Francia nel paganesimo artistico e letterario,
l'Europa intera nel Cesarismo. Non gli è per vero riuscito di
formolarsi da per tutto pubblicamente in eresia, ed in eresia
protestantica, ma ha tentato almeno di farlo con una minacciosa
energia.
Che
furono le sanguinose guerre della Svizzera e della Germania durante e
dopo il regno di Lutero e di Zuinglio; che sono le guerre civili di
Francia dei secoli XVI e XVII, se non l'ostinata resistenza del
principio cattolico agli assalti non meno ostinati del principio
protestantico per ottenere il diritto di cittadinanza? Se questo non
ha trionfato, vuolsene rendere grazie, per l’Italia, all'azione
immediata ed in certa guisa alla presenza reale del papato: per la
Francia, alla fede della nazione ancor tutta penetrata dello spirito
del medio evo; per l'una e per l'altra alla protezione speciale di
Colui che vigila sulla Chiesa, e che la liberò dal maggiore pericolo
che mai abbia corso dopo il suo nascimento.
Ma
se, per le ragioni che abbiamo accennato, il Risorgimento non ha
prodotto da per tutto il Protestantesimo nel senso dogmatico della
parola, ha sparso però da per tutto il principio stesso del
Protestantesimo, ed ha prodotto anche presso le nazioni mantenutesi
cattoliche, qualche cosa di più dello stesso Protestantesimo. Il
libero pensare si è profondamente radicato in un gran numero di
letterati. In Italia a centinaia, in Francia, a migliaia, veggonsi i
Risorgenti nel secolo XVI, passare al Protestantesimo. Gli altri
cattolici di nome, o si mostrano generalmente poco credenti, o
prendono un colore bene sfoggiato di scetticismo, e finiscono col
divenire filosofi e razionalisti. Almeno per qualche tempo, la
ragione, imperiosamente dommatica di Lutero vincolò i riformati alla
credenza di certe verità; non così fu dei liberi pensatori
cattolici: niuna autorità li fermò nella via del razionalismo.
Di
che questo fenomeno, altrimenti inesplicabile, che si è osservato
dopo il Risorgimento: i primi razionalisti conosciuti in Europa, i
più arditi ed i più influenti, sono apparsi nel seno delle nazioni
cattoliche, e sono stati per lo meno tanto numerosi come nei paesi
protestanti. Basti il nominare Machiavelli, Pomponaccio e la
numerosa loro sequela: Pomponio Leto, Callimaco, Cardano, Bodino ed
un'infinità d'altri. Col tempo, il razionalismo dei letterati
cattolici, ed il razionalismo dei letterati protestanti si
sono riuniti, amalgamati, e salendo in oggi alla loro ultima potenza,
distendono un aere di scetticismo e di naturalismo universale in cui
l'Europa è minacciata di perire.
Che
questi due giganti del male siano figli dello stesso padre, lo
mostreremo nel volume seguente.
Per
finir questo, restaci da rispondere alle obbiezioni accennate nel
proemio.
______________________
CAPITOLO
XIX.
ESAME
DI ALCUNE DIFFICOLTÀ (Continuazione).
L’insegnamento
classico e le generazioni letterate del sedicesimo e diciassettesimo
secolo. - Le generazioni veramente cristiane sono le generazioni che
credono e che praticano. - Esame dei costumi delle nazioni letterate
dei secoli XVI e XVII. - La loro fede sarà esaminata altrove.
Loro arti. - Loro conviti. - Storia riferita da Brantòme. - Loro
sale. - Loro giardini. - Loro teatri domestici. - Loro lettere. -
Loro teatri pubblici.- Risultamenti morali. - Costumi delle corti. -
Costumi delle alte classi. - Testimonianze di Laplanche, di Bodino,
di Mézeray, di Brantòme. - Del presidente di Thou. - Di Voltaire. -
Di Mezeray - Di Gentillet.
***
Si
è detto: «La prova che il Risorgimento e gli studi di collegio non
hanno avuto quella disastrosa influenza che ad essi imputate si ha da
ciò che col medesimo insegnamento si sono formate alla fine del
secolo XVI e durante tutto il corso del secolo XVII generazioni
veramente cristiane».
Per
completare l'obiezione, abbiamo aggiunto:
«Forse
che il sistema di studi, che è il medesimo oggi quale era nei
passati secoli, non produce, specialmente in Francia, cattolici
ferventi e un clero esemplare? «Ecco le ragioni che dobbiamo
saldare; e lo faremo senza preamboli con la storia alla mano.
Sono
generazioni veramente cristiane quelle che credono, e che praticano
quel che credono. È egli vero, e sino a qual punto che le
generazioni letterate dei secoli XVI e XVII meritino questo titolo
glorioso? Nel prossimo volume ci occuperemo della fede di
queste generazioni: parliamo qui soltanto dei loro costumi.
Nobili
e borghesi, giureconsulti, scienziati, scrittori in prosa e in verso,
pittori, scultori, incisori, artisti compongono ciò che
generalmente, appellasi generazione letterata. Ora quali erano nei
tempi predetti i costumi di questi generazioni, considerate nel loro
complesso?
L'albero
si conosce dai suoi frutti. Durante i secoli XVI e XVII, le
generazioni letterate hanno inondato l’Europa di traduzioni degli
autori pagani più laidi, di romanzi osceni, di balli, di tragedie,
di commedie, di poesie lubriche, di statue, di pitture, d'incisioni
lascive. I loro palazzi, i loro appartamenti, i loro giardini, le
loro tappezzerie, i loro mobili di legno, d'oro, d'argento,
d’acciaio, di vetro, di porcellana riproducono sotto tutte le forme
le laidezze pagane. Queste generazioni si dilettano di vedere tali
oggetti coi loro occhi, di toccarli con le loro mani, di servirsi di
quei mobili, ogni parte dei quali è una pagina di turpezza
mitologica; e le più immonde sono le più ricercate (407).
Nei
loro simposi, precursori di quelli del Reggente, di Federico, del
barone d'Holbach, alcuni si fanno un gioco di portate, mediante
questi oggetti classici, la corruzione sin nel fondo delle anime. La
storia seguente, narrata da Bràntome, ci dà un saggio dei costumi
della buona società di quel tempo. «Ho conosciuto, dice egli, un
principe che comprò da un orefice, una bellissima tazza d'argento
dorato, come opera preziosa e rara disegnata e cesellata con mirabile
squisitezza d'arte, in cui erano finemente incise a bulino parecchie
figure dell'Aretino, dell'uomo e della donna nel piede della coppa; e
nella parte superiore diverse guise di congiungimenti d'animali ...
«Questa
tazza era l’onore della tavola di quel principe; poiché, come ho
detto, era bellissima, mirabilmente lavorata, e piacevole a vedersi
di dentro e di fuori. Quando, questo principe convitava le dame e le
damigelle della corte, come spesso accadeva, i suoi coppieri non
mancavano mai, per suo comandamento, di presentargliene a bervi; e di
quelle che non l'avevano mai veduta, o bevendo o dopo bevuto, alcune
rimanevano attonite e non sapevano che dire; altre ne rimanevano
vergognose, ed il rossore saliva loro al viso; ed altre dicevano fra
sé: Che cosa vi è inciso? E' mi pare che le siano oscenità: oh io
non vi bevo più, e converrebbe. ch'io fossi arsa di sete per tornare
a bervi».
«Ma
conveniva che le bevessero là entro o che morissero di sete; e
perciò alcune chiudevano gli occhi bevendo; altre, meno vergognose,
li tenevano aperti; quelle che ne avevano udito parlare, sì dame,
come donzelle, ridevano di soppiatto, altre sghignazzavano. Quando
s'interrogavano che avessero da ridere, e che cosa avessero veduto,
dicevano non aver veduto null'altro che pitture, e che perciò esse
non lascerebbero di bere un'altra volta. Dicevano altre: «Quanto a
me non penso maliziosamente: la vista e la pittura non contaminano
l'anima: Ed altre: «Il buon vino è buono tanto là dentro come
altrove».
«Alcune
venivano rimproverate perché non chiudevano gli occhi bevendo; ed
esse rispondevano che volevano vedere ciò che bevevano, temendo che
non fosse vino, né qualche medicina o veleno. Ad altre si domandava
se prendevano maggior diletto a vedere o a bevere, e rispondevano: A
tutto. Queste dicevano: Oh i bei grotteschi! Quelle: «Oh le belle
caricature! Alcune: Oh i bei ritratti! Altre: Oh i begli specchi! »
«Insomma
mille frizzi e motti si lanciavano i gentiluomini e le dame a tavola,
ed io ho veduto che la era una piacevole conversazione sì a vedersi
come a udirsi; ma principalmente, a mio parere, il meglio era
contemplare quelle fanciulle innocenti o che fingevano di esserlo; ed
altre dame venutevi per la prima volta, starsene serie come statue di
marmo, ridere a fior di labbra, o a raffrenarsi e a far le ipocrite,
come facevano molte. E notate che quando pure avessero dovuto morir
di sete, i coppieri non avrebbero osato di presentar loro a bere in
altra tazza o bicchiere. Vi ha di più che alcune giuravano per fare
buon contegno che non ritornerebbero mai più a quei conviti; ma non
per questo omettevano di ritornarvi spesso, perché il principe era
splendidissimo e ghiotto. Altre dicevano quando le si convitava:
Andrò, ma con protesta che non ci si offrirà a bere nella tazza».
E quando vi erano, vi bevevano più che mai.
«Ecco
gli effetti di quella bella tazza così bene storiata: su di che
immagini ciascuno gli altri discorsi, i sogni, i gesti e le parole
che quelle dame dicevano e facevano fra loro, o in disparte o in
compagnia. Insomma quella tazza produceva terribili effetti,
tanto erano vive quelle visioni, immagini e prospettive (408)».
Abbiamo
dovuto sopprimere molti brani di questa laida storia; poiché, come
dice Brantòme, il rossore ne sarebbe salito al viso.
Dalle
sale dei conviti passiamo alle gallerie e vi troveremo le stesse
lezioni di lubricità. «Quelle visioni mitologiche, continua lo
storico, si risvegliavano alla vista delle pitture di cui erano
ornate le gallerie ... Tali pitture e quadri, recavano più nocumento
ad un'anima fragile di quello che non si pensi, come era d'una Venere
affatto ignuda giacente e guardata da suo figlio Cupido .... Tante
altre ve ne erano colà (nella galleria del conte di Chasteauvillain)
ed altrove che sono un po' più modestamente dipinte e velate .... Ma
quasi tutte le figure sono nude, ed a somiglianza della nostra tazza
» (409). Queste abominazioni offerte da per tutto agli sguardi,
avevano rapidamente resa popolare la scienza del male, e Brantòme
aggiunge: «Oggi non vi è più bisogno né di questi libri né di
queste pitture; perché se ne sa.
Il
fuoco della lascivia arde nei giardini come nelle stanze. «Ritenete,
continua Brantòme, che il dio dei giardini, messer Priapo, i fauni e
i satiri procaci che presiedono ai boschi, assistono colà quei buoni
compagni e favoriscono il fatto loro (410)». Quei giardini dei
Risorgenti consistevano principalmente in labirinti circolari o
quadrati che si vedevano a profusione nei palazzi reali e nei
castelli signorili, dove Cupido teneva il filo che guidava i suoi
adoratori. Rientrata nelle sale, la bella comitiva si sollazzava al
giuoco, alle rappresentazioni mimiche, alle più seducenti sarabande,
in cui le dame non dimenticavano né movimenti, né pose lascive, né
gesti procaci, né bizzarri contorcimenti (411)».
Dopo
i giuochi, gli spettacoli. Nei teatri privati si recita Catullo,
Anacreonte, Aristofane e Terenzio, nuovamente tradotti e non purgati.
Quelli o quelle che per l'età, per la loro complessione morale o
fisica stanno lontani da questi clamorosi sollazzi, si danno alla
lettura. Gli Amori di Dafni e di Cloe, gli Amori di Teagene
e di Cariclea, tradotti da Amyot; l'Arte d'amare di Ovidio
erano su tutte le tavole (412). Alle oscenità antiche si aggiungono
anche le oscenità moderne, scritte in versi e in prosa dai discepoli
del Risorgimento. In Italia, Poggio, l'Ariosto, Poliziano, Bibiena,
il Berni, il Mauro, Della Casa e molti altri pubblicano tali infamità
che le uguali l'Europa non l’aveva mai udito; in Francia, Rabelais
e la pleiade poetica camminano sulle loro orme e preludiano i
Racconti di La Fontaine, e cento altri libri non meno
corrompitori.
«Quello
che aggravò lo sdegno di Dio, dice lo storico di Laplanche, fu che
il conoscimento delle buone lettere, ricondotto in Francia dal
re Francesco .... agli uomini maligni e curiosi si volse in
occasione di ogni sorta di malvagità; il che si è principalmente
trovato in certe grandi menti date alla poesia francese che vennero
allora a sorgere come a turbe: i cui scritti laidi e sporchi e
pieni di bestemmie, sono tanto più detestabili, in quanto che sono
ingemmati di tutti gli allettamenti che possono far cadere non solo
in ogni fetida oscenità, ma anche in ogni orribile empietà
tutti coloro che gli hanno per le mani » (413).
