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giovedì 18 ottobre 2012

LA RIVOLUZIONE di Monsignor Gaume - vol 5




LA RIVOLUZIONE

ricerche storiche

sopra l'origine e la propagazione del male in Europa



di Monsignor Gaume



VOLUME QUINTO



Traduzione italiana di Gaetano Buttafuoco



MILANO

Tipografia Pirotta e C.

1857



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INDICE DELLE MATERIE



PARTE SESTA

(Continuazione)





CAPITOLO XI.

DOTTRINE DI MACCHIAVELLI.



Sue due principali opere: I Discorsi su Tito Livio; il Principe.- Professione di fede politica di Machiavelli. - Nel riguardo politico L'Europa è barbara.- L'abbandono dell'antichità ne è causa. – L’educazione, cagione di quest'abbandono. - Necessità e possibilità per l'Europa d'imitare i Greci e i Romani - Machiavelli si dà pel ristauratore della loro politica. - Loro e suoi principii sull'origine delle società. - Sulla miglior forma di governo. - Sui mezzi di conservare e di ampliare gli Stati.



CAPITOLO XII.

DOTTRINE DI MACCHIAVELLI (Continuazione).



Nuovi mezzi di tranquillità e d'ingrandimento: l'uccisione del re, l'assassinio delle nazioni, la schiavitù della potestà spirituale. - Machiavelli applica all'Italia i principii generali della sua politica cesariana. - Apre la via ai protestanti ed ai rivoluzionari. - Fa il programma di Lutero, di Mazzini e di Carlo Alberto. - Tutti i sogni attuali dei demagoghi italiani sono suoi.



CAPITOLO XIII.

DOTTRINE DI MACCHIAVELLI (Continuazione e fine).


Il libro del Principe.- Machiavelli insegna ai re a praticare la sua politica.- Il primo mezzo che consiglia è di togliere a modelli alcuni eroi dell'antichità e principalmente i Romani. - Detto di Federico. - Ritratto morale dei Romani, carattere della loro politica. - Crudeltà e fraude. - Il secondo mezzo è di essere lione e volpe - Il dispotismo è lo scopo da raggiungere. - Conclusione. - La politica di Machiavelli e il Cesarismo antico.


CAPITOLO XIV.

BUCANANO.



La politica di Machiavelli si propaga in Europa. -Bucanano. - Sua biografia. - Sua opera De jure regni. - Sue idee interamente classiche sull'origine delle società. - Stato di natura. - Contratto sociale.- Scopo materialista della società. - La religione stromento di regno. - Il popolo giudice dei casi di coscienza sociali. –Dottrine del regicidio. - Conseguenza necessaria della politica pagana fedelmente conservata. - Insegnata dai Mazziniani



CAPITOLO XV.

BODINO.



Duplice carattere della politica dell'antichità: sovranità del popolo e sovranità del principe, anarchia e dispotismo. - Gli stessi caratteri e gli stessi risultamenti nella politica moderna. - Bodino. - Sua storia.- Risorgente e libero pensatore. - Suoi scritti. - Dialoghi sulla religione. ­ Trattato della repubblica. - Precursore dello Spirito delle leggi. - Bodino s'ispira costantemente all'antichità.- Chiede pei coniugi il ristabilimento del ripudio facoltativo.- Pei padri il diritto di vita e di morte sui figli. - Influenza di Bodino. - Edizioni delle sue opere. - Altri professori cesariani. Scuola dei naturalisti



CAPITOLO XVI.

HOBBES.



Sua vita. - Il Risorgimento ne fa un giurista cesariano.-- Suo Leviathan. - Analisi di quest'opera. - Il trattato del cittadino, De cive, copiato negli autori classici. - Parole di Cicerone e d'Orazio.-Avvertenza di Balmès.- Dottrina politica di Hobbes. - Lo stato di natura.- Il contratto sociale. - Scopo della società, il benessere materiale.- Missione del potere è il procurarlo - Mezzi di procurarlo.- L'onnipotenza del principe o dello Stato. - Nell'ordine temporale. - Nell'ordine spirituale. - Potestà di regolare il culto, di far la morale, di definir la dottrina. - Il Cesarismo risorto. - Hobbes pagano sino alla morte.



CAPITOLO XVII.

GRAVINA



Riassume il Cesarismo. -Classico fin dalla giovinezza. - Muta il suo nome di battesimo e quello del suo villaggio. - Compone tragedie pagane. - Fonda l'accademia degli Arcadi.- Linguaggio usato in quell'accademia. - Gravina, si propone di ricondurre il mondo allo stato di natura. ­ Coi suoi soci abbraccia la vita pastorale. - Leggi che dà agli Arcadi. - Redatte con lo stile delle dodici Tavole. -Esorta costantemente al culto dell'antichità. -Richiamo contro il Risorgimento e gli studi pagani. - Cattiva risposta di Gravina.


CAPITOLO XVIII.

GRAVINA (Continuazione e fine).



Sua opera dell'origine e del progresso del diritto civile. - Suo sistema sociale e politico copiato in Dante. - Entusiasmo di Gravina pel diritto romano. - Suo libro dell'impero romano. - Panegirico del Cesarismo e della monarchia universale, anima della rivoluzione e del socialismo. ­ Gravina domanda l'impero universale dell’uomo. - Vuole che la sede ne sia in Roma. - Eccita ad entusiasmo i giovani Romani pei loro antenati. - Per le loro leggi sante e pie. - Desidera che il diritto romano ritorni ad essere la legge del mondo intero. - Sua Orazione a Pietro il Grande. - Sua morte.


CAPITOLO XIX.

IL CESARISMO IN PRATICA.



I re si fanno papi. - Abbattimento della politica cristiana. - Ordine di studiare da per tutto il diritto romano. - Esso supplanta il diritto consuetudinario ed il diritto canonico. - Viene imposto alle popolazioni. - Quello che né risulta. - Politica interna. - Politica generale. - Politica riguardo alla Chiesa. - Richelieu e Mazarino.


CAPITOLO XX.

IL CESARISMO IN PRATICA (Continuazione e fine).



Parole di Savaron e di Bossuet. - Applicazione del Cesarismo alla proprietà. - Parole di Luigi XIV. - Politica esterna. - Materialismo del diritto. - Alleanze adultere. -Iniquità. - Politica riguardo alla Chiesa. - Far senza la Chiesa, disprezzarne la voce. - Usurparne i diritti. ­ Decreti dei parlamenti. - Sviluppo completo del Cesarismo nei paesi protestanti; manifestazione in Francia e nei paesi cattolici.



CAPITOLO XXI.

CONSACRAZIONE DEL CESARISMO



Dichiarazione del 1682.- Essa comprende quattro tradimenti. - Odiosa in sé stessa. - Più odiosa in ragione dei tempi in cui fu fatta. - Affari di Pamiers e d'Aleth. - I gesuiti di Parigi. - Il parlamento di Tolosa. - Debolezza dei vescovi. - Loro lettera al papa. - Compilazione dei quattro articoli. - Uso che fa Luigi XIV del diritto Cesariano di cui viene investito. - Lagnanze di Fleury.-Doglianze di Bossuet. - Conseguenze politiche della dichiarazione del 1682. - Opinioni di tre teologi laici, del signor di Maistre, di Luigi Blanc, di Robespierre. - Caratteri della politica dopo quel tempo. - Abusi preparatori della rivoluzione. - Parole di Fénelon. - Perché la rivoluzione invece di essere cristiana e salutare, è stata pagana e disastrosa. -Conclusione.


PARTE SETTIMA

Proemio



CAPITOLO I.



Stato della questione. - Duplice carattere dell'empietà Volteriana.

Deriva essa dal Protestantesimo? - Nell'ordine sociale? - Nell'ordine religioso? – Autorità che invoca. – Mezzi che impiega.- Paesi che devasta. - Scopo che si propone. - Donde è venuto il Protestantesimo?



CAPITOLO II.

LUTERO.



Il libero pensare, anima del Protestantesimo. - Origine del libero pensare, il Risorgimento. - Prove: vite, scritti, atti dei riformatori. -Testimonianze della storia. - Caratteri del Protestantesimo. - Vita di Lutero. ­ Suoi primi anni. - Studia ad Eisenach e s'invaghisce dell'antichità pagana. - Studia ad Erfurth - Parole decisive di Melantone. - Atto più decisivo di Lutero. - Con chi entra in convento. - È ordinato prete. - Insegna a Vittemberga. - Va a Roma. - Sue impressioni.



CAPITOLO III.

LUTERO (Continuazione).



Lutero ricevuto dottore in teologia. - Manolesta tutto il suo disprezzo pel medio evo. - Suoi sermoni. - Sue tesi. - Origine e cagione della sua antipatia. - Parole del signor Audin. - Influenza del Risorgimento sulla Riforma. - Nuova testimonianza del signor Audin.- Disposizioni generali degli animi, specialmente in Alemagna. - Lettera del canonico Adalberto.




CAPITOLO IV.

LUTERO (Continuazione e fine).



Il Protestantesimo prima di Lutero. - Disprezzo del medio evo. - Entusiasmo per l'antichità pagana.- Querela delle indulgenze. - Essa non è la cagione del Protestantesimo. - Lutero assalisce l’autorità della Chiesa. - Parole notevoli di Bruchero – Lutero sempre simile a se stesso, e sino alla morte quale lo ha fatto l’educazione. - Ei non è altro che un Risorgente.


CAPITOLO V.

ZUINGLIO.



Progressi del libero pensare. - Nascita di Zuinglio.- Sua educazione. - Essa produce in lui gli stessi effetti che in Lutero. - Zuinglio studia a Berna e s'invaghisce degli autori pagani. - Si reca all'università di Vienna. - Raffronto fra lui e Lutero. - Che è Zuinglio, compita l'educazione; anima vuota di cristianesimo ed ebbra di paganesimo. - È ordinato prete e nominato parroco di Glarona. - Nuovo raffronto con Lutero. - Occupazioni di Zuinglio nella sua parrocchia. - Studio degli autori pagani. - Loro influenza. - Influenza d'Erasmo. - Nuovo raffronto con Lutero.


CAPITOLO VI.

ZUINGLIO.

(Continuazione).



Raffronti fra lui e Lutero.-Viaggio d'Italia, impressioni. - Zuinglio studia la Scrittura, come Lutero, sotto l'ispirazione del libero pensare. - Sue dottrine. - Come Lutero ingiuria i suoi contraddittori. - Invoca gli autori pagani. - Sua professione di fede, ultimo limite del libero pensare. - Paradiso di Zuinglio, panteon dei pagani. - Come Lutero, emancipa la carne. - Applica il principio pagano all'ordine sociale. - La guerra. - Morte di Zuinglio.



CAPITOLO VII.

CALVINO.


Libero pensatore come Lutero e Zuinglio.- Nascita e prima educazione di Calvino. - Centro in cui si trova a Parigi. - Suoi primi studi nel collegio della Marche. - Come Lutero ad Eisenach, Zuinglio a Basilea, Calvino s'invaghisce degli autori pagani. - Il suo maestro Maturino Cordier. - Calvino commenta Seneca. - Studia diritto ad Orléans, e il Bourges sotto due famosi Risorgenti. - Notizia sopra Alciati. - Come Lutero ad Erfurth e Zuinglio a Glarona, Calvino si dà al culto delle muse. - Com'essi studia la Scrittura e la teologia. - Lascia Bourges.



CAPITOLO VIII.

CALVINO (Continuazione e fine).



Disprezzo pel Cristianesimo. - Ammirazione pel Paganesimo. - Lettera di Ficino.- Calvino a Parigi. - Ei dommatizza in virtù del libero pensare come Lutero e Zuinglio. - Suo linguaggio classico. - Restaurazione del Paganesimo sotto il duplice aspetto dello spirito e della carne. - Dispotismo razionalistico di Calvino. - Egli deifica la carne. - Applica il Paganesimo all'ordine sociale.- Governo di Ginevra. - Morte di Calvino. - Conclusione.



CAPITOLO IX.

MELANTONE



Il Protestantesimo figlio del Risorgimento. - Melantone. -Sua educazione. -S'invaghisce dell'antichità pagana. - Il suo maestro gl'insegna il greco di nascosto. - Reuclino gli dà un dizionario. - Melantone fa una commedia di tredici anni. - Riceve il battesimo alla greca. - Lascia il ginnasio per l'università. - Fa quel che fecero Lutero, Zuinglio, Calvino. - A Tubinga s'inebria ed inebria gli altri della bella antichità.- È professore a Vittemberga. - Suo discorso inaugurale. - Due idee. ­ Disprezzo del passato cristiano, ammirazione dell'antichità pagana. - Effetti di quest'insegnamento.


CAPITOLO X.

MELANTONE (Continuazione e fine).



Melantone diventa protestante. - Prepara reclute a Lutero, innamorando la gioventù dell'antichità pagana. - Sua ammirazione pel Risorgimento. ­ Elogio di Firenze. - Le belle lettere ausiliari del Protestantesimo. - Parole notevoli. - Passo di Bruchero. - Opera di Sadoleto. - Lettera del Bembo. - Riflessioni.-Disprezzo del medio evo. - Fine di protestare opposto alle condanne delle università cattoliche. Preziosa testimonianza di Beda. - Come Lutero, Zuinglio, Calvino, Melantone deifica la carne. - Bigamia del langravio d'Assia. - Morte di Melantone.



CAPITOLO XI.

TEODORO BEZA.



I capi del Protestantesimo sono Risorgenti.- Detto di Melantone. - Nascita e prima educazione di Teodoro Beza. - S'invaghisce degli autori pagani. - Culto della carne. - Come Lutero, Zuinglio, Calvino, Melantone reca questa passione all'università. - Invece di studiar diritto, coltiva le Muse. - Facilità con cui diventa protestante. -Pubblica le sue poesie. - È costretto a fuggire. - Si ritira a Ginevra. - Calvino lo manda ad insegnare il greco a Losanna. - Vi semina il libero pensare. - Ritorna a Ginevra. - È fatto ministro del santo Vangelo. - Sua polemica simile a quella dei Risorgenti e degli autori pagani. - Applica il Paganesimo all'ordine sociale. - Muore come ha vissuto. - Pagano, è celebrato da poeti pagani.



CAPITOLO XII.

PROPAGAZIONE DEL PROTESTANTESIMO



Detto di Erasmo. - Propagare lo studio dell'antichità pagana per giungere al libero pensare: parola d'ordine data dai capi del Protestantesimo. ­ Ben compresa e bene osservata. - Ermanno Buschio, apostolo del Risorgimento. - Percorre la Germania predicando Omero e Virgilio. - Camerario predica pei ginnasi e per le università. Sua vita. - Se i protestanti furono nemici delle arti. - Parole di Zuinglio. - Opere di Camerario. - Trattato di pedagogia. - Trattato di morale pagana. - Composizioni poetiche di Camerario.


CAPITOLO XIII.

PROPAGAZIONE DEL PROTESTANTESIMO (Continuazione).



Eobano Hessus. - Sua vita, sue opere. - Gio. Caio in Inghilterra. Ardore pel Risorgimento. - Il vescovo di Winchester. - Francia, Giulio Scaligero. - Sue opere - Parole di Bayle. - Ingiurie dirette dai Risorgenti ai grandi uomini del Cristianesimo. - Lodi date ai pagani. ­ Tratto e detto di Walkenaer. - Le stamperie protestanti. - Edizioni degli autori pagani di Enrico Stefano.- Fedeltà alla parola d'ordine dei capi della Riforma.



CAPITOLO XIV.

PROPAGAZIONE DEL PROTESTANTESIMO (Continuazione e fine).



Riprovazione della filosofia e della poesia del libero pensare.- Leone X, Paolo III. - Il libero pensare conduce al Protestantesimo.- Giustezza della parola d'ordine dei capi della Riforma.- Vermiglio. - Curione. ­ Dudith. - Gilberto di Longueil. - Altri nomi. - Le famiglie Gentilis e Beccaria. - Averrani. - Landi. - Giudizio reso sopra tutta questa progenie di umanisti.


CAPITOLO XV.

TESTIMONIANZE



Il protestantesimo venuto dal Risorgimento. Testimonianza dell'autore protestante Gottlieb Buhle. - Dallo studio dell'antichità è uscito il libero pensare. - Il disprezzo del cristianesimo. - La ribellione contro la Chiesa. - Parola d'ordine dei capi del Protestantesimo. -Testimonianza del dottor Beda. - Disprezzo d'Erasmo e dei Risorgenti pei Padri e pei dottori della Chiesa che non sapevano il greco. - Confutazione. -Testimonianza del conte di Carpi. - Sua lettera ad Erasmo. - Il Risorgimento vera causa del Protestantesimo. - Stato dall'Alemagna prima e dopo il Risorgimento. - Effetti degli studi pagani sugli animi.- Conclusione.


CAPITOLO XVI.

TESTIMONIANZE (Continuazione e fine)



La Sorbona e l'università di Colonia.- Rodolfo di Lange alza in Alemagna lo stendardo del Risorgimento. - Condannato dai teologi di Colonia. ­ Influenza della sua scuola. - Sua morte. - Budeo in Francia. - Opposizione al Risorgimento. - Passaggio di Maimbourg. - Testimonianza di Bayle, - di Cousin, - di Buhle. - di Zuinglio, - d'Alloury - e di Chauffour.



CAPITOLO XVII.

IL PROTESTANTESIMO IN SÉ STESSO



Detto di Erasmo.- Riepilogo.- Origine e natura del paganesimo antico, composto di tre elementi: l'elemento intellettuale o filosofico, ed è il libero pensare; l'elemento morale, ed è l'emancipazione della carne; l’elemento politico, ed è il Cesarismo. - Caduta del paganesimo. - Riscossa del paganesimo. - Apparizione di Lutero.- Il protestantesimo composto degli stessi elementi del paganesimo antico. - Questo è l'opera del demonio in persona. - Intervento personale e sensibile del demonio nella fondazione del Protestantesimo. - Fatti e testimonianze.



CAPITOLO XVIII.

ESAME DI ALCUNE DIFFICOLTÀ



Lutero non era Risorgente. - Risposta: Tutta la sua vita prova il contrario. - Egli ha proscritto le arti. - Distinzione essenziale. - Ha declamato contro gli autori pagani. - Ragione di tali declamazioni; esse nulla provano. - Il Protestantesimo ha avuto altre cause che il Risorgimento. ­ Esame e natura di queste cause; distinzione fondamentale. - Il Protestantesimo avrebbe avuto luogo senza il Risorgimento. - Esame di questa questione. - Risposta. - Il Risorgimento non ha prodotto da per tutto il Protestantesimo. - Ragione di questo fatto. - Ha prodotto il libero pensare. - Fenomeno notevole. - Soggetto del volume seguente,




CAPITOLO XIX.

ESAME DI ALCUNE DIFFICOLTÀ (Continuazione).



L’insegnamento classico e le generazioni letterate del sedicesimo e diciassettesimo secolo. - Le generazioni veramente cristiane sono le generazioni che credono e che praticano. - Esame dei costumi delle nazioni letterate dei secoli XVI e XVII. - La loro fede sarà esaminata altrove. ­ Loro arti. - Loro conviti. - Storia riferita da Brantòme. - Loro sale. - Loro giardini. - Loro teatri domestici. - Loro lettere. - Loro teatri pubblici.- Risultamenti morali. - Costumi delle corti. - Costumi delle alte classi. - Testimonianze di Laplanche, di Bodino, di Mézeray, di Brantòme. - Del presidente di Thou. - Di Voltaire. - Di Mezeray - Di Gentillet.



CAPITOLO XX.

ESAME DI ALCUNE DIFFICOLTÀ (Continuazione e fine).



Testimonianza del clero. - Delle congregazioni insegnanti. - I costumi degli ultimi tre secoli dipinti da tre gesuiti. - Pel sestodecimo secolo, dal P. Possevino. - Secondo lui, i costumi delle classi letterate sono pagani. - Pel secolo decimosettimo, dal P. Rapino. - Secondo lui, i costumi delle classi letterate sono pagani. - Pel secolo decimottavo, dal P. Grou. - Secondo lui i costumi delle classi letterate sono pagani. L’obbiezione annichilata.



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IL CESARISMO

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PARTE SESTA

(Continuazione)

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CAPITOLO XI.



DOTTRINE DI MACCHIAVELLI.



Sue due principali opere: I Discorsi su Tito Livio; il Principe.- Professione di fede politica di Machiavelli. - Nel riguardo politico L'Europa è barbara.- L'abbandono dell'antichità ne è causa. – L’educazione, cagione di quest'abbandono. - Necessità e possibilità per l'Europa d'imitare i Greci e i Romani - Machiavelli si dà pel ristauratore della loro politica. - Loro e suoi principii sull'origine delle società. - Sulla miglior forma di governo. - Sui mezzi di conservare e di ampliare gli Stati.



***



Le due principali opere politiche di Machiavelli sono: I discorsi sulle Deche di Tito Livio, divisi in tre libri, che formano ottantotto capitoli, ed il Principe, che contiene ventisei capitoli.

Machiavelli, il cui nome è divenuto sinonimo d'ipocrisia e di dissimulazione, non merita punto questo rimprovero: ché anzi egli è d'una cinica franchezza. Fino dalle prime pagine dei suoi Discorsi sopra Tito Livio, inaugura senza circonlocuzioni la politica pagana.

«Quando io considero, dice egli, quanto onore si attribuisca all’antichità, e come molte volte, lasciando andare molti altri esempi, un frammento di un'antica statua sia stato comprato gran prezzo, per averlo presso di sé, onorarne la sua casa, poterlo fare imitare da coloro che di quell'arte si dilettano, é come quelli poi con ogni industria si sforzano in tutte le loro opere rappresentarlo; e veggendo dall'altro canto le virtuosissime operazioni che le istorie ci mostrano che sono state operate da regni e da repubbliche antiche, da re, capitani, cittadini, dottori di leggi, ed altri che si sono per la loro patria affaticati, essere più presto ammirate che imitate, anzi in tanto da ciascuno in ogni parte fuggite che di quella antica virtù, non ci è rimasto alcun segno; non posso fare che insieme non me ne meravigli e dolga; e tanto più, quanto io veggio nelle differenze che intra i cittadini civilmente nascono, o nelle malattie, nelle quali gli uomini incorrono, essersi sempre ricorso a quelli giudicii o a quelli rimedii che dagli antichi sono stati giudicati o ordinati.

«Perciò le leggi civili non sono altro che sentenze date dagli antichi jureconsulti, le quali ridotte in ordine, ai presenti nostri jureconsulti giudicare insegnano; né ancora la medicina è altro che esperienza fatta dagli antichi medici sopra la quale fondano i medici presenti li loro giudicii. Nondimeno nello ordinare le repubbliche, nel mantenere gli Stati, nel governare i regni, nell'ordinane la milizia ed amministrare la guerra, nel giudicare i sudditi, nello accrescere lo imperio, non si trova né principe, né repubblica, né capitano, né cittadino, che agli esempi degli antichi ricorra. Il che mi persuado che nasca, non tanto dalla debolezza, nella quale la presente educazione ha condotto il mondo, o da quel male che uno ambizioso ozio ha fatto a molte provincie e città cristiane, quanto dal non avere vera cognizione delle istorie, per non trarne, leggendole, quel senso, né gustare di loro quel sapore che le hanno in sé. Donde nasce che infiniti che leggono, pigliano piacere di udire quella varietà degli accidenti che in esse si contengono, senza pensare altrimenti d'imitarle, giudicando la imitazione non solo difficile, ma impossibile; come se il cielo, il sole ,gli elementi, gli uomini fossero variati di moto, di ordine e di potenza da quello ch'egli erano anticamente.

«Volendo pertanto trarre gli uomini di questo errore, ho giudicato necessario scrivere sopra tutti quelli libri di Tito Livio che dalla malignità dei tempi non ci sono stati interrotti, quello che io secondo le antiche e moderne cose, giudicherò esser necessario per maggior intelligenza di essi, acciocché coloro che questi miei discorsi leggeranno, possano trame quella utilità, per la quale si debba ricercare la cognizione della istoria. E benché questa impresa sia difficile, nondimeno, aiutato da coloro che mi hanno ad entrare sotto a questo peso confortato, credo portarlo in modo, che ad un altro resterà breve cammino a condurlo al luogo destinato (1).

Tale è il programma di Machiavelli: importa di ben penetrarne il senso. Ora da questo passo fondamentale risulta quanto segue:

1° Per Machiavelli il cristianesimo è non avvenuto. Gli alunni del Risorgimento suoi confratelli pubblicavano in ogni maniera che l'Europa cristiana non aveva avuto né letteratura, né arti, né filosofia; oppure non aveva avuto che letteratura, arti, filosofia barbare: la sola antichità possedere tutti quei tesori, e ad essa sola doversi domandarli. Ed in tanta onoranza avevano rimesso l'antichità, che si comprava a peso d'oro il più piccolo rottame delle sue opere.

Laonde con ragione diceva Machiavelli: l'Europa insino allora non aver avuto né politica, né virtù, né civiltà: oppure aver avuto politica, virtù e civiltà barbare. La sola classica antichità aver conosciuto la politica e la civiltà, e ad essa doverlesi richiedere. Le istorie delle antiche repubbliche esser piene dei più chiari esempi, delle più sublimi virtù; e niuno, ciò non ostante nel reggimento degli Stati, nel governo della guerra e nella amministrazione della giustizia, aver pensato a prendere a modello i Greci e i Romani. Che dico? se ne ha una specie di timore, di guisa che più non resta fra noi alcun vestigio dell'antica virtù.

Da questa confessione risulta che non ostante i continui suoi tentativi, il Cesarismo non aveva potuto, al tempo del Risorgimento, persuadere ai popoli cristiani d'andare a cercare le regole della loro politica presso i Greci e i Romani; che le pretese virtù dei pagani, il loro modo di governare i popoli, d'amministrare la giustizia, di fare la guerra, di ampliare gli Stati, inspiravano all'Europa tale una ripugnanza che non ne rimaneva più orma.

Quest'oblivione, questo disprezzo della sapienza antica, Machiavelli l'attribuisce, fra le altre cagioni, all'educazione dell'Europa. La confessione è ricisa. Nel medio evo dunque non si studiavano, o molto meno che non si fa dopo il Risorgimento, gli autori pagani, le repubbliche pagane; e soprattutto non si studiavano, come si fa da quattro secoli, con un grande entusiasmo e per farne i modelli della vita pubblica e privata. Siano grazie a Machiavelli d'aver così bene giustificato l'autore del Verme roditore, accusato d'aberrazione e quasi di eresia; per avere segnalato una clamorosa scissura nell'educazione pubblica al tempo del Risorgimento.

Siano grazie ancora a Machiavelli d'aver detto come noi, che il paganesimo sociale ed il paganesimo artistico e letterario è ritornato nel mondo mediante l'educazione. L'educazione lo aveva fatto dimenticare, l'educazione doveva farlo rivivere.

«Non so, dice egli, se io meriterò d'essere numerato tra quelli che s'ingannano, se in questi miei discorsi io lauderò troppo i tempi degli antichi Romani, e biasimerò i nostri. E veramente se la virtù che allora regnava, e il vizio che ora regna non fossero più chiari che il sole, andrei col parlare più rattenuto ... Ma essendo la cosa sì manifesta che ciascuno la vede, sarò animoso di dire manifestamente quello che intenderò di quelli e di questi tempi, acciocché gli animi dei giovani che questi miei scritti leggeranno, possano fuggir questi: e prepararsi ad imitar quelli, qualunque volta la fortuna ne desse loro occasione (2)».

Ecco l'uomo del Risorgimento reso fanatico dalla sua educazione, ed il cieco che si fa guida ad altri ciechi. Seguendo costoro l'Europa è caduta nella fossa.

3° Machiavelli, arrossendo della barbarie dell'Europa, si dichiara il ristauratore della politica dei Greci e dei Romani. In fatto di scienza politica, l'Europa dei papi, di Carlomagno, di San Luigi, di San Ferdinando, è nelle tenebre, è forviata nelle strade dell'errore. Per ritrovare la vera scienza del governo, è necessario indietreggiare quindici secoli. I Greci ed i Romani sono gli splendidi anelli cui si debbono attaccare i secoli moderni. Da questa condizione la civiltà ed il progresso dipendono: grave, immenso è l'incarico; e per tema che non se ne sbigottiscano, Machiavelli toglie di dire alle nazioni cristiane, non essere loro impossibile d'imitare le sublimi virtù dei pagani.

Che mai è stata la rivoluzione francese, se non lo sforzo sovrumano d'una generazione di collegio per innalzar la Francia all'altezza delle virtù di Roma e di Sparta?

Machiavelli offresi come il complemento obbligato del Risorgimento. Voi ammirate l'antichità nelle arti; ma questa non è che una parte, ed anche la meno importante della civiltà antica. Per compiere il movimento rigeneratore devesi far rivivere la politica antica. Se reputasi buona cosa il curare i malati con farmaci venuti dall'antichità, non è egli ragionevole il sottoporre al reggimento sociale degli antichi le nazioni cui il Cristianesimo ha lasciato cadere nella barbarie? (3).

Così hanno ragionato, dopo il Risorgimento, tutti i facitori di rivoluzioni; così ragionano oggi, e così ragioneranno in futuro.

Dopo quest'audace dichiarazione di principii, il nuovo Licurgo entra risolutamente in materia. Per lui l'Europa del secolo XV è come per noi l'Oceania d'oggi. Egli stabilisce in fatto che in materia politica, non sa nulla, e che devesi insegnarle tutto: le fa il catechismo; ed è vano il dire che la sua politica è il contrapposto della politica cristiana.

Gli uomini non sono mai vissuti nello stato selvaggio; la società è un fatto primitivo e divino, in questo senso che l'uomo è stato creato socievole, e che ogni potestà viene da Dio: tale è, secondo il Cristianesimo, l'origine ed il fondamento delle società.

Machiavelli insegna tutto l'opposto: la società non è né un fatto primitivo, né un fatto divino. Scegliendo per oracoli gli autori pagani, prende le mosse dalla favola dello stato selvaggio. Secondo lui, gli uomini, da principio dispersi nei boschi, furono condotti dal desiderio del ben essere, o dal sentimento del timore, a ravvicinarsi e ad unirsi, pel loro comune interesse. Di che il contratto sociale, principio generatore delle società (4).

Questa duplice parola dello stato di natura e del contratto sociale, cantata alla gioventù di collegio dagli autori classici, fedelmente riprodotta da Machiavelli e religiosamente trasmessa dai suoi continuatori, fu, come abbiamo già dimostrato, il gran principio della rivoluzione francese; ed essa sarà l'anima di tutte quelle che la seguiranno; perché essa è, in principio, l'apoteosi sociale dell'uomo.

Senza condannare veruna forma di governo, il Cristianesimo preferisce la monarchia. Tutte le grandi nazioni cristiane sono state monarchiche: ed ha provato l'esperienza che l'autorità di un solo è, tutto ben ragguagliato, una guarentigia più sicura di stabilità, di libertà, e per conseguenza di vero progresso che non un potere spartito.

Per Machiavelli, Roma è il tipo della perfezione sociale e Roma era una repubblica: la sua preferenza è dunque per la forma repubblicana. Con quanta compiacenza ei descrive la beatitudine e i vantaggi del governo popolare! Tanta ne è fa perfezione, che le stesse procelle lo rassodano; che la libertà, commessa a custodia del popolo, rimansi inviolabile come la divinità nel suo santuario; che le medesime colpe del popolo sono assai meno gravi e più facilmente riparabili di quelle dei re. «E se i tumulti, dice egli, furono cagione della creazione dei tribuni, meritano somma laude: perché oltre al dare la parte sua all'amministrazione popolare, furono costituiti per guardia della libertà romana (5). La libertà essere più in sicuro nelle mani del popolo che in quelle dei magnati: la moltitudine essere più saggia e meno mutabile dei principi; le colpe commesse dal popolo più facilmente ripararsi che quelle d'un principe: il popolo essere talmente savio in ordine ai propri interessi che la voce sua è la voce di Dio.

Tutto ciò vuol dire alle nazioni monarchiche dell'Europa: «Abbiate tribuna, oratori parlamentari, siate repubblicani, ed avrete attuato la perfezione, sarete simili alla gran Roma». Ora codeste declamazioni democratiche, cui la storia contemporanea ha dato e dà ancora sì solenni mentite, hanno però progredito; tengono in sulle guardie l'ordine sociale, e raccomandano ai governi ed ai padri di famiglia il sistema di educazione che le ispira.

Il Cristianesimo alle società da esso formate, insegna i mezzi di conservarsi e di ingrandire. «La giustizia; dice egli, innalza le nazioni: il peccato le rende miserevoli; ed ogni nazione che non si sottomette alla legge di Dio, perirà» (6).

Per Machiavelli la Scrittura non è un'autorità: Tito Livio è il suo oracolo; Roma il suo modello.

I mezzi di conservazione e d'ingrandimento impiegati dai Romani sono, nell'opinion sua, il segreto della durata e della potenza delle nazioni. Il primo è la violenza. Continuando a catechizzare l'ignorante suo alunno, Machiavelli dice all'Europa cristiana:

«Crescit interea Roma Albae ruinis. Quelli che disegnano che una città faccia grande imperio si debbono con ogni industria ingegnare di farla piena di abitatori: perché senza quest'abbondanza d'uomini, mai non riuscirà di far grande una città. Questo si fa in due modi, per amore e per forza. Per amore, tenendo le vie aperte e sicure ai forestieri che disegnassero venire ad abitare in quella, acciocché ciascuno vi abiti volentieri. Per forza, disfacendo le città vicine, e mandandogli abitatori di quelle ad abitare nella tua città. Il che fu tanto osservato in Roma, che nel tempo del sesto re in Roma abitavano ottantamila uomini da portar armi. E che questo modo tenuto per ampliare a fare imperio fosse necessario e buono, lo dimostra l'esempio di Sparta e d'Atene, le quali essendo due repubbliche armatissime, e ordinate di ottime leggi, nondimeno non si condussero alla grandezza dell'imperio Romano, e, Roma pareva più tumultuaria e non tanto bene ordinata quanto quelle. Di che non se ne può addurre altra cagione che la preallegata, perché Roma per aver ingrossato per quelle due vie il corpo della sua città, potette di già mettere in armi dugento ottantamila uomini, e Sparta ed Atene, non passarono mai ventimila per ciascuna (7)».

Laonde la guerra antica, la guerra con la spoliazione, e col trasferimento dei vinti, ecco il modello che il figlio primogenito del Risorgimento osa di proporre all'Europa cristiana! (8)

Dopo la violenza, la fraude. Il secondo mezzo d'ingrandimento proposto da Machiavelli è appunto la frode. Anche qui, com'è ben naturale, s'appoggia sull'esempio dei Romani. Li loda d'aver ingannato i popoli del Lazio, cui fece servi sotto colore d'averli ad alleati: loda Ciro d'aver ingannato suo zio Ciassare, re dei Medi, e mantiene che chi non sa ingannare non giungerà mai a grande potenza. «E non conchiude (Senofonte nella Ciropedia) altro per tale azione, se non che ad un principe che voglia fare gran cose, è necessario imparare ad ingannare .... La fraude è meno vituperevole quanto è più coperta come fu questa dei Romani (9)».

Non è questo Cesarismo? e Cesarismo ributtante? Per vero, e noi non l'ignoriamo, prima di Machiavelli, l'Europa cristiana aveva veduto atti di machiavellismo. Ma porre la menzogna per principio, ridurre la fraude a dottrina, presentarla come un elemento indispensabile di buon riuscimento che si può impiegare senza scrupolo e senza aver neppure da arrossirne, se l'ipocrisia giunge a tanto da saper tenerla coperta, era riservato al Risorgimento il dare al mondo cristiano un simile scandalo.

Anche oggidì vi ha uomini che chiamano il Risorgimento un bello e magnifico movimento: lo scatto delle forze latenti che da mille anni reagivano contro la barbarie! Oh! perché mai l'Europa non è rimasta nella sua barbarie di mille anni, coi dotti suoi barbari i Tomasi, i Bernardi, i Rugeri Bacone: coi suoi architetti barbari, che la coprirono di monumenti colossali, e principalmente coi suoi monarchi barbari la cui massima era che se la buona fede fosse bandita dal resto della terra, si dovrebbe trovarla nel cuore dei re!

Il saper poi se l'immorale dottrina di Machiavelli è caduta da sé stessa davanti all'indignazione dei governi, ovvero se dopo quattro secoli ha ancora qualche parte nella politica dell'Europa, è una questione il cui scioglimento non si può trovare che svolgendo gli annali della diplomazia.


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CAPITOLO XII.



DOTTRINE DI MACCHIAVELLI (Continuazione).



Nuovi mezzi di tranquillità e d'ingrandimento: l'uccisione del re, l'assassinio delle nazioni, la schiavitù della potestà spirituale. - Machiavelli applica all'Italia i principii generali della sua politica cesariana. - Apre la via ai protestanti ed ai rivoluzionari. - Fa il programma di Lutero, di Mazzini e di Carlo Alberto. - Tutti i sogni attuali dei demagoghi italiani sono suoi.



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In aspettazione della risposta della storia, continuiamo ad udire l'illustre discepolo del Risorgimento, l'appensato ammiratore dell'antichità. L'educazione, dell'Europa non è perfezionata: essa è, ben lontana dal conoscere tutti i segreti dell'ammirabile politica dei Greci e dei Romani.

Alla violenza ed alla fraude Machiavelli aggiunge un terzo mezzo di tranquillità e d'ingrandimento. Cotal mezzo, tanto conosciuto nella classica antichità è l'assassinio dei re ed anche delle nazioni. Ecco il titolo del capitolo in cui il precettore dell’Europa tratta cotal suggetto: «Come egli è necessario a voler mantenere una libertà acquistata di nuovo, ammazzare i figliuoli di Bruto (10)». Dopo un magnifico elogio di Bruto il quale per punire i propri figli d'aver cospirato contro la libertà, non solamente li condanna a morte, ma vuole anche assistere al loro supplizio, aggiunge: «E sempre si conoscerà questo per coloro che le cose antiche leggeranno, come dopo una mutazione di Stato o da repubblica in tirannide, o da tirannide in repubblica, è necessario una esecuzione memorabile contro ai nemici delle condizioni presenti. E chi piglia una tirannide e non ammazza Bruto, e chi fa uno Stato libero e non ammazza i figlioli di Bruto, si mantiene poco tempo (11)».

Né gli basta: nel capitolo seguente insegna che il principe che ha recato a sé il supremo potere, debba esterminare l'intera razza di colui che ha spodestato, sotto pena di non vivere mai tranquillo, dicendo: «Si può avvertire ogni principe che non viva mai sicuro del suo principato, finché vivono coloro che ne sono stati spogliati (12)».

Finalmente nel Principe, completando la propria dottrina, indica il modo con cui si debbono commettere cotali atrocità perché riescano profittevoli.

«Potrebbe alcuno dubitare donde nascesse che Agatocle ed alcuno simile, dopo infiniti tradimenti e crudeltà, potette vivere lungamente sicuro nella sua patria, e difendersi dagli inimici esterni, e da' suoi cittadini non gli fu mai cospirato contro .... Credo che questo avvenga dalle crudeltà male o bene usate. Bene usate si possono chiamare quelle, se del male è lecito dir bene, che si fanno ad un tratto per necessità di assicurarsi e di poi non vi s'insiste dentro, ma si convertiscono in più utilità de' sudditi che si può (13)».

Nei primi tempi delle monarchie dell'Europa, allorché il cristianesimo non era ancor giunto a soggiogare l'elemento pagano, veggonsi, è vero, assassinii di re; ma la teorica dell'assassinio, la politica dell'assassinio dove trovasi mai? Oggidì codesta teorica esiste; non manca né di seguaci né di ammiratori.

Quind'innanzi, quando la posterità spaventata chiederà dove gli assassini dei figli d'Edoardo, dove i carnefici di Luigi XVI e della sua famiglia avevano attinto le loro ispirazioni, niuno sarà imbarazzato a rispondere. Mostrerà Machiavelli; e dietro Machiavelli Bruto e i Romani, la cui educazione fece per Machiavelli i modelli perfetti della politica. Dall'assassinio dei re, Machiavelli passa all'assassinio delle nazioni. Questo nuovo misfatto non solo gli sembra lecito, ma anche obbligatorio, dappoichè è giovevole. «Sonoci, per esempio, gli Spartani ed i Romani. Gli Spartani tennero Atene e Tebe creandovi dentro uno Stato di pochi: nientedimeno le riperderono. I Romani per tenere Capua, Cartagine e Numanzia, le disfecero e non le perderono. Vollero tenere la Grecia, quasi come la tennero gli Spartani, facendola libera e lasciandole le sue leggi, e non successe loro. In modo che furono, costretti disfare molte città di quella provincia per tenerla, perché in verità non ci è modo sicuro a possederle, altro che la rovina. E chi diviene padrone d'una città consueta a vivere libera, e non la disfaccia, aspetti di essere disfatto da quella, parchè sempre ha per rifugio nella ribellione il nome della libertà e gli ordini antichi suoi, i quali né per lunghezza di tempo, né per benefici si dimenticano; e per cosa che si faccia o si provegga, se non si disuniscono o dissipano gli abitatori, non sdimenticano né quel nome né quelli ordini, ma subito in ogni accidente vi ricorrono (14)».

Questa classica teorica dello sterminio, della dispersione, del trapiantamento dei vinti, formulata da Machiavelli, magnificata da Saint-Just, non è forse stata praticata, per quanto fu possibile, dalla rivoluzione? Non ha essa restituito alla guerra l'antico suo carattere, e rimesso in onore la feroce massima dei Greci e dei Romani: Vae victis!».

Machiavelli indica un nuovo mezzo di rassodare il potere e di mantenere la tranquillità nello Stato: ciò è la religione. In questo la politica di Machiavelli è l'assoluto contrapposto della politica cristiana. Il Cristianesimo diceva: La religione è lo scopo supremo degl'Imperi; il principe è lo stromento di Dio pel bene dei popoli, è il loro fine; il loro fine è il possedimento del Sommo bene. Per Machiavelli, la religione è uno stromento di regno, è un mezzo nelle mani del principe per mantenere i popoli nel dovere, per proteggere i confini dei campi, e per assicurare ai re il tranquillo possedimento del potere. Ecco le sue parole: il Cesarismo antico non si espresse mai in modo sì riciso.

«Ogni religione ha il fondamento della vita sua in su qualche principale ordine suo. La vita della religione gentile era fondata sopra i responsi degli oracoli e sopra la setta degli arioli e degli aruspici: tutte le altre loro cerimonie, sacrifici, riti dipendevano da questi. Perché loro facilmente credevano che quello Dio che ti poteva predire il tuo futuro bene, o il tuo futuro male, te lo potesse ancora concedere ... l'oracolo di Delo, il tempio di Giove Ammone ed altri celebri oracoli tenevano il mondo in ammirazione e devoto ... Debbono dunque i principi d'una repubblica o d’un regno, i fondamenti della religione che loro tengono, mantenerli; e fatto questo, sarà loro facile cosa a mantenere la loro repubblica religiosa, e per conseguente buona ed unita. E debbono tutte le cose che nascono in favore di quella, come le giudicassero false, favorirle ed accrescerle; e tanto più lo debbono fare, quanto più prudenti sono; e quanto più conoscitori delle cose naturali. E perché questo modo è stato osservato dagli uomini savi, ne è nata l'opinione dei miracoli che si celebrarono nelle religioni eziandio, false; perché i prudenti gli augumentano, da qualunque principio essi nascono; e l'autorità loro dà poi a quelli fede appresso a qualunque» (15).

«Non solamente gli auguri ... erano il fondamento in buona parte dell'antica religione dei Gentili, ma ancora erano quelli che erano cagione del bene essere della repubblica Romana ... Nondimeno quando la ragione mostrava loro una cosa doversi fare, non ostante gli auspicii fossero avversi, la facevano in ogni modo; ma rivoltavanla con termini e modi tanto altamente, che non paresse che la facessero con dispregio della religione (16)».

Tal è il sistema di sacrilega giunteria che Machiavelli osa proporre all'imitazione dei principi cristiani! Ridotto poi alla sua più semplice espressione, il linguaggio già bastantemente chiaro del Segretario fiorentino, significa: Invece di essere la spada della Chiesa ed i difensori della religione, come diceva, la barbarie del medio evo, i re debbono dominare la religione e la Chiesa. La religione è nelle loro mani uno strumento di regno, un Giano a doppia faccia, buono per affascinare gli uni e per ispaventare gli altri: ma, un Giano che Cesare fa girare a sua voglia: idolo vano che non ha importanza se non in quanto favoreggia gl'interessi di Cesare.

Machiavelli ha forse predicato nel deserto? Nessun re dell'Europa, da quattro secoli, non si è fatto suo uditore e suo discepolo? Santa Chiesa di Dio, madre dei popoli e regina dei re, se oggidì non siete più nulla nei consigli dei Cesari, se più non avete dove posare il vostro capo, se i figli che avete nutrito ed allevato vi perseguitano con odii e con oltraggi, sappiamo almeno a quale scuola si sono pervertiti! Al Risorgimento, a Machiavelli suo figlio primogenito, ed ai Romani è dovuta la teorica degli oltraggi di cui vi abbeverano e dei castighi che si preparano.

All'esposizione dei principii tiene dietro l'applicazione. Un solo ostacolo grave si oppone in Europa al ristabilimento del Cesarismo; ed è la Chiesa romana. Da una parte, la sua costituzione; dall'altra, il suo possedimento del patrimonio di San Pietro, sono una protesta permanente contro la monarchia universale ed il primato assoluto dei principi. Con quell'istinto del male che mai non inganna. Machiavelli comprende che ivi è realmente il nodo della difficoltà: ivi il punto di mira contro cui si debbono dirigere tutti i colpi. Lo indica ai suoi successori, ed egli stesso incomincia l'assalto. Ciascuno può prevedere quello ch'ei dirà della Chiesa romana. Quello ché noi possiamo affermare si è che quanto ne il stato detto, in quattro secoli, dai protestanti, dai filosofi del secolo XVIII, dai demagoghi del 1793, dagli empii e dai mazziniani del giorno d'oggi, non è, e non sarà che una studiata versione delle parole di Machiavelli, vero ristauratore della politica pagana. Per essere creduto, conviene citare: Di quanta importanza, sia tenere conto della Religione, e come la Italia per esserne mancata, mediante la Chiesa Romana, è rovinata (17); tale è il titolo del capitolo che egli impiega agl'interessi dell'Italia.

Venendo alle particolarità: «Né si può fare altra maggiore coniettura della declinazione di essa (religione) quanto è vedere come quelli popoli che sono più propinqui alla Chiesa Romana, capo della religione nostra, hanno meno religione. E chi considerasse i fondamenti suoi, e vedesse l'uso presente quanto è diverso da quelli, giudicherebbe esser propinquo senza dubbio o la rovina o il flagello. E perché sono alcuni d'opinione che il bene essere delle cose d'Italia dipende dalla Chiesa di Roma; voglio contro ad essa discorrere quelle ragioni che mi occorrono e ne allegherò due potentissime, le quali, secondo me, non hanno repugnanza.

«La prima è, che per gli esempi rei di quella corte, questa provincia ha perduto ogni divozione ed ogni religione; il che si tira dietro infiniti disordini... Abbiamo dunque con la Chiesa e coi preti noi Italiani questo primo obbligo, d’essere diventati senza religione e cattivi (18)».

Ecco quello che si scriveva nel cuore stesso dell'Italia, prima dell'apparizione del protestantesimo, da un cattolico, da un uomo riputato come l'oracolo della sapienza! Allorché, alcuni anni dopo, udiremo Lutero gridare dal fondo della Germania che la Chiesa romana è la prostituta dell'Apocalisse; che le nazioni debbono fuggire lungi da essa, se non vogliono essere involte nella punizione sì giustamente dovuta ai suoi delitti, sarà egli qualche cosa di più di traduttore di Machiavelli? Quando udiremo Ulrico di Hutten ripetere nella sua Triade che Roma è la sentina de' vizii, che non vi si adora che l'oro, la porpora e le baldracche, che è la scaturigine del male; quando udiremo tutti gli altri riformatori dar addosso alla corruzione della Chiesa Romana, imputandole il corrompimento del Cristianesimo, il disprezzo in cui è caduto, e giustificando in tal modo la loro separazione, sapremo che quelle declamazioni non furono che le ripetizioni delle parole di Machiavelli: sapremo che e per le calunnie contro la Chiesa, come per tutto il resto, la riforma non è che alunna e figlia del Risorgimento.

Passiamo al secondo motivo per cui la Chiesa di Roma è il flagello dell'Italia. Dopo aver fatto il programma di Lutero, Machiavelli farà anche quello di Mazzini. Udiamo lui stesso:

«Dopo di aver detto che noi italiani con la Chiesa e coi preti abbiamo questo primo obbligo d'essere divenuti senza religione e cattivi, prosegue così:

«Ma ne abbiamo ancora un maggiore, il quale è la cagione della rovina nostra. Questo è che la Chiesa ha tenuto o tiene questa nostra provincia divisa.

«E veramente alcuna provincia non fu néli unita e felice, se la non viene tutta all'ubbidienza d'una repubblica o d'un principe, come è avvenuto alla Francia e alla Spagna. E la cagione che la Italia non sia in quel medesimo termine, né abbia anche ella o una repubblica o un principe che la governi, è solamente la Chiesa; perché avendovi abitato e tenuto imperio temporale, non è stata sì potente, né di tal virtù che l'abbia potuto occupare il restante d'Italia e farsene principe; e non è stata, dall'altra parte sì debole, che, per paura di non perdere il dominio delle cose temporali, la non abbia potuto convocare un potente che la difenda contro a quello che in Italia fosse diventato troppo potente (19)...

«Non essendo dunque stata la Chiesa potente da potere occupare l'Italia, né avendo permesso che un altro la occupi, è stata cagione che la non è potuto unire sotto un capo, ma è stata sotto più principi e signori, dai quali e nata tanta disunione e tanta debolezza che la si è condotta ad essere stata preda, non solamente dei barbari potenti, ma di qualunque l'assalta.

Di che noi italiani abbiamo obbligo con la Chiesa e non con altri (20)».

Questo che abbiamo letto non è forse un manifesto di Mazzini, un manifesto scritto da Londra, or ha qualche mese, ed affisso ieri a Roma o a Torino? oppure è una lezione di politica data a Firenze, or ha quattro secoli da Machiavelli, il primo alunno in politica del Risorgimento; una profezia del futuro, una regola da seguirsi per la liberazione della penisola? È lecito il dubitarne.

Quello che è certo si è che neppur uno dei sogni ardenti, neppur una delle utopie sovvertitrici che tengono oggidì l'Italia sopra un vulcano, neppur una delle diatribe che della Chiesa Romana e del suo temporale dominio formano il bersaglio di tutti i demagoghi attuali, che non si trovi, a parola per parola, e coi suoi motivi, in Machiavelli. E così, da un miracolo in fuori, doveva essere.

Dopo avere ammirato, fino dalla infanzia o la grandezza degli antichi Romani, l’unità aristocratica dell'antica Italia, come mai si può essere Italiano, nutrito alla scuola dell'antichità, e non vagheggiare il ritorno di quell'ordine di cose? Come non cercare tutti i mezzi di mandarle ad effetto? l'Europa e Pio IX in particolar modo sanno bene ora donde viene il male.

Machiavelli non istà contento a semplici teoriche, ma aspira alla pratica. Dopo aver fatto il programma di Lutero e di Mazzini, detta anche quello di Carlo Alberto. «Italiani, volete l'unità italiana, sotto un principe italiano? Volete il risorgimento dei vostri tempi di potenza, di gloria e di felicità di cui fruirono gli avi vostri sotto, la grande unità romana? Non appagatevi di sterili voti: mano all'opera, La prima cosa che è da farsi è di cacciare i barbari dall'Italia». Questo è il senso letterale dell'ultimo capitolo del Principe, intitolato: Esortazione a liberare la Italia dai barbari (21).

«Considerato adunque, dice Machiavelli, tutte le cose di sopra discorse, e pensando meco medesimo se al presente in Italia correvano tempi da onorare un principe nuovo, e se ci era materia che desse occasione a uno prudente e virtuoso di introdurvi nuova forma che facesse onore a lui e bene alla università degli uomini di quella, mi pare concorrano tante cose in beneficio di un principe nuovo, che io non so qual mai tempo fosse più atto a questo (22) ...

«E se era necessario ... ad illustrare l'eccellenza di Teseo, che gli Ateniesi fossero dispersi; così al presente, volendo conoscere la virtù d'uno spirito italiano, era necessario che l'Italia si riducesse nel termine ch'ella è di presente, e che la fosse più schiava degli Ebrei, più serva che i Persi, più dispersa che gli Ateniesi, senza capo, senz'ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa, ed avesse sopportata di ogni sorta di rovine... Si è visto che ... rimasa senza vita, aspetta qual possa esser quello che sani le sue ferite e ponga fine alle direpzioni e ai sacchi di Lombardia, alle espilazioni e taglie del Reame e di Toscana, e la guarisca di quelle sue piaghe già per lungo tempo infistolite. Vedesi come la prega Dio che le mandi qualcuno che la redima da queste crudeltà ed insolenze barbare. Vedesi ancora tutta pronta e disposta a seguire una bandiera, purché ci sia uno che la pigli ... Qui è giustizia grande, perché quella guerra è sempre giusta che l'è necessaria, e quelle armi sono pietose, dove non si spera in altro che in elle ... Qui è virtù grande nelle membra, quando la non mancasse di capi... È necessario innanzi a tutte le altre cose, come vero fondamento di ogni impresa, provvedersi d'armi proprie (23), perché non si può avere né più fidi, né più veri, né migliori soldati...