Ma
un libro infame, e che sarà sempre il vitupero dell'umanità, aveva
allora tutti gli onori della voga: ed è quello delle Figure
dell'Aretino.
Chi
ne avrà il coraggio vegga nel corrotto Brantòme quello ch'esso
racconta della scostumatezza in cui il libro dell'Aretino fece cadere
le più grandi dame, i più alti gentiluomini della corte di tutti i
nostri re del Risorgimento, da Francesco I sino ad Arrigo III
inclusivamente. Ed il libro di quest'infame Italiano, degno alunno
del Risorgimento, formava le delizie del letterati di quel tempo. «Ho
conosciuto, dice Brantome, un buon stampatore veneziano, che aveva
bottega nella contrada San Giacomo, il quale mi disse e mi giurò che
in meno d'un anno aveva venduto più di cinquanta copie del libro
... a molte persone maritate e non maritate, a donne di alto affare
ch'ei mi nominò, e ch'io non nomino, e li diede esso stesso a loro,
ben legati, sotto giuramento che non ne direbbe parola (414)».
Le
infamie che si vedono nei libri, nelle statue, nelle pitture, sui
teatri privati, rappresentansi sui teatri pubblici, rifabbricati dal
Risorgimento; e la turba letterata trae avidamente a quello
spettacolo dove beve a lunghi sorsi la corruzione; tale è la
lubricità di quelle sceniche composizioni, copiate dai Greci e dai
romani, che Giangiacomo Rousseau medesimo non poté comprimere la
propria indignazione, e che in tali termini infama il Giocatore
di Regnard: «La è cosa incredibile che col beneplacito della
polizia si rappresenti pubblicamente, in mezzo a Parigi, una commedia
in cui, nella stanza d'un zio che si è veduto a spirare, il nipote,
l’uomo onesto della commedia, si occupi col degno suo
corteggio di tali cose che la legge punisce col capestro .... falsità
di atto, supposizione di persona, furto, giunteria, menzogna,
inumanità, tutto vi è, e tutto vi è applaudito .... Bella
istruzione pei giovani che si mandano a questa scuola, in cui gli
uomini maturi durano fatica a guardarsi dalla seduzione del vizio!...
Vi s'impara a non coprire che d'una vernice la deformità del vizio,
a sostituire un gergo teatrale alla pratica delle virtù, a mettere
tutta la morale in metafisica, a travestire le madri di famiglia in
ganze, e le fanciulle in amorose da commedia » (415).
Ma
ciò basti pel teatro, di cui parleremo altrove.
I
nostri re del Risorgimento, educati la maggior parte come i letterati
del loro tempo, da Plutarco e dagli autori pagani, danno esempio di
egual corruttela. Per due secoli non veggonsi alla corte
cristianissima che balli, feste e piaceri d'ogni sorta. Per scolpire
con una sola parola la vita di tutta quell'alta aristocrazia
letterata, Bodino, scriveva nel 1577: Finché la nave della nostra
repubblica aveva in poppa il vento favorevole, non si pensa a che a
godere ... con ogni sorta di burle, caricature e mascherate che
poterono inventare gli uomini, fusi in ogni sorta di piaceri
(416)».
Mézeray
aggiunge: «Sarebbesi potuto lodare Arrigo II del suo amore per le
belle lettere, se la dissolutezza della sua corte, autorizzata
dal suo esempio, non avesse rivolto i migliori ingegni a comporre
romanzi pieni di stravaganti fantasie e di poesie lascive per
lusingare l'impurità che teneva in mano le ricompense (417), e per
somministrare sollazzi ad un sesso che vuole regnare scherzando
(418)».
Si
raccoglie quello che si semina: Il sensualismo pagano inciso,
dipinto, scolpito, scritto, cantato, danzato, con tarda molto tempo a
manifestarsi nei costumi pubblici. Salvo una o due eccezioni, tutti i
nostri re del Risorgimento, da Francesco I sino a Luigi XV
inclusivamente, si mostrano agli sguardi dell'Europa circondati da
favoriti, da drude e da bastardi. Quegli che i letterati chiamavano
Giove, Luigi XIV, incede alla testa di quattro drude e di
undici figli adulterini. Parlando delle corti del secolo XVI:
«L'impudicizia ed il lusso, dice Mézeray, vi trionfarono con
licenza sfrenata. Il tradimento, il veneficio e l'assassinio vi
divennero tanto comuni, che non era più che un gioco il perdere
coloro dalla cui morte si credeva di poter cavare qualche vantaggio.
Prima di questo regno (419), gli uomini col loro esempio e con le
loro persuasioni tiravano le donne alla galanteria; ma dappoiché gli
amoretti fecero la maggior parte degli intrighi e dei misteri
di Stato, le donne stesse invitavano gli uomini. I mariti lasciavano
loro la briglia, sciolta per compiacenza e per interesse; e d'altra
parte quelli che amavano di cangiare erano soddisfatti di questa
libertà, che, invece d’una donna, ne dava loro cento
(420)».
Nelle
classi letterate, non altrimenti che alla corte, gli assassinii delle
mogli per opera dei mariti, e dei mariti per opera delle mogli
divennero frequentissimi; e Brantòme soggiunge che essi erano la
conseguenza delle infedeltà e degli adulteri occasionai dalla tazza,
dalle figure e dai quadri del Risorgimento (421).
«Allegherei, dice il bizzarro moralista, un'infinità di dame
piuttosto chiedenti che richieste..... Ho udito parlare anche di
assai padri che, per rispetto alle loro figlie, non si fanno
veruna coscienza .... La qual cosa però sente dell'imperatore
Caligola .... La corruttela diventò tale che fu veduto che
Venere non aveva nessuna stabile dimora come una volta in Cipro, in
Pafo, in Amatunta, e che essa abita da per tutto».
Quello
che Brantòme attribuisce particolarmente al paganesimo artistico, de
Thoul l'imputa al paganesimo letterario: per la sostanza, l'origine è
la stessa. «Coloro, dice egli, che passavano in rassegna i disordini
del regno d'Arrigo II, non contavano per uno dei meno funesti quel
nugolo di Catulli, di Anacreonti, di Tibulli e di Properzii, cioè di
poeti ond'era piena la sua corte, e che, per le vergognose loro
piacenterie per una donna ambiziosa, corruppero la gioventù,
nausearono anche l’infanzia degli studi gravi, e finalmente con le
loro poesie lascive, strapparono il pudore dal cuore delle donzelle
(422).
Prima
del Risorgimento, ci furono scorretti costumi; niuno pretende
negarlo; ma la nobiltà, la generazione letterata, la corte di
Francia in specie, ben erano lontane dall'essere ciò che divennero
sotto l’influenza del paganesimo. «Le nostre Francesi, aggiunge
Brantòme, furono vedute per lo passato assai rustiche ..., ma da
cinquant'anni in qua hanno tolto e imparato dalle altre
nazioni, tante gentilezze, leggiadrie d'abiti, vezzi, moine, o da sé
medesime si sono studiate a illeggiadrirsi, che ora conviene dire che
stanno avanti a tutte le altre in ogni maniera ... (423)». Parlando
in particolar modo della corte sotto Anna di Bretagna, dice: «La sua
corte era un'assai bella scuola per le dame, perché essa le faceva
ben allevare e saviamente, e tutte a suo modello si facevano
saggissime e virtuosissime (424) ».
Quello
che racconta Brantome degli assassinii commessi nelle alte classi del
secolo XVI in conseguenza della corruttela, venuta dal Risorgimento,
continua nel secolo XVII, e, da Voltaire stesso, viene attribuito
alla medesima causa. Dopo avere annoverato la moltitudine degli
avvelenamenti che avevano luogo nella classe letterata; dopo aver
mostralo i più gran nomi di Francia sulla lista degli avvelenatori,
come nel passato secolo li abbiamo veduti uniti a quelli delle
commedianti; dopo aver detto che i venefici si moltiplicarono a tal
segno che si dovette stabilire, per giudicarli, un tribunale
speciale, detto la Camera dei veleni, il filosofo soggiunge;
«Tutta la corte era occupata d'intrighi amorosi; lo stesso Louvois
era sentimentale: Allora il veneficio cominciò ad essere
comune in Francia. Questo delitto, per una singolare fatalità,
infettò la Francia nel tempo della sua gloria e dei piaceri che
raddolciscono i costumi; come penetrò nell'antica Roma; nei più
bei giorni della Repubblica (425)».
Ciò
non ostante le tradizioni cristiane conservavano ancora tanta
autorità da richiedere certe apparenze e certi atti di religione. Di
che quel miscuglio mostruoso di paganesimo e di cristianesimo che si
scorge nei libri e nella condotta delle classi letterate dei secoli
XVI e XVII. Le storie, le memorie, le opere di quell'età testificano
ad ogni pagina questo fenomeno che rivela la presenza d'un duplice
spirito nel seno della società (426). Parlando della regina
Margherita, figlia di Caterina de' Medici, Mèzeray dice: «Nel
sobborgo di San Germano essa tenne la sua piccola corte pel resto dei
suoi giorni, mescolando in modo bizzarro le voluttà alla divozione,
l'amore delle lettere e quello della vanità, la carità cristiana e
l'ingiustizia; Imperocchè come essa si gloriava di essere
frequentemente veduta in chiesa, di mantener uomini dotti e di dar le
decime delle sue rendite ai monaci, così si gloriava anche d'aver
sempre qualche galanteria, d'inventar nuovi sollazzi e di non pagar
mai i suoi debiti (427)».
A
queste testimonianze contemporanee d'uomini mondani e di cattolici,
sarebbe facile l'aggiungere quelle dei protestanti del medesimo
tempo. Limitiamoci ad uno solo. Gentillet deplora i mostruosi
disordini del suo secolo, li attribuisce recisamente al Risorgimento
del paganesimo, e fa notare la sapienza degli antichi Padri che tanto
energicamente raccomandano ai cristiani di non leggere, o con
sobrietà, gli autori pagani; poscia soggiunge:
«Le
quali ammonizioni sono buone e sante ed anche necessarie ai nostri
tempi. Poiché oggidì vi ha un'infinità di persone che
tanto si dilettano degli autori pagani, questi dei poeti, quelli
degli storici, quegli altri dei filosofi che non pensano in verun
modo di voler legger nulla né sapere per la salute e per la
consolazione delle loro anime.
«Alcune
non se ne danno punto pensiero, altre riserbano questo studio dopo
che avranno finito i loro studi delle altre scienze. Ed intanto il
tempo passa e spesso avviene che quando s'ha da partire da questo
mondo, i loro studi profani non sono per anco finiti, né lo studio
delle sante lettere è incominciato, e muoiono come bestie.
«Perciò
non sono punto riprensibili gli antichi dottori d'aver ammonito gli
uomini di leggere sobriamente gli scritti dei pagani e di non
dedicarvisi tanto che per conoscere le scienze umane lasciassero in
obblivione la divina che di tanto è più eccellente di quanto Iddio
sta sopra l'uomo. Oltreché vi ha certi autori pagani che non
dovrebbero mai esser letti dai cristiani, o almeno non esser messi
nelle mani della gioventù, la quale per sé stessa è già
troppo inclinata ai vizi ed alla lubricità. Imperocchè un giovane
potrebbe egli meglio imparare in un bordello fra baldracche e
mezzane le frasi d'ogni sporcizia ed oscenità che in quel fetido
Marziale, o in Catullo e in Tibullo, o in alcuni libri d'Ovidio?
(428)».
E
cotali oscenità ed empietà che fanno morire le persone come
bestie, contaminano ancora i classici che sono in uso nelle
nostre scuole.
_____________________
CAPITOLO
XX.
ESAME
DI ALCUNE DIFFICOLTÀ (Continuazione e fine).
Testimonianza
del clero. - Delle congregazioni insegnanti. - I costumi degli ultimi
tre secoli dipinti da tre gesuiti. - Pel sestodecimo secolo, dal P.
Possevino. - Secondo lui, i costumi delle classi letterate sono
pagani. - Pel secolo decimosettimo, dal P. Rapino. - Secondo lui, i
costumi delle classi letterate sono pagani. - Pel secolo decimottavo,
dal P. Grou. - Secondo lui i costumi delle classi letterate sono
pagani. L’obbiezione annichilata.
***
Intorno
ai costumi delle generazioni letterate dei secoli XVI e XVII, educate
alla scuola degli autori pagani, abbiamo udito le testimonianze dei
laici sì cattolici e sì protestanti. Per compiere l’istruzione
del processo, è giusto ed anche necessario l'udire il clero. Ora,
fra i membri di questo corpo rispettabile ve n’ha la cui
testimonianza è di un’autorità tutta speciale: ciò sono i membri
delle congregazioni insegnanti, e fra queste congregazioni ve n'ha
una principalmente che merita di essere creduta. Sparsa per tutta
l'Europa, in abituale relazione con tutte le alte classi della
società, in contatto quotidiano con la gioventù letterata, uscita
in massima parte dai suoi collegi, dalla seconda metà del
sestodecimo sino a mezzo il decimottavo, essa ha veduto coi propri
occhi e toccato con le sue proprie mani i fatti che afferma; abbiamo
nominato la Compagnia di Gesù. Ora, tre gesuiti ci diranno quello
che si ha da pensare della moralità delle generazioni letterate
degli ultimi tre secoli.