«Non si deve dunque lasciar passare questa occasione, acciocché l'Italia vegga dopo tanto tempo apparire un suo redentore. Né posso esprimere con quale amore ei fosse ricevuto in tutte quelle province, che hanno patito per queste illusioni esterne, con qual sete di vendetta, con che ostinata fede, con che pietà, con che lacrime! Quali porte se gli serrerebbero? quali popoli gli negherebbero l'ubbidienza? Quale invidia se gli opporrebbe? Quale italiano gli negherebbe l'ossequio? Ad ognuno puzza questo barbaro dominio. Pigli adunque la illustre casa vostra questo assunto con quell'animo e con quella speranza che si pigliano le imprese giuste ....»

Ogni chiosa è qui inutile. Non vorremmo scommettere che il giorno innanzi in cui nel 1849 l'eroe di Novara innalzò il vessillo della libertà italiana, non si fosse addormentato su questa esortazione di Machiavelli, o piuttosto su questa concione di Tito Livio.



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CAPITOLO XIII.



DOTTRINE DI MACCHIAVELLI (Continuazione e fine).


Il libro del Principe.- Machiavelli insegna ai re a praticare la sua politica.- Il primo mezzo che consiglia è di togliere a modelli alcuni eroi dell'antichità e principalmente i Romani. - Detto di Federico. - Ritratto morale dei Romani, carattere della loro politica. - Crudeltà e fraude. - Il secondo mezzo è di essere lione e volpe - Il dispotismo è lo scopo da raggiungere. - Conclusione. - La politica di Machiavelli e il Cesarismo antico.


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Per comprendere in tutta la sua interezza il pensiero di Machiavelli, cioè per conoscere il Cesarismo quale esso lo insegna, vuolsi aggiungere allo studio dei suoi Discorsi su Tito Livio la lettura del suo libro del Principe. Nei suoi Discorsi Machiavelli istruisce l'Europa in generale e forma l'opinione pubblica; nel Principe, la più celebre delle sue opere, istruisce particolarmente i re nell'arte di governare secondo i principi della sua politica. Egli si rivolge a tutti i sovrani:

«Imperocchè chi stampa un libro, dice Federico di Prussia, parlando di questo, parla a tutto l'universo (24)».

Movendo sempre dall'idea fondamentale del Risorgimento che il solo paganesimo presenta perfetti modelli in ogni cosa, ei dice:

«Quanto all'esercizio della mente, debbe il principe leggere le istorie, ed in quelle considerare le azioni degli uomini eccellenti, vedere come si sono governati nelle guerre, esaminare le cagioni delle vittorie e perdite loro per potere queste fuggire e quelle imitare, e sopra tutto fare, come ha fatto per l'addietro qualche uomo eccellente che ha preso ad imitare, se alcuno è stato innanzi a lui lodato e gloriato, e di quello ha tenuto sempre i gesti ed azioni appresso di sé, come si dice che Alessandro Magno imitava Achille, Cesare, Alessandro, Scipione e Ciro (25)».

L'avete udito: San Luigi di Francia, Sant'Enrico d'Alemagna, San Ferdinando d'Aragona, Santo Stefano d'Ungheria, Carlomagno, Teodosio, niuno dei grandi principi formati alla scuola del cristianesimo, e che regnarono per la prosperità della loro nazioni e per la gloria dell'umanità, non si conta per nulla.

Il nuovo precettore dei re vuole restituire all'Europa gli Achilli, i Cesari, gli Alessandri, i re pagani, pei quali l'umanità non era che un piedistallo; i giuramenti, tele di ragno; le leggi della giustizia ed i più sacri doveri, trastulli che sapevano spezzare senza scrupolo e senza vergogna per giungere ai loro fini...

Cosa vergognosa! conformemente ai precetti di Machiavelli ed al fanatismo inspirato dal Risorgimento, vediamo nel sestodecimo e diciassettesimo secolo un gran numero di risorgenti laici ed ecclesiastici volgarizzare, postillare, chiosare gli uomini illustri di Plutarco, per farne il libro classico dei re e delle regine (26).

La mania di Machiavelli e di tutti i risorgenti di ricorrere continuamente all'antichità, di non giurare che per essa, di invocarla ad ogni proposito, e specialmente i Romani, detta a Federico questa riflessione:

«L'autore, dice egli, puntella le sue dottrine sopra la pratica dei Romani ... ma i Romani, nei beati tempi della repubblica, erano i più saggi briganti che abbiano mai devastato la terra. Conservavano con prudenza quello che acquistavano con ingiustizia; ma finalmente accadde a quel popolo quello che accade ad ogni usurpatore: fu oppresso la volta sua (27)».

Stantechè è provato che tutte le teoriche politiche di Machiavelli esposte nei Discorsi e nel Principe son tolte ai Romani; che il popolo-re è il gran modello proposto dal ristauratore del Cesarismo: in una parola che Tito Livio più che Machiavelli è quegli che istruisce, completiamo il pensiero di Federico, ponendo qui il ritratto morale dei Romani ed il carattere della loro politica. Questo quadro ci sarà fornito da un ammiratore dell'antichità, da un traduttore di Tacito.

«Settecento anni di guerra continua, dice Dureau della Malle, interrotti appena da due o tre intervalli di pace brevissimi, rendendo i Romani il popolo più intrepido della terra, ne avevano fatto un popolo crudele. Il loro diritto delle genti era orribile: la schiavitù domestica, l'atroce potestà che la legge conferiva ai padri ed ai mariti sulle mogli e sui figli, in particolar modo quei combattimenti di gladiatori tanto frequenti nella metropoli e nelle province e perpetui nei campi, tutto contribuiva a renderli duri e feroci.

«E poiché ricevevano la morte senza pena, la davano senza rimorso: versavano il sangue come acqua. La loro, religione aveva tracce di barbarie: più d'una volta non dubitarono di immolare vittime umane. Cotali orribili sacrifici veggonsi nella seconda guerra punica e prima; riappariscono ancora sotto Mario e sotto Giulio Cesare; e se ne veggono anche sotto gli ultimi imperatori.

«Qual popolo è mai quello presso cui non ostante l'infamia annessa al vile mestiere di gladiatore, cavalieri, senatori, donne ed anche imperatori si fanno solleciti di discendere nell'arena! Come se quel popolo feroce trovato avesse nelle uccisioni, nello spettacolo della morte, nella vista del sangue e delle ferite, non so quale ineffabile raffinatezza di voluttà, che non dubitarono di procacciarsi anche a prezzo del disonore! ...

«Veggonsi avanzi della ferocia nazionale nei più grandi uomini, in quegli stessi la cui dolcezza e clemenza ha la storia maggiormente vantato. Giulio Cesare fa uccidere a sangue freddo, dopo la vittoria, L. Ligario, L. Cesare, Afranio, Fausto Silla, Bruto, impacciato d'un drappello di prigionieri che rallentava la sua marcia, li fa trucidare. Germanico grida ai suoi soldati, vincitori dei Cheruschi: Sterminate, sterminate, non avrete pace che mediante l'intero sperperamento della nazione.

«Questo carattere di crudeltà traluce nei più saggi e più virtuosi scrittori. Tacito nei suoi Costumi dei Germani, parla di sessantamila Bruttéri che vennero a trucidarsi alla vista del campo romano; e l'idea dello spettacolo di quella carneficina di cui gioiscono i soldati del suo paese, strappa a Tacito stesso un grido di gioia propria d'un cannibale.

«Non avete a far altro che aprire il dizionario di quel popolo; osservate quanto è ricca la loro lingua per esprimere tutte le idee di distruzione. Hanno tre parole per significare il sangue: cruor, sanguis, tabum. Hanno una parola per esprimere la morte naturale, mors, ed un'altra per esprimere la morte violenta, nex , e quante voci per dire uccidere! occidere, interficere, interimere, perimere, necare, mactare, trucidare, obtruncare! ecc. ecc.

«Non avete che a leggere i loro poeti e vedrete come ei si piacciano in descrivere assai lungamente battaglie le più micidiali; non omettono pur una ferita; ne dipingono le circostanze più orribili. Leggendo in Virgilio le atrocità che disonorano il suo Enea, ho detto meco medesimo in sulle prime: Conviene dire che ben sia servite lo spirito d'imitazione per aver fatto traviare a tal punto questo gran poeta, per avergli persuaso di copiare un difetto che, in tanti luoghi, guasta l'Iliade d'Omero. Ma poi, meglio istruito, ho riconosciuto che il poeta romano non aveva in ciò cercato d'imitare il poeta greco: non aveva fatto, come lui, che copiare i costumi e piaggiare il gusto del suo popolo (28)».

In fatto di crudeltà dunque i Greci non erano soverchiati dai Romani: e questi due popoli si pareggiavano anche in fraude. Per inschiavirlo, i politici romani ingannavano il popolo, favoreggiando, accreditando la menzogna e la superstizione. Stiracchiando le parole urbs e civitas trovarono modo di fare smantellare Cartagine, anche in virtù del trattato che, guarentiva la conservazione di quella città. La mala fede dei Greci era proverbiale: e dimostreremo in appresso che il proverbio era ben fondato. Eppure, ecco i due popoli costantemente proposti dopo il Risorgimento, come modelli delle nazioni cristiane! E forse a meravigliare adunque se la politica moderna, la politica rivoluzionaria, tiene più o meno del Greco e del Romano?

Se non ne tiene di più, non è colpa di Machiavelli. Delineando a norma dei modelli classici il ritratto d'un principe veramente politico, veramente capace di governare e di mantenersi al potere, Machiavelli non teme di dire che l'indole di lui debba partecipare del lione e della volpe. Questo tipo è obbligatorio, poiché gli antichi riferiscono che molti eroi furono affidati al centauro Chirone, affinché li nutrisse e gli educasse. «Il che non vuol dire altro l'avere per precettore un mezzo bestia e mezzo uomo, se non che bisogna ad un principe saper usare l'una e l'altra natura, e l'una senza l'altra non è durabile. Essendo dunque un principe necessitato sapere ben usare la bestia, debbe di quella pigliare la volpe ed il lione ..... bisogna dunque essere volpe a conoscere i lacci, e lione a sbigottire i lupi» (29).

Ma il principe non debba essere volpe soltanto per conoscere i lacci, ma in più particolar modo per tenderne; o se vuole diventar maestro in quest'arte esosa, ascolti Machiavelli. «Non può pertanto un signore prudente né debbe osservare la fede, quando tale osservanza gli torni contro, e che sono spente le cagioni che la fecero promettere. E se gli uomini fossero tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma perché, sono tristi, e non l'osserverebbero a te, tu ancora non l'hai da osservare a loro. Né mai ad un principe mancheranno cagioni legittime di colorare la inosservanzia .... e quello che ha saputo meglio usare la volpe, è meglio capitato .. Ma è necessario questa natura: saperla bene colorire, ed essere gran simulatore e dissimulatore....

«Ad un principe .... è necessario ... parere pietoso, fedele, umano, religioso, intiero, ed essere; ma stare in modo edificato con l’animo che bisognando non essere, tu sappia e possa nutrire il contrario.

«Ed hassi ad intendere questo che un principe, e massime un principe nuovo, non può osservare tutte quelle cose, per le quali gli uomini sono tenuti buoni, essendo spesso necessitato, per mantenere lo Stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione. E però bisogna che egli abbia un animo disposto a volgersi secondo che i venti e le variazioni della fortuna gli comandano; e, come disopra dissi, non partirsi dal bene, potendo, ma sapere entrare nel male necessitato .... Nelle azioni di tutti gli uomini, e massime dei principi, dove non è giudizio a chi reclamare, si guarda al fine. Faccia adunque un principe conto di vivere e mantenere lo Stato, i mezzi saranno sempre giudicati onorevoli, e da ciascuno lodati (30)».

Ove i sovrani moderni prendono per regola la dottrina di Machiavelli, l’Europa va dirittamente al secolo di Tiberio e di Nerone: siamo nel seno di quella bella antichità; in cui il politico ateismo regnava da padrone sotto il nome del diritto del più astuto o del più forte; in cui i principi erano veramente lione e volpe ed i popoli pulcini o pecore: dove essendo il fine santificato dai mezzi, il riuscimento teneva vece di morale, giustificava tutti i delitti e conduceva all'apoteosi. Ad ogni modo, se alcune di queste massime classiche hanno prevalso in Europa da quattro secoli, è bene importante lo stabilire che non al protestantesimo ma al risorgimento, ed al solo risorgimento si debbono attribuire: cuique suum.

Machiavelli indica ai principi suoi alunni i casi diversi in cui debbono praticare i suoi principii. A proposito delle soldatesche ausiliari, di cui non consiglia di far uso o ben parcamente, insinua la morale del lupo, cui Federico di Prussia flagella con quest'esse parole:

«I cattivi esempi che Machiavelli propone ai principi sono tali malvagità che non gli vanno perdonate. Allega Jerome di Siracusa, il quale considerando che le sue armi ausiliari erano egualmente pericolose sì a conservarle come a congedarle, le fece tutte tagliare a pezzi (31). Cotali fatti riempiono l'animo di orrore, allorché si leggono nelle storie: ma lo sdegno giunge al colmo allorché veggonsi riferiti in un libro composto per l’istruzione dei principi (32)».

Con tale abominevole dottrina, a che vuol riuscire Machiavelli? A ristabilire in tutto il suo splendore il Cesarismo antico. Ora, il Cesarismo antico è l'apoteosi dell'uomo; e l'apoteosi dell'uomo è il dispotismo ed il concentramento che ne è la necessaria conseguenza. Nella guisa stessa che la filosofia, la pittura, la scultura, la letteratura inaugurate dagli artisti e dai letterati del Risorgimento, sono la filosofia, la pittura, la scultura, la letteratura antiche; così la politica inaugurata da Machiavelli, figlio primogenito del Risorgimento; è il cesarismo antico in tutta la sua interezza. Diverse sono le manifestazioni, ma il principio è il medesimo. Resta dunque stabilito che invece di essere, nel suo insieme un bello e magnifico movimento, il Risorgimento non è stato nel suo insieme che un'invasione generale del paganesimo nel seno dell'Europa cristiana, e la più tremenda prova per la Chiesa dopo il nascer suo.



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CAPITOLO XIV.

BUCANANO.



La politica di Machiavelli si propaga in Europa. - Bucanano. - Sua biografia. - Sua opera De jure regni. - Sue idee interamente classiche sull'origine delle società. - Stato di natura. - Contratto sociale.- Scopo materialista della società. - La religione stromento di regno. - Il popolo giudice dei casi di coscienza sociali. –Dottrine del regicidio. - Conseguenza necessaria della politica pagana fedelmente conservata. - Insegnata dai Mazziniani.



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La politica di Machiavelli rapidamente si sparse in Europa come il fuoco s'apprende ad una striscia di polvere (33). In tutti i paesi si avviene in letterati che la professano e re che l'accolgono, con aggiunte, con modificazioni, con applicazioni più o meno importanti. Bucanano la spiega alla Scozia; Bodino alla Francia; Hobbes all'Inghilterra; Volfio, Puffendorf, Grozio, Febronio ed altri ancora la spandono in Germania; Gravina in Italia; finché Rousseau, traducendola in francese, l'insegna all'Europa intera. Alla coda di questi maestri traggono dappertutto legioni di giuristi, di professori di diritto, d'avvocati, di parlamentari, tutti qual più qual meno cortigiani, i quali incoraggiano i re nella via del dispotismo cesariano e preparano in tutta Europa le terribili reazioni, di cui, da gran tempo; siamo e testimoni e vittime.

Bucanano, che abbiamo nominato pel primo, nacque in Iscozia nel 1506. Giovanissimo ancora venne a Parigi a studiarvi belle lettere. Con questo allora s'intendeva la storia, l'eloquenza, la poesia dei Greci e dei Romani. Le cattedre, delle università non d'altro risuonavano, ed in quei primi momenti del Risorgimento l'ammirazione per l'antichità confinava col delirio. In mezzo a quell'atmosfera pagana; il giovane Bucanano, è compreso ad un tempo d'un prepotente amore per la poesia di Virgilio e d'Orazio, e d'un profondo disprezzo pel Cristianesimo, per le sue glorie e per le sue più rispettabili istituzioni. Preparato in tal modo al libero pensare, l'animo suo si apre alle opinioni di Lutero, che facevano allora gran rumore all'Università di Parigi. Tuttavia ei rimane ancora cattolico di nome, e ritorna in patria, dove il re Giacomo gli affida l'educazione del suo figlio naturale.

Ad esempio di Erasmo, di Utteno, di Reuclino, e di molti altri Risorgenti, Bucanano fa le sue prime armi nella repubblica delle lettere, scoccando epigrammi contro i monaci ed i frati, componendo tragedie all'antica, ed endecasillabi osceni. Il suo componimento contro i Francescani, Fratres fraterrimi, lo fa passare dalla corte in una prigione, dalla quale evade da una finestra.

Punito, ma non corretto, viaggia in Inghilterra e in Francia; insegna a Parigi ed a Bordeau, poscia si reca in Portogallo dove per la protezione di Govea, ottiene una cattedra all'università di Coimbra. Avendolo le sue dottrine messo in sospetto, viene imprigionato. La sua prigionia dura un anno, ch'esso impiega a tradurre i salmi in versi latini.

Promesso avendo di emendarsi, gli viene restituita la libertà; ed egli ne approfitta per ritornare a Parigi dove si acconcia col maresciallo di Brissac in qualità di precettore di suo figlio.

Cinque anni dopo ritorna nella Scozia: viene incaricato, dell'educazione di Giacomo VI, e fa pubblica professione di protestantesimo.

Degno figlio del Risorgimento, Bucanano vive e muore da libero pensatore. Racconta un autore antico, che presentati essendosi i sacerdoti al suo letto di morte per indurlo a raccomandarsi a Dio con qualche preghiera, ei disse loro: «Non ho mai saputo altra preghiera che questa:

Cynthia prima suis miserum me, cepit ocellis,

Contractum nullus, ante cupidinibus».

Ed appena ebbe recitato dieci o dodici versi di questa licenziosa elegia di Properzio, spirò (34). Aveva settantasei anni. Sì è vero il proverbio: Quale è l'educazione, tale è la vita; e quale è la vita, tale è la morte.

La sua grand'opera politica è intitolata De jure regni apud Scotos; pubblicata nel 1579 (35). L'opera, secondo il gusto antico, è in forma di dialogo: sono interlocutori Bucanano e Metellano. I primi capitoli, destinati alla esposizione dei principii, si riepilogano così:

«Il genere umano aver cominciato con lo stato di natura: gli uomini, dispersi per le foreste, abitando in capanne, aver sentito il bisogno di unirsi in società: essi aver eletto per comandarli il più esperto: avere stretto un patto con essolui: la comunanza, rimasta giudice dell'adempimento delle condizioni, conservare il diritto di revocarlo, di mutarlo: il re non essere che un suo procuratore: non aver egli il diritto di far leggi; ma aver l'obbligo di ricever quelle che la comunanza giudica espediente d'imporgli: il re che viola il patto essere un tiranno. «Tutto questo, dice Bucanano, ci è insegnato dagli antichi autori, e specialmente da Omero» (36).

Qui cade la quistione del tirannicidio. Instituendo un giudice supremo dei conflitti fra i principi ed i popoli, la politica cristiana aveva dato la sola soluzione degna di Dio e degna dell'uomo di questo formidabile problema. Bucanano, come tutti i giuristi cesariani non vuole né politica cristiana, né supremazia sociale del papato; e la forza delle cose lo conduce direttamente alla dottrina del primato del popolo, alla teorica della ribellione, alla teologia del pugnale. Ei la professa con tale un'audacia che l'uguale non osò neppure lo stesso Machiavelli. Inutile è il dire che egli si puntella sul grandi esempi della classica antichità.

«Voglio, dice egli, che la moltitudine sia l'interprete delle leggi od il consiglio del principe. Infatti avvi più lume o sapienza nella moltitudine che in un uomo solo, quand'anche egli non avesse chi lo pareggiasse per ingegno e per prudenza. La moltitudine giudica meglio di tutte le cose che ciascuno dei suoi membri in particolare. Ciascun individuo possiede alcune particelle di virtù che, riunite insieme, formano una virtù eminente (37)»

Proposizione veramente singolare: ma non lo é meno ciò the segue: «La prova di quello che dico, voi la trovate nel laboratorio dei farmacisti, e specialmente nell'antidoto detto mitridatico. Per comporlo s'impiegano molte sostanze nocive in sé stesse, ma che insieme riunite formano un contravveleno di qualità eccellente. Lo stesso dicasi degli uomini (38)».

La moltitudine, od il popolo, è dunque investita del potere di giudicare i re. Ma se il re ricusa di lasciarsi giudicare; se è impossibile il costringervelo; se riguardando la sua condotta come irreprensibile, vi persevera in onta del popolo che la crede tirannica, chi porrà fine al conflitto? chi giudicherà la lite? Il pugnale, risponde Bucanano.

«I tiranni, dice egli servendosi delle parole di Cicerone (39), appartengono assai più alla razza, dei lupi e delle bestie malefiche che a quella degli uomini. Chi li uccide è un benefattore pubblico. Se fossi legislatore, ordinerei che questa genia fosse imbarcata e sommersa in alto mare, lungi dalla vista dalla terra, per tema che il puzzo dei loro cadaveri non ammorbasse gli uomini: ordinerei che agli uccisori fosse pagato un premio pecuniario, non solamente dalla patria ma anche da ciascun privato, come si fa con gli uccisori di lupi e con quelli che predano i lupatti (40)».

A questa dottrina, Metellano fa un'obbiezione:

«Se ci è permesso, dice egli, di avventarci addosso ai lupi, non ne conseguita che possiamo uccidere i re, divenuti tiranni; poiché siamo ad essi vincolati con un giuramento di fedeltà».

Bucanano risponde che la società è stabilita sopra un controllo sinallagmatico o bilaterale: che il re che lo viola, diventa tiranno, e che per conseguenza è lecito ad ognuno di ucciderlo come un lupo (41).

Né si creda che Bucanano si faccia autore di questa politica da antropofago; no: egli stesso ne dice dove l'ha appresa e che l'ha attinta da quei grandi uomini cui ha ammirato fino dall'infanzia.

«Veggo, dice egli, che quasi tutte le nazioni pressappoco partecipano in questo sentimento. Perciò è passato in uso di lodar Tebea, che uccise il proprio marito; Timoleone, che uccise il fratello: Cassio, che uccise il figlio: Fulvio, che uccise il figlio recandosi presso a Catilina: Bruto, che uccise i figli ed i congiunti che cospiravano in favore dei Tarquinii. E vi aveva nei tirannicidi ricompense pubbliche; ed in molte città della Grecia si rendevano loro onori solenni, tanto si era persuaso che fra gli uomini ed i tiranni non vi sia alcuna relazione d'umanità: e coloro stessi che in oggi alzano la voce contro questa dottrina, non pensano in diverso modo. Tutto questo prova che vituperando fatti che vedono effettuarsi sotto i loro occhi, mentre ne approvano e ne lodano di più atroci nelle storie, sono ben più affetti dai loro interessi personali che dal bene o della calamità pubblica.

Ma pure, soggiunge Metellano, il diritto che conferite ad ognuno di uccidere i tiranni di sua autorità propria può dar luogo ad ogni sorta di delitti».

Bucanano risponde: «Io dico quello che si può, quello che si deve fare legittimamente: non esorto però nessuno a farlo (42). La dottrina è chiara: ma nell'attuarla ci vuole senno, prudenza, virtù (43)».

Ma quello che spaventa di più, e che stupisce di meno, leggendo codesta mostruosa dottrina, si è la fedeltà con cui si è conservata dopo il Risorgimento, l'audacia con cui è stata praticata, la giustificazione che ne è stata fatta dagli assassini di Luigi XVI e che se ne fa ancora in oggi dai loro successori. Alle parole dei socialisti di Londra e di Nuova York, che abbiamo riferito nel primo volume, aggiungiamo la recente professione di fede dei loro fratelli d'Italia.

Nel mese di giugno del 1856, la Gazzetta delle Alpi, rampognando Manin per aver osato di vituperare la teorica del pugnale, discorre così: «Il signor Manin ci risponderà forse che non ha accusato tutti gl'Italiani, ma soltanto un piccolo numero ch'egli crede vili settari del partito austro-clericale. No: non è così. Noi, per lo contrario, gli diciamo che fra coloro che si sono serviti del coltello in Italia, vi furono uomini sinceramente amanti della libertà, di vita pura e di costumi illibati. Essi hanno creduto che quando non si aveva un fucile o che non si poteva insorgere e combattere col fucile, e che per ottenerlo dalle sentinelle austriache, non bastava il chiederlo graziosamente e galantemente come si chiede un fiore ad una persona amata: hanno creduto che non fosse un assassinio il punir col pugnale delitti che la forza strappava alla santa giustizia delle leggi: hanno pensato che quando un uomo si è posto in istato di non poter essere punito altrimenti che con un assassinio, il cittadino diviene esecutore della giustizia pubblica, e che il delitto è un atto eroico.

«A torto od a ragione, pensavano come Montesquieu; se si sono ingannati, se sono stati trascinati da un falso amore di patria, che però è anche quello di Bruto, di Cherea, d'Aristogitone e di Timoleone, hanno creduto che ciò che veniva riputato come eroismo dai più grandi popoli del mondo, non poteva essere un'infamia per noi».

Gli altri giornali socialisti del Piemonte, fanno eco alla Gazzetta delle Alpi. Ecco come parla il Vessillo di Vercelli: «Allorché una nazione oppressa e compressa, sprovveduta di mezzi di resistenza, abbandonata (o peggio ancora) dai potenti che hanno o che pretendono di aver la missione di riscattarla con le armi, e che non hanno la forza di riconoscere il diritto, distende per difendersi una mano sterminatrice sopra i suoi oppressori, qualunque sia il nome che portano, qualunque, sia il luogo in cui si trovano, e li raggiunge sia col piombo, sia col pugnale, sia col fuoco, sia col veleno, in difetto di altre armi, questa nazione non fa che impiegare i suoi mezzi naturali di difesa. Aggiungiamo che, qualunque sia la forma di questa difesa, sia che la nazione intera si sollevi in massa, sia che gl'individui si facciano giustizia individualmente, ciò niente muta alla ragion naturale, la quale inspira il dovere innanzi tutto di distruggere chi a poco a poco ne distruggerebbe, facendosi ludibrio dei nostri più sacri

diritti».