Pel
sestodecimo secolo abbiamo il celebre P. Possevino che scrisse dal
1589 al 1611.
«L'educazione
fa tutto, dice egli con Aristotele, non parum, sed totum est qua
quisque disciplina imbuatur a puero. Di che viene che nello
stesso seno di Roma, alla presenza dei monumenti che attestano ai
loro occhi l'adempimento delle profezie, gli ebrei rimangono ebrei.
Perché? Perché fino dall'infanzia sono stati educati nel giudaismo.
Per la stessa ragione i Turchi rimangono i Turchi; i Tartari,
Tartari; gli eretici e gli scismatici, eretici e scismatici, non
ostante anche mille prove della falsità delle loro dottrine.
«Quale
credete voi dunque che sia la cagione terribile che precipita le
anime nell'abisso dei loro appetiti, nelle impudicizie, nelle usure,
nelle bestemmie, nell'ateismo, se non perché fino dalla giovinezza
nelle stesse scuole che sono il vivaio degli Stati, si insegna tutto,
fuorché la pietà: si spiega tutto, fuorché i buoni autori
cristiani; oppure se si fa studiare un poco di religione, tutto ciò
si trova mescolato con le cose più impure e più lascive, vera peste
delle anime. A che serve, dico io, il versare un bicchiere di buon
vino in una botte d'aceto? Voglio dire, che serve un po' di
catechismo ogni settimana, allorché si versa ogni giorno nell’animo
dei fanciulli Terenzio ed altre empietà?
«Tale
è in oggi la consuetudine del mondo. Essa non è speciale a
questa città; e quanto più essa è diffusa, tanto più si crede
d'aver diritto a conformarvisi. L'esempio la sanzjona, e l'abuso
diventa una regola che si crede di poter seguire con sicurtà di
coscienza. Ma chi tiene lo sguardo fisso sulla volontà di Dio, non
piglia spavento alle opposizioni del mondo, e d'altra parte, attento
a procurar la salute delle anime, pondera le cose con giustizia e non
dà ad anime battezzate orpello per oro, né vetri per perle.
«Volete
dunque salvare la vostra Repubblica? Portate tosto la scure alla
radice dell'albero; sbandite dalle nostre scuole lo studio abusivo
dei libri disonesti ed empi che, sotto pretesto di insegnare ai figli
vostri la bella lingua latina, insegnano loro la lingua dell'inferno.
Vedeteli: appena usciti di fanciullo essi si dedicano allo studio
della medicina, o del diritto, o del commercio, e dimenticano ben
presto quel po' di latino che hanno imparato. Ma quello che non
dimenticano sono i fatti, le massime impure che hanno letto negli
autori profani e che hanno imparato a memoria. Queste rimembranze
restano per maniera scolpite nella loro mente, che per tutta la loro
vita preferiscono di leggere e di udire cose vane ed anche le più
laide che non cose utili ed oneste. Stomachi infermi che
rimettono tosto ogni parola di Dio. Qui potrei esser lungo se il
tempo lo richiedesse, benché la necessità lo richiegga, e sia
senza dubbio uno dei principali punti questo, onde dipenda la salute
dell'universo (429).
Gli
Stati scrollati dai loro fondamenti, le generazioni di collegio
precipitarsi nell'abisso del razionalismo, del sensualismo,
dell'egoismo, della bestemmia e dell’ateismo; tutti questi mali
originarsi dal commercio impuro della gioventù cristiana con gli
autori pagani: tale è l'idea che ci dà dello stato morale delle
classi letterate del secolo XVI un testimonio oculare e degno di
tutta fede. Poteva egli dire in modo più aperto che i loro
costumi erano pagani? Dopo questo quadro doloroso, esclama: «E
noi che per la grazia di Gesù Cristo viviamo in mezzo alla luce del
Vangelo, noi perdiamo il senno a tal punto da divenir strumenti di
dannazione alle anime di cui dobbiamo essere gli angeli custodi, i
tutori e le guide verso il cielo! Dopo che hanno ricevuto l'innocenza
battesimale, noi metteremo per più anni pesi così gravi ai piedi di
questi figli, ed impediremo in quell'età così proclive alla pietà
di camminare nelle vie di Dio e della santificazione»! (430)
«Il
P. Possevino, dicesi, parla degli autori pagani non purgati, e quali
in origine il Risorgimento li mise nelle mani della gioventù. Ma
questi autori, purgati che siano ed insegnati dagli ordini religiosi,
non presentano verun pericolo: i costumi edificanti delle classi
letterate nel secolo decimosettimo ne sono la prova irrepugnabile».
Nel
mondo letterario, il secolo decimosettimo, è chiamato il gran
secolo, il secolo di Luigi il Grande. Se esso lo meriti
per ogni titolo, specialmente in ordine alla libertà ed alla
politica, è questione che abbiamo esaminata nel Cesarismo. Qui non
dobbiamo, occuparci che del lato morale. Sopra questo punto, ecco la
testimonianza di uno degli uomini che erano in miglior condizione di
conoscere a fondo le generazioni letterate di quel tempo, poiché,
essendo stato uno dei principali loro educatori, fu, sino alla fine
della lunga sua carriera, in contatto immediato con esse: quest’uomo
è il P. Rapino, gesuita, per molti anni professore di retorica, nel
collegio di Luigi il Grande a Parigi
Nella
sua opera Della Fede degli ultimi secoli, pubblicata nel 1678,
egli fa la seguente pittura dei costumi del gran secolo.
«Ebbevi
mai, sclama egli, costumi più scorretti nella gioventù, maggior
ambizione nei grandi, maggiori turpezze nei piccoli, maggiore
sregolatezza negli uomini, maggior lusso e maggior mollezza nelle
donne, maggior falsità nel popolo, maggior malafede in tutti gli
stati ed in tutte le condizioni? Ebbevi mai minor fedeltà nei
connubii, minore onestà nelle compagnie, minor pudore e modestia
nella società? Il lusso delle vesti, la sontuosità dei mobili, le
delicature delle mense, la superfluità delle spese, la licenza dei
costumi, la curiosità mille cose sante e le altre moltissime
sregolatezze della vita sono giunte ad eccessi inauditi.
«Quale
corruzione d'animo nei giudizi! quale profanazione e quale
prostituzione di ciò che vi è di più santo e di più augusto
nell'esercizio della religione! Tutti i principii della vera pietà
sono talmente rovesciati che oggidì nel commercio si preferisce un
gentile scellerato che sa vivere ad un uomo dabbene che non sa; e
commettere il delitto prudentemente, senza cozzar contro nessuno,
chiamasi probità.... Chi non sa che in questi ultimi tempi il
libertinaggio (431) si ha in conto di forza di mente fra i letterati?
e quasi per la sola corruzione e per le sregolatezze uomo sale in
alto e si distingue ....
«Nulla
dico di quei neri ed atroci misfatti che traboccarono in questo
sciagurato fine dei tempi, la cui sola idea basta a riempire l'animo
d'orrore. Passo sotto silenzio tutte le abominazioni sconosciute
sino al presente alla nostra nazione .... Finalmente, per
esprimere in una parola il carattere di questo secolo, non si
è mai tanto parlato di morale, e non vi ebbe mai meno di buoni
costumi: non si è mai parlato tanto di riformazione, né mai
ebbevi meno di riforma; non mai tanto di sapienza, e meno di pietà;
non mai migliori predicatori, e meno di conversioni; non mai più
comunioni, e meno di mutamenti di vita; non mai maggiore spirito e
ragione nel gran mondo (432), e meno d'applicazione alle cose solide
e gravi.
«Ecco
propriamente l'immagine e la pittura dei nostri costumi e
dello stato in cui è in oggi fra noi la religione. È vero che si
può dire sussisterne, ancora l'esterno per l'esercizio, regolato che
si fa delle cerimonie onde essa è composta; ma la religione nostra
consiste forse nell'esterno, e al modo che viviamo, non siamo veri
pagani in ogni cosa»? (433).
Se
noi avessimo osato di fare una simile pittura del gran secolo, non si
sarebbe mancato di gridare contro l'esagerazione e la calunnia. Per
buona sorte noi non siamo che relatori. Non già noi, ma il P. Rapino
della Compagnia di Gesù, uno degli uomini celebri del suo tempo, uno
dei maestri più insigni della gioventù, il quale chiama pagane, e
pagane, in ogni cosa, le generazioni aristocratiche del secolo di
Luigi XIV; generazioni uscite dalle sue mani, dalle mani dei suoi
confratelli e degli ordini religiosi insegnanti!
Pel
secolo XVIII, ecco il P. Grou, membro esso pure distinto della
Compagnia di Gesù (434): Egli, non più del P. Rapino, non è
interessato a denigrare le generazioni educate esclusivamente da lui,
dai suoi con fratelli, o dal clero secolare e regolare. Ora, nel suo
trattato della Morale di Sant’Agostino, pubblicato nel 1780,
commenta così il seguente passo del gran dottore: Questa
turpitudine non aiuta ad imparare queste parole, ma queste parole
fanno commettere questa turpitudine con maggiore ardimento (435).
«Sant'Agostino
fa questa riflessione in proposito d'un luogo di Terenzio in cui un
giovane giustifica il proprio libertinaggio coll'esempio di Giove: ed
in tale occasione biasima fortemente coloro che spiegano alla
gioventù gli autori profani, come Terenzio, senza veruna
precauzione: allegando per motivo che vi si apprendeva a ben parlare
e a divenire eloquente. Con grande ragione lo zelo di questo santo
dottore si infiamma contro l'abuso di mettere nelle mani dei giovani
queste opere pericolose, come se non potessero attingere ad altre
fonti il linguaggio puro e l'eloquenza.
«È
da stupire che lo stesso abuso sussista ancora ai nostri giorni
nel cristianesimo; non già che da circa un secolo non siasi preso
qualche provvedimento, per ovviarvi, ma a questo riguardo, non si
è spinta l'attenzione tanto lungi quanto merita la cosa. Il che
mi determina a spiegarmi qui sopra un argomento di così grande
importanza. Non farò che toccarne la sostanza, perché a trattarlo
pienamente ci vorrebbe un intero volume.
«La
nostra educazione è tutta pagana. Non si fanno leggere ai
fanciulli nei collegi (436) e nelle case che poeti, oratori e
storici profani. Se ne dà loro la più alta idea; si presentano
loro come i modelli più perfetti nell'arte dello scrivere, come i
più grandi ingegni, come i nostri maestri. Per agevolarne
l'intelligenza si entra molto innanzi nei particolari delle
genealogie e delle avventure degli dei e degli eroi della favola. Si
trasferiscono ad Atene, nell'antica Roma: vengono informati dei
costumi, degli usi, della religione degli antichi popoli: vengono
iniziati, per così dire, a tutti i misteri, a tutti i sistemi, a
tutte le assurdità del paganesimo: tutto ciò è subietto di
un'infinità di commenti che gli eruditi hanno composto sopra ciascun
autore ...
Questo
sistema di studi indebolisce lo spirito di pietà'ì nei
fanciulli. Io non so qual confuso miscuglio si formi nel loro
cervello delle verità del cristianesimo e delle assurdità della
favola: dei veri miracoli della nostra religione e delle meraviglie
ridicole narrate dai poeti; della morale del Vangelo e della
morale tutta umana e tutta sensuale dei pagani. Non riflettiamo
abbastanza sulle impressioni che riceve il tenero cervello dei
fanciulli. Ma non dubito che la lettura degli antichi non abbia
contribuito a formare, quel gran numero d'increduli che sono apparsi
dopo il Risorgimento delle lettere ..., il che non sarebbe
avvenuto se la gioventù non fosse stata prevenuta d'una servile
ammirazione pei grandi nomi di Platone, d'Aristotele e degli altri.
«Questa
educazione avvezza ancora i fanciulli a pascersi di finzioni e di
menzogne piacevoli. Di che l'ardente smania per le rappresentazioni
teatrali, per le novelle, per le avventure, pei romanzi, per tutto
ciò che piace ai sensi, all'immaginazione, alle passioni. Di che la
leggerezza, la frivolezza, l’avversione per gli studi gravi, il
difetto di giudizio e di soda filosofia .... Nei collegi parimente i
fanciulli prendono gusto per le opere appassionate, oscene,
pericolose per ogni titolo ai costumi. Imperocchè tali sono per
la maggior parte gli antichi poeti; non eccettuato Terenzio, né
Virgilio.
«E
qui non è che il principio del male. Questo gusto del paganesimo,
acquistato nell'educazione pubblica o privata, si spande poscia
nella società; mediante le belle arti ... Passate negli
appartamenti dei grandi, nelle loro gallerie, nei loro giardini, nei
gabinetti dei curiosi, che rappresentano la maggior parte delle
statue, dei quadri, delle stampe se non soggetti e personaggi tolti
dall'antichità profana? ... Le donne stesse che vogliono leggere ...
imparano sin dall'infanzia la storia poetica e i fatti principali
della storia greca e romana: ciò costituisce in oggi una parte
essenziale della loro educazione. Per esse sono stati tradotti
gli autori antichi, anche i più pericolosi; si sono composti
dizionari, compendi ed altri libri a loro uso, affinché esse
potessero essere pagane come gli uomini ...