Lo stesso linguaggio troviamo sulle labbra dei regicidi belgi: «Noi tutti siamo solidari dell'umanità, gridano all'Europa. Perciò ringraziamo cordialmente tutti gli animi generosi che si consacrano a smascherare ed a COLPIRE i despoti ovunque essi appariscano: ivi è il nemico comune che andiamo orgogliosi di combattere al loro fianco, ben convinti che essi non deporranno le armi finché l'intero mondo non sarà purgato della razza degli oppressori ..., ben felici se una voce sola risponde a quest'invito che ad altri è concesso di meglio provocare! (44)

Abbiamo detto che questa dottrina del tirannicidio nulla ha che debba farci stupire. Essa è derivata dalla pagana antichità, e noi ci ostiniamo a coltivare l'antichità pagana. Per quanto facciamo, non impediremo mai che la zizzania non produca la zizzania: l'antichità pagana produce la politica pagana, conduce necessariamente al regicidio od alle barricate. Come si può mai credere di buona fede che tutta la gioventù d'Europa possa impiegare otto anni a studiare, ad ammirare le Repubbliche antiche, a penetrarsi dei sentimenti, delle idee, delle opinioni dei Greci e dei Romani, senza che non ve ne rimanga nelle menti e nei cuori? Oggi non è più possibile.

La storia ha parlato: essa continua a parlare tutti i giorni, sotto i nostri occhi, in tutti i paesi. Rileggete il processo di Luigi XVI, il fatto d'Olgiati, le confessioni di Ruffini, che abbiamo allegate nei precedenti volumi; e se ciò non vi basta, ascoltate gli uomini meno sospetti.

Nel 1836, nel momento in cui l'assassino Alibaud aveva aggredito il re Luigi Filippo si suscitò un'assai viva discussione fra il signor Bigot di Morogues ed il Giornale dei Dibattimenti.

Il signor Bjgot di Morogues sosteneva, come facciamo noi, che gli studi classici nel modo che vengono fatti, ispirassero ai giovani le più detestabili idee politiche; ed il Giornale dei Dibattimenti rispondeva essere per lo contrario la lettura degli scritti rivoluzionari che traviava e corrompeva tanti intelletti.

Intervenne in questa discussione Armando Carrel per dimostrare che le idee di Saint-Just, di Marat, di Robespierre, che le tradizioni del 1793 procedevano dal secolo XVIII: che il secolo XVVIII procedeva dal Risorgimento e che per conseguenza non vi aveva via di scampo: il signor di Morogues aver ragione; e doversi risalire o sino alla scaturigine delle idee rivoluzionarie moderne, anatematizzare il glorioso Risorgimento, o cessar dal dire che le passioni delle nostre età fossero necessariamente ed unicamente figlie delle aberrazioni del 1793.

«Intanto che a Parigi, aggiungeva Armando Carrel, ci si vuol sostenere che la ristampa delle opere di Saint-Just e di Robespierre mette in pericolo la vita del monarca, a Londra si vanno a cercare le apologie di Luigi Alibaud in Plutarco, in Rollin, e nei racconti del giovane Anacarsi».

Se ciò non vi basta ancora, ascoltate gli stessi regicidi, le cui rivelazioni in oggi spaventano l'Europa. Gallenga, cagnotto di Mazzini e membro del parlamento di Torino, racconta freddamente il progetto ch'egli aveva fatto d'assassinare il re Carlo Alberto; il suo colloquio con Mazzini, la sua dimora in Torino, i provvedimenti fatti per avvicinarsi al tiranno; descrive il ricco pugnale che armava il suo braccio, vanta il nobile sentimento che faceva palpitare il suo cuore. Chi ha formato questo nuovo Ravaillac? Un altro Mazziniano, Campanella, ne dice: «Gallenga era venuto di Corsica, nato Bruto, cresciuto Bruto, fatto Bruto, Bruto determinato. In luogo di dargli eccitamenti, Mazzini fece obbiezioni, discusse, mise avanti tutto ciò che poteva stornamelo; ma Bruto stette fermo.

Più chiaramente si spiega lo stesso Gallenga. In una lettera del 1° novembre 1856, pubblicata da tutti i giornali, riconosce il delitto che gli viene imputato, lo deplora: poscia, all’atto di lasciare la scena politica, rivela la funesta cagione di questo trascorso giovanile, e come il delinquente dall'alto del patibolo, getta all'Europa, a guisa di commiato, queste ultime e solenni parole: «Quanto sono grandi i vizi di un'educazione che contende ad infiammarci il cuore alle virtù romane, e che poi pretende che gli animi bollenti dei giovani possano discernere la differenza che corre fra la teorica e la pratica! Prendano esempio i maestri che istruiscono la gioventù e mutino linguaggio! (45)»

Non è un parlare chiaro? (46)

Eppure vi ha maestri che si ostinano a non mutare linguaggio! che con in mano le Orazioni di Cicerone e Tacito, continueranno ancora ad infiammare il cuore della gioventù alle virtù romane!

E vi ha governi che si danno maggior pensiero delle fluttuazioni della Borsa, che di questa inoculazione incessante di veleno a migliaia di giovani!

E vi ha uomini che maledicono, che oltraggiano coloro i quali invocano la riforma di un simile sistema! Iddio li perdoni e li illumini!

Ma per quanto si neghi fede alla storia, per quanto si neghi l'evidenza, per quanto si chiudano le orecchie per non udire, gli occhi per non vedere, gli uomini imparziali diranno con noi: Sentiamo, vediamo, tocchiamo con mano il paganesimo regicida che si rivela da per tutto a noi intorno: Sappiamo donde viene; e nonostante le tergiversazioni della malafede, e la stupida ostinazione d'un partito preso a priori, grideranno tutti come Galileo: «E pur si muove



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CAPITOLO XV.



BODINO.



Duplice carattere della politica dell'antichità: sovranità del popolo e sovranità del principe, anarchia e dispotismo. - Gli stessi caratteri e gli stessi risultamenti nella politica moderna. - Bodino. - Sua storia.- Risorgente e libero pensatore. - Suoi scritti. - Dialoghi sulla religione. ­ Trattato della repubblica. - Precursore dello Spirito delle leggi. - Bodino s'ispira costantemente all'antichità.- Chiede pei coniugi il ristabilimento del ripudio facoltativo.- Pei padri il diritto di vita e di morte sui figli. - Influenza di Bodino. - Edizioni delle sue opere. - Altri professori cesariani. Scuola dei naturalisti



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Presso gli antichi, la potestà sovrana risiede primamente nel popolo: poscia, dal popolo passa ad individualità chiamate successivamente Arconti, Efori, o Cesare. Così noi vediamo tutta la politica greca e romana ondeggiare perpetuamente tra il dispotismo della moltitudine ed il dispotismo di alcuni, per riuscir poi sia nell'uno come nell'altro caso, all'apoteosi dell'uomo.

Movendo dallo stesso punto i legisti del Risorgimento giungono al termine medesimo. L'idea pagana, sotto la loro penna, prende due opposte correnti.

Gli uni favoreggiano il dispotismo della moltitudine, e sono repubblicani: gli altri favoreggiano il dispotismo d'un solo, e sono vili cortigiani. Di che viene questo fenomeno sconosciuto al medio evo, che le nazioni moderne oscillano perpetuamente fra questi due estremi. Se Machiavelli è cesariano, Bucammo è democratico: e Bodino or è l'uno, or è l'altro.

Questo nuovo organo della politica pagana nacque ad Angèrs nel 1530. Alla scuola degli autori pagani, attinse, come i suoi giovani contemporanei, una fanatica ammirazione per l’antichità, un eguale disprezzo pel medioevo, e, il che nasce da questo duplice sentimento, il libero pensare. Lo spirito di Bodino, come quello di Bucanano , si rivolge verso la politica. Professore di diritto a Tolosa, scrisse il famoso suo discorso: De instituenda in republica juventute. Questo libro, accolto con plauso, è indirizzato al popolo ed al senato di Tolosa, poi recitato pubblicamente dall'autore nelle scuole di quella città. Vi si trova il germe delle idee che Bodino sviluppò in appresso nel suo Trattato della Repubblica.

Venuto a Parigi, entra, nel foro e si procaccia per qualche tempo il favore del re Arrigo III. Deputato agli Stati di Blois, nel 1576, dal terzo Stato di Vermandois, mostra pel protestantesimo un zelo ardente che gli tira addosso molti nemici. Sebbene egli non l'abbia mai abbracciato pubblicamente, ebbe sempre per questo figlio del Risorgimento una secreta tendenza. Se ne ha la prova in una delle sue lettere a Giovanni Bautran dei Matras. Ma, come abbiamo avvertito, il libero pensare, che spingeva verso la riforma un sì gran numero di risorgenti, che vi spingeva lui stesso, lo strascinò verso la parte politica del paganesimo.

Avendo perduto il favore del re, Bodino seguì il duca d'Alençon in Inghilterra nel 1579. Insegnavasi allora pubblicamente nell'università di Cambridge il suo Trattato della Repubblica, messo da lui stesso in latino.

Ritornato in Francia, Bodino si ritirò a Laon per darsi al comporre. Lo vediamo nel 1589 scrivere agli abitanti di quella città per persuaderli di dichiararsi in favore del duca di Maienna: E ciò era, dice il suo biografo, una conseguenza del suo spirito repubblicano, il quale lo sospingeva sempre a ciò che poteva contribuire all'indebolimento della regia autorità (47)». Bodino morì della pestilenza del 1596, a Laon, dove era stato nominato procuratore del re. Innanzi di parlare del suo libro Della Repubblica, è bene, per far conoscere Bodino, il dire qualche cosa dei suoi Dialoghi intorno alla religione (48).

Quest'opera è di tal natura che nel medio evo l'autore d'un simile libro sarebbe stato arso vivo. Nel segnare il cammino che l'Europa letterata aveva fatto da un secolo, l'opera di Bodino è una novella prova che il libero pensare recato dal Risorgimento sospinse gli spiriti cattolici ad errori mostruosi, cui gli eresiarchi del secolo XVI si tennero estranei. Il Dialogo, composto otto anni prima della morte di Bodino, riepiloga i veri sentimenti dell'autore.

Il titolo di Heptaplomeron deriva da ciò che gl'interlocutori del dialogo cono sette; e passano a rassegna tutte le religioni: gli uni impugnano, gli altri difendono.

La Chiesa cattolica è aggredita per la prima: viene poscia il luteranesimo: il terzo urto è contro tutte le sette in generale: il quarto contro i naturalisti; il quinto contro i calvinisti; il sesto contro i giudei; e l'ultimo contro i maomettani. Con un artificio comune ai liberi pensatori di quell'età, l'autore, secondo l'avvertenza del. P. Mersenne, conduce l'assalto in maniera che i cristiani sono sempre sconfitti. La vittoria rimane ai naturalisti ed agli ebrei. E così doveva essere. Bodino era stato discepolo degli autori pagani, veri naturalisti in punto di religione: di più, ei viveva famigliarmente con alcuni ebrei che ne avevano scrollato la fede (49).

L'opera più conosciuta di Bodino è il suo Trattato della Repubblica. È divisa in sei libri, e forma un volume in foglio. Per dare un'idea generale delle materie che tratta, e dello spirito che la governa, basta il dire che sembra aver questo libro dato origine allo Spirito delle leggi. In ogni caso il Trattato di Bodino e l'opera di Montesquieu sono due colonne miliarie che indicano il cammino del paganesimo politico dopo il Risorgimento. Nell'una e nell'altra, trovasi l'ammirazione sostenuta dalle istituzioni sociali dell'antichità: l'indipendenza assoluta del potere, cioè la negazione del primato sociale della Chiesa: la religione presentata non come fine supremo delle società, ma come un mezzo di governare. «Polibio, dice Bodino, governatore e luogotenente di Scipione l'Africano, è stimato il più savio politico della sua età, sebbene ei fosse destro ateista. Nondimeno ei raccomanda la religione sopra tutte le cose, come il fondamento principale di ogni repubblica, dell'eseguimento delle leggi, dell'obbedienza dei sudditi ai magistrati, del timore verso i principi dell'amicizia scambievole fra loro e della giustizia verso tutti (50)».

Tanto in Bodino come in Montesquieu si trova una specie di fatalismo, troppo naturale conseguenza della mancanza di fede. Così il sistema dei climi del celebre presidente è tolto di peso dall'opera di Bodino: Methodus ad facilem historiarum cognitionem.

Dall'ordine politico Bodino passa all'ordine civile. Infatuato della sapienza degli antichi e principalmente dei Romani, propone recisamente di ristabilire la famiglia sopra la duplice base romana del divorzio od almeno del ripudio senza motivo legale, e dell'onnipotenza paterna. Molti hanno creduto e molti ripetono che il ristabilimento del divorzio in Europa è dovuto al protestantesimo. Quello che vi ha di certo si è ch'esso è stato domandato, od almeno il ripudio facoltativo, fin dal secolo XVI, da un cattolico, le cui opere erano pubblicamente insegnate nelle scuole; quello che vi ha di certo ancora si è che per istabilire il divorzio la rivoluzione non ha punto invocato l'autorità di Lutero o di Calvino; ma, come Bodino, l'autorità dei Romani e dei Greci. Finalmente quello che vi ha di certo si è ch'esso ha ammesso per pronunziare il divorzio, non i motivi allegati da Lutero, ma le cause allegate dal diritto romano. Una di queste cause è il consenso reciproco delle parti, senz'obbligo di dichiarare il motivo di loro separazione. La rivoluzione ammette questa causa e Bodino sembra abbia dettato l'articolo del Codice che la consacra.

Dopo aver parlato dei vantaggi del ripudio; buono per tener in cervello le donne superbe e i mariti molesti, aggiunge: «Ma non ci ha nulla di più pernicioso che il costringere le parti a vivere insieme, se non dicono la causa della separazione che chiedono e che sia ben verificata: poiché così facendo, l'onore delle parti è in balia del caso, mentre che sarebbe salvo se la separazione non adducesse motivo. E di fatti i Romani non allegavano veruna causa, come si può vedere quando Paolo Emilio ripudiò la propria moglie, ch'ei dichiarava essere savissima ed onestissima donna, di assai nobile famiglia, e dalla quale avuto aveva molti bei figliuoli. E quando i parenti della donna se ne lagnarono a lui, volendone sapere il motivo, ei fece veder loro, il proprio calzare ch'era bello e ben fatto, dicendo ch'ei solo sentiva dove gli faceva male.

E se la causa non sembra sufficiente al giudice, o che non sia ben verificata; conviene che le parti vivano insieme, avendo continuamente l'uno e l’altro davanti agli occhi l'oggetto del proprio male.

«Il che fa sì che, vedendosi ridotti in estrema schiavitù, in timori ed in discordia perpetua, ne seguono gli adulterii, le uccisioni e gli avvelenamenti, che per la più parte sono sconosciuti agli uomini, come accadeva a Roma innanzi che si praticasse di ripudiare la propria moglie: perché il primo fu Spurio Carvilio, circa cinquecent'anni dopo la fondazione di Roma» (51).

Al qual proposito Bodino racconta: «Essendo stata sorpresa e condannata una moglie d'aver avvelenato il proprio marito, questa ne accusò altre che, per confidenze avute, ne accusarono altre sino a settanta del medesimo delitto, che furono tutte giustiziate (52)».

E si ha il coraggio di rintronarci continuamente gli orecchi che gli antichi Romani erano modelli perfetti di tutte le virtù!

Riguardo alla patria potestà, Badino collo sguardo sempre fisso sui Romani, vuole che, si conceda ai padri il diritto di vita e morte sui loro figli. «È necessario, dice egli, restituire ai padri la potestà di vita e di morte, che la legge di Dio e della natura conferisce loro: legge la più antica che mai fosse, comune ai Persiani ed ai popoli dell'alta Asia, come ai Romani ed agli Ebrei, ai Celti, e praticata in tutte le Indie occidentali prima che non fossero soggiogate dagli Spagnuoli: altrimenti non si ha mai da sperare di vedere i buoni costumi, l'onore, la virtù, l'antico splendore delle repubbliche ritornare in vita (53)».

Ciò vuol dire che il Cristianesimo il quale ha modificato la patria potestà, ha avuto torto: che nei secoli cristiani non vi furono né buoni costumi, né onore, né virtù; che, se l'Europa cristiana pensa alquanto al proprio perfezionamento, debba far rivivere l'antico splendore delle repubbliche classiche mediante il diritto paterno di vita e di morte sui figli. Avvertiamo bene che l'uomo il quale parla di questa maniera non è né un protestante, né un turco: è un cattolico, ma un cattolico educato dal Risorgimento, cioè un cattolico di nome, e sotto molti aspetti, un vero pagano di idee e di linguaggio.

Avvertiamo inoltre che Badino non è un oscuro privato, una persona spregiata o senza influenza: anzi egli è il favorito dei re: è un professore di diritto; un avvocato al parlamento di Parigi, un autore le cui opere pubblicamente insegnate, in suo vivente, nelle università, sono dopo morte riprodotte cento volte dalla stampa in tutte le parti dell'Europa. Vengono esse successivamente stampate a Parigi nel 1557; a Losanna nel 1577; a Parigi nel 1578, 1579, 1586; a Ginevra nel 1588, e nella stessa città voltate in italiano nel 1588; a Torino nel 1590; a Lione nel 1598; a Strasburgo nel 1598; a Ginevra nel 1600; cinque volte a Francoforte nel 1622; a Colonia nel 1645; a Parigi nel 1755, 1756, 1764, 1766, 1779, ecc. ecc.

Questa voga fu preparata e superata soltanto da quella eli Machiavelli, il patriarca della politica pagana in Europa. Invano Machiavelli e Bodino sono stati messi all'indice. Dopo il Risorgimento l'Europa è divenuta quasi sorda agli ammonimenti della propria madre; e Bodino e Machiavelli non hanno perduto né i loro lettori, né i loro panegiristi.

Fra questi Bodino ha la gloria di annoverare Langlet, il licenzioso editore di Catullo, di Properzio, di Tibullo, e di molte altre infamie, allevato come il suo modello alla scuola della bella antichità. «La repubblica di Bodino, dice egli, è sempre stata stimata dagli intelligenti. Quest'opera è piena dei più grandi e dei più saggi. principii della politica e del diritto pubblico. L'autore puntella sempre quanto afferma o con le leggi, o con gli autori antichi».

Nel tempo stesso s'innalzano in tutta Europa altre cattedre di politica e di giurisprudenza pagana. In Germania, nel 1524, troviamo Siccardo professore a Tubinga; nel 1550, Ulrico Zazio a Friburgo; nel 1558, Ferrari a Marburgo; nel 1550, Mudeo a Lovanio; nel 1557, Viglio ad Ingolstadt. Vengono in seguito Volfio, Grozio, Matteo, Ermanno Coringio, Puffendorfio ed altri molti. In Italia, a Padova e a Bologna, Fulgosio, Pontano, Accolti, Ficcardo, Batthélemy e Socino, Alciati, Panciroli, Farinaccio e finalmente Gravina.

La Spagna e l'Inghilterra obbediscono al medesimo impulso. La Francia, conviene dirlo a sua gloria, è l'ultima a lasciarsi strascinare dalla corrente. Così, nel 1554, de Thou, primo presidente del parlamento di Parigi, sostiene ancora che le ordinanze e le consuetudini sono il diritto comune del regno, e che il diritto romano non vi si ammette che come ragione scritta (54); e l'ordinanza di Blois, nel 1577, continua a vietare l'insegnamento del diritto romano nell'università di Parigi. «Proibiamo, dice l'articolo 69, a quelli dell’università di Parigi di leggere o di conferir gradi in diritto civile (55)».

Ma poco appresso, sotto l'influenza di Guglielmo Budeo, patrono del Risorgimento, di Cujaccio, padre della scuola storica del diritto romano e di altri ancora, sorge una generazione di giuristi che riempie le università dell'Europa, le corti, i parlamenti, e che in noi si perpetua nella persone di Dumoulin, di Pithou, di Rapino di Thoyras, di Talon, di Montesquieu, di Daguesseau sino alla rivoluzione francese. Il culto del re e l'ampliamento del suo potere: l'opposizione alla santa Sede, e lo spavento di ciò ch'essi chiamano pretensioni della corte di Roma; la sommessione della Chiesa allo Stato, sotto il pretesto delle libertà gallicane: questi tre punti riepilogano l’insegnamento e la vita della maggior parte di quei legisti cesariani.

La stampa, il grande strumento del Risorgimento, propaga incessantemente le loro dottrine. Le edizioni delle Pandette si moltiplicano all'infinito: il che vuol dire che l'Europa letterata non mostra minore sollecitudine, a ristaurare il paganesimo politico e civile di quello chle il paganesimo filosofico, artistico e letterario. Nello spazio di ottantadue anni, dal 1579 al 1633, si contano in Francia, in Italia e in Germania soltanto, novantasei edizioni del diritto romano, in gran foglio, ricche di note e di commenti.

Da questa smania per la scienza sociale dell'antichità nasce la scuola dei naturalisti. Pei Risorgenti, il Vangelo non è più la fonte del diritto, né il tipo della perfezione sociale, come l'arte cristiana non è più la norma del bello. Per ritrovare l'una e l'altra è d'uopo ricorrere alla natura ed alla classica antichità, sua fedele interprete. Dove che, prima del Risorgimento, non si parlava che del diritto cristiano, dopo non si parla più che del diritto naturale. Gli autori di questa scienza abbondano principalmente oltre il Reno. Qual è mai autore tedesco od olandese che non abbia scritto grossi volumi o lunghi commentarii, rimpinzati di testi pagani, sopra il diritto naturale, sociale, politico e civile? (56)

Finché noi mostriamo il materiale, risultamento di tutte queste dottrine, lasciamole fermentare, e continuiamo la storia degli uomini che ne furono i grandi propagatori.



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CAPITOLO XVI.

HOBBES.



Sua vita. - Il Risorgimento ne fa un giurista cesariano. - Suo Leviathan. - Analisi di quest'opera. - Il trattato del cittadino, De cive, copiato negli autori classici. - Parole di Cicerone e d'Orazio.-Avvertenza di Balmès.- Dottrina politica di Hobbes. - Lo stato di natura.- Il contratto sociale. - Scopo della società, il benessere materiale.- Missione del potere è il procurarlo - Mezzi di procurarlo.- L'onnipotenza del principe o dello Stato. - Nell'ordine temporale. - Nell'ordine spirituale. - Potestà di regolare il culto, di far la morale, di definir la dottrina. - Il Cesarismo risorto. - Hobbes pagano sino alla morte.



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Hobbes, nato a Malmesbury, nel 1588, si diede sino dalla fanciullezza allo studio degli autori pagani. L'ammirazione dell'antichità, l'ignoranza ed il disprezzo del Cristianesimo, l'adorazione della carne, tali furono i frutti durevoli che ad esempio di tanti altri questo giovane inglese trasse dall'appassionata familiarità coi Greci e coi Romani. In tutta la sua vita Hobbes adorò la carne, cioè, secondo l'espressione del suo biografo, il vino e le donne (57). Di quattordici anni aveva tradotto in versi latini la Medea di Euripide (58).

Aristotele, ch'egli studiò per cinque anni, lo riempì di idee false, incomplete, inapplicabili sull’origine e sulle leggi della società.

Venuto in Francia, verso il 1627, s'abbandona di nuovo al suo amore per la letteratura antica e traduce Tucidide.

Però l'età lo chiama a più gravi inclinazioni e si dedica alla scienza sociale, di cui diventa uno dei maestri. Il suo oracolo è l'antichità pagana, commentata, nei tempi moderni dai giuristi Cesariani. Nella sua opera intitolata Leviathan, pare che abbia preso Dante per sua guida, riproducendone la teorica a parola per parola. Ecco l'analisi di questo libro.

Per spirito di opposizione contro i parlamentari inglesi, Hobbes predica al monarcato il più assoluto dispotismo. «La pace, dice egli con Dante, è il gran bene del mondo: senza di essa non vi ha sicurezza in uno Stato: la pace non può sussistere senza l'imperio, né l'imperio senza le armi: le armi nulla valgono se non sono nelle mani d'un solo: il timore delle armi non può condurre alla pace coloro che sono indotti a combattere per un male più terribile della morte, voglio dire per le discussioni sulle cose necessarie alla salute (59)».

Per distruggere questa causa di turbolenze, egli trae al Cesarismo e ad una religione di Stato posta sotto la dipendenza del principe; le quali cose tutte sono lo scompigliamento dell'ordine sociale cristiano e che la cattolica Chiesa non potrà mai permettere. In questo pensiero, Hobbes, per piaggiare l'orgoglio dei re, svela ai loro occhi la pittura dei mali immaginari che la santa Sede ha fatto nel mondo. Questa filippica è di tal fatta violenta, che l'autore, non sentendosi sicuro, lasciò Parigi nel cuore dell’inverno e prese mare per l'Inghilterra (60). Ciò avveniva nel 1651.

Durante la sua dimora in Francia, Hobbes aveva anche composto l'opera che lo ha levato in riputazione. Vogliamo parlare del suo Trattato del cittadino, De cive, che ci resta a far conoscere. In questo libro di filosofia sociale, Hobbes riproduce con una crudezza di linguaggio degna di Machiavelli, i principii e le conseguenze del Cesarismo antico.

Come tutti i giuristi del Risorgimento ei muove dallo stato di natura. Secondo Hobbes, gli uomini sono naturalmente malvagi: di che risulta che lo stato di natura era la guerra di tutti contro tutti. Che poi gli uomini siano tutti cattivi, Hobbes lo afferma non già con la scorta della Rivelazione, ma sull'autorità dei grandi uomini dell’antichità classica. Cita il detto di Catone il vecchio, che chiama i re animali della razza delle tigri (61); e quello d'un altro che dice che i popoli sono della razza dei lupi (62). Hobbes dà ragione all'uno e all'altro.

Vedesi qui quali sono i suoi autori prediletti. Ovidio, Virgilio ed altri classici hanno fatto la più leggiadra pittura dello stato di natura: era l'età dell'oro. Ve ne ha di quelli che lo hanno dipinto con colori tutti diversi, e fra questi si annoverano Orazio e Cicerone: Hobbes è del loro parere. Così, allorché Rousseau e Brissot ci presentano il selvaggio siccome il tipo dell'uomo primitivo; e lo stato di natura come il regno assoluto della felicità; quando Hobbes, Machiavelli e la loro scuola ci diranno tutto il contrario, sapremo che né gli uni né gli altri non hanno inventato nulla. Essi non fanno che ripetere in diverso modo, ma fedelmente l'antichità pagana; non fanno che recitare la lezione dei loro maestri.

Altrove abbiamo citato i sogni dorati di Virgilio e di Ovidio; per finirla e per provare una volta ancora che le più opposte teoriche sociali sullo stato primitivo dell'uomo, riprodotte dai moderni, sono copiate negli antichi, riferiremo le parole d'Orazio e di Cicerone.

«Fu un tempo in cui gli uomini andavano vagando per le campagne a guisa delle bestie, e si procacciavano il vitto come le belve feroci, nulla facendo col lume della ragione, ma per la forza soltanto. Non si aveva nessuna religione, né principio di moralità; né vi aveva leggi che regolassero i maritaggi. Non sapeva il padre quali fossero i suoi propri i figli, e niuna legge di equità governava i possedimenti dei beni. Di tal guisa le cieche e sfrenate passioni regnavano tirannicamente in mezzo all'errore ed all’ignoranza, abusando, per saziare gli abominevoli loro appetiti, le forze del corpo » (63).

Orazio mette in versi la dottrina di Cicerone:

«Quando gli uomini, dice egli, incominciarono a trascinarsi carpone sulla terra, non erano che un armento d'immondi e muti animali che si contendevano le ghiande e i covili con l'unghie e coi pugni, poi coi bastoni e con le armi che l'esperienza insegnò loro di fabbricare: finché trovarono parole e nomi con cui significare i loro sentimenti. A poco a poco si stancarono di battagliare, ed incominciarono a rizzar città ed a costituir leggi, perché niuno fosse né ladro, né assassino, né adultero; imperocchè anche prima di Elena, la donna fu tremenda cagione di guerra; ma perirono d'oscura morte (64) coloro cui il più forte uccideva, come fa negli armenti il toro, disputandosi così i diletti della Venere vaga. Se vorrai svolgere i fasti del mondo, sarà d’uopo che confessi le leggi essere state inventate pel timore dell'ingiustizia, poiché la natura non può discernere l'equo dall'iniquo (65)»

«Singolare coincidenza d'opinioni, esclama Balmès, in ordine all’origine della società, fra i filosofi dell'antichità, privi del lume della fede, e quelli dei nostri giorni i quali hanno abbandonato questo lume: gli uni e gli altri mancando dell'unica guida che è il l'acconto di Mosè, non sono giunti, cercando l'origine delle cose, che a trovare il caos nell'ordine fisico come nell'ordine morale. Con piccolissima differenza in Orazio ed in Cicerone si trova lo stesso linguaggio che in Hobbes, in Rousseau ed in altri scrittori della medesima scuola (66)».

La coincidenza a noi non sembra puntio singolare. Avvi forse qualche singolarità che uomini educati dagli stessi maestri, nutriti delle medesime idee, abbiano le stesse opinioni? Quello che debba parere ben altrimenti singolare si è l'ostinazione con cui certe persone mantengono che lo studio degli autori pagani è senza pericolo dal momento che vi si tolgono le più turpi oscenità e che vengono spiegati da professori che sono sacerdoti o religiosi. I brani di Cicerone e d'Orazio che abbiamo riferito non contengono oscenità; si trovano nelle edizioni purgate per uso delle case cristiane di educazione. Osservate però quello che producono: la confusione di tutte le nozioni sull'origine delle cose; del potere del linguaggio, il razionalismo, e lo sconvolgimento dell'ordine religioso e sociale!

La conseguenza necessaria dello stato di natura, secondo Hobbes, è il patto sociale. Stanchi di vagare per le foreste, di trucidarsi, di vivere in perpetuo timore, gli uomini un giorno si riuniscono e convengono di vivere in società. Stipulano un contratto, in virtù del quale tutti si spogliano dei loro diritti e della personale loro indipendenza in favore del capo a cui si sottopongono e che viene incaricato di proteggere la comunità (67). Così l'uomo crea la società come farebbe un mercato o fabbricherebbe una casa, senza che Iddio vi abbia parte. Da questa teorica risulta da una parte che ogni potestà emana dall'uomo, il quale la dà a prestito, ma non l'aliena mai: quest'è la Rivoluzione in principio (68); e dall'altra parte, che la società non ha il diritto di vita e di morte. In fatti, la società o la potestà che la rappresenta non ha altri diritti che quelli che le sono stati conferiti dai membri della comunità. Ma niun membro della comunità ha il diritto di vita e di morte sopra sé medesimo, altrimenti giustificate il suicidio.

In ciò, se non m'inganno, trovasi l'origine misteriosa della duplice tesi tanto sostenuta, dopo il Risorgimento, in favore del suicidio, per giustificare la pena di morte; o dell'abolizione della pena di morte, fondata sul difetto radicale del potere della società di togliere la vita ad uno dei suoi membri.

L'uomo, avendo fatto la società senza il soccorso di Di e pel suo personale interesse, si è proposto non l'adempimento sociale dei comandamenti di Dio, ma il soddisfacimento dei suoi bisogni, il benessere ed il piacere. Tutto il mandato del principe consiste in procurargli questi vantaggi, in assicurargliene il tranquillo godimento: in questo è tutta la politica.

«La salute del popolo, dice Hobbes, è la legge suprema; e per salute non si dee intendere la conservazione d’una vita qualsiasi, ma d'una vita, per quanto è possibile, felice. Imperocchè, istituendo liberamente le società, gli uomini hanno avuto per fine di vivere piacevolmente al possibile. I re violerebbero dunque la legge di natura se non contendessero con tutti i mezzi legali di provvedere abbondantemente non solo alla sussistenza, ma anche ai piaceri di tutti i cittadini (69)».

Nobile politica, che dopo quindici secoli di Cristianesimo riconduce le nazioni incivilite al panem et circenses dei Romani!

Ma ciò non è tutto: il ben essere e la pace per godere del ben essere sono il fine della società rigenerata: sarà quindi dovere del principe disporre del potere necessario per assicurare l'uno e l'altra. Potere sovrano nell'ordine ternporale, potere similmente sovrano nell'ordine spirituale: ed abbiamo il Cesarismo in tutto il suo splendore.

Potere sovrano nell'ordine temporale. Conformemente alla dottrina dell'antichità, Hobbes stabilisce che riferibilmente al principe o allo Stato il diritto di proprietà non esiste. «L'accordare, dice egli, a tutti i cittadini il diritto assoluto di proprietà sopra ciò che possiedono, è una massima sediziosa. Intendo un diritto che esclude non solamente quello degli altri cittadini, ma quello eziandio della nazione. Siffatto diritto non esiste. Chi ha un padrone non ha dominio (70)».

Per provarlo ricorre al diritto antico e mostra che il padrone ha la potestà tanto sui beni quanto sulla persona dello schiavo; ed a questo potere dispotico egli pareggia quello del capo della città. «Infatti, egli dice, lo Stato o la città è padrone di tutto, a tenore del patto sociale. Prima di questo contratto non ci aveva proprietà per nessuno: tutto, era comune. Dimmi dunque donde si deriva il diritto di proprietà se non dallo Stato? Ed allo Stato donde gli deriva se non dalla concessione che gli ha fatta ciascuno? Tu dunque, come gli altri gli hai conceduto il tuo diritto. Il tuo dominio e la tua proprietà è dunque ciò che piace allo Stato e dura finché gli piace» (71).

E in altre parole: la legge fa la proprietà: la nazione fa la legge: dunque la nazione può disfare la proprietà, impossessarsi di tutto o rimetter tutto in comune. Questo è letteralmente l'antico diritto cesariano: letteralmente la teorica spoliatrice della rivoluzione: letteralmente il tema favorito del socialismo e del comunismo.

Potere sovrano nell'ordine spirituale. Vi è una cosa che più d'ogni altra può disturbare il tranquillo godimento del ben essere: ed è la religione. In virtù del suo mandato, il principe ha il diritto e il dovere di giudicare se una dottrina religiosa é portatrice o no di pace; il diritto e il dovere di ammetterla o di proscriverla.

«Importa sommamente alla pace pubblica, dice Hobbes, che non s'insegnino ai cittadini opinioni o dottrine in conseguenza delle quali essi credano di non potere in coscienza obbedire alle leggi dello Stato, cioè agli ordini dell'uomo o dell'assemblea che dispone della sovrana potestà: o che sia permesso di resister loro: o che l'obbedienza gli esponga a castighi più grandi della disobbedienza. Infatti, se il principe comanda qualche cosa sotto pena di morte temporale, ed il prete la proibisca sotto pena di morte eterna, e sì l'uno come l'altro col medesimo diritto, ne conseguirà non solo che i cittadini anche innocenti potranno essere legalmente puniti, ma eziandio che la società perirà.

«Niuno può servire a due padroni. Ora, colui al quale crediamo dover obbedire per tema dell'eterna dannazione non è meno padrone di quell'altro a cui si obbedisce per timore della morte temporale: e lo è anche un po' più. Dunque il capo della società, principe o senato, ha solo il diritto di giudicare le opinioni e le dottrine contrarie alla pace e di proibire che vengano insegnate (72)».

Ecco giustificato Nerone; ed ecco il Cesarismo pagano con tutte le sue prerogative d'un tempo.

E perché, poi, si sappia bene che intende di assorbire la potestà spirituale a profitto della temporale, Hobbes ha cura di aggiungere: «Quello che ho detto riguarda la potestà che in certi regni molti attribuiscono al capo della Chiesa romana ... Il giudizio delle dottrine per sapere se sono o no contrarie all'obbedienza civile; e se vi sono contrarie, il diritto di proscriverle, io lo attribuisco qui alla potestà civile, poiché, da una parte, niuno può ricusare al capo dello Stato il diritto di sopravvegliare alla pace ed alla difesa della società; e dall'altra parte è manifesto che le dottrine di cui ho parlato, interessano la pace pubblica, ne segue necessariamente che il principe ha il diritto di giudicarle, di permetterle o di proibirle (73)».

Non solamente la dottrina, religiosa, ma anche il culto debba essere regolato dallo Stato. «È d'uopo, dice il giurista cesariano, obbedirgli in tutto ciò ch'esso prescriverà come modo di onorare la Divinità, cioè come parte costituente il culto» (74).

Riguardo alla morale è il principe che la fa, come nell'antichità, «per regola generale, dice Hobbes, non si deve chiamare omicidio, adulterio o furto se non ciò che per tale è dichiarato dalle leggi civili. Non solamente presso gl'infedeli, ma anche presso i cristiani, l'autorità del principe debba dare le regole della morale. A lui spetta il diritto di determinare quello che è delitto e quello che no, quello che è giusto e quello che ingiusto. Donde manifestamente risulta che anche negli Stati cristiani devesi obbedienza al governo in tutto, tanto nelle cose spirituali come nelle temporali (75)».

Tale è il brutale dispotismo a cui condanna l'umanità. E non vuole si resista, e molto meno che si ribelli: «stantechè sarebbe un violare il patto sociale! (76).

Queste dottrine che risospingono le nazioni moderne nel pieno paganesimo, vengono da Hobbes esposte in molte opere con un'asseveranza e con un vigore di logica che vi farebbero dubitare s'ei non sia di buona fede.

Ad ogni modo si chiede come quel potente ingegno sia giunto a siffatta aberrazione. E come vi sono giunti i giuristi cesariani suoi predecessori e suoi successori, Bucanano, Bodino, Rousseau, Mably, e tutta la scuola rivoluzionaria? Partendo da questo duplice assioma consacrato dal Risorgimento: Che i secoli cristiani in cui regnò la politica cristiana furono secoli di servitù civile e di usurpazione pontificale; che i secoli pagani in cui regnò il Cesarismo popolare o imperiale furono i veri secoli della libertà e della civiltà. Dal che, per Hobbes, come per gli altri, il regno sociale del Cristianesimo è una lacuna negli annali dell'umanità: il diritto pubblico da esso stabilito non vale punto. Per rannodare la catena della scienza politica, è d'uopo connettere l'età moderna con l'età anteriore al Vangelo, muovere dai principii del diritto naturale, quali li ha conosciuti ed applicati la classica antichità; e, con le loro conseguenze, formolarli in sistemi in servigio dell'Europa imbestialita dal Cristianesimo.

Con una spaventevole indifferenza, Hobbes suppone che la Chiesa non esista nel mondo, e che sotto il cielo non vi abbia verun tribunale divinamente istituito per interpretare infallibilmente le reggi divine, di guisa che i sovrani temporali sono ancora in oggi quello che furono nell'antichità: imperatori e sommi pontefici: imperator et summus pontifex.

«L'affermare che cotal diritto d'interpretazione spetta ad un’autorità estranea distinta dalla potestà civile, è un pretendere che i sovrani o i governi abbiano affidato la direzione della coscienza dei loro sudditi ad una potenza ostile: il che è il colmo dell'assurdità. Infatti, ovunque la potestà spirituale e la potestà temporale non sono concentrate nella stessa mano, sono in stato di ostilità. Resta fermo dunque che in ogni Stato cristiano il diritto d'interpretare la santa Scrittura, cioè il diritto di por fine a tutte le controversie dipende e deriva dai capi del governo (77)».

Così, negate l'infallibilità del papa, ed eccovi costretti ad ammettere l'infallibilità del principe o del parlamento: negate il sindacato del Vaticano, ed eccovi costretti ad ammettere il sindacato delle barricate, o l'avvilimento del bruto: negate il primato sociale della Chiesa, e siete costretti ad ammettere l'onnipotenza di Cesare: maledite alla politica cristiana e cadete turpemente nella politica pagana. Il vostro peccato tragge dietro a sé la punizione. Guai ai ciechi che guidano le nazioni nella via dell'errore: ma guai ancor più a coloro che gli hanno accecati!

Hobbes predilige sino alla morte gli autori pagani che lo avevano ubriacato delle loro dottrine, e rende l'estremo sospiro in loro compagnia. Si vede questo vecchio di ottant'anni, fedele alle tendenze della sua giovinezza, prepararsi a comparire davanti a Dio traducendo in versi inglesi l'Iliade e l'Odissea. La sua religione è quella di Socrate. Essa è semplice e facile: praticare alcune virtù umane: dubitar di tutto, abbandonarsi alle passioni del cuore, ammirare sopra tutto la bella antichità; consacrare la propria vita a farla rivivere, ispirandosi continuamente alla lettura dei suoi grandi uomini: ecco Hobbes intero (78).


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CAPITOLO XVII.

GRAVINA



Riassume il Cesarismo. -Classico fin dalla giovinezza. - Muta il suo nome di battesimo e quello del suo villaggio. - Compone tragedie pagane. - Fonda l'accademia degli Arcadi.- Linguaggio usato in quell'accademia. - Gravina, si propone di ricondurre il mondo allo stato di natura. ­ Coi suoi soci abbraccia la vita pastorale. - Leggi che dà agli Arcadi. - Redatte con lo stile delle dodici Tavole. -Esorta costantemente al culto dell'antichità. -Richiamo contro il Risorgimento e gli studi pagani. - Cattiva risposta di Gravina.



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Nella catena della tradizione cesariana, molte anella intermedie separano Hobbes da Gravina. I limiti di quest'opera non ci permettono di occuparcene. Però tutti sono della stessa materia di coloro onde abbiamo dato e daremo l'analisi. Ammirazione della politica pagana, negazione dell'azione sociale della Chiesa, predicazione del Cesarismo imperiale o popolare, tali sono invariabilmente gli elementi di cui si compongono.

Riguardo poi a Gravina molte ragioni comandano di farlo conoscere in tutte le sue particolarità. Egli è il più celebre giurista.

Cesariano di questi ultimi tempi; venuto essendo dopo gli altri, riassume la dottrina dei suoi predecessori; ha scritto in Italia, ed è bene che si sappia se, non ostante la presenza del papato, l'influenza della politica pagana si facesse sentire nella Penisola, così bene come in Francia, in Inghilterra, in Germania, e nelle altre parti dell'Europa; finalmente Gravina che chiude il XVII ed apre il XVIII secolo la cui politica è da esso inaugurata.

Il piccolo villaggio di Ruggiano, nella Calabria, vide nascere nel 1664 un fanciullo che al fonte battesimale ricevette il nome di Giovanni: questi era Gravina. In tenerissima età fu mandato a Napoli ad esservi educato; ivi si trova, come tutti i suoi condiscepoli, al cospetto dell'antichità greca e romana, che maestri piamente pagani non cessano dal magnificare ai loro alunni. Il giovane Gravina ascolta avidamente, e ben presto entra in questa persuasione che tutto ciò che non è greco o romano non è né bello né rispettabile; che per figurare onoratamente nel mondo illuminato è necessario aver qualche cosa d'antico, e che l'uomo più invidiabile sarebbe quegli che per le idee, pel gusto, pel linguaggio, pei nomi e per le memorie avesse di più del greco del romano.

Per conseguenza, all'uscir di collegio, vuol essere romano e cangia il proprio, nome di Giovanni in quello di Giano. Ma non basta l'essere Romano; e vuol essere Greco; e quando verrà a Roma a fondarvi l'accademia degli Arcadi prenderà il nome di Bione di Crate (79). Il villaggio di Ruggiano non è nominato da Tito Livio: Gravina si fa dunque originario dell'antica Consentia, e s'intitola civis Consentinus. In ciò non si limita la sua imitazione. «Ad esempio di Pomponio Leto, dice l'autore della sua vita, ammira la superstizione dei Romani, e li loda di convocare il senato nel tempio degli dei, affinché la presenza della Divinità, gl'ispirasse savi consigli (80)».

«Gravina teneva questa sacrilega maniera di pensare del suo compatriota Pomponio, talmente fanatico per lo studio degli autori pagani, che preferiva la religione pagana alla cristiana; e che avendo innalzato un altare a Romolo, pel poco non gli offrì sacrifici, dicendo che il cristianesimo era da lasciarsi ai soli barbari» (81).

Pieno di entusiasmo per la letteratura e la politica dell’antichità, Gravina andò a Roma in età di venticinque anni: ivi passò il restante della sua vita non nella città dei papi, ma nella città dei Cesari. Nominato professore di diritto alla Sapienza, svolge alla presenza della gioventù quelle dottrine che quanto prima analizzeremo, componendo ad un tempo tragedie antiche: Palamede, Andromeda, Appio Claudio, Papiniano e Servio Tullo.

Componendo le sue tragedie, Gravina aveva per fermo voluto mettere in pratica le regole da lui stesso insegnate; poiché egli è, autore di un'Arte poetica. La Ragione poetica è un'opera perfettamente pagana, nella quale Gravina si sforza di stabilire che l'amor platonico non è una chimera. «Ci ha, dice il Giornale letterario, la più sottile metafisica e ad uso di pochissime persone» (82).

Per sopravvivere a sé medesimo e perpetuare il gusto antico, di cui è adoratore e di cui si crede pontefice, Gravina, nel 1696, fonda l'accademia degli Arcadi. Le usanze, le leggi, lo scopo di questa società indicano assai chiaramente che, da certe modificazioni in fuori, lo spirito di Pomponio Leto viveva ancora in Roma. Ora, in un'accademia fondata da Gravina con l'intendimento di conservare in tutta la sua purezza primitiva il gusto antico, idee, linguaggio, forme dello stile, tutto debba esalare il profumo dell'antichità.

Innanzi tutto, i nomi dei soci sono nomi pagani. Alessandro Guidi chiamasi Erilo Cleoneo; e, come abbiamo già veduto, Gravina è, divenuto Bione Crateo. Allorché nel 1740 quest'accademia ascrisse Voltaire fra i suoi membri, volendo fargli il massimo onore che nel mondo letterario si conoscesse, gli diede il soprannome di Museo, il che significa gran sacerdote delle Muse e loro primo favorito. Lo stesso Voltaire, per rendere il contraccambio, chiamava l'abate di Lilla Publio Virgilio di Lilla (83).

L'Accademia ha un consiglio composto, di dodici membri che si chiamano i duodecemviri. Essa si propone due cose: la prima, un innocente desiderio di gloria: la seconda, di rendere l'immagine della vita pastorale dei primi uomini, l'innocente loro semplicità, la perfetta loro eguaglianza, in una parola, la beatitudine d'una società vivente, nello stato di natura, senza capo, e soltanto in virtù d'un patto fra i suoi membri: e tutto questo era lo scopo di mutare con tale spettacolo, i costumi del mondo! Ma vuolsi udire lo stesso Gravina, altrimenti niuno ci vorrebbe aggiustar fede.

Nella sua orazione inaugurale Pro legibus Arcadum, egli discorre in questa forma:

«Arcadi! lo giuro per Ercole! nulla noi abbiamo in comune con gli ambiziosi e con gli avari. Sei anni prima di riunirci nei campi e di abbracciate la vita pastorale, abbiamo, con l’intendimento di abbandonar la città, rinunziato all'orgoglio, ai brogli, all'avarizia, ed alle pompe mondane. Or che siamo ritornati alla semplicità della natura, contendiamo concordemente d'imitarne l'innocenza ed il candore. Abbiamo messo in comune i nostri diritti e le nostre volontà. Abbiamo un consiglio composto d'un custode e di duodecemviri, i quali governano i negozi della società; ma i loro atti non sono validi se non dopo che sono stati approvati da tutta la Repubblica: quest'è l'eguaglianza perfetta. Fra noi nessuna distinzione di grado; né di dignità, come conviene, ad uomini che si sono spogliati della larva civile per ritornare alla vita pastorale. Ci siamo interdetto il patrocinio dei grandi che spesso mutasi in dominazione.

«La vostra costituzione, o Arcadi, è chiara e semplice quale conviensi, ad uomini che, purificati da ogni macchia d'ambizione del secolo, muovano da sé stessi verso la legge della natura, a cui dopo un lungo esilio siamo finalmente resi, e nel seno della quale abbiamo attinto le leggi che dettammo in latino ... L'unico nostro scopo, oltre il culto delle lettere, è un innocente desiderio di lode (84)».

Sciocchezze e puerilità! Non si dimentichi per altro che queste puerilità e queste sciocchezze, passate dai collegi nei cuori e sulle labbra delle generazioni letterate, furono nel 1793, la sostanza e la forma della festa della Natura, una delle pagine più umilianti della storia dello spirito romano: la sostanza e la forma del sistema politico della Rivoluzione, che per cinque anni martirizzò la Francia per ricondurla allo stato di natura.

Nella Repubblica d'Arcadia, i nomi, le idee, lo scopo della società sono classici: non basta: affinché tutto sia in armonia, le leggi stesse vennero dettate nello stile delle Dodici Tavole (85).

Poiché Gravina si propone di convertire il mondo, offrendo alla sua imitazione una società ritornata allo stato di natura, consacrata al culto delle lettere antiche ed animata dal solo desiderio della gloria, non trascura veruna occasione di predicare l'amore dell'antichità e di tuonare contro il medio evo così barbaro per averla disprezzata. Tale è l'argomento di quelle due orazioni, della Ristaurazione degli studi e dello Spirito degli studi (86). Ma nella sua orazione dello Investigare le fonti delle dottrine, Gravina dà libero corso al suo zelo per ricondurre, il mondo al culto dell'antichità. La diceria comincia così:

«Dappoichè la Grecia venne in potestà dei barbari, la dissoluzione invase le contrade un tempo più floride dell'universo e costrinse i dotti a prendere l'unanime risoluzione d'abbandonare i loro Penati, di recarsi in terra straniera, e, recando seco la scienza dei Greci, di riparare in Italia in un sacro asilo. Di quanto questa calamità impoverì di gloria la Grecia, di tanto ne procacciò all'Italia. Alla Grecia adunque l'Italia fu debitrice una seconda volta del lume delle scienze. Le arti che un tempo i Romani vincitori della Grecia recarono in Italia, e che poscia perdettero, queste stesse arti, costrette a fuggire, le abbiamo ricuperate per opera di Emanuele Crisolaro, di Bessarione; di Giorgio di Trebisonda, di Gaza, d'Argiropulo, di Calcondila, di Lascaris. Istruiti da essi nelle lettere greche, Leonardo Aretino, Filelfo, Guarino, Poggio ed altri ancora fondarono scuole di greca letteratura per tutta Italia (87)».

Questo zelo ridicolo insieme e pericoloso per l'antichità pagana, quest'insulto gettato costantemente in viso ai secoli cristiani, accusati di barbarie poiché altri lumi non ebbero che quelli del Vangelo, dei papi e dei Padri della Chiesa, risvegliavano nelle persone savie e previdenti vive e troppo giuste rimostranze. Secondo l'usanza dei suoi predecessori, Gravina non si degna di nominarne gli autori. Si contenta di trattarli come i suoi successori trattano noi stessi, da discepoli di Giuliano, da crociati in zoccoli.

«Nuovo genere di pietà, esclama egli, il perseguitare le lettere e l'infamare da per tutto le belle arti! ... Non arrossiscono di stornare la gioventù dallo studio degli autori greci e latini, come da uno studio profano ed indegno di questa religione, della quale queste stesse lettere, sotto gli auspici della Divinità, hanno fatto per tanto tempo l'educazione. Ma vanno più avanti: la dottrina di Platone, regina un tempo delle scuole cristiane, cui veggono rifiorire ai giorni nostri, e dopo tanti secoli ripigliar nuova vita, non possono soffrire che venga studiata. Essi condannano anche i poeti. Ah! se la gioventù li studiasse, si asterrebbe dagli spettacoli e dai luoghi cattivi. Le funeste conseguenze del vizio così ben dipinte nei loro versi sarebbero salutare ammaestramento alla sua inesperienza » (88). Questo è proprio perentorio! «Giovane, se vuoi conservarti casto, leggi Ovidio, Catullo, Tibullo, Orazio, Virgilio.

Sant'Agostino pensava alquanto diversamente.


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CAPITOLO XVIII.

GRAVINA (Continuazione e fine).



Sua opera dell'origine e del progresso del diritto civile. - Suo sistema sociale e politico copiato in Dante. - Entusiasmo di Gravina pel diritto romano. - Suo libro dell'Impero romano. - Panegirico del Cesarismo e della monarchia universale, anima della rivoluzione e del socialismo. ­ Gravina domanda l'impero universale dell’uomo. - Vuole che la sede ne sia in Roma. - Eccita ad entusiasmo i giovani Romani pei loro antenati. - Per le loro leggi sante e pie. - Desidera che il diritto romano ritorni ad essere la legge del mondo intero. - Sua Orazione a Pietro il Grande. - Sua morte.