«Ora,
sono i letterati che, fin pei loro scritti, fin pei loro discorsi,
danno le orme al loro secolo, presiedono ai giudizi e formano i
costumi pubblici (437).
Quali
erano, secondo il P. Grou, i costumi pubblici del secolo decimottavo,
quei costumi formati, com'egli dice, dalle generazioni di collegio?
Gli stessi del secolo decimosettimo, cioè costumi pagani.
Adoperando, per caratterizzarli, gli stessi termini del P. Rapino suo
confratello: «Che è derivato da ciò? Dice egli: non siamo
idolatri, è vero; ma non siamo cristiani che in apparenza (seppure
la maggior parte dei letterati oggi lo sono), e in sostanza siamo
veri pagani e per lo spirito, e per il cuore, e per la condotta »
(438)
Tale
è la testimonianza resa da tre celebri gesuiti ai costumi dei loro
propri alunni durante gli ultimi tre secoli. Davanti a questa
testimonianza perentoria, noi domandiamo che cosa diventa la prima
difficoltà, cui dovevamo rispondere, cioè: Che con gli autori
pagani si sono formate, nei secoli XVI e XVII, generazioni
perfettamente cristiane?
Rimane
la seconda che consiste in dire: «Col sistema d'insegnamento che voi
condannate abbiamo formato, ai giorni nostri, cattolici ferventi, un
clero. esemplare, missionari eroici».
Parliamo
dapprima dei cattolici ferventi che dite formati dalla classica
educazione. - Senza entrare nel midollo della discussione, ci
basterebbe di pregare gli avversari a rileggere le testimonianze che
abbiamo. allegato. Nei secoli XVI, XVII e XVIII, in cui le famiglie
erano più cristiane, le abitudini sociali più ritenute, i cattivi
libri meno sparsi; in cui i maestri della gioventù erano
esclusivamente preti e religiosi rispettabili, non è riuscito di
formare, per confessione dei loro stessi istitutori, che generazioni
pagane. Come mai il medesimo sistema applicato in assai meno
favorevoli circostanze, ha prodotto eccellenti risultamenti? L'umana
natura si è forse mutata in meglio? Che vi dice lo spettacolo
dell'Europa? Dove sono, principalmente nelle classi letterate, questi
cattolici degni dei primi secoli? Quale ne è il numero? Avete
consultato le statistiche! (439) Non scambiereste per caso le
apparenze per la realtà, le eccezioni per la regola, i vostri
desideri per fatti?
Ma
ecco un uomo del secolo; un antico militare, il quale risponde
direttamente all'obiezione: ci sia permesso di qui riferire la sua
lettera.
«Pochi
giorni fa, ci scrive egli, mi trovava in una riunione di
ecclesiastici e di laici cristiani, dove con molto calore venne
agitata la questione dei classici. Uno dei vostri avversari,
prendendo la parola, disse: «Siamo qui in ventisette: ciascuno si
tocchi il polso e dica se lo studio degli autori pagani gli ha fatto
male ». Volgendosi al suo vicino a destra: «Perché hai studiato
Cornelio, Virgilio, Orazio ti senti più male? - No. - Ed al suo
vicino a sinistra: E tu? - Neppur io».
«Continuando
il suo appello nominale, giunge ad un giovane professore, che dà la
medesima risposta e che aggiunge: «Forse che i sessantamila membri
della società di San Vincenzo de' Paoli, sparsi in tutta l'Europa,
non hanno fatto i loro studi con gli autori classici? E sono essi
meno cristiani? Forse che i cinquantamila preti che abbiamo in
Francia non hanno studiato i medesimi autori? E sono essi meno buoni?
Il clero fu mai più virtuoso? Vorrei sapere quello che i partigiani
del Verme roditore avrebbero a rispondere, a questi fatti
perentori»
«Perdinci!
gli dissi io, non è difficile, il soddisfarvi. Avete letto le opere
di Monsignor Gaume, e fra queste, le prefazioni ch'egli ha premesso
ai suoi classici cristiani? Se le avete lette, mi stupisco che non
siate soddisfatto; e se non le avete lette, stupisco assai più che
proponiate con sicurezza e che ci diate come cosa nuova un'obiezione
più volte e vittoriosamente confutata. Del resto, dappoichè si è
suscitata la discussione, io mi sono convinto che di cento voci che
hanno parlato, ben più di novanta non sono che un eco».
«Il
giovane professore dichiarò che non aveva letto le vostre opere, ma
che le conosceva per relazione di persone degne di tutta fede:
«Io
ho fatto come voi; ho giudicato sulle altrui relazioni. Ma finalmente
ho detto a me stesso: Comandante, quello che tu fai non è leale: chi
non ode che una campana non sente che un suono: e merita la galera il
giudice che pronunzia senza aver udito le due parti! Perciò o tacere
o istruirsi. Ho letto, e ve lo confesso, ho letto con prevenzione. Ma
le squame mi sono cadute dagli occhi, ed ho l'onore di dirvi che sono
un convertito ; e se ben presto non lo siete voi pure, tanto peggio!
«Voi
dite adunque che i classici pagani sono senza pericolo, attesochè
non hanno fatto verun male a nessuno di noi: che non c'impediscono
d'avere sessantamila membri della società di San Vincenzo de' Paoli
e cinquantamila preti eccellenti.
«Poiché
io sono ritornato, dalla campagna di Russia con le mie quattro ossa,
ho forse diritto di dire che niuno vi è rimasto? E voi stesso,
signor professore, che siete qui avanti il tempo ordinario delle
vacanze, perché a Marsiglia vi è il colera, avete forse il diritto
di dirci: Vengo da Marsiglia e sto bene: dunque il colera non vi fa
morir nessuno? Siamo qui in ventisette: qual frazione formiamo noi
del numero totale dei giovani educati come noi in tutti i collegi
d'Europa? Perché gli autori pagani non hanno fatto nessun male a
ventisette individui, abbiamo forse diritto di concludere che non ne
hanno fatto a niuno? Non già dalle eccezioni, ma dai suoi generali
risultamenti vuolsi giudicare un sistema.
«Se
non che, mettendomi nel novero dei ventisette, ho avuto torto:
Signori, voi non siete che in ventisei, perché il ventisettesimo è
stato tocco. Mi ricordo che studiando prima Quinto Curzio, poscia
Virgilio e Plauto, acquistai cognizioni di cui avrei fatto senza, e
che non mi hanno reso migliore, ve ne assicuro. Quante allusioni e
frizzi e motti occasionati dalle rimembranze mitologiche non ho udito
fra compagni, in ricreazione ed anche in scuola! Debbo aggiungere
ch'io era repubblicano, che adoravo Bruto: Che di notte mi accadeva
di sedermi sul mio letto e di ammantarmi da Romano! che ai miei occhi
Cesare, Cicerone, Milziade, sopravanzavano di cento braccia i più
grandi uomini della nostra storia. A vero dire, io non sapeva proprio
quel che volessi, ma sapeva benissimo quello che non volevo. I miei
più intimi amici partecipavano degli stessi miei sentimenti. Ciò
dipendeva certamente dalla cattiva mia indole; ma converrebbe tener
conto anche della indoli cattive. Ve ne fu in ogni tempo; ed il
signor professore può egli guarentire che non ve ne sia nessuna nel
suo collegio o nella sua scuola?
«Voi
non conoscete, o signori, queste cattive indoli anzi tempo sospinte
alla curiosità, ai piaceri dei sensi, all'orgoglio, all'incredulità,
all'indisciplina, e che a tutto questo trovano un alimento nello
studio assiduo degli autori pagani. Durante tutto il tempo dei vostri
studi classici, sugli occhi vostri è stata posta una benda, e nulla
avete veduto nei passi più pericolosi; un ghiaccio era sul vostro
cuore, e nulla avete sentito alla lettura dei brani più
appassionati; niun sentimento repubblicano ha scosso le fibre
dell'anima vostra. Onore a voi! Voi siete ritornati sani e salvi
dalla Beresina; ma non concludete perciò che nessuno vi si è
sommerso».
Non
avevo ancor terminato che il giovane professore soggiunse: «Ne siamo
però ritornati in numerosa compagnia, come possono testificare i
sessantamila giovani che formano oggi la nostra ammirabile società
di San Vincenzo de' Paoli».
«La
risposta è la stessa, ripigliai io subito. Sessantamila sopra
parecchi milioni, la è sempre una piccola frazione. E poi, sapete
voi se all'uscir di collegio, la metà e forse anche più, di questi
sessantamila giovani, sparsi per tutta l'Europa, non hanno dovuto,
prima di giungere al cristianesimo, descrivere un'assai lunga curva?
Questi sessantamila giovani vi hanno detto se in virtù dei loro
studi classici sono rimasti o sono divenuti cristiani? Quello che mi
sembra vero si è che gli autori pagani sono così poco idonei, non
dico a disporre i membri della società di San Vincenzo de' Paoli, ma
a formarci semplicemente alla vita religiosa e sociale, che entrando
nel mondo siamo obbligati di dimenticare diciannove ventesimi di
quello che abbiamo imparato, sotto pena, se volessimo metterlo in
pratica, di essere goffissimi personaggi, tristi cittadini e
cattivissimi cristiani.
«Or
bene! tale è il sistema seguito da parecchi secoli Non ne addurrò
che una prova, e questa posso guarentirvela, perché l'ho l’ho
veduta coi miei occhi; ed è l'epoca del 1793. Date un colpo di
spada alla rivoluzione francese, e ne vedrete uscir tutta viva
l’antichità pagana. La Francia letterata del 1789 era gravida
di Roma e di Sparta; essa partorì nel 1790; e il 1790 ha prodotto
tutte le rivoluzioni che vediamo scoppiare intorno a noi. Se vi piace
di vederne di nuove, e di legarne ai vostri discendenti, continuate
ad insegnare come hanno insegnato i vostri padri; il loglio
produrre sempre il loglio: io mi attengo a questo fatto perentorio».
In
tal guisa, lo diciamo a malincuore, gli uomini del secolo, guidati
dal semplice buon senso, fanno giustizia delle accuse d'esagerazioni;
d'utopie temerarie, che certi membri del clero secolare e
regolare; schiavi ostinati di preconcetto sistema, non arrossiscono
di gettarci in viso, senza aver letto i nostri libri! Et
inimici hominis domestici ejus.
Veniamo
alla seconda, parte dell'obiezione relativa al clero. Noi non
negheremo l'omaggio reso alla dottrina e alle virtù del corpo
rispettabile, di cui facciamo parte. Se non che si tratta di sapere:
1° a chi ad a che il clero attuale è debitore delle sue virtù: se
ai suoi studi classici, o alla grazia di Dio, alla sua vita povera e
laboriosa, al suo allontanamento dal mondo ed alla necessità in cui
è di vigilare più che mai sopra sé stesso: 2° Se sarebbe meno
buono, meno dotto, meno idoneo alle opere del santo ministero:
l'orazione, la predicazione, il catechismo, la confessione: se il
sentimento cattolico e sacerdotale sarebbe meno sviluppato in lui,
supponendo che nei preziosi anni della sua giovinezza ei fosse stato
nutrito della sacra Scrittura, dei Padri della Chiesa, dei grandi
dottori e scrittori del cristianesimo, degli atti dei martiri, invece
di esserlo delle favole pagane, delle avventure degli dei e delle
dee, delle imprese più o meno grandi dei Greci e dei Romani.
Del
resto, per conoscere l'influenza naturale degli studi pagani
sul clero, risaliamo ad un altro tempo: più agevolmente potremo
esaminare la questione. «Il prete, dice Pietro di Blois, che si
occupa delle frivolezze e delle menzogne che offrono gli idoli
pagani, invece di essere un modello di virtù ed uno specchio
d'onestà, non sarà per molti giovani che una pericolosa insidia. -
Che possono essere per un araldo della verità gli amori favolosi
dei falsi iddii? Quale stoltezza il cantare Ercole e Giove, e il
tacere di Dio che è la via, la verità e la vita? Quale
stolidezza l'occuparsi sino nella vecchiaia dei mendaci racconti dei
pagani, dei sogni dei filosofi, dei nodi del diritto civile, e
ritrarsi dallo studio della teologia? In tal guisa forse si
restituisce con usura a Dio il talento che ci ha confidato? Il prete,
che è lo sposo del Signore, debba fuggire gl'impudichi
abbracciamenti della sapienza mondana; ed avvicinarsi alla casta e
pacifica sapienza che discende dal cielo, ecc. » (440) Per non
moltiplicare le citazioni, passiamo al secolo XVII. Nel 1699, un
venerabile prete, dottore in teologia, ha trattato questo punto.
«Gli
studi profani, dice egli, cagionano al clero una specie di male dal
lato del gusto e dello spirito: essi gli ispirano disprezzo per lo
stile semplice della Scrittura: tanto queste lettere umane sono
capaci di corrompere, anzi che si possa vantarne l'utilità. Un tempo
si è veduto un vescovo, Teodoro di Trica, amar meglio di lasciarsi
deporre che di condannare il suo libro degli Amori di Teagene e di
Cariclea. Quasi ai giorni nostri un altro vescovo, Torrent,
vescovo d'Anversa, è morto dando un’ultima mano ad un lungo e
laborioso commentario sopra Orazio, nella guisa stessa che i Padri
morivano terminando o continuando le loro opere sulla Scrittura. Che
è mai che ha ispirato loro una condotta sì bizzarra e sì piena di
scandalo? La passione per le invenzioni e per l'erudizione
profana.
«Lasciando
stare l'ingegno, vediamo lo stesso disordine nella maggior parte
degli ecclesiastici che si vantano di qualche dottrina. E sono
umanisti, poeti, antiquari. Vi recitano a memoria non so quanti bei
pezzi dei migliori autori pagani. Hanno fatto studio profondo della
favola e della vana mitologia. Ma per quello che riguarda la
Scrittura e la tradizione, parlatene loro, se volete, e vi faranno
grazia ad ascoltarvi. La spiegazione d'un luogo difficile di
Virgilio o di Cicerone, l’accordo di alcuni punti della storia
greca, certe riflessioni sopra alcune ruine antiche ultimamente
scoperte, una medaglia, un motto, una frase elegante, diletti di
spiriti vani, è tutto ciò che loro piace, tutto ciò che li occupa
(441)».
«Nondimeno,
continua il grave dottore, questo divorzio pieno ed intero,
quest’oblivione perfetta in cui vivono riguardo alle scienze sacre
è senza paragone assai meglio che non quel miscuglio di alcuni
altri, che con la stessa bocca soffiano la santità e la corruzione
... Non è cosa deplorabile che, sotto pretesto di mettere d'accordo
la fede con la ragione, si trovino alcuni che provano la verità
mediante la favola, difendono i più adorabili misteri con le sozzure
dei falsi iddii; stabiliscono (orribile a pensarsi!) la possibilità
dell'incarnazione mediante la discesa di Giove in pioggia d'oro
nei seno di Danae? Se questo nuovo genere di educazione cristiana
si fosse mostrato ai tempi di Sant'Agostino, lo si sarebbe udito
tuonare con queste o simili parole, dall’Africa sino nelle Gallie:
Oh cosa degna veramente delle veglie e degli studi d'un vescovo»!
(442)
Dopo
aver dimostrato che la filosofia naturale, curiosa, indiscreta,
incredula, che suscita mille questioni sui misteri, e pretende di
comporre un cristianesimo razionale è derivata, nel clero,
dagli studi profani e dal Risorgimento, il dottore così parla
dell’eloquenza sacra venuta dalla stessa fonte: «Il mondo è
inondato da certi predicatori.., che non si saprebbe dire che
cosa studino... Satiri austeri che parlano di Cupido in pulpito.
Uomini che a vecchie ciarpe cuciscono alcuni buoni o cattivi
brandelli morali dei libri nuovi. Predicatori per rapsodie e per
fedecommessi: zingari nelle vesti in cui nulla è bene assortito
.... L'uomo vorrà operar sempre umanamente nelle opere di Dio. Per
qual motivo veggonsi così pochi effetti dello spirito e della virtù
di Dio dopo tante predicazioni, se non perché v'ha troppa parte la
sapienza e l'eloquenza umana, e troppo poca la preghiera e
l'umiltà. Laonde non si dovrebbe veder nessuno in pulpito che non
avesse attentamente meditato la Scrittura ed i Padri, che non vi
fosse versato, che non ne fosse pieno. Soltanto agli Abrami spetta il
salire sul monte pel sacrificio: essi soli possono condurvi Isacco
per immolarlo, portarvi la fede e la religione per ammaestrarlo.
«Tutte
queste considerazioni in ordine alle lettere umane non riguardano che
l’intellelto. Se ne potrebbe far anche d'importantissime per la
parte del cuore. La filosofia ispira naturalmente l'orgoglio e
la presunzione. L'eloquenza fa perdere l'umiltà con la sua
pompa. Difficilmente si rimane casti studiando i poeti. E per
parlare anche delle virtù dipinte da questi letterati, che cosa sono
esse mai, se non vive e fine immagini di cupidigia le quali,
rimovendo ciò che le passioni ed i vizi hanno di più ributtante,
non servono che a meglio sorprendere e a meglio corrompere con più
delicate insidie? Perciò i Padri chiamano questa bella moralità dei
pagani un mele che occulta il veleno (443)».
In
conclusione, ignoranza ed anche nausea della sacra Scrittura, dei
Padri della Chiesa e delle scienze ecclesiastiche; amor ridicolo
dell'antichità pagana e delle letture frivole; pretensione di
comporre in pulpito un cristianesimo razionale; cattivo gusto;
oblio della vera predicazione evangelica; sterilità della parola;
orgoglio della ragione e gravi pericoli pei costumi: tali sono, a
giudizio del prudente teologo, i benefizi che il clero del secolo di
Luigi XIV, in un gran numero dei suoi membri aveva tratto, dagli
studi pagani. A sostegno della sua asserzione, il dottore cita fatti
terribili e non li cita tutti.
Anche
noi ammettiamo che nulla di tutto questo ha luogo ai nostri giorni;
il clero attuale ha un gusto ben dichiarato per la sacra Scrittura,
pei Padri della Chiesa, per la teologia, per l'ascetica; si dedica
con ardore e con perseveranza allo studio di queste scienze
fondamentali; i suoi catechismi, le sue omelie, i suoi sermoni,
nutriti della tradizione, ricordano la nobile ed eloquente semplicità
della predicazione evangelica, e presentano, al popolo cristiano
alimenti sostanziali; il pulpito non diventa mai una tribuna; di là
scende sempre la parola di Dio, non mai la parola dell'uomo né i
ragionamenti dell'umana saggezza; perciò la predicazione è feconda
di consolazioni. Sotto questi riguardi e sotto altri ancora il clero
attuale è degno di ogni encomio; non lo neghiamo.
Ciò
non ostante si può accettare la presentazione di cinquantamila preti
francesi come un'aplologia viva degli studi classici? Non lo
crediamo.
Per
ragionare giustamente, vi ha molte cose essenziali di cui s'avrebbe
da tener conto e che si dimenticano.
Si
dimentica che il clero attuale viene arruolato in generale nelle
campagne e nelle famiglie estranee al greco ed al latino; mentre le
classi rese pagane dall'educazione danno appena qualcheduno dei loro
figli alla tribù santa.
Si
dimentica che durante i primi trent'anni di questo secolo il Clero ha
studiato poco le lettere pagane, e che queste non hanno potuto
esercitare su di lui la stessa influenza come sopra i suoi
antecessori.
Si
dimentica che il clero riceve due educazioni: quella del piccolo
seminario o del collegio, e quella del gran seminario, e che questa
modifica necessariamente quella.
Si
dimentica che il clero pel suo stato è in obbligo di dedicarsi
abitualmente a studi cristiani, i quali colmano sino ad un certo
segno il vuoto degli studi classici.
Si
dimentica che il clero vive separato dal mondo ed in mezzo alle cose
sante, obbligato a combattere tuttodì il paganesimo intellettuale,
morale, pubblico e privato: salutari condizioni che mantengano in
lui, che fortificano, quasi lui insciente, il sentimento cristiano,
ed a attutiscono la funesta influenza, dello spirito contrario.
Si
dimentica finalmente che cinquantamila sopra parecchi milioni è una
piccola frazione. Ora, non dalle eccezioni, ma dai generali
risultamenti vuolsi giudicare un sistema. Perciocché un soldato è
ritornato sano e salvo dalla Russia o dalla Crimea, avrà diritto di
dire che non vi è rimasto nessuno? Voi ritornate sano e salvo da una
città devastata dal colera: avete perciò il diritto di dire: il
flagello non vi fa morire nessuno?
Il
vero è che il clero, ammettendo senza restrizione le lodi che di lui
si fanno, è in condizioni eccezionali, e che non forma che una
piccolissima frazione della gioventù letterata: il clero adunque non
è un'obbiezione.
Per
avere un soggetto vero di esperimento, è d’uopo prendere i giovani
posti nelle condizioni ordinarie della vita, e che altra educazione
non hanno ricevuto che la classica.
Se
da tre secoli queste generazioni laiche sono state nel loro
complesso, se sono ancora generazioni veramente cristiane di costumi
o di credenze, avrete provato vittoriosamente che gli studi pagani
sono innocui, o almeno che l'influenza disastrosa che ad essi
s'imputa non è da calcolarsi; se, oltre a ciò, voi dimostrate che
queste generazioni furono e sono cristiane, non già sebbene,
ma perché hanno fatto gli studi classici, cioè che in tutto
o in parte debbono al loro commercio coi pagani la purezza dei loro
costumi, l'integrità della fede, la solidità del giudizio,
l'elevatezza della ragione, la fermezza del senno, lo spirito
nazionale, il rispetto dell'autorità, l'amor dell'ordine, la loro
intelligenza della vita reale, avrete per sempre confuso l'autore ed
i fautori del verme roditore; se no, no.
FINE
DELLA PARTE SETTIMA E DEL VOLUME QUINTO
__________________
Note
1
Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, lib. I. Edizione di
Milano 1850, vol. I, pag. 320.
2
Disc. Lib II, pref.
3
Id. ibid.
4
Id., lib. I, cap. I.
5
Id., ibid., cap. IV.
6
Prov 16, 14; Is 60, 12
7
Disc., lib. II, cap. III.
8
Il capitolo in cui Machiavelli esibisce il primo suo mezzo
d'ingrandimento reca quest'epigrafe, che rivela tutto il pensiero del
maestro:
Crescit
interea Roma Albae ruinis.
9
Disc., lib. I, cap. XIII.
10
Disc., lib. III, cap. III.
11
Disc., lib. III, cap. III.
12
Id., ibid., cap. IV.
13
Il Principe,
cap. VIII.
14
Id cap. V
15
Disc. lib. I, cap. XII.
16
Id., ibid. cap. XIV.
17
Id. ibid., cap. XII.
18
Id., ibid.
19
Ciò prova che Machiavelli ha onninamente perduto il sentimento
cristiano. Ecco quello che si guadagna a studiar politica alla scuola
della bella antichità!
20
Disc., lib. I, cap. XII.
21
Il Principe, cap. XXVI.
22
Se il sedicesimo secolo era già propizio per la liberazione
dell'Italia, come volete che Mazzini non trovi il secolo
diciannovesimo ancor più favorevole?
23
Sono queste, come ognuno può ben ricordare, le proprie parole di
Carlo Alberto: L’Italia farà da sé.
24
Esame, p. 1
25
Il Principe, cap. XIV.
26
In altre nostre opere ne abbiamo citato alcuni; altri ancora ne
nomineremo negli ultimi volumi di quest'opera.
27
Esame, c. III.
28
Trad. Di Tacito, Disc. Prelim., p. 135 e seg.
29
Del Principe, cap. XVIII.
30
Id., ibid., p. 285.,
31
«Io non mi voleva partire dagli esempi italiani e freschi; pure non
voglio lasciare, indietro Jerome siracusano ... Costui ... fatto dai
Siracusani capo degli eserciti, conobbe subito quella milizia
mercenaria non essere utile, per essere i condottieri fatti come i
nostri italiani, e parendogli non li poter tenere né lasciare, li
fece tutti tagliare a pezzi». Il Principe, cap, XIII.
32
Esame, p. 19.
33
L'epistolario di Machiavelli coll'ambasciadore fiorentino Vettori
rivela a questo proposito singolari ma tristi particolarità. Si
possono vedere in Matter, p. 104, e nel Machiavelli del signor
Artaud, t. I, p. 245.
34
Doctr. cur. Del P. Garasse, p. 50.
35
Ristampata nelle edizioni di Ginevra, 1583, e di Leida, 1643.
36.
P. 2, 14. - E la santa scrittura e i Padri della Chiesa?
37
P. 22.
38
Id., ibid. - In ciò consiste tutto il sistema moderno delle
maggioranze che, troppo spesso, non è altro che quello della forza
numerica.
39
Veggasi nel primo volume il capitolo del Regicidio.
40
P. 64
41
Id. ibid.
42
Dopo quel che precede, ciò è veramente gustoso!
43
Id. p. 64.
44
Nazione belga, 15-9-1852
45
Veggansi tutti i giornali dal 3 al 14 novembre 1852.
46
Al momento, in cui scriviamo queste parole, un uomo ragguardevole ci
fa, accanto al fuoco, la seguente rivelazione: «Le mie opere
poetiche si riducono a quattro versi. Li composi quand'ero in
collegio in onore di .... LOUVEL! Né crediate ch'io fossi più
democratico d'un altro: No, tutti i miei compagni pensavano come me:
ammiratori di Bruto, eravamo persuasi fosse cosa gloriosa
l'imitarlo».
47
Veggansi la Memorie di Nicéron, art. Bodino.
48
De abditis rerum arcanis colloquium heptaplomeron libris sex
digestum. Dal solo titolo sentesi l’odore del Risorgimento.
49
L'intimità di Bodino con gli ebrei può spiegarsi pel suo amore
della cabala e delle scienze occulte. Il suo Trattato dei
sortilegi è un libro singolare che mostra viepiù che un gran
numero di celebri Risorgenti hanno finito col cadere nella
demonolatria.
50
De Repub., p. 3.
51
Lib. I, c. XVIII.
52
Id., ibid.
53
Id. p. 17.
54
Terrasson, Storia della giurisprudenza, ecc., p. 493.
55
Id., p. 444.