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L'entusiasmo che mostra Gravina per la letteratura pagana, lo manifesta anche pel diritto romano e per la politica di cui esso diritto è base. In fatto di scienza sociale, Gravina non inventa nulla: ei non è che l’eco di Dante, il copista di Hobbes ed il discepolo degli altri giuristi, figli come lui del Risorgimento. «Quello che lo distingue, dice il suo storico, si è che egli frammischia alle loro dottrine il libero pensare di Cartesio ed alcuni sogni di Platone (89)». L’analisi delle sue opere ce ne darà la prova. Nel suo Trattato intitolato: Dell'origine e del progresso del diritto civile (90), Gravina espone la propria opinione sull'origine delle società. Essa si riepiloga nei punti seguenti:

1° lo stato di natura;

2° la brutalità primitiva della razza umana;

3° la scoperta della ragione, provocata dalle crudeltà dello stato di guerra universale;

4° il patto sociale, fondato sulla necessità di difendersi; 5° la società instituita dall'uomo senza intervento divino;

6° la cessione della libertà in cambio della sicurezza;

7° la sovranità residente nel popolo, trasmessa in deposito dal popolo, con facoltà di ripigliarla se il popolo giudica che il suo mandatario non ne faccia buon uso;

8° il popolo romano, divenuto signore di tutti i popoli, rimettere con la legge Regia la pienezza del suo potere all'imperatore Augusto ed ai suoi successori;

9° Augusto ed i suoi successori, eredi di tutti i diritti religiosi e sociali del popolo romano e di tutti i popoli, divenuti imperatori e sommi pontefici, fondano per la felicità del mondo l'immenso impero romano;

10° l'impero romano, è indivisibile; inalienabile; e non perituro: perché è la monarchia universale (91).

Tale è il formidabile dispotismo, davanti a cui Gravina va in estasi, ed il cui felice progresso in Europa ei racconta in stile ciceroniano. Parlando ai suoi alunni della scoperta delle Pandette in Amalfi, discorre così: «Allorché, dopo un lungo silenzio furono risvegliati gli oracoli delle leggi romane, l'Italia, da lungo tempo, dimentica di sé stessa; si guardò finalmente ed in quelle leggi riconobbe l'antica maestà dell'Impero. Per esse ricuperò sull'universo mondo, già sommesso alle sue leggi, se non l'impero, l'autorità almeno del proprio nome; e quella che perduto aveva la dominazione della forza, regnò in appresso per la ragione» … «Davanti alle nostre leggi tutti i popoli inchinarono i loro fasci, e coloro che cessato avevano di obbedire alle armi dei Romani, obbedirono alla loro sapienza (92)».

Gravina non manca d'aggiungere che fin allora l'Europa era nelle tenebre, retta da leggi barbare e da consuetudini sanguinarie; ma quando apparisce il diritto romano, ogni cosa muta aspetto, la ragione trova il suo oracolo, l'Italia ripiglia l'antica sua maestà, ed un riflesso della gloria immortale degli antichi Romani illumina l'Europa, cui non aveva punto illuminato il codice evangelico!

Quello che è certo si è come abbiamo veduto che dalle scoperte delle Pandette, si manifestò, anche in Roma, un ardore per lo studio del diritto romano da dar serie inquietudini. Siffatta tendenza non sfuggì puntò allo sguardo penetrante di San Bernardo, il quale, scrivendo a papa Eugenio, gli dice: «Ogni giorno nel tuo palazzo risuonano con l'amore le voci delle leggi, ma delle leggi di Giustiniano, non di quelle del Signore. È forse pel meglio? Tu lo vedrai. Io so che la legge del Signore è una legge immacolata che converte le anime: le altre non sono leggi, ma più veramente litigi e cavillazioni (93)».

Gli encomi del diritto romano onde ingemma le sue lezioni, encomi che punto non tributa al diritto canonico di cui venne nominato professore, non bastano a Gravina. Sotto il titolo di Libro sull'Impero romano, ei rifà l'opera di Dante, e si lascia trascinare da tutto il suo entusiasmo pel Cesarismo, per la sovranità del popolo, a cui appartiene di giudicare i tiranni, e perciò non arrossisce d'invocare l’antica libertà romana (94).

«Il libro dell'Impero romano, dice Le Clerc, è quello in cui Gravina fa comparire maggiormente il genio e la conoscenza dell’antichità romana. Vedesi anche ch'egli ha avuto a cuore questa materia, e che in lui vi era zelo per la libertà antica, cui non faceva comparire se non quanto è permesso a Roma ... Riconosce nel popolo il diritto di giudicare il tiranno. Io non comprendo che si possa parlare più fortemente sul punto della libertà; e conviene dire che Gravina fosse ben ardito da tenere un simile linguaggio in Roma quale essa è al giorno d'oggi (95)».

La definizione dell'impero romano gli serve d'introduzione.

«L'impero romano, dice egli, è la società di tutte le nazioni, retta secondo le leggi dell'equità da un medesimo diritto civile e pubblico (96)». Per lui come per Dante, questa monarchia universale è stabilita nello scopo della prosperità generale del genere umano: essa è immortale, indivisibile, inalienabile: egli ne ritiene nullo lo smembramento, e ritiene lo stabilimento della sua integrità come un'obbligazione solidalmente imposta a tutte le nazioni. «Poiché l’impero romano, dice egli, è stato stabilito per la felicità di tutti, non si è potuto distruggerlo, né farne un regno personale, né mutarne la forma governativa; espressamente, o tacitamente, qualunque sia lo spazio di tempo che è trascorso: poiché non vi è né tempo né ragione che possano prevalere contro la giustizia e contro la libertà umana, fondata sull'alleanza di tutte le nazioni nel seno dell'impero romano. Che, se esso viene ad essere scrollato, o smembrato, o modificato, importa al genere umano di rassodarlo e di restaurarlo, stantechè nulla è più giusto che il mantenere e il rifare una cosa il cui dissolvimento tragge la ruina della società universale, e spezza il vincolo civile della carità (97)».

Questo guazzabuglio, non molto intelligibile, significa the, il tipo della perfezione sociale è una monarchia universale; che questa monarchia: è l'impero romano; che quest'impero esiste sempre: che se è stato manomesso o modificato, è obbligo dell'umana stirpe di fare sparire ogni guasto, e di ristabilirlo nello stato primitivo; che tutte le nazionalità debbono dileguarsi e fondersi di nuovo in quest'impero universale il cui capo è Cesare; che ivi è per ciascuna nazione in particolare, e per l'umanità in generale la condizione necessaria della libertà e della felicità.

Questo sogno gigantesco non è svanito né con Dante che, il primo, nel seno del cristianesimo, lo ha formulato; né con Gravina che lo ha rinnovato al cospetto stesso del papato. Esso è divenuto l'anima della rivoluzione francese. Quello che, essenzialmente la distingue da tutte le rivoluzioni, quello che costituisce il carattere suo proprio, si è la tendenza da essa costantemente manifestata di divenir universale. Fin dal suo nascere, lo esprime facendo la Dichiarazione dei diritti, non del Francese soltanto, ma dell'uomo in generale; proclamando la libertà, l'eguaglianza, la fraternità non di tutti i Francesi, ma di tutti gli uomini e di tutti i popoli; dichiarandosi essa stessa una, indivisibile, eterna; provocando coi suoi bandi ufficiali la ribellione universale dei popoli; facendo costantemente una guerra di propaganda, e dicendo venti volte l'ultima sua parola per voce dei suoi oratori, Barrère, Camillo Desmonlins, Robespierre e soprattutto Anacarsi Cloòtz, che non riconosce altra realtà religiosa e sociale che il genere umano di cui si dice oratore e pontefice.

Ed oggi, proclamandosi unitaria ed umanitaria; chiedendo la soppressione delle nazionalità; prendendo per grido di guerra la fraternità dei popoli, la solidarietà del genere umano, che cosa fa il socialismo, figlio della Rivoluzione e nipote del Risorgimento, se non proclamare l'impero universale dell'uomo, e procurare con infaticabile ardore l'effettuazione d'un sogno che, alla fine dei tempi, diverrà, per provare i buoni e castigare i malvagi, una terribile realtà? Non c'illudiamo: vi è nel socialismo alcuna cosa di più profondo della sete dei godimenti volgari: vi è il desiderio e l''istinto della sovranità assoluta dell'uomo, in un avvenire che Iddio conosce. E se il socialismo, impossibile nel medio evo, si è innalzato ai nostri giorni al grado di potenza di primo ordine; se tiene l'Europa in trepidazione, ciò avviene perché l'Europa, ritornando al paganesimo per tutte le vie, si è a poco a poco sottratta alla sovranità assoluta della Redenzione. In questo fatto è la ragione dell'esistenza del socialismo, il segreto della sua forza, ed il mistero dell'avvenire.

Gravina, che è debitore delle idee sue cesariane alla classica antichità ed ai moderni suoi chiosatori (98), ci dà, come Dante, la monarchia universale dei Romani, pel vero popolo di Dio, il cui impero è eterno di sua natura, e nullo di pieno diritto ne è lo smembramento. Di che consegue la nullità della donazione fatta alla santa Sede da Costantino. Tale, come abbiamo veduto, è la conclusione dei giuristi Cesariani. Nei primi albori del Risorgimento, Lorenzo Valla aveva osato di comporvi contro una diceria latina nel cuore dell’Italia (99). Cotale ardimento lo fece sbandeggiare da Roma; e Gravina, che non osa esporsi al medesimo pericolo, si contenta di porre il principio (100).

Questa pretensione cesariana, come tutte le altre, si mantenne viva. Quando spogliò la santa Sede, Napoleone non fece valere gli antichi diritti di Carlomagno sul patrimonio di San Pietro? E non abbiamo veduto, or ha soltanto pochi mesi, questa tesi medesima essere caldamente sostenuta dalla stampa rivoluzionaria? Gravina, pel quale l’impero romano sussiste ancora, atteso che esso è immortale come il genere umano, ne parla di coerenza ai giovani Romani che l'ascoltano. Ei non li chiama mai con altro nome che con quello di Quiriti. Per lui essi sono i discendenti degli antichi signori del mondo, eredi della loro sapienza e della loro gloria: ad essi intitola il suo libro dell'Impero romano, e dice loro: «A voi, Quiriti, vogliamo dedicato questo libro, i quali coll'armi e con le leggi vostre avete così ben meritato del genere umano » (101).

Non si dimentichi che con queste rimbombanti parole gli Arnaldi da Brescia ed i Rienzi scompigliarono Roma nel medio evo; esaltando questo stolto orgoglio, e ripetendo i nomi sonori di popolo romano, di Repubblica e di Campidoglio, anche oggidì i mazziniani agitano la tempesta rivoluzionaria che minaccia l'Italia.

Gravina, continuando, dice ai suoi discepoli: «Ai Greci la gloria d’aver inventato la filosofia; ai Romani la gloria d'aver con le loro leggi dissipato la barbarie. Così ha voluto il Signore Iddio ottimo massimo. La Provvidenza, in considerazione della felicità del genere umano, concede loro una sì lunga serie di vittorie; imperocchè gli avi vostri non facevano la guerra agli uomini, ma ai vizii; ed impugnavano le armi per restituir l'uomo all'umanità. Sì, o Quiriti, le vostre guerre, combattute sempre per la felicità del genere umano, furono sempre giuste e sante; e perciò meritato avete l'impero universale. Or io vi domando, Quiriti, queste leggi benefiche le avete voi date agli altri per perderle voi stessi? O non piuttosto per assicurare per loro mezzo l'eternità delta vostra gloria, e stabilire presso tutti i popoli i fondamenti dell'antica virtù del Lazio? Nello studio assiduo di cotali leggi troverete lo scioglimento di tutte le questioni che interessano il genere umano, e attingendo voi stessi alle fonti antiche, farete rivivere i costumi romani. Ora, il diritto romano altra cosa non è che la perfezione stessa della natura cui la filosofia trasse dal santuario delle coscienze, e di cui i costumi dei vostri padri furono la pratica pia e santa » (102).

È impossibile il falsare meglio la storia e di avere più temeraria fidanza sulla pubblica credulità. Immacolata la legge romana che permette il divorzio ed il concubinato, che fa facoltà al creditore di mettere in prigione il debitore insolvibile, di dargli per tutto nutrimento una libbra di farina o di crusca al giorno, di mettergli ai piedi ferri di quindici libbre, e finalmente di venderlo o di tagliarlo a pezzi; che consacra l'esposizione e la vendita del figlio; ed in certi casi ne ordina anche l’immediata uccisione (103). Santi e pii erano i costumi d'un popolo conformi ad una tale legislazione! Oh com'erano idonei a trarre il mondo dalla barbarie! Ed oh come è manifesto che Iddio ha dato ai Romani l'impero del mondo per ricompensarli d'aver dato i loro propri costumi alle vinte nazioni!

Di tal natura per altro sono le idee di cui il Risorgimento nutrisce la gioventù letterata dell'Europa cristiana: e poi si stupisce del disprezzo di questa gioventù pel Cristianesimo, del suo entusiasmo por l'antichità pagana e delle rivoluzioni che manda ad effetto o che, medita per far rivivere questo tipo della sociale perfezione!

Nessun missionario mostrò maggior zelo per la propagazione del Vangelo, di quello che Gravina per l'universale diffusione del diritto romano. Ma a lui non basta che questa benefica luce illumini l'Italia e le antiche nazioni dell'Europa occidentale: vuole che il sole di giustizia e di civiltà si levi anche sulle immense regioni del settentrione che formano il nascente impero di Russia. Per Gravina, come per tutti i Liberi pensatori del secolo XVIII, Pietro I è un eroe, un Alessandro, un Numa. Da Roma, il giurista cesariano indirizza al principe scismatico una orazione ciceroniana con esordio e perorazione; per persuaderlo ad adottare il diritto romano. L'oratore lo paragona ad Atlante, fratello di Saturno, figlio di Urano o di Rea, ad Osiride, a Cerere, ad Iside, a Bacco, a Marte, a Giove, a Giunone, a Venere, a Minerva, a Diana, a Vulcano, ad Apolline e principalmente, ad Ercole, e gli prova ch'esso ha fatto assai più di tutti gli dei e semidei insieme.

Poscia, con una prosopopea in tutta regola, volgendosi ad Ovidio e ad Ifigenia, dice al primo: «O Nasone! se tu potessi rivivere, con lacrime meno amare piangeresti il tuo esilio, vedendoti circondato non più da Sciti inumani, ma in mezzo ad una turba d'Anacarsi (104)». Ed alla seconda: «E tu, Ifigenia! non fuggiresti a passo precipitoso dalla Tauride in oggi che invece d'essere offerta in sacrificio, saresti riservata a condividere il trono d'un principe, le cui virtù sono a gara celebrate dai poeti e dagli oratori (105)».

Pietro ha il cuore più duro del suo nome se non è intenerito a tanta eloquenza, e se non cede ai desideri dell'oratore. E questi desiderii sono ch'ei faccia insegnare il diritto, romano ai Russi ed ai Cosacchi.

«Gran principe, gli dice Gravina, l'unica gloria che a te manca ed al tuo impero, si è di chiamare nel tuo consiglio, per regolare i pubblici e privati negozi dei tuoi Stati, i Soloni, i Numa, i Crassi, i Bruti, i Papiniani, gli Scevola, i Giustiniani e tanti, altri, sia fra i savi della Grecia, sia fra i re e gl'imperatori dei Romani, la cui anima, parla ancora nelle nostre leggi ... Deh lo fa, e noi ti preconizzeremo migliore di Traiano e più felice d'Augusto (106)».

Il che vuol dire: Volete incivilire barbare nazioni? Non datevi più pensiero di chiamare gl'interpreti del codice divino: contentatevi di dar loro per legislatori e per modelli i Romani ed i Greci. I Risorgenti riescono tutti a questo punto; credono che indietreggiare sia progredire.

Chiamato a Torino in sullo scorcio di sua vita per insegnarvi diritto, Gravina non poté arrendersi all'invito del principe, e morì a Roma nel 1758.


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CAPITOLO XIX.

IL CESARISMO IN PRATICA.



I re si fanno papi. - Abbattimento della politica cristiana. - Ordine di studiare da per tutto il diritto romano. - Esso supplanta il diritto consuetudinario ed il diritto canonico. - Viene imposto alle popolazioni. - Quello che né risulta. - Politica interna. - Politica generale. - Politica riguardo alla Chiesa. - Richelieu e Mazarino.



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Si raccoglie quello che si è seminato. I principii del cesarismo, tanto imprudentemente insegnati alla gioventù dell'Europa, non tardano a manifestarsi nei fatti. Per convincersene basta dar un'occhiata generale al cammino delle società dopo il Risorgimento. Sino a quel tempo la Chiesa aveva, laboriosamente, è vero, ma vittoriosamente, combattuto l'introduzione del Cesarismo nel seno dell'Europa. Nei loro principii generali come nelle loro grandi applicazioni, il diritto sociale ed il diritto civile erano rimasti cristiani. Al soffio del Risorgimento, gli argini opposti al torrente cadono rapidamente gli uni dopo gli altri. Da quel momento vedonsi tutti i sovrani d'Europa, camminando sulle orme di alcuni dei loro predecessori, aspirare a gara a rendersi. papi.

Alcuni, come i re d'Inghilterra, di Svezia, di Danimarca, di Prussia ed una turba, di principi germanici la rompono totalmente con Roma e pongono sul proprio capo la tiara pontificale. In tutta l'estensione della parola sono ritornati Cesari: Imperator et summus pontifex.

Gli altri, pur conservandosi cattolici, come gl'imperatori d'Alemagna, i re di Francia, di Spagna e di Portogallo, contendono costantemente di emanciparsi dall’autorità pontificale e di appropriarsi la più larga parte che possono della potestà spirituale. Essi pure, dunque, in grado inferiore, sono ridivenuti Cesari: Imperator et summus pontifex.

Questo fatto capitale domina tutta la politica dei quattro ultimi secoli: ne è l'anima e la face.

Ciascuna pagina della storia rivela il predominio d'un elemento eterogeneo, che altra cosa non è che il Cesarismo, che nelle nazioni moderne produce per quanto lo può permettere la resistenza dell'elemento cristiano, gli stessi risultamenti che produsse nel mondo anteriore al Vangelo.

La distinzione gerarchica delle due potestà; il primato sociale del papato; l’unione di tutti i popoli cristiani sotto l'autorità del padre comune; la pace fra loro; la guerra sempre pronta contro l'islamismo, o la barbarie che ronza intorno all'ovile; la religione, supremo, scopo delle società, e non istrumento di regno; la felicità eterna dell'umanità e non i godimenti materiali del tempo, fine ultimo di tutte le cose; tali sono le ampie basi e le alte vedute della politica cristiana.

Ma il Cesarismo moderno, come meglio può, abbatte tutto questo (107). La sua gran leva è il diritto civile e sociale dell'antichità; e si forma come una cospirazione generale per farlo prevalere. Dimenticando i divieti dei sommi pontefici che ne avevano interdetto l’insegnamento, principalmente nell'università di Parigi, divieti che l'ordinanza di Blois del 1577 aveva ancora rispettato, Luigi XIV col suo famoso editto del mese d'aprile 1679 ordina che il diritto romano sarà insegnato da per tutto e specialmente nell'università di Parigi. «D'or innanzi le lezioni pubbliche del diritto romano saranno ristabilite nell'università di Parigi, congiuntamente con quelle del diritto canonico, non ostante l'articolo 69 dell'ordinanza di Blois, e di altre ordinanze, decreti e regolamenti a ciò contrari (108)... Al prossimo incominciamento delle, scuole, il diritto canonico e civile sarà insegnato in tutte le università del regno (109)».

Vedete il progresso! De Thou, Budeo, Fournel ci hanno detto che al secolo XVI il diritto consuetudinario ed il diritto canonico reggevano ancora il regno; oggi si dà loro un rivale nel diritto romano, e questo rivale finirà ben presto col vincere i suoi due avversari e mettersi in loro luogo. Questa malaugurata sostituzione incontrò vive opposizioni nello spirito cristiano dei popoli, e specialmente in Alemagna. Ecco quello che riferisce l'erudito dottor Jarcke:

«L'introduzione successiva del diritto romano, dice egli, aveva alterato le antiche relazioni patriarcali tra signore e vassallo.

«Quello che posava sulla consuetudine particolare e puramente locale, la presunzione e l'ignoranza dei giuristi romani pretesero di giudicarlo applicandovi letteralmente un sistema di diritto creato mille anni prima in un altro paese e per un altro popolo. Questi dottori non intendevano né i diritti delle persone, né i diritti costitutivi della proprietà esistenti presso i paesani tedeschi. Alle une applicavano le forme della libertà e della schiavitù dei Romani; agli altri, le teoriche romane dell’enfiteusi, della servitù, del contratto di locazione. Il diritto straniero era sempre posto come regola.

«Così più d'una volta la teorica dei giuristi romani, trinciando alla cieca nelle relazioni sociali dell'Alemagna, dichiara liberi paesani evidentemente servi, ed inschiavisce ingiustamente altri, a motivo di certi servizi e tributi che avevano tutt'altra significazione. Questo duplice abbaglio irritò ed inasprì gli animi. In tutti diffondevasi quel penoso sentimento dell'incertezza del diritto, madre feconda delle grandi rivoluzioni... Da ciò quell'articolo speciale del trattato di Tubinga che esclude dai tribunali i dottori in diritto romano, e guarentisce le antiche consuetudini del paese (110)».

Il Cesarismo per altro non si tenne per sconfitto.

Non ostante il trattato di Tubinga, il diritto romano continuo il suo viaggio invasore; e quel forzato retrocedere all'antichità fu la principale cagione della guerra dei paesani che mise a fuoco ed a sangue tutto il mezzodì dell'Alemagna.

Intanto che nell'ordine civile il diritto cesariano costringendo come in ceppi le nazioni cristiane, irrita ed impaccia tutte le relazioni sociali, annienta a poco a poco le antiche franchigie, soffoca le tradizioni nazionali, e foggia le anime al dispotismo: nell'ordine sociale tende al medesimo scopo, e muta tutte le antiche relazioni dei re coi popoli; dei re coi re, e finalmente delle nazioni con la Chiesa. Di che, per bene provarne l'influenza, risultano questi tre grandi punti sotto cui devesi riguardarlo: la politica interna, la politica esterna e la politica in riguardo alla santa Sede. Ora, e possiamo dirlo anticipatamente, l’ultima parola di tutto questo è, come nell'antichità, l'onnipotenza dell'autorità temporale, ossia l'apoteosi dell'uomo.

Politica interna. Eccetto alcune differenze in più o in meno, la politica interna è stata la stessa in tutta l'Europa dopo il Risorgimento. Conviene eccettuarne l'Inghilterra, la quale, secondo il detto notevolissimo di Giovanni Russel, s'accorse a tempo che gli studi pagani ne minacciavano la costituzione ed ebbe tanta mente di restringerli in limiti tali che cessarono d’essere un pericolo (111)».

Sotto l'influenza delle regine della casa de' Medici e degli Italiani che le accompagnarono, la Francia cammina con rapido passo nella via del Cesarismo. «Dapprima, dice Gentillet, eravamo sempre governati alla francese, cioè secondo le norme e gl'insegnamenti degli antichi; ma dappoi fummo governati all'italiana, ed alla fiorentina, cioè secondo gli insegnamenti del Fiorentino Machiavelli» (112). Ora, uno dei punti fondamentali della politica di Machiavelli, che non è, come abbiamo mostrato, che il Cesarismo antico, consiste nell'innalzare l'autorità del principe sulle ruine di tutto ciò che potrebbe fargli ostacolo o dargli ombra.

Due ministri famosi, Richelieu e Mazarino, secondati dai giuristi, diventano gli strumenti di questa politica d'assorbimento e d'assolutismo. Sotto i loro sforzi pertinaci, spariscono le costituzioni dello Stato, i privilegi della nobiltà, la maggior parte delle franchigie provinciali: altrettanti poteri che controbilanciarono il potere supremo, altrettante barriere al dispotismo regio, che sino allora avevano reso impossibile il detto che pronunciò poscia Luigi XIV: Lo Stato sono io.

Dopo aver decimato la nobiltà con la guerra e col patibolo, Richelieu fa due cose per assoggettarla al giogo del re: ei l'incatena con una moltitudine di provvisioni vessatorie, fra cui la famosa ordinanza del mese di gennaio 1629, e la corrompe chiamandola alla corte. Quest'ordinanza interdice alla nobiltà ogni specie d'assemblea, non le permette di avere che un piccolo numero d'armi nei suoi castelli, e vuole che non possa sperare verun soccorso di fuori. Perciò dichiara sospetta qualunque comunicazione con gli ambasciadori dei principi stranieri, proibisce di vederli, di ricevere veruna lettera da loro, interdice a chiunque di uscire dal regno senza osservare certe formalità che fanno sapere ai Francesi che sono prigionieri nella loro patria (113).

«In seguito alle regine date alla Francia dalla casa de' Medici, dice Federico di Prussia, venne il cardinale Richelieu, la cui politica non aveva per scopo che di abbassare i grandi per innalzare la potenza del re, e per farla servire di base a tutte le parti dello Stato. Ed egli vi riuscì così bene che oggidì non rimane più orma in Francia della potenza dei signori e dei nobili, e di quel potere di cui i re pretendevano che i grandi abusassero.

«Il cardinal Mazarino camminò sulle tracce di Richelieu. Trovò molta opposizione, ma vi riuscì. La stessa politica che condusse i ministri a stabilire un dispotismo assoluto in Francia, insegnò loro la destrezza di sollazzare la leggerezza e l'incostanza della nazione per renderla meno pericolosa (114)».

Non solamente sollazzarono la nazione distraendola dai suoi domestici negozi per foggiarla alla docilità monarchica, ma l’avvilirono. «Occupando gli uomini di ciò che le arti, le scienze, le lettere ed il commercio hanno di più a attraente, introdussero il lusso, il cui contagio fece conoscere nuovi bisogni, che ruinavano i grandi. Costretti a mendicare fuori per sfoggiare un vano fasto, si preparavano alla schiavitù. Il contagio fu recato in tutti gli ordini dello Stato, e uomini oscuri arricchirono scandalosamente a danno del popolo. Furono invidiati, e l'amore della pecunia non lasciò sussistere negli animi verun elevato sentimento (115)».

Il Risorgimento venne ad aiutarli in modo meraviglioso: Esso aveva creato il teatro, i balli, le feste Olimpiche che il Padre delle lettere Francesco I, aveva introdotto in Francia. «Dopo il suo regno, dice Sully, non si vedeva e non si udiva parlare che d'amore, di danze, di balli, di corse d'anello e di altre galanterie, nel paese dove risiedevano le quattro corti di Caterina, di Margherita, di Monsieur e del re di Navarra (116)».

Richelieu e Mazarino le incoraggiarono a tutto potere. Fra mine fatti conosciuti da tutti, ci contenteremo di riferirne uno solo che lo è un po' meno degli altri.