56
Nel concetto di questi naturalisti il diritto cristiano è come non
avvenuto, la sociale autorità della Chiesa non conta nulla. Così
Grozio (il cui libro De jure belli et pacis, è dannato dalla
Chiesa) dopo aver detto che i re sono i pastori del gregge del
Signore, ed anche i pastori supremi, cioè papi, riguarda come strano
il rimprovero falto all'Inghilterra d'aver rimesso nelle mani dei
suoi re e delle sue regine il sovrano potere religioso e sociale: «
Nihil causae fuit cur Anglis quibusdam scriptoribus acerbe
exprobrantur quod spiritualem quamdam potestatem regi tribuissent».
De imperio summ. potestat. circa sacra, c. II, p. 38. E questo
medesimo Grozio nega alla Chiesa cattolica l'infallibilità ed ogni
potere coattivo! Id., ibid., p. 117.
Puffendorfio,
formato alla scuola di Grozio, riduce la religione ad alcune grandi
verità, l'unità di Dio, la Provvidenza, e dice che i principi
possono punire i bestemmiatori, gl'idolatri e i demonolatri; ma
riguardo a tutto il resto, i principi debbono essere indifferenti.
«Le potestà civili, dice egli, non hanno interesse ad impedire che
si usino cerimonie diverse nella religione (si intende bene
quello ch'egli vuol dire); similmente poco importare che coloro i
quali vivono sotto il loro dominio siano divisi in contrarie opinioni
in ordine alle materie fisiche ». Trattato della religione
cristiana riguardo alla vita civile, art. VII.
57
Vit., p. 104.
58
Vit., p. 33.
59
Vit., pag. 45.
60
Id., pag. 62.
61
Reges omnes de genere esse bestiarum rapacium ...
62
Homo homini lupus. Prefazione, p. 1, edizione in-4, 1668.
63
De inv., 1.
64
Peccato! Orazio certamente li avrebbe celebrati coi suoi versi che
noi avremmo imparato a memoria.
65
Serm., lib. I; Sat., lib. III.)
66
Il protestantesimo comparato, ecc. t. III, p. 395, Balmès
avrebbe potuto aggiungere anche Voltaire, il quale discorre così:
«Che la natura umana per una lunga serie di secoli sia stata sepolta
in quello stato che tanto si avvicina a quello degli animali bruti, e
che sotto molti rispetti gli è inferiore, questo non è che
troppo vero». Saggio sui costumi, t. I, p. 255,
67
Lib. I, n. 8, p. 57.
68
De Cive, c. XII, n. 8, p. 86.
69
De Cive, c. XIII, p. 91.
70
Id., lib. XII.
71
Lib. XII, n. 7, p. 86;
lib.
VIII, art. 5; lib. XII, n. 8, p. 86.
72
De cive, c. VI, n. 11, p. 43.
73
De cive, c. VI, n. 11, p. 43.
74
Id., c. XV, n. 16, p. 120.
75
De cive, c. XVII, p. 145; Id., c. XIIII, n. 13, p. 172.
76
Idem, ibi.
77
De cive, c. XV p. 121; c. XVII, p. 159-161.
78
Vit., p. 112.
79
Vit. Grav., .auct. Gotfrid., Mascov., p. XIX; Biblioteca antica e
moderna, di Leclerc, t. IX, art. 6.
80
De ortu et progressu juris civilis,
c. XV. Fra breve faremo l'analisi di quest'opera di Gravina.
81
Vit., p. XIX.
82
Id., ubi supra.
83
Memorie per servire alla vita di Voltaire, p. 107.
84
Pro legibus Arcadum, t. I, p. 129.
85
Pro legibus Arcadum, t. I, p. 129.
86
De restauratione studiorum. Id. ibi, p. 132 - Ciò prova ancor
più che nel medio evo non si studiarono o assai poco gli autori
pagani.
87
De restauratione studiorum, p. 149.
88
De restauratione studiorum, p. 179.
89
Vit., p. XX.
90
De ortu et progressu juris civilis.
91
Id., c. CIV, p. 60 e seg.
92
De ortu et progressu juris civilis, c.
CXLI, p. 78.
93
Epist. lib. II. - Nel tempo stesso il diritto romano si stabilì in
una parte della Germania, presso al diritto sassone. L'Ungheria
resistette. - Terrasson, p. 443.
94
De imperio Romano liber singularis.
95
Biblioteca antica e moderna, t. IX, art. V; Giornale letterario, t.
I, p. 102.
96
Societatem omnium gentium aequa juris ac civitatis communione
contractam, c. II, p. 4.
97
C. II, p. 4.
98
Annot. in c. II.
99
Contra donationis, quae Constantini dicitur, privilegium, ut falso
creditum est et emenitum declamatio.
100
C. XXXIX, p. 44.
101
Idem., p. 54.
102
Orat. de jurisprud. ad suos juris
civilis auditores, id., op. t. II, p.
85 e 86; id., De repetundis fontibus
doctrinar., p. 108.
103
Pater insignem ad deformitatem puerum cito necato. - Leg.
XII Tab.
104
Orat. ad Magn. moschorum reg. - Id., p. 82
105
Id., ibid.
106
Indeque te Trajano meliorem et feliciorem Augusto praedicaremus. -
Id., p. 85.
107
La vista di tante ruine strappa ad uno scrittore moderno le parole
seguenti: «Confesserò, dice il signor di Rémusat, che la società
moderna, e principalmente la società francese, è penetrata dallo
spirito dell'antichità; il fondamento di queste idee le è stato
dato dalla letteratura classica». (De Rémusat, Rivista dei due
mondi, 1855). - «Le nostre idee moderne, soggiunge un altro,
sono il riflesso delle idee della Grecia e di Roma». (Renan, id.
ibid.)
108
Storia della giurisprudenza romana, p. 444.
109
Id. ibid.
110
Studi sulla riforma, p. 90.
111«Alla
morte d'Elisabetta, l'Inghilterra fu in grande pericolo di perdere la
propria costituzione. Lo studio generale degli autori greci e
latini, aveva introdotto un nuovo sistema di diritto politico, e
la diffusione delle cognizioni classiche aveva preparato le
classi superiori della società a nuovi metodi d'amministrazione
- Lord Giovanni Russel, Saggio sulla Costituzione inglese,
1821.
«Se
l'Inghilterra non è oggidì il paese più dispoticamente governato,
ne va debitrice ad un'avventurata incongruenza. Quanto essa ha di
franchigie, lo riconosce dal medio evo; quanto ha di assolutismo le
viene dal Risorgimento pagano. Ecco l'idea che i giuristi pagani di
quel paese danno del regio potere. In un'opera di Blackstone;
Commentarii sopra le leggi dell'Inghilterra, si legge: «Il
re non può mal fare. The King can do no wring ... La legge
attribuisce al re nella sua capacità politica una perfezione
assoluta .... Il re non solo è incapace di mal fare, ma anche di mal
pensare. Non può mai far nulla d'improprio, e in lui non vi ha
né difetto né debolezza .... In giustizia non è mai obbligato a
veruna cosa. ... I giuristi lo chiamano il vicario di Dio sulla
terra, vicarius Dei in terra; Bacone, Deaster qui dalm,
una specie di piccol dio, Pope, rivolgendosi alla regina della Gran
Bretagna, le dice: «Tu, dea, in cui l'isola di Bretagna adora».
Anche oggidì vedesi la regina d'Inghilterra farsi rappresentare
sulle sue monete come la dea dei mari, tenendo un tridente pagano in
mano. - Il. Cattolicismo travestito dai suoi nemici, del
dottor Newman,
112
Discorso, ecc., contro Machiavelli, p. 8.
113
Veggasi l'Ordinanza del re, ecc., anno 1629; e Mably,
Osservazioni sulla storia di Francia, t. VIII, p, 192.
114
Esame del Principe, c. IV.
115
Osservazioni sulla storia di Francia, Id., ibid.
116
Economie regie, t. I, c. XIV.
117
Storia dell’Accademia francese, articolo Dismarets, ecc.
118
Annali politici, t. I, p. 61-63. Edizione 1757.
119
Id., p. 59
120
Lo faremo vedere in uno dei prossimi volumi.
121
Annali politici, t. I, p. 69.
122
Prefazione, p. II.
123
Savaron, Della sovranità del re, p. 1, edizione in-12, 1620.
124
Politica sacra, lib. IV, art. 1 e 2.
125
Mem. ed istruz. pel Delfino, t. II, p. 336, edizione 1816; t.
I, p. 174; t. II, p. 420; t. I, p. 18.
126
Veggasi il testo di questo ordine nel Boll. archeol., ecc., t. II, p.
319.
127
Annali politici, ecc., p. 427.
128
Del libero allodio, c. VII.
129
Mem. ed istruz. pel Delfino, t. II, p. 95 e 121, edizione
dell'anno 1806.
130
De jure, n. VII.
131
Storia universale della Chiesa, t. II, c. XXIV; e Interessi
del Cattolicismo, del conte di Montalembert.
132
Veggasi Lemontey, Monarchia di Luigi XIV, documenti giustificativi,
p. 210; e Storia della Chiesa, t. XXV, p. 356, prima edizione.
133
Lettere di Sobieski, p. 23.
134
Degl'interessi cattolici; ecc.
135
Storia della Chiesa, t. XXV, p. 543.
136
Istruzioni pel Delfino, t. I, p. 66-68.
137
Id., t. II, p. 203.
138
Istruzioni, ecc., p. 5, in-12, Aja, 1700.
139
Storia delle dottrine, ecc., pag. 10 e 109.
140
Chi ha veduto?
141
Memorie del clero, ecc., t. I, p. 236, edizione in-4.
142
Memorie del clero, t. I, p. 578.
143
Pag. 26 e seg.
144
Annali politici, p. 21.
145
Anche quelli di Bossuet!
146
Decreti dei parlamenti, 1682, 1633; 1514, 1558, 1545, 1557, 1595,
1614, 1496, 1531, 1542, 1547, 1548, 1559, 1556, 1590, 1603, 1611,
1668, ecc. Veggansi anche Tournet, Louet, Papon, Augeard, ecc. ecc. E
poiché il Cesarismo è sempre il medesimo, il Piemonte rinnova ora
la stessa giurisprudenza. - Veggasi la circolare ministeriale del 9
giugno 1856.
147
Veggasi Memorie del clero, e Storia della Chiesa, t.
XXV, p. 212
148
Un sentimento pagano entrava a far parte dell’idea che la Francia
si faceva dell'autorità regia di Luigi XIV: Non è più la monarchia
cristiana protettrice del diritto, e sottomessavi essa medesima, ma è
la monarchia divenuta superiore a tutto, e regolatrice di tutto per
la sovrana sua volontà. Ci sembra di assai cattivo gusto il vedere
Luigi XIV rappresentato da imperatore romano: ora l'anacronismo non è
forse che apparente. I nostri re si fondano sulla dottrina pagana: i
giuristi fabbricano loro titoli. È impossibile il qualificare in
altro modo le alterazioni a cui contorsero i precedenti storici
all'uopo della loro tesi. Nulla non è meno provato dell'usurpazione
dei signori sull’autorilà reale: la quale usurpatione, a della dei
difensori del regio potere, avrebbe trasformato tutto il medio evo in
una lunga anarchia. Oimè! la monarchia della casa di Borbone non ha
vissuto che 150 anni! Sembra dunque che la pompa esteriore e la
regolarità apparente della monarchia assoluta nascondano più di
debolezza reale della monarchia feudale.
149
Memorie del clero, t. IV; p. 455; in-4.
150
Collez. dei processi verbali, ecc., t. V, p. 562.
151
Bossuet, t. VII, p. 199, 208, edizione di Versaglia.
152
Storia universale della Chiesa, t. XXVI, p. 216.
153
Della Chiesa gallicana, p. 294.
154
Storia di Bossuet, lib. IV, p. 203.
155
Nuovi opuscoli, p. 171, 173, 182.
156
Lettera di Bossuet, 1702; Opere; t. VII, p. 416-419.
157
Eccetto nel paganesimo
158
Storia della rivoluzione francese, p. 252.
159
Monitore, 3 dicembre 1792.
160
Difesa della storia delle variazioni, n. 35.
161
Id., t. XXII, p. 586.
162
«Il potere intermedio subordinato più naturale, dice
Montesquieu, è quello della nobiltà. Essa fa parte in certo modo
dell'essenza della monarchia, la cui massima fondamentale è: Non
monarca, non nobiltà; non nobiltà, non monarca, ma si ha un
despota. Abolite in una monarchia le prerogative dei signori, del
clero, della nobiltà, delle città, avrete ben presto uno stato
popolare, oppure uno stato dispotico». - Spirito delle leggi,
lib. II, c. IV.
163«In
tutte le memorie dettate, scritte o rivedute da Luigi XIV, non gli
accade mai di citare alcune autorità del passato, di qualunque
natura esso sia. Tutto nella nuova monarchia testifica che il re era
stato un novatore, ed avrei detto più giustamente un
rivoluzionario, senza la significazione troppo speciale che ha
ricevuto questa parola nei tempi in cui viviamo. Questa monarchia fu
pura ed assoluta; essa posò tutta nell'autorità regia, e questa nel
re. Il re si confuse con la Divinità, ed ebbe diritto
com'essa ad una cieca obbedienza». Monarchia di Luigi XIV, pag. 11 e
12. - Opporre l'antico reggimento alla rivoluzione è un
equivoco. Il reggimento nato dal Risorgimento e svolto da Luigi XIV e
Luigi XIV non è l'antico, ma il moderno.