Nel 1595 nacque a Parigi il poeta Desmarets. Questo giovane piacque al cardinale di Richelieu che lo rivolse alla poesia drammatica per la quale egli non aveva veruna inclinazione. Un primo ministro del re è cristianissimo, un cardinale che spinge un giovane a scrivere pel teatro, quest'è anzi tutto uno strano mistero, ma questo mistero viene spiegato, ovesi rammenti che Richelieu è un politico del Risorgimento, e pel quale, a detta del suo confidente intimo abate di Bois-Robert, Tacito era il breviario di Stato. Ora, pei politici di questa scuola, il fine santifica i mezzi; e volendo Richelieu, mediante l'indebolimento della nobiltà fare del re di Francia un re assoluto, una specie di Cesare, come coloro la cui storia assiduamente studiava, conveniva tirare la nobiltà alla corte. Né ciò bastava ancora: conveniva divertirla con splendide feste, farle amare la propria servitù e farle spendere il suo danaro. Tale è la ragione machiavellica del zelo, altrimenti inesplicabile del famoso cardinale pel teatro e per le feste drammatiche.

Ascoltiamo a questo proposito Pélisson, nella sua Storia dell’Accademia francese. Dopo aver detto che, quando il cardinale conosceva un bello spirito che non si determinava da sé medesimo a scrivere pel teatro, ve lo induceva con ogni maniera di premure e di cause, aggiunge: «Vedendo che il signor Desmarets ne era alienissimo, lo pregò d'inventare almeno un soggetto di commedia che voleva dare, diceva egli, ad alcun'altro da mettere in versi. Il signor Desmarets, gliene portò quattro, poco appresso. Quello di Aspasia piacque infinitamente al cardinale; ma dopo averglielo grandemente lodato, aggiunse: che quegli soltanto che era stato capace d'inventarlo, sarebbe capace di trattar degnamente quel soggetto, ed obbligò il signor Desmarets ad intraprenderne la trattazione, per quanto egli dicesse in contrario. Finalmente avendo fatto rappresentare con grande pompa questa commedia alla presenza del duca di Parma, pregò il signor Desmarets di fargliene tutti gli anni una simile; e quando questi pensava di scusarsene, il cardinale lo scongiurava di occuparsi per amor suo di composizioni teatrali (117)».

Desmarets si lasciò vincere e passò la maggior parte della propria vita a comporre tragedie e commedie greche e romane, che contribuirono assai meno a ricreare piacevolmente il cardinale dalle fatiche dei suoi grandi affari che a snervare la nobiltà ed a rendere popolare lo spirito dell'antichità. Diede successivamente Scipione, Rossane, Europa, Mirame che fu l'opera di Richelieu, e la cui rappresentazione costò al cardinale quasi novecentomila franchi.

Quello che Richelieu aveva fatto contro la nobiltà, vien continuato da Mazarino: violenze nella guerra della Fronda, carezze alla corte, estinguimento dello spirito provinciale ed oppressione in ogni dove. Ai balli e alle commedie, questo nuovo ministro aggiunge i giuochi sedentari. «Verso il 1548, dice l'abate di Saint-Pierre, si cominciò a giuocare alle carte alla corte. Il cardinale Mazarino era scaltro giocatore, e giuocava a grosse poste. Incitò il re e la regina reggente a giuocare, e ciascuno a gara, per farsi cortigiano, imparò a giuocare. Tosto si diede la preferenza ai giuochi di puro azzardo; vi si perdevano le notti facendo grosse perdite, ed il giuoco divenne una passione ruinosa tanto pei patrimoni come per la salute. I giuochi di carte poi dalla corte passarono alla città e dalla città capitale in tutte le provincie.

«Prima di questo si conversava, questi imparavano da quelli; si leggeva, e la lettura dei nuovi libri e degli antichi somministrava materia al conversare. La memoria e l'intelletto erano assai più esercitati. Gli uomini incominciarono a poco a poco a lasciare i giuochi di ginnastica, come la palla, il pallamaglio, ll bigliardo; e ne sono diventati più deboli e più malsani, più ignoranti, meno gentili, più svagati. Le donne, che ano allora si erano fatte rispettare, avvezzarono gli uomini con cui giuocavano tutta la notte, a non aver per esse alcun rispetto (118)».

Tirata alla corte dalle altrattive delle feste, ritenutavi dal desiderio del favori, la nobiltà contrasse abitudini, di lusso e di mollezza che ne compirono la ruina morale ed economica. «Al principio del secolo XVII, continua a dire l'abate di Saint Pierre, s’inventarono le carrozze, e ve ne aveva appena cento in Parigi, a solo uso delle grandi dame. Gli uomini non si servivano che di cavalli da sella. Le carrozze coi vetri alla portiera furono inventate or ha ottant'anni, ecc. Queste carrozze hanno servito ad aumentare il lusso e la mollezza, e queste nuove comodità hanno contribuito a diminuire la forza e la salute, diminuendo l'esercizio del corpo (119)».

Il giovane re dovette soggiacere all’influenza generale. «Luigi XIV, continua l'autore, la cui educazione dipendeva dal cardinale, aveva 21 anni che non pensava ancora che a balli (120), a mascberate, a torneamenti, a caccie, a giuocare alle carte e ai dadi. e principalmente agli intrighi amorosi. La maggiore delle nipoti del cardinale Mazarino fu la prima sua passione: non avrebbe desiderato di meglio che di sposarla (121) .... Sono assai bene informato di quel che dico. Ho passato più di 50 anni alla corte o nella città capitale: ho conosciuto personalmente la maggior parte dei principi, dei ministri, dei generali, e coloro che furono i principali personaggi del mio tempo: sono stato testimonio ed ho parlato coi testimoni (122)».

Al lusso degli equipaggi, delle feste e del giuoco, si aggiunge il lusso della tavola e delle vesti a tal segno che il re Luigi XIII è obbligato di far leggi suntuarie per reprimerlo.

Un'ultima causa finisce di ammollire gli animi corrompendoli, ed è il culto delle arti pagane, di cui Richelieu e Mazarino si fanno ardenti propagatori. Il secolo XVII non edificò cattedrali, come i secoli barbari di Carlomagno e di San Luigi: il lusso ha cangiato oggetto: ma edifica Versaglia, compie il Lovero; adorna Anet, Compiègne, Fontainebleau, San Germano. Percorrete tutti questi palazzi: vi vedrete profuse, con l’oro e col marmo, tutte le nudità pagane, tutte le scene più lascive della mitologia e della storia dei Greci e dei Romani. Dopo averle ammirate, la nobiltà si reca a gloria di riprodurle nei suoi palazzi e nei suoi castelli. Per una cecità, che non ha esempio, mentre tutto congiura ad invilire gli animi per distendere di là da tutti i confini l'autorità del re, si dà alla gioventù un'educazione repubblicana! Dal conflitto di questi due elementi contrari uscirà un dì la terribile catastrofe che chiamasi rivoluzione francese.



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CAPITOLO XX.



IL CESARISMO IN PRATICA (Continuazione e fine).



Parole di Savaron e di Bossuet. - Applicazione del Cesarismo alla proprietà. - Parole di Luigi XIV. - Politica esterna. - Materialismo del diritto. - Alleanze adultere. -Iniquità. - Politica riguardo alla Chiesa. - Far senza la Chiesa, disprezzarne la voce. - Usurparne i diritti. ­ Decreti dei parlamenti. - Sviluppo completo del Cesarismo nei paesi protestanti; manifestazione in Francia e nei paesi cattolici.



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Sulle rovine della nobiltà, delle costituzioni dello Stato, delle tradizioni nazionali e delle libertà pubbliche, s'innalza rapidamente l'assolutismo del re. I giuristi Cesariani gli dicono, come i loro predecessori dicevano al divo Augusto: «Il Re dei re, il Sovrano dei sovrani … vi ha costituito come un dio corporeo per essere rispettato, servito ed obbedito da tutti i vostri sudditi, e dato ogni potere ed ogni suprema autorità, e liberato da qualunque dominazione fuor della sua ... Iddio vi ha delegato solo con ogni potere al governo e reggimento della vostra monarchia (123)».

Nella Politica sacra, destinata all'istruzione del regio suo alunno, Bossuet sostiene le seguenti proposizioni:

«1° Il principe non deve render conto a nessuno di ciò che ordina.

«2° Quando il principe ha giudicato, non vi ha altro giudizio.

«3° L'autorità regia debba essere invincibile. Se nello Stato vi ha qualche autorità capace di arrestare il corso della potestà pubblica, e d'imbarazzarla nel suo esercizio, niuno non è più in sicuro. Il mezzo ai rassodare il principe, è di stabilirne l'autorità, e ch'egli vegga che tutto è in lui. Ecco come Iddio insedia i principi.

4°. Per stabilire solidamente il riposo pubblico e per rassodare uno Stato, abbiamo veduto che il principe ha dovuto ricevere una potestà indipendente da ogni altra potestà che sia sulla terra» (124)

La stessa dottrina discende da tutte le cattedre di diritto: essa risuona nei parlamenti e nelle università. È dunque da stupire delle lezioni e degli atti di assolutismo che la storia rimprovera tanto giustamente a Luigi XIV: per esempio, che abbia scritto nelle sue istruzioni al proprio nipote: «Scegliete per ministri i primi che vi capitano: tutto si dee fare da voi solo e per voi solo ...? Quegli che ha dato re agli uomini ha voluto fossero rispettati come suoi luogotenenti, riserbando a sé solo di esaminare la loro condotta. È suo volere che chiunque è nato suddito obbedisca senza discernimento ... Il difetto essenziale della monarchia d'Inghilterra è che il principe non vi può far leve straordinarie senza il parlamento, né tenere il parlamento convocato senza diminuirne d'altrettanto la propria autorità ... Mi sembra che mi si tolga la mia gloria, quando senza di me se ne può avere .... Il primo fondamentodelle riforme era di rendere la mia volontà assoluta (125)».

È egli da stupire che, mettendo sotto i piedi tutte le convenienze, tutte le libertà, tutte le tradizioni, sia egli entrato una volta in parlamento con in mano il suo scudiscio da caccia; che abbia vietato un'altra volta di fabbricare in Parigi o nel circondario sino alla distanza di due leghe, e ciò sotto pena della galera, per avere a miglior mercato i materiali necessari a compiere il Lovero (126); e un’altra volta ancora che abbia voluto, a spregio di tutte le leggi dello Stato, dare ai figli avuti da madama di Montespan il diritto di succedere alla corona? (127)

Facendo l'applicazione di questi principi alla proprietà, i giuristi dicono recisamente: «Il re è il signore universale delle terre che sono nel suo regno; perché esse non sono che concessioni fatte dai suoi predecessori, a meno che non sia dimostrato il contrario (128)».

La medesima dottrina trovasi riprodotta ben venti volte, specialmente negli editti del 1629 e del 1692. Laonde Luigi XIV scrive al Delfino: «Tutto quello che si trova nei nostri Stati, di qualunque natura esso sia, ci appartiene per lo stesso titolo, e debba esserci ugualmente caro. I denari che sono nella nostra cassetta, quelli che stanno nelle mani dei nostri tesorieri, e quelli che lasciamo nel commercio dei nostri popoli debbono essere egualmente da noi economizzati.... Dovete dunque essere persuaso che i re sono signori assoluti ed hanno naturalmente la libera e piena disposizione di tutti i beni che sono posseduti tanto dagli ecclesiastici che dai laici, per usarne in ogni tempo come savi economi (129) ».

Così pensano ed operano, dopo il Risorgimento, la maggior parte dei re dell'Europa, e fra gli altri Giuseppe II, imperatore d'Alemagna, cui Federico re di Prussia chiamava mio cugino il sagristano, perché in virtù dell'assolutismo cesariano, passò la sua vita, a spogliare le chiese ed i monasteri.

«Di tal guisa il sovrano intendeva l'alto dominio, dice a questo proposito il dottore Audisio, che per poco non comprendeva la piena proprietà di tutto. Pertanto nei moderni imperi aveva acquistato vigore la servile giurisprudenza dei Greci Orientali ed in certa guisa anche quella degli antichi romani (130)».

Quello che vi ha di certo si è, che quando nel 1789 la rivoluzione effettuerà la spoliazione del clero, della nobiltà e della corona stessa, non farà che applicare a profitto della borghesia le dottrine cesariane proclamate in favore del monarcato.

Politica esterna. Ingrandire il re in casa, assorbendo a suo profitto tulle le libertà, tutti i diritti, tutte le forze del suo regno, non è che il principio del Cesarismo:, è d'uopo per condurre a perfezionamento il tipo augustale ingrandire il re sopra tutti i monarchi vicini. Tale sarà in ciascuna corte dell'Europa la politica seguita dopo il Risorgimento. In nessun luogo essa si manifesta sfolgorantemente che nella nostra patria. Il fine, secondo Machiavelli, gran professore del Cesarismo, santifica i mezzi: e per raggiungere il proprio scopo, la politica dell'assolutismo regio non s'arretra a veruna bassezza, a verun tradimento, a veruna di quelle alleanze adultere che il medio evo non avrebbe mai credute possibili, o che avrebbe riguardato come uno scandalo ed una calamità pubblica.

Così, per opprimere principi cristiani, Francesco I non arrossisce di stringere alleanza con gli eterni nemici della cristianità, i barbari settari di Maometto; così Arrigo IV, ritornato alla fede e seduto sul trono di Francia, invece compiere, come aspettavano i cattolici, la grande impresa, di San Luigi e di Carlomagno, il trionfo del cattolicismo sull'islamismo e sulla eresia, negozia da una parte coi Mori di Spagna per squassare la monarchia cattolica di là dai Pirenei, e dall'altra coi protestanti di Alemagna per offrir loro la secolarizzazione di tutti i principati ecclesiastici ed ottenerne la cessione della sinistra riva del Reno, intanto che i Turchi occuperanno l'Austria, e la Svezia opprimerebbe la cattolica Polonia (131).

Sotto Luigi XIII, l'Europa scandalizzata vede un principe della Chiesa, un cardinal Richelieu, ponendo l'interesse del suo signore sopra ogni cosa, folgorare il protestantesimo alla Rocella, e nel tempo stesso prendere ai suoi stipendii il re protestante Gustavo Adolfo, e tirarlo con le barbare sue bande nelle province più cattoliche, per abbassare la Casa d'Austria, capace appena di difendersi da sé stessa. Vedova dei suoi antichi monumenti, la Franca Contea porta ancora scritte in fronte le tracce di questa politica pagana e lega ai suoi figli il nome degli Svedesi per sinonimo d'incendiari e di assassini.

Tuttavia il Cesarismo non è che all'esordio. La politica che seguono riguardo alla Germania, collegandosi coi protestanti contro i cattolici mediante una guerra barbara di trent'anni, Luigi XIII e Richelieu, Luigi XIV e Mazarino, la seguono riguardo all'Inghilterra, dove fomentano rivoluzioni, contribuiscono al regicidio di Carlo I e preparano l'espulsione della sua dinastia, e tutto questo per innalzare la Casa di Francia sopra tutte le Case sovrane, e per accaparrare la dignità imperiale per Luigi XIII e per Luigi XIV (132).

«Qual cristiano, aggiunge il signor di Montalelmbert, potrebbe perdonare a Luigi XIV, non ostante il giusto fulgore di sua gloria, le colpevoli sue simpatie per gli Ottomani, in acconcio di afferrare in Vienna la chiave dell'Occidente sbigottito; la sua ostilità contro Sobieski, che doveva spezzar per sempre la prepotenza della mezza luna; i suoi sforzi per arrestare nel suo cammino ed abbassare nella sua gloria il liberatore dell'Europa, il Carlo Martello del secolo XVII? (133)».

Quasi volesse riepilogare in una sola parola tutto questo odioso Cesarismo, Duverny, ministro di Luigi XIV, diceva ai ministri di Sobieski: «Non conosco sopra di me che il mio padrone, Giove, e la sua spada; e il mio padrone anche prima, di Giove» (134). Era difficile, soggiunge con ragione il conte di Montalembert, l'essere più pagano e nella sostanza e nella forma.

Qual cristiano, aggiungeremo noi, potrà mai perdonare alle potenze cattoliche d'avere col trattato di Vestfalia, nel 1648, abiurato solennemente l'antica politica dell’Europa cristiana, e dato alla Chiesa cattolica il più vergognoso schiaffo che abbia mai ricevuto, sostituendo il diritto naturale al diritto cristiano, introducendo il principio laico della secolarizzazione universale nella politica europea e concedendo all'eresia gli stessi diritti che alla medesima verità? (135)

Questa politica pagana di Machiavelli, Luigi XIV non si contenta di praticarla, ma l'insegna a suo figlio.

«Col dispensarsi ugualmente d'osservare i trattati nel loro rigore, dice egli al Delfino, non vi si contravviene punto, perché non si sono prese letteralmente le parole dei trattati, sebbene non si possa impiegar che quelle, come si fa nella società per quelle dei complimenti, assolutamente necessari per vivere insieme, e che hanno solo un significato ben minore di quello che non suonino le parole ... Quanto più straordinarie erano le clausole con cui gli Spagnuoli mi vietavano di assistere il Portogallo, quanto più ripetute e piene di cautele, tanto più esse indicavano, che non erasi creduto ch'io dovessi astenermene (136)». In virtù di questi principi vedesi Luigi XIV, dopo il supplizio di Carlo I, trattare nel tempo stesso coi regicidi, e col re; e in ciò egli si propone per modello al delfino: «Io blandii le reliquie della fazione di Cromwell, per suscitare col loro credito qualche nuova turbolenza in Londra» (137).

Questa politica peraltro non è particolare ai re di Francia: lo spirito del Risorgimento la spira dovunque.

Carlo V, istruendo il proprio figlio, gli dice: «Impiegate tutta la vostra scaltrezza per obbligare i Francesi a lasciare le armi ed a stare in riposo, perché durante la pace vi sarà facile il suscitar turbolenze in quel reame, e se trovate l'occasione di avvantaggiarvi di queste intestine discordie, non la lasciate sfuggire (138)».

Politica riguardo alla Chiesa. Coll'abbassare in casa e di fuori qualunque potestà emula della propria, i re hanno attuato, per quanto hanno potuto, la prima parola della divisa cesariana; sono divenuti imperatori, imperator; per verificare la seconda, rimane ad essi il farsi papi, summus pontifex. A questo tende la loro politica riguardo alla Chiesa. Essa consiste interamente in dire: «Per lunghissimo tempo tu hai regolato il cammino delle nazioni, prevenute o composte le loro dissensioni, esercitato il supremo tuo sindacato sopra i monarchi: ormai ei sono tanto saggi e tanto forti da poter passarsi di te: rinchiuditi adunque nel tuo dominio spirituale: ché il regno tuo sociale è finito. Nella lunga durata del tuo impero hai usurpato i diritti dei principi, invaso le proprietà dei loro sudditi, oppresso la loro libertà; il tempo è venuto in cui principi e popoli ripigliando la loro eredità spirituale e temporale, ti canteranno in ogni metro:

«Togliti di qua che mi vi metta io».

Tale è l'andamento costante del Cesarismo dopo il suo ritorno fra le nazioni moderne:

«Fin dai primi anni del Risorgimento delle lettere, dice il signor Matter, vedesi una specie di decadimento nelle disposizioni morali dell'Europa. Invano per ogni dove risuonano le chiamate di Pio II e di Nicolò V contro i Turchi, la cui invasione nelle isole, nell'Italia, nelle province del Danubio incuteva tanto sbigottimento per l'antico impero della religione: niun popolo più non si riscuote a quella voce già sì forte, al nome di quel sistema già sì potente. La triplice conseguenza degli studi greci e dell'impulso dato all'Europa dai due più chiari alunni dei profughi, Pomponio e Machiavelli, fu l'ateismo religioso, l’ateismo morale e l'ateismo politico, che è quanto il dissolvimento stesso del vincolo sociale (139)».

La spada non è più obbediente allo spirito: i secoli delle crociate sono passati per non ritornare mai più; la politica ha perduto il nobile suo carattere d'unità e di devozione; ciascun capitano credesi indipendente sulla sua nave; e sconosce la voce dell'ammiraglio. Invano Paolo III e San Pio V scongiuravano i re dell'Europa a salvar la fede in Inghilterra, ponendo fine ai saturnali d'Arrigo VIII, alle carneficine d'Elisabetta, alle torture dell’Irlanda: invano per voce del suo inviato la Santa Sede protesta contro il sanguinoso smembramento della nobile è cattolica Polonia: il Cesarismo lascia che i carnefici sgozzino le loro vittime e si dividano fra loro le membra mutilate.

I giuristi ed i cortigiani rappresentano ai re che cotali importanti consigli sono altrettante invasioni della Corte di Roma, e persuadono loro di non più permettere al padre comune, cui essi chiamano un sovrano straniero, di far udire la propria voce nel loro regno che col loro beneplacito. Allora inventasi la formola ingiuriosa che d'or innanzi servirà di passaporto agli insegnamenti del Vicario di Gesù Cristo: «Visto (140) che nella della Bolla non vi ha nulla di contrario alla libertà della Chiesa gallicana e ai diritti della nostra corona, vogliamo che la detta Bolla sia ricevuta in tutto il nostro regno (141)».

Dopo di aver interdetto alla Chiesa d'immischiarsi nei loro affari, i re invadono l'ordine spirituale, e s'impossessano del pastorale, della mitra ed anche della tiara dei pontefici. In ciò parimente, per sostenere le loro pretensioni, trovano i giuristi pagani. Nel 1650 apparvero le Rimostranze fatte al re intorno alla potestà ed all'autorità che Sua Maestà ha sopra il temporale dello Stato ecclesiastico. L'autore sostiene apertamente che la Chiesa è nello Stato, subordinata allo Stato, che il suo patrimonio è patrimonio del principe; che può e che debba essere venduto per sovvenire alle necessità dello Stato, ed altre massime nelle quali traluce il più pretto Cesarismo (142).

«Per conseguenza, dice l'autore della Monarchia di Luigi XIV, quantunque i beni della Chiesa conservassero in apparenza una destinazione religiosa, furono realmente il patrimonio della nobiltà e il prezzo dei servigi militari. Dapprima uomini d’armi ne possedettero una parte considerevole. Luigi XIV continuò egli stesso, fino al 1687 a conferire a gentiluomini laici benefici semplici e pensioni sui vescovadi e sulle abazie, e gli sarebbe anche riuscito, senza il perseverante rifiuto del papa, di riunire le grandi dotazioni ecclesiastiche alle commende dell'ordine militare di San Luigi» (143).

Ad esempio di Luigi XIV, vediamo, dopo il Risorgimento, la maggior parte dei re cattolici dell'Europa, da una parte contendere alla Santa Sede il diritto d'annate; e dall'altra arrogarsi il diritto di regalia: duplice saggio di spogliazione che la Rivoluzione francese s'incaricherà poi di perfezionare. Non meno gravi sono poi le usurpazioni fatte alla spirituale autorità della Chiesa. Leggete le ordinanze e le rimostranze dei parlamenti, le tesi dei giuristi regi ed anche gli scritti d'un grandissimo numero di teologi e di canonisti: non vi si parla che delle invasioni della corte di Roma, della necessità di porre un argine a questo torrente viepiù minaccioso all'indipendenza dei re ed alla libertà dei popoli; chi li ascolta direbbe che il pericolo della società muove da Roma.

L'abate di Saint-Pierre, uno dei più moderati, scrive con tutta serietà:

«Finché i vescovi ed i dottori della nazione non crederanno il papa infallibile, non potrà assoggettarci mal nostro grado alle sue decisioni: avremo sempre la libertà di esaminarle, di lasciar senza eseguimento le sue costituzioni, e la via dell'appello al futuro concilio; ma il miglior metodo è di lasciate senza eseguimento quelle di cui non siamo contenti. Abbiamo per nostro baluardo le antiche libertà della Chiesa di Francia, e le quattro proposizioni del clero del 1682; difese da tutti i parlamenti del regno» (144).

Difatti, si fa senza la Santa Sede quanto si può senza cadere nello scisma. Il re ha due grandi vicari perpetui: il cancelliere di Francia che approva i libri (145) e ne permette la stampa: il parlamento che successivamente promulga il diritto di regalia sopra tutte le Chiese del regno, proibisce di pagare le annate, abolisce le immunità ecclesiastiche, censura i predicatori, vieta di prendere il breviario romano, mutila questo breviario, stralciandone gli uffizi che non gli piacciono, interdice di pubblicare le indulgenze, regola il vestire ecclesiastico, determina i diritti dei dignitari, ordina ai religiosi di chiudere le porte dei loro conventi ad ogni novizio che non sia suddito di Sua Maestà, comanda ai preti di amministrare i sacramenti, e fa morire i giansenisti nel seno della Chiesa per la grazia delle baionette (146).

Converrebbe copiare da cima a fondo le luminose collezioni delle ordinanze dei parlamenti, le memorie del clero di Francia, le enormi compilazioni di Pithou, di Dumoulin e di altri legisti Cesariani, se si volesse fare conoscere nei suoi particolari quest'incredibile periodo della storia del Cesarismo moderno in Francia e negli altri paesi rimasti cattolici.

Nelle regioni protestantiche, cioè in una metà dell'Europa, il Cesarismo si è mutato nella completa emancipazione dall'autorità della Chiesa e nell'onnipotenza assoluta della potestà temporale: in Francia si è ampliato nella costituzione civile del clero, nella spogliazione completa dei suoi beni, nella sua oppressione, nel suo assoluto decadimento come corpo sociale, e finalmente nell'esaltazione dell'uomo, scritta nelle costituzioni e nelle leggi rivoluzionarie. Ivi, Iddio non è neppur nominato: i delitti contro di lui, la bestemmia, l'eresia, il sacrilegio non sono obbietto di veruna repressione, dovechè le più lievi parole ingiuriose all'uomo, i più lievi delitti contro il suo onore o la sua proprietà vi sono accuratamente previsti e puniti con un rigore di logica spesso più atroce della stessa penalità. La maestà di Cesare rifulge da tutte parti, e rifulge sola: la maestà divina è completamente cancellata: è il contrapposto d'una legislazione cristiana.



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CAPITOLO XXI.



CONSACRAZIONE DEL CESARISMO



Dichiarazione del 1682.- Essa comprende quattro tradimenti. - Odiosa in sé stessa. - Più odiosa in ragione dei tempi in cui fu fatta. - Affari di Pamiers e d'Aleth. - I gesuiti di Parigi. - Il parlamento di Tolosa. - Debolezza dei vescovi. - Loro lettera al papa. - Compilazione dei quattro articoli. - Uso che fa Luigi XIV del diritto Cesariano di cui viene investito. - Lagnanze di Fleury. - Doglianze di Bossuet. - Conseguenze politiche della dichiarazione del 1682. - Opinioni di tre teologi laici, del signor di Maistre, di Luigi Blanc, di Robespierre. - Caratteri della politica dopo quel tempo. - Abusi preparatori della rivoluzione. - Parole di Fénelon. - Perché la rivoluzione invece di essere cristiana e salutare, è stata pagana e disastrosa. -Conclusione.