164
Fabry, Genio della rivoluzione, ecc. t. I, p. 305.
165
Veggasi Danjou, Del paganesimo nella società, p. 52.
166
Giovanni Nicola di Honthéim, vescovo di Miriofite in partibus,
suffraganeo dell'arcivescovo di Treveri, e conosciuto sotto il
pseudonimo di Febronio, il cui libro è ancora il manuale dei
giuseppisti di Alemagna.
167
Veggasi fra le altre, le Opere di d’Aguesseau, di Dumoulin,
ecc. ecc.
168
Di Broglio nella Rivista dei due mondi.
169
Del parlamentarismo, p. 10.
170
Veggasi fra gli altri l’Armonia, 5 novembre.
171
Nel 1856 il governo prussiano si esprime così:
Un
certo numero di traduzioni teatrali frivole, oscene, d’origine
francese, sono state trapiantate sui teatri tedeschi, mediante
un’imitazione più o meno fedele. Queste produzioni in cui si mette
in scena il dissolvimento dei principii della vita coniugale e della
famiglia, quei costumi leggeri, quelle pericolose descrizioni non
possono che rendere ottuso il senso morale e pervertirlo, ecc. ». –
Rescritto del 23 ottobre 1856.
172
Matter, Storia delle dottrine morali e politiche degli ultimi tre
secoli, t. I.
173
Id. ibid.
174
Opp. Luth., t. II; Coll.
mens., p. 81.
175
Gustavo Pfizer, Vita di Lutero.
176
Melanchton, Vit. Luth.,
Opp. Luth.,
t. II, praefat.
177
Melanchthon, ubi supra. 178 Mss. bib. Jenae, 17 dic.,
Spalatino, et Seckendorf, l. c., p. 121.
179
Storia della Chiesa, t. XXIII, p. 13.
180
Walch., t. I, p. 79; Cuchlaeus, In act.
Luth., fol. 2; Melanchthon, Vit.
Luth., p. 6, ecc.
181
Tisch-Reden, p. 352.
182
Veggasi Audino, Vita di Lutero, t. I, p. 57.
183
Erasm., Epist., ep. XCIX, lib. 31, ecc.
184
Veggasi Tisch-Reden, p. 159.
185
Pfizer, Vita di Lutero.
186
Audin, Id., t. I, p. 32
187
Ranke, Storia del papato nel secolo XVI.
188
Audin, Vita di Lutero, t. I, p. 33
189
Pfizer, Vita di Lutero.
190
Walch., t. I, p. 4-5; Lutero, Ep., t. I, p. 10.
191
Walch., t. I, p. 15
192
Il complimento è lusinghiero per la Germania; se non che è più che
irrepugnabile.
193
Audin ne omette e dei migliori.
194
Audin, Vita di Lutero, introduzione, p. XXIII e seg.
195
Dopo quanto procede, ciò è troppo assoluto; i papi non
abbracciarono mai la filosofia di Platone in ciò che essa ha di
erroneo.
196
Audin, Vita di Lutero, introduzione, p. XXI.
197
Id. ibid., p. XXIII.
198
Hist, phil.
Period. III, pars 1, lib. III, c. 1, p. 79, in-4.
199
Hist. phil., pars I, lib.III, c. I, p. 70.
200
Hist. phil., pars I, lib. III, c. I, p. 87.
201
Brucker, p. 81.
202
Credevo che fosse il cristianesimo quello che libera le anime!
Veritas liberavit vos.
203
Audin, Vita di Lutero, introduzione, p. XXVII.
204
Id., ibid., p. XXIX.
205
Ecco il giudizio che un autore protestante reca di questo fatto
strano: «Precedentemente, dice Ranke, la religione contribuiva
quanto l'arte ad ispirare le opere dei pittori e degli statuarii: Ma
subito che l'arte è stata toccata dal soffio nell’antichità, essa
si è liberata dai vincoli della religione … Non era forse un
sintomo significantissimo il vedere persino un papa, Giulio II,
intraprendere la demolizione dell'antica basilica di San Pietro, la
metropoli della cristianità, le cui parti tutte erano santificate,
in cui erano riuniti i monumenti della venerazione di tanti secoli, e
voler sostituirvi un tempio nello stile dell'antichità? …
Molti cardinali protestarono: sembra anche che si fosse manifestata
una disapprovazione ancor più generale. Ma Giulio II non era avvezzo
ad arretrarsi al cospetto dell'opposizione. Procedendo avanti, fece
demolire l'antica chiesa, e pose egli stesso la pietra fondamentale
della nuova». - Storia del papato, t. I, p. 77, ediz. in-8,
1848.
206
Id., pag. 97.
207
Id., ibid.
208
Ep. ad Jodoc., ap. Brucker, pag. 95. Edizione in-4.
209
Brucker, p. 98; Seckendorf, Storia di Lutero, p. 103.
210
Id., ibid., Teissier, Elogi dei dotti, t. I, p. 7.
Brucher, p. 92-93.
211
Ap. Emser.,. Lipsiae 1520.
212
Tisch-Reden, p. 352.
213
Id., p. 370.
214
Id., p. 557-559
215
Veggasi Audin, Vita di Lutero; t. I, pref. II e III.
216
An. 1023. In Vit. Adrian. VI, p. 490, in-4.
217
Eobano Hesso ep. 29 marzo 1525.
218
Alberti Pii, Carporum comitis, ad Erasm. Responsio, p. 70, in-4. Roma
1526.
219
Nicol. Gerbellin, 1-11-1521
220
Menzel, t. I, p. 425.
221
Pfizer, Vita di Lutero, p. 156.
222
Ap. Grelser, Lutero acad. In cap. IX, Isaiae, t.
IV, et in X Genes.
223
Studi sui Riformatori, p. 233.
224
Id., p. 234-236
225
Osvaldo Miconio, Biografia di Zuinglio. - Veggasi anche, Chauffour,
pag. 239.
226
Id. ibid.
227
Leo Juda, prefazione alle note di Zuinglio sul nuovo Testamento.
228
Zuinglio, Opere, t. III, p. 450.
229
E il Vangelo non l'aveva dunque fornito!
230
Opere, p. 244 e seg.
231
Prefazione alle opere di Pindaro, Opere, t. IV, p.160 e seg. - La
Vita di Pindaro e l'analisi delle sue opere ci diranno quello che si
deve pensare del giudizio di Zuinglio.
232
Opere, t. I, p. 198.
233
Id., p. 254.
234
Storia della Chiesa, ecc. – A detta del protestante
Melchiorre Adam, Zuinglio, divenuto re e papa di Zurigo, non ostante
le sue cure, non abbandonò mai lo studio appassionato degli autori
pagani. – Vit. erudit., due volumi in foglio, p. 15, Vit.
Zuingli.
235
Opere, p. 268-69.
236
Lettera del 1590.
237
De Providentia, IV, pag. 86, 90; In Genesim, V, pag. 40.
238
Chauffour, t. II, p. 122.
239
Bullinger, t. I, p. 177.
240
Fidei clara expos. 1556, opp., t. II, p. 559. Tiguri, edizione in
foglio, 1581.
241
Pref. Bullinger, id.
242
Storia delle variazioni, lib. II, p. 31.
Ediz. In-4, 1846.
243
Epist. lib. V, p. 779. Edizione in foglio.
244
Prav. confess, Luth. Hospin., p. 187.
245
T. II, p. 238.
246
Id. p. 260-261
247
Tesi, n. 56. - Supplicatio quorandam evangelistarum ad episcop.
Constantinum, t. I, p. 122. - Sono in numero di dieci e Zuinglio
forma l’undecimo.
248
Exp. Fid. Ad imperat. Carol., 1530.
249
Audin, Vita di Calvino, t. I, p. 11.
250
Beza, ,Id,.p. 15.
251
Id.; ibid., p. 8, ediz. in-12. Ginevra 1567.
252
Bibliot. franc., p. 861.
253
Vita di Calvino, t. I, p. 15
254
Praef. in Senec. ad sanctiss. et sapientis. praesulem Claud.
Hangestium, abbatem Divi Eligii, p. I, ediz. in-12, 1552.
255
Praef, p. 2-3.
256
Vit. Calvin.
257
Calv. Praef. ad Psal.
258
Vita di Calvino, p. 9
259
Id., d. 12.
260
Fr. Balduin, Apol. sec. contr. Calv.
261
Storia della giurisprudenza, p. 419.
262
Vita di Calvino, p. 20.
263
Audin, p. 39.
264
Id., p. 39-41.
265
Florimondo di Roemond, Storia del nascimento dell'eresia di questo
secolo, p. 882.
266
Epist. Lib. VI, p. 637.
267
Prefazione dei Salmi
268
Audin, p. 139.
269
Istit., p. 1196.
270
Galiffe, Lettera a un protestante.
271
Audin, Vita di Lutero, t. I, p. 196.
272
Id., Vita di Calvino, t. I, p. 350.
273
Praedicans Lutheranus est vir uxore magis necessario instructus quam
pane quotidiano. Lorenzo Forer, citato da Weislinger, p. 288.
274
Promptuar. Cathol. pars 32, p. 133.
275
Trattato per convertire, ecc., di Richelieu, lib. II,
cap. X, p. 291, in-fol.
276
Schlusselburg, In theol. Calv., lib. II, p. 72. Ediz. 1692.
277
Joann. Harran, apud
Petr.
Cutzenum.
278
Galiffe, Notizie generali, t. III; p. 15.
279
Commentarii sulla seconda epistola di S. Pietro, cap. II, v. 2;
lib. Su gli scandali, p. 128.
280
Picol, Storia di Ginevra, t. I, p. 266.
281
T. I, p. 274.
282
Audin, t. I, p. 15; poi Processi di Servet, di Gruet, ecc.
ecc.
283
Prima dunque non se ne dava.
284
Fino a quel tempo dunque non s'insegnava.
285
De Philipp. Melanchthonis ortu, totiusque vitae curriculo et morte,
narratio diligens et accurata Joach. Camerarii - Lipsiae, 1562.
In-12, p. 7.
286
Camer., De Philipp. Melanchthonis ortu, ecc., p. 9-10.
287
Camer. id. p. 15.
288
Bruchero, Stor. Filos. p. 269.
289
Id., ibid.
290
Bruchero, Stor. Filos. p. 23.
291
De corrig. adolescent. studiis. Opp., t. XI, p. 18. Ediz. In-4.,
1843.
292
Id., ibi.
293
De corrig. adolescent. studiis. Opp., t.
XI, p. 18.
294
Id., ibid.
295
La Riforma di Doellinger, t. I, p. 470.
296
Cod. Manh., 357; col. Camer. VII, mss. Bibl. monac., n. 175 .
297
Spicker, Bescher der Marienkirche, p. 471. Salig. h. d. a. c. III, p.
31, mss. De Wolfenbuttel; Pfister, Herzog Christoph., c. II, p.
149-150; cod. Manh., 357; col. Camer. VII, mss. Bibl. monac., n. 175
298
Duren, Causae cur scholae philosophica praefecti in academia Rostoch
in disciplina resarcienda laboraverint. Wittembergae, 1556, b.
2 a.
299
Melantone, t. I, Declam. P. 506.
300
Audin; Vita di Lutero, t. II, p. 442.
301
Declam. In Laud. Navae scholae, Nuremberg 1526, Opp. T. XI.
302
Buhle, Storia della filos., t. II, p. 420.
303
Id., ibid., p. 423.
304
De odio sophistices.
305
Hist. phil., p. 103.
306
Hist. phil., p. 104.
307
Natalis Bedae annotat. in Fabr. Stapul. Et in Desid. Erasm, Ediz.
in-4, 1526, pref. p. 1-2.
308
Instrum. copulat. Philipp., landgravii, et Margarit. de Saal.
- Bossuet, Storia delle variazioni, t. I, p. 306.
309
Si citano di lui quattordici sentimenti diversi sulla
giustificazione.
310
Miconio, nato a Lucerna nel 1484, fu educato a Basilea da Erasmo e
Glareano, prese amore per gli studi pagani, si fece protestante e
divenne pastore di Basilea, ove fu sepolto. Morì
nel 1542. - Melch. Adam. P. 108.
311
Apol. alter. ad Claud. Sant. (a Claudio di Sante), versus
finem.
312
De vita et obitu Theod. Bezae, in-4. Ginevra, 1561, p. 8.
313
Calvino, Theolog., lib. I, p. 92-93.
314
Id. p. 9.
315
Theodori Beza Vezelii poemata, 1548. Presso Roberto Stefano.
316
Theodorus Beza, De sua in Candidam et Audebertum benevolentia.
317
Registri del parlamento, Launay. Veggasi Audin, Vita di Calvino, t..
II, p. 328.
318
Fayus, pag. 15.
319
Veggasi Audin, Vita di Calvino, p. 330.
320
Opusc., pag. 799.
321
Dilucid. exposit. opusc. p. 839.
322
Id., p. 858.
323
In Theolog. Calvini,
lib.
1, p. 92.
324
Diz. Art. Beza, n. F
325
Fayus, p. 52.
326
Buble, Storia della filosofia moderna, t. II, p. 423. Edizione
in-8.
327
Id., ibid., p. 3.
328
Id., p. 4.
329
Id., ibid., pag. 5.
330
Veggasi sopra questo risorgente, Fabricio, Bibliot., e Nicéron,
Memorie, ecc, ecc.
331
Weiss, p. 51.
332
Vita di Zuinglio, t. II, p. 13.
333
Risposta a Valentino Compar, I. C., p. 20, 27, 29.
334
Vita di Zuinglio, t. II, p.15. - Fidei ratio ad Carol. Imperat.
Opp., t. IV, p. 15.
335
In quest'opera Camerario lascia intendere che anche ai suoi tempi gli
scolari non avevano altri libri che le scolastiche tabelle usate nel
medio evo. Praecepta vitae puerilis, p. 29, n. VI. Edizione
in-4.
336
P. 104.
337
Eclogae Lipsia 1568.
338
Fabricio, Biblioth., ecc.
339
Niceron, Memorie, ecc.
340
Id. Ibid.
341
Memorie di Niceron, art. Bartio.
342
Direbbesi meglio: fanatico.
343
Novelle della repubblica delle lettere, giugno 1684, p. 355.
344
Baldass. Bonifacio, Stor. Lud., 1656, in-4, lib. IV.
345
p. 202, edizione di Leida.
346
Bull. regim. Apostol.
347
Opere, t. V, p. 50.
348
Artaud. Machiavelli, t. I, p. 245.
349
Matter, Storia delle dottrine morali, t. I, p. 114.
350
Melch. Adam., Vit. erudit., t. I, p. 227.
351
Joan. Ang., Odonus epist.,
29-10-1535, Argentorat. Nicéron, Memorie art., Dolet
352
Leggete la Chiesa
353
Storia della filosofia moderna, 6 vol. in-8. Introduzione, p. 2.
354
idem. p. 4.
355
idem.
356
Storia della filosofia moderna, t. II, p. 403-405.
357
Idem, p. 416.
358
Storia della filosofia moderna, t. II, p. 423.
359
In librum Supplicat Erasmi, in-4, p. 71.
360
Op. cit., p. 71.
361
Op. cit.
362
Loc. cit.
363
Alberti Pii Carporum comitis illustriss., ad Erasm. responsio. In-4,
Romae, 1526, p. 38. - Erasmo stesso ne conveniva: Fons rei malus est,
odium bonarum litterarurn et affectatio tyrannidis - Opp. Luther.,
Jenae, t. I, pag. 314.
364
Op. cit.
365
Op. cit. p. 29.
366
Loc. cit.
367
Op. cit. p. 138.
368
Loc. cit.
369
Op. cit. pag. 139.
370
Loc. cit. - A complemento della dimostrazione della sua tesi il conte
riduce a nulla l'asserzione di Erasmo che attribuiva il
Protestantesimo agli scandali del clero ed all'orgoglio dei teologi.
371
«Modo Robinos, modo erassos, barooros appellitant». Loc. cit. -
Beda in Erasm., praef., p. 1.
372
Historia de vita, moribus, rebus, gestis, studiis, etc. Lutheri;
1622. Edizione in-12, p. 13-14
373
Hamelmann, p. 261.
374
Loc. cit.
375
De Wette t. I, p. 134.
376
Op. cit., p. 141-197.
377
T. I, p. 28.
378
Bayle, art. Budeo.
379
Ludov, Regius in vita Bud.
380
Ad Nieol. Ebrard, ep. 24 dicembre 1525.
381
Notate l'effetto del Risorgimento in Francesco I.
382
Storia del Calvinismo, t. I, p. 3, ediz. In-4, 1686. - Ecco alcune
frasi singolari di Audin sulla propagazione del Risorgimento
in Francia e sopra Francesco I. «Dall'Italia uscì la scintilla
che doveva illuminare il mondo. Lutero, Melantone, Erasmo,
Reuclino hanno camminato a questa luce, l'hanno diretta,
talvolta ingrandita, ma non l'hanno creata .... Francesco I era un
alunno del collegio di Navarra. Egli è re: non temete che dimentichi
le lezioni dei suoi maestri. Vedrete su quali persone cadranno
i favori del monarca. Porcher, vescovo di Parigi, è un'anima poetica
cui Erasmo riguarda come un angelo disceso dal cielo per rianimare
il culto delle lettere. A Porcher verrà conferito un
arcivescovado.- Guglielmo Pélissier vescovo di Magellona, ha
dedicato all’antichità uno di quei culti che non lasciano
all’anima invasata né pace né sonno: a Pélissier verrà data
l'ambasceria di Venezia; a Giacomo Colin, l'ufficio di limosiniere e
di lettore del re; a Colin il quale dice versi all'improvviso in
latino ed in francese, ecc. - Vita di Calvino, t. I, pag.
83-85, ediz. in-8. 383 Dizionario, art. Takiddin. Veggasi
anche Jurieu: Apologia pei riform., pag. 66.
384
Danjou, Del Paganesimo nella società, p 51.
385
Corso di storia della filosofia, tom. I, pago 303 e seg., .
386
Matter, Storia della Chiesa cristiana.
387
Storia della filosofia moderna, tom. II.
388
Lettera al vescovo di Sion.
389
Cioè: della lotta incessante del bene e del male.
390
Michiels, nella Rivista contemporanea, gennaio 1853, p. 632.
391
Giornale dei Dibattimenti, 25 aprile 1852.
392
Memorie pel Seminario protestante di Strasburgo, p. 41, 1855.
393«I
nostri antichi padri, dice San Francesco di Sales, hanno chiamato le
virtù pagane virtù e non virtù ad un tempo: virtù perché ne
hanno il bagliore e l'apparenza; non virtù, perché non solamente
esse non hanno avuto quel calore vitale dell'amor di Dio che solo
potevale perfezionare, ma non ne erano suscettive, perché erano in
soggetti infedeli. Le virtù dei pagani furono così imperfette che
in verità si possono paragonare a quelle lucciole che non
risplendono che di notte, e, venuto il giorno, perdono ogni loro
splendore; poiché cotali virtù pagane non sono virtù che in
confronto dei vizi: ma l'n confronto delle virtù dei veri cristiani
non meritano punto il nome di virtù». - Trattato dell'amor di
Dio, lib. XI, cap. X.
394
Tempora hujus ignurantiae despiciens Deus. - Act. Apost. XVII.
395
Veggasi non solo la decisione di Lutero e di Melantone, che autorizza
la bigamia del langravio d'Assia, ma anche i dialoghi d'Ochino, De
polygamia, dial. XXI; poscia il sermone di Lutero, De
Matrimonio; ed il suo libro De statu conjugali. -
Ulemberg, p. 163; e finalmente la supplica di Zuinglio al vescovo di
Costanza, ecc.
396
È vero che il paganesimo antico ammetteva più divinità, mentre il
Protestantesimo riconosce l'unità di Dio, la Trinità, la Divinità
di Gesù Cristo. In questo fatto non deesi vedere un'obbiezione ma
una diversa applicazione del principio medesimo. In virtù del libero
pensare gli antichi pagani ammettevano la pluralità degli Dei; e
similmente in virtù del libero pensare i protestanti non ne
riconoscono che uno solo; in ciò essi non obbediscono logicamente né
alla Chiesa né alla tradizione, né alla Biblia, ma alla loro
ragione. La prova è che essi hanno negato molte altre verità
insegnate dalla Chiesa, dalla tradizione e dalla Biblia.
397
Hospin, 2° parte, p. 25; Bossuet, Storia delle variazioni,
lib. II, p. 35, ediz. in-4.
398
Conferenze di Lutero col diavolo narrate da lui stesso, edizione
del 1684, in-12. Vedi Audin, Vita di Lutero, tom. I, pag. 558;
Ulenberg, p. 466.
399
Audin, op. cit., p. 372.
400
Michelet, Memorie di Lutero, tomo II. p. 186; Rohrbacher, tom.
XXIII, Ulemberg, p. 126-136; Cocleo, Tilman, ecc.
401
Michelet, op. cit.. tom. XXII, p. 9.
402
Audin, Vita di Calvino, tomo II, p. 128.
403
Vit. Luther, p. 143, 484.
404
Abbiamo veduto che quest'asserzione non è esatta.
405
Giornale dei dibattimenti, 25 aprile 1832.
406
Id. ibid.
407
Ne parleremo in modo particolareggiato in uno dei volumi seguenti.
408
Brantòme, Dame galanti, discorso I, p. 26-28.
409
Id., ibid., p. 35.
410
id. discorso VII, p. 341.
411
Id., discorso II, p. 163.
412
Flechier, Memorie sui grandi giorni di Clermont.
413
Storia dello stato di Francia, sì della repubblica, come della
religione, sotto il regno di Francesco II, p. 7. Edizione in-8, 1586.
414
Brantòme, Dame galanti, discorso VII, p. 36.
415
Biografia, art. Regnard.
416
Della repubblica, t. I, pref.
417
La duchessa di Valentinois.
418
Storia di Francia, anno 1559.
419
Quello cioè di Caterina de’ Medici, regina del Risorgimento.
420
Mézeray. Storia di Francia.
421
Id., p. 62.
422
Tuan, Hist., lib. XXII, anno 1559.
423
id., p. 62.
424
Id., p. 110.
425
Secolo di Luigi XIV, t. II, p. 162.
426
Si possono, fra l'altre, consultare le Memorie di Saint-Simon
e la Corrispondenza della principessa Palatina.
427
Storia di Francia, p, 156.
428
Discorso sui mezzi di ben governare, p. 205, Ediz. del 1576.
429
Ragionamento del modo di conservare lo Stato e la libertà, p.
21.
430
Ragionamento, ecc,. p. 29.
431
Il libero pensare.
432
I letterati.
433
P. 102-413.
434
Nato a Boulogue nel 1731, morto a Parigi nel 1803: professore di
belle lettere; traduttore di parecchie opere di Platone, ed autore
esso pure di opere stimate.
435
Confessioni, lib. I, cap. XVI.
436
Senza eccettuare quelli dei gesuiti, come abbiamo veduto dal loro
programma officiale. - E ci si rimprovera come una temerità d'aver
detto il primo che la educazione classica rendeva pagana la gioventù!
437
Grou, Morale di Sant'Agostino.
438
Id., ibid, t. I, ediz. 1786. - Il dire che tutto fu pagano nei tre
ultimi secoli, sarebbe ingiusto; ma si noti che fra le donne, e
principalmente nel popolo di quelle età, si trovano le credenze e i
costumi cristiani, cioè in quelle parti della società che
soggiacquero meno alle influenze dell'educazione classica.
439
Veggansi nel primo volume di quest’opera.
440
Estratto d'una lettera di Pietro di Blois, citata da Hurter. –
Quadro dei costumi della Chiesa nel medio evo, t. I, p. 436.
441
La scienza ecclesiastica sufficiente a sé stessa senza il soccorso
delle scienze profane, di Carrel, prete, dottore in teologia,
pag. 31-33. - Lione, 1700, Edizione in-12.
442
O rem dignam vigiliis et lucubrationibus episcoporum! Epist.
ad Diòs. Id., pag. 35-38.
443
Lact., lib. VI, c. I
**********************************************************
Mons. gaume: la Rivoluzione
Descrizione:
La rivoluzione: ricerche storiche sopra l'origine e la propagazione del male in Europa
L'opera, tradotta per la prima volta in italiano nel 1856, non è soltanto una storia della Rivoluzione, e tantomeno una storia della sola Rivoluzione Francese, ma piuttosto una storia della genesi della plurisecolare secolarizzazione d'Europa.
L'autore infatti, osservando gli accadimenti dei suoi giorni, dedicò anni a studiarne le cause e, camminando per una via nuova e diversa da quella di quanti si occuparono del processo di scristianizzazione, giunse a proporre una radice primaria e unica del male che ancora oggi ci colpisce.
Recuperata e offerta grazie alla collaborazione del Dott. MdG e alla disponibilità dell'Università di Pavia, vengono qui proposti i primi 3 volumi in formato PDF fotografico, mentre gli ultimi tre sono frutto della consueta laboriosità dei cooperatori di totustuus.it
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Aggiunto il: 26-dic-2011 Downloads: 1287 Giudizio: 10.0 (5 Voti)
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Categoria: Libri da scaricare/Teologia della storia

Descrizione:

L'opera, tradotta per la prima volta in italiano nel 1856, non è soltanto una storia della Rivoluzione, e tantomeno una storia della sola Rivoluzione Francese, ma piuttosto una storia della genesi della plurisecolare secolarizzazione d'Europa.
L'autore infatti, osservando gli accadimenti dei suoi giorni, dedicò anni a studiarne le cause e, camminando per una via nuova e diversa da quella di quanti si occuparono del processo di scristianizzazione, giunse a proporre una radice primaria e unica del male che ancora oggi ci colpisce.
Recuperata e offerta grazie alla collaborazione del Dott. MdG e alla disponibilità dell'Università di Pavia, vengono qui proposti i primi 3 volumi in formato PDF fotografico, mentre gli ultimi tre sono frutto della consueta laboriosità dei cooperatori di totustuus.it
attenzione: il file .zip occupa 74 megabytes
Versione: 1.0 Dimensione File: 70.54 MB
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