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La storia ci ha mostrato i re d'Europa, dopo il Risorgimento, contendere con ogni mezzo di far rivivere a loro profitto il Cesarismo antico. Il paganesimo politico cammina d'egual passo col paganesimo artistico e letterario; e, specialmente per la Francia, si vagheggia il ritorno del secolo d'Augusto, con lo stesso Augusto; né in ciò si vede decadimento, né vergogna, né pericolo: anzi tutt'altro.

I nostri annali ci presentano uno spettacolo ben più doloroso. Mercé l'insegnamento classico e l'opinione da quest'insegnamento formata, il clero di Francia si vergogna del medio evo politico come del medio evo filosofico artistico e letterario; dimentica la nozione della politica cristiana e sconosce la parte sociale della Chiesa e della Santa Sede; va più innanzi; la nega e la combatte.

In seguito di una moltitudine di discorsi, di libri, di aspirazioni cesariane uscite dalla Sorbona e dall'Università, vien fuori nel 1682 la troppo famosa dichiarazione, la quale altra cosa non è che la consacrazione ecclesiastica del Cesarismo pagano.

Questa dichiarazione si compone dei quattro articoli seguenti:

Art. 1° Né i papi né la Chiesa hanno ricevuto da Gesù Cristo nessuna potestà diretta o indiretta sul temporale dei re. Per conseguenza i re, responsabili a Dio solo, non possono essere deposti né direttamente, né indirettamente per l'autorità del capo della Chiesa, ed i loro sudditi dispensati dalla sommessione e dall'obbedienza che debbono ad essi o assoluti dal giuramento di fedeltà.

«Art. 2° Il concilio generale è superiore al papa.

«Art. 3° La potestà del papa debba essere regolata dai canoni, e le regole, le consuetudini e le costituzioni ricevute nel regno debbono essere mantenute, ed i limiti posti dai nostri padri rimanere inconcussi.

«Art. 4° I giudizi del papa non sono irrefragabili, a meno che non intervenga il consentimento della Chiesa» (147).

Domandata instantemente da Luigi XIV, dettata da Colbert, distesa dal vescovo di Meaux, soscritta e promulgata da 34 arcivescovi e vescovi e da 34 deputati ecclesiastici, questa dichiarazione, fino allora senza esempio nella storia delle nazioni cattoliche, fu, non ostante le proteste e le minacce reiterate della Santa Sede, difesa altamente da Bossuet, acclamata dall'Università, soscritta solennemente dai maestri della gioventù.

Ora, questa dichiarazione, o piuttosto il Cesarismo ecclesiastico di cui essa è la formola, comprende quattro tradimenti: tradimento verso la Chiesa, sulla cui fronte si getta oltraggio negandole il diritto suo nel presente, ed accusandola d'usurpazione e di tirannia pel passato: tradimento verso i re, di cui si squassa il trono spingendoli al dispotismo: tradimento verso il popolo, che si abbandona alla schiavitù, senz'altro ricorso che alla forza: tradimento verso la società che si slancia nella via delle rivoluzioni, rendendo il potere, qualunque egli sia, irresponsabile ed inammissibile, e provocando così alla ribellione ed alla sedizione.

Odioso in sé medesimo, quest'atto è ancora più odioso, se è possibile, in ragione dei tempi in cui fu consumato.

Oberato per le sue guerre e pel suo lusso insensato, Luigi XIV aveva bisogno di danaro. Per conseguenza nel mese di febbraio 1673 dichiara, con un editto emanato di sua sola autorità il diritto di regalia inalienabile ed imperscrittibile in tutti gli arcivescovadi e vescovadi del regno (148). Due vescovi soltanto hanno il coraggio di difendere i diritti della Santa Sede e la libertà delle loro chiese; e sono i vescovi di Aleth e di Pamiers. Luigi XIV non fa verun conto della loro opposizione, nomina ai benefici vacanti che dipendevano dalla loro collazione, e s'impossessa delle rendite durante la vacanza. I due vescovi scomunicano i provveduti per regalia, i quali interpongono appello all'arcivescovo di Narbona e all'arcivescovo di Tolosa, metropolitani di Aleth e di Pamiers.

I metropolitani annullano le ordinanze dei due vescovi, i quali interpongono appello al papa. Innocenzo XI annulla le ordinanze fatte dagli arcivescovi di Narbona e di Tolosa, scrive parecchie lettere al re, e finalmente, il 1° gennaio 1684, indirizza al capitolo di Pamiers un Breve col quale colpisce di scomunica maggiore, incorso per quel solo fatto, i grandi vicari di Pamiers stabiliti dal metropolitano, quelli che li favoriscono ed il metropolitano stesso; dichiara nulle ed invalide le confessioni udite ed i matrimoni celebrati dai preti che non esercitavano il loro ministero se non in virtù delle facoltà concesse da quei grandi vicari.

Ora, il punto difficile era di far pubblicare il Breve. Il papa, facendo assegnamento sulla fedeltà dei gesuiti, fa chiamare il loro generale e gli ingiunge di scrivere ai religiosi della sua compagnia residenti in Francia di provvedere alla pubblicazione. La lettera del generale ed il Breve del Santo Padre giungono ai gesuiti di Tolosa. Gli agenti del re hanno sentore della cosa: il parlamento di Parigi si aduna il 21 gennaio 1681. Il procuratore generale denunzia il fatto come un attentato contro la sicurezza del regno, e richiede che i gesuiti di Parigi vengano citati a comparire alla sbarra della corte. Si presentano i PP. di Verthamont, superiore della casa professa di quella città; Deschamps e Donzaine, rettori del collegio e del noviziato, e Pallu, procuratore della provincia di Francia. Recano con sé il Breve del Papa e la lettera del loro generale. Il padre Verthamont dice che egli poteva guarentire la corte per tutti i gesuiti del regno, che non mancherebbero giammai di fedeltà e di zelo pel servigio del re.

Per conseguenza, mastro, Dionigi Talon, avvocato del re, fa requisitoria siano staggiti i brevi del papa, lettere e missive e siano deposti sul banco del parlamento; ed i RR. PP. vi acconsentono. «Poscia, pronunciata la sentenza, il presidente si è rivolto verso i gesuiti, ed ha loro detto: Il parlamento mi ordina di dirvi che è soddisfatto della vostra obbedienza. Essi hanno messo i documenti sul banco, e poscia gli agenti del re ed essi si sono ritirati (149)».

Quanto più il clero secolare e regolare si mostra avido di servitù, tanto più gli agenti del re si fanno arditi ad umiliarlo. Il parlamento di Tolosa va più avanti di quello di Parigi: condanna a morte il gran vicario legittimo di Pamiers, lo fa giustiziare in effigie e trascinare sul graticcio.

«Non si vedevano allora, continuano a dire i processi verbali del clero di Francia, da un lato che scomuniche lanciate per sostenere, dicevasi, la definizione d'un concilio generale; e dall'altra, che proscrizioni, esili, imprigionamenti e condanne, anche a morte, per sostenere i pretesi diritti della corona. Regnava la massima confusione, specialmente nella diocesi di Pamiers. Tutto il capitolo era disperso; più di ottanta parrochi imprigionati, esiliati o costretti a tenersi nascosti (150)».

Durante questo conflitto, che fanno gli altri vescovi per tutelare la libertà nelle loro diocesi? Appellano non al papa, ma al parlamento, ai magistrati laici che li condannano. Dopo questa sconfitta abbandonano i diritti delle loro Chiese per trasferirli nel re; e in una lettera del 3 febbraio 1682, indirizzata al papa Innocenzo XI, si vantano essi stessi della loro propria condotta. (151)». Il sommo Pontefice fu tanto afflitto di questa lettera e dei sentimenti di debolezza che i vescovi vi palesavano che stette quasi tre mesi senza rispondervi. Per consolarlo, i medesimi prelati stesero il 19 marzo seguente la dichiarazione dei quattro articoli (152).

Per far conoscere l’importanza politica di questo scisma vigliacco, non citeremo né i dottori oltramontani, né le bolle dei sommi pontefici. Sarà cosa più singolare l'udire teologi laici, come sono il conte di Maistre, Luigi Blanc e Robespierre: Insubordinazione rispetto alla santa Sede; servilità verso il potere temporale, dispotismo verso gl'inferiori: ecco quello che è, a loro giudizio il Cesarismo ecclesiastico.

«Le famose libertà gallicane, dice il conte di Maistre, non sono che mi accordo funesto soscritto dalla Chiesa di Francia, in virtù del quale essa si sottomette a ricevere gli oltraggi del parlamento, con piena libertà ad essa di renderli al sommo pontefice» (153).

Infatti Luigi XIV non indugia a far uso del diritto cesariano, di cui il suo clero lo ha investito. Da una parte fa iscrivere per forza la Dichiarazione nei registri della Sorbona; dall'altra parte, essendo il papa giustamente sdegnato e negando le bolle ai vescovi nominati, il re appella il futuro concilio ecumenico, senza timore della scomunica che colpisce tal sorta di appelli. Poscia manda il suo atto d’appello al clero congregato il 30 settembre 1688. Il clero ringrazia umilissimamente Sua Maestà dell'onore che egli fa all'assemblea nel darle comunicazione dei suoi atti, e gli offre gli applausi più rispettosi per la saggia condotta che esso tiene (154). Fatto animoso da questa nuova debolezza il nuovo Cesare, per passarsi delle bolle che il papa ricusa ai suoi vescovi nominati, li fa nominare, in onta dei concili, amministratori spirituali dai capitoli rispettivi; poscia proibisce ai vescovi di non stampar nulla senza la permissione del suo cancelliere; di allegare in loro favore l'autorità del concilio di Trento e di fare il più piccolo moto senza esservi autorizzati da parte del re.

E Fleury se ne doleva dicendo: «Si toglie ai vescovi il conoscimento di ciò che loro importa di più, la scelta degli uffiziali degni di servire la Chiesa sotto di essi e la fedele amministrazione della sua rendita ... Se qualche straniero ... volesse fare un trattato delle servitù della Chiesa gallicana, non gli verrebbe meno la materia … e riderebbe assai dei nostri autori di palazzo che, con tutto questo, fanno tanto rimbombare questo nome di libertà, e la fanno consistere in queste stesse servitù (155)»

E Bossuet, così altezzoso verso il papa, gettarsi alle ginocchia di Madama Maintenon, e scrivere sospirando al Cardinale di Noailles: «È tempo che Vostra Eminenza faccia gli ultimi sforzi per la difesa della religione e dell’episcopato ... Allorché si è detto al signor Cancelliere che era cosa strana l'assoggettare i vescovi a non poter insegnare che dipendentemente dai preti, ed a sottoporsi ad un esame intorno alla fede, ha risposto che conveniva stare attenti a ciò che potevano scrivere contro lo Stato. Ma i vescovi sono persone conosciute, e, per così dire, ben domiciliate; ed é una strana oppressione il legar loro le mani in ciò che concerne la fede, che è l'essenziale del loro ministero ed il fondamento della Chiesa .. Imploro il soccorso di Madama di Maintenon, a cui non oso di scriverle (156) ».

Lasciamo pensare a qual termine sarebbe riuscito nell'ordine religioso, senza l'intelligente e vigorosa opposizione della Santa Sede, un clero che si era così avvilito per opera sua! Quello che l'Europa sa oggidì si è che nell'ordine politico, mediante la sua dichiarazione aveva consacrata l'era ancora aperta delle rivoluzioni. Intanto domandasi donde veniva tanta debolezza e tanta cecità? Come mai gli ordini religiosi più dotti, come mai il clero di Francia, d'altra parte così distinto, erano venuti a tale di abbandonare a balia della potestà temporale la potestà spirituale? Come mai non vedevano essi più che negare il primato politico del papato era un togliere la chiave della vòlta dell'edificio sociale, e rendere l'Europa simile ad un paese deve non vi fosse corte suprema per giudicare in ultima istanza?

Imperocchè alla fine, negando la suprema direzione del papa, non si fonda il regno eterno della pace. Rimane dunque tutta intera la questione divenuta così formidabile ai nostri giorni: Allorché sorgono dubbi sull'obbedienza dei sudditi verso il Sovrano temporale, a chi spetta, in ultima istanza a decidere questo caso di coscienza?

Né in Bossuet, né in Fleury, né in alcuno dei giuristi cesariani di quel tempo si trova una parola di risposta; tanto la nozione della politica cristiana si era cancellata dopo il Risorgimento! E si osa di sostenere che lo studio ammirativo dell'antichità letteraria, artistica e politica non presenta nessun pericolo, non lascia veruna traccia!

Tuttavia, essendo impossibile il supporre una potestà temporale non dipendente che da sé medesima, e pur supponendola possibile, essendo essa impraticabile presso i popoli cristiani dove non può più esistere la schiavitù, dalla dichiarazione cesariana del 1682 sono scaturite tre conseguenze. La prima: Al sindacato dell'intelligenza è succeduto necessariamente il sindacato della forza. Non vi ha che tre supremazie possibili; e checché si faccia, si debba eleggere fra la supremazia dei papi, la supremazia dei re o la supremazia del popolo. Voi rigettate la supremazia dei papi che per mille anni preservò il mondo dalla tirannide e mai non la consacrò: ebbene: avrete o la supremazia dei re che nell'antichità appellasi successivamente Tiberio, Nerone, Caligola, Eliogabalo, e nei tempi moderni, Arrigo VIII; Elisabetta, Ivano, Nicolò; o la supremazia del popolo, che sarà la Convenzione, il Terrore, il socialismo: invece delle decisioni del Vaticano come ultima ragione del diritto, avrete la teologia dell'assolutismo e della ribellione: invece delle scomuniche oltramontane avrete successivamente, e qualche volta insieme, i cannoni dei re, le barricate del popolo, e il pugnale degli assassini!

«L'importanza politica della dichiarazione del 1682, dice Luigi Branc, era immensa. Innalzando i re sopra qualunque giurisdizione ecclesiastica, togliendo ai popoli la guarentigia che loro prometteva il diritto concesso al sovrano pontefice di vigilare i signori temporali della terra; pareva che tale dichiarazione collocasse i troni in una regione inaccessibile alle tempeste. Luigi XIV vi fu ingannato ... in ciò l'error suo fu profondo è muove a pietà!

«Il potere assoluto, nel vero senso della parola, è impossibile. Non vi ebbe mai (157), grazie al cielo, né mai vi sarà dispotismo irresponsabile. Qualunque sia il grado di violenza a cui la tirannide si lasci trasportare, il diritto di sindacato esiste sempre contro di essa, qui sotto una forma, colà sotto un'altra. La dichiarazione del 1682 non mutava punto la necessità di questo diritto di sindacato. Dunque essa non faceva che spostarlo togliendolo al papa; e lo spostava per trasferirlo dapprima al parlamento, poscia alla moltitudine ...

«Venne in Francia il momento in cui la nazione si accorse che l'indipendenza dei re era la schiavitù dei popoli. La nazione allora, stanca di soffrire, si sollevò sdegnata domandando giustizia. Ma non essendovi giudici del poter regio, la nazione costituì sé stessa in giudice, e la scomunica fu surrogata da una sentenza di morte » (158).

Cosa memorabile! nel processo di Luigi XVI, tutta l'argomentazione regicida di Robespierre è fondata sul primo articolo della dichiarazione del 1682. Rigettando come Bossuet il primato sociale del papato, e d'altra parte negando con ragione l'esistenza d'un potere irresponsabile, conclude logicamente che la nazione ha il diritto di giudicare e di condannare Luigi XVI. «Non vi ha processo da far qui, egli dice: Luigi non è un accusato: voi non siete giudici: voi siete, voi non potete essere che uomini di Stato e rappresentanti della nazione. Non avete una sentenza da proferire pro o contro un uomo; ma un provvedimento di salute pubblica da prendere, un atto di provvidenza nazionale da esercitare. Luigi deve perire perché è d’uopo che la patria viva » (159).

Ora, non potendo le nazioni adunarsi sempre per giudicare i loro re; abbiamo veduto Mazzini e i suoi settari, trascinati dalla stessa logica, attribuire agli assassini il diritto di vendicare la libertà dei popoli, e, ad esempio dei democratici dell'antichità, consacrare la teorica del pugnale. Tanto egli è vero che, uscendo dal sistema cattolico, la politica entra necessariamente nel sistema pagano, e che per amore o per forza le società ne sentono le finali conseguenze.

La seconda conseguenza, della negazione del primato sociale del papato è la diffidenza irrimediabile che sorge tra i re e i re, e tra i re e i popoli.

Tutti hanno sentito che erano senza guarentigia morale, i deboli contro il dispotismo dei forti, ed i forti contro la ribellione dei deboli. Per surrogare il gran regolatore che il Figliuolo di Dio aveva dato alle società cristiane, si dovette ricorrere alla politica d'equilibrio.

All'estero, qual è lo scopo di tutti gli sforzi della diplomazia europea, dei congressi e delle alleanze più o meno sante, dopo il Risorgimento? La storia vi risponde: Equilibrare le forze, per rendere la guerra se non impossibile, almeno viepiù difficile.

Nell'interno, qual è stata l'opera costante dei re e dei popoli? Stipulare condizioni fra governanti e governati; fare o disfare carte costituzionali; le quali in realtà non costituiscono nulla, o non costituiscono che un ordine materiale ed effimero; imperocchè esse lasciano senza soluzione la questione fondamentale del sindacato del potere. Così, non ostante i reciproci giuramenti, si sta da una parte e dall'altra in sulla difesa, finché un nuovo conflitto faccia intervenire l'ultima ratio del Cesarismo; e il duello della scaltrezza o della forza, divenuto l'oracolo del diritto, duri permanente e con esso anche la rivoluzione!

Dal canto suo, la filosofia umana s'è ingegnata da quattro secoli di trovare in qualche artificio di sua invenzione un mezzo diverso dalla violenza per provenire i conflitti sociali o per finirli senza effusione di sangue. Da ciò quel gran numero d'opere scritte in favore d'un tribunale di re per decidere le questioni politiche. Dopo il Nuovo Cinea, pubblicato nel secolo XVII, abbiamo il Cattolico discreto del principe Ernesto di Assia-Rhinfels, e nel secolo XVIII, il celebre Progetto di pace universale dell'abate di Saint-Pierre. Finalmente, ai giorni nostri, in cui più vivamente si fa sentire la necessità d'un mezzo pacificatore, l'Europa ha veduto formarsi il Congresso della pace che va di paese in paese a cantare i vantaggi della pace e ad invitare i re ed i popoli all'unione ed alla concordia.

Tentativi lodevoli, se vuolsi; ma che provano, da una parte la profondità del male cagionato dal Cesarismo; e dall'altra, l'indebolimento della ragione in materia di politica cristiana, come in tutto il resto, poiché essa, non sa neppure trovar più un solo mezzo veramente: pacificatore.

Tentativi impotenti! L'Europa non ha disarmato: la spada non si è mutata in vomero d'aratro: che dico? dopo l'invasione del Cesarismo, le nazioni moderne, hanno veduto più guerre generali, più troni abbattuti, più rivoluzioni sanguinose che non ne vide, per quasi mille anni, l'Europa del medio evo soggetta al primato sociale del papato. Questo fatto capitale faceva già impressione nello stesso Bossuet.

«Si mostra più chiaro del giorno, dice egli, che se si dovessero paragonare i due sentimenti, quello che sottopone il temporale dei sovrani ai papi, o quello che lo sottomette al popolo, quest'ultimo partito, dove maggiormente, domina o il furore, o il capriccio, o l’ignoranza, o la violenza, sarebbe anche senza titubanza il più a temersi. L'esperienza ha fatto vedere la verità di questo sentimento, e la nostra età sola ha mostrato, fra quelli che hanno abbandonato i sovrani alle crudeli bizzarrie della moltitudine, più esempi e più tragici contro la persona e la potestà dei re, che non se ne trovano in sei o settecento anni fra i popoli che, su questo punto, hanno riconosciuto la potestà di Roma (160) ».

Un’ultima conseguenza del Cesarismo sono gli eccessi e gli abusi nell'ordine religioso e sociale, che, svolgendosi dopo il secolo XVI, e, principalmente durante il regno di Luigi XIV, riescono poi alla terribile reazione della rivoluzione francese.

Ecco in quali termini Fénelon li caratterizza:

«Libertà gallicane. Il re, in pratica, è più capo della Chiesa che non il papa in Francia: libertà riguardo al papa, servitù verso il re.

«Autorità del re sulla Chiesa deferita ai giudici laici: i laici dominano i vescovi.

«Abusi enormi dell'appello per abuso, e dei casi regii.

«Abuso di non soffrire i concilii provinciali.

«Abuso di non lasciare che i vescovi si concertino col loro capo.

«Abuso di volere che i laici demandino ed esaminino le Bolle intorno alla fede.

«Abuso delle assemblee del clero che sarebbero inutili se il clero non dovesse dar nulla allo stato (161)».

Fénelon avrebbe potuto aggiungere:

«Distruzione e corruzione sistematica della nobiltà (162). «Soppressione di tutte le costituzioni dello Stato.

«Confisca di tutte le franchigie provinciali e di tutte le libertà comunitative a profitto del re.

«Spaventevole aumento dell'imposta per alimentare guerre egoistiche di commercio e d'ambizione, e per mantenere un lusso babilonico.

«Incoraggiamenti dati al risorgimento del paganesimo con tutte le sue immagini lascive; con tutte le sue massime razionalistiche, cesariane e democratiche nella letteratura, nella pittura, nella scultura, nei teatri, a Parigi, a Versaglia, a Compiègne, a Fontainebleau, a San Germano, da per tutto.

«Opera incessante per far rivivere, col concentramento del secolo d'Augusto, una civiltà corrotta e corruttrice che, snervando la Francia nel sensualismo, doveva poi abbandonarla come una preda al giogo del dispotismo e ai furori dell'anarchia.

«In una parola, abuso nella violazione dei principi fondamentali dell'antica costituzione francese sì religiosa e sì liberale, a profitto del Cesarismo di Luigi XIV, il quale nel dì che pronunziò il famoso detto: Lo Stato sono io, pronunziò, la sentenza di morte dell'antica monarchia francese e cristiana (163)».

Da quel momento una rivoluzione, o, per parlare più esattamente, una controrivoluzione politica era inevitabile; lo scoppio non era che una questione di tempo. Dopo le orge della Reggenza, e gli scandali della corte di Luigi XV, non era più soltanto una rivoluzione politica che fosse inevitabile, ma una rivoluzione sociale. Questa rivoluzione, salutare se fosse cristiana, diventava funesta se non l'era. Qui risaltano nella spaventevole loro profondità il male negativo ed il male positivo, prodotti dal Risorgimento e dagli studi di collegio. Il secolo. XVIII, ignorante per una parte e dispregiatore, anche per effetto di sua educazione, del cristianesimo nei suoi principii politici e nelle sue istituzioni sociali, quanto per lo meno ne dispregiava le lettere e le arti; dall'altra parte ammiratore, parimente per effetto di sua educazione, del paganesimo classico ne suoi principii politici e nelle sue istituzioni sociali, ancor più che non ne ammirasse la letteratura e le arti, il secolo XVIII, dico, non chiese gli elementi della rivoluzione né al cristianesimo, né all'antica monarchia, ma alle repubbliche di Roma e di Sparla, che continuò ad esibire siccome il tipo della perfezione (164).

Dominata da questa duplice influenza, la filosofia di quel tempo compì l'opera di falsar l'opinione, ed invece d'una rivoluzione contro il paganesimo politico di Luigi XIV, d'una risoluzione contro il paganesimo sensualistico della Reggenza, si ebbe nel 1789 una rivoluzione a profitto dell'assolutismo democratico e pagano di Robespierre, del paganesimo ateistico e sensualistico d'Hébert e di Chaumette. Invece di ripigliare le - tradizioni cristiane di San Luigi, si ripigliarono le tradizioni pagane di Roma e di Sparta: invece di riformare il clero, si annichilò la religione; invece di ritornare al vero Dio, si ritornò alla mitologia (165); la dea Ragione, rappresentata da prostitute, venne a prendere sugli altari cattolici il posto di Gesù Cristo; e come al secolo d'Augusto, l'uomo coperto del sangue dei re e della polve dei troni, l’uomo prostrato ai piedi di Venere, poté dire come al secolo d'Augusto e di Luigi XIV: Lo Stato sono io; la religione sono io; io divo Cesare, imperatore e sommo pontefice: Divus Cesar, imperator et summus pontifex.

Le dottrine cesariane, formulate da Machiavelli e da tutti i giuristi educati come lui dal Risorgimento, promulgate nel 1682 e sostenute sino ai nostri giorni da una parte del clero di Francia, consacrate in Germania da un vescovo famoso (166), bandite in Italia dal sinodo di Pistoia, conservate fedelmente negli altri paesi cattolici dai parlamenti, dai ministri e dai cortigiani dei principi (167), praticate senza riserbo nelle contrade protestantiche, scritte nella maggior parte dei codici e delle costituzioni moderne, cotali dottrine hanno invaso l'Europa, o sotto un nome o sotto l'altro, tendono a dominar le nazioni. Il giorno del loro trionfo sarà l'ultimo della libertà ed il primo del più spaventevole dispotismo che si sia mai aggravato sul mondo.

La storia fedele della loro genealogia che abbiamo a grandi pennellate tratteggiata, ha per scopo di far vedere la sorgente del male e d'impedire a quelli che sono incaricati di sopravvegliare alla salute delle società, di non cader in abbaglio, troncando i rami dell'albero invece di reciderne la radice. Quest'albero è il vecchio tronco pagano sul quale, al soffio del Risorgimento, sono rinverditi tutti i rami avvelenati della scienza del male filosofico, artistico, religioso, sociale e politico.

Nel disegnare il quadro delle due politiche che hanno governato il mondo, e delle due civiltà opposte che hanno prodotto, lungi da noi il pensiero di voler far risorgere il medio evo. Poiché ci è stato reso l'onore (168), associandoci al reverendo P. Ventura ed a Donoso Cortes, di attribuirci quest'assurda intenzione, risponderemo con questo:

«Due cose vi ha da considerare nel medio ero: i fatti, i principii e le istituzioni che hanno avuto origine nella civiltà propria di quel tempo, e i fatti, i principii e le istituzioni che, quantunque attuati allora, sono la manifestazione esterna di certe leggi eternali, di certi principii immutabili e di certe verità assolute. Io condanno all'oblivione quello che gli uomini hanno stabilito in quei tempi, e che doveva passare con essi e con quei tempi; ma domando instantemente il ristabilimento di tutto ciò che, tenuto per certo in quell'età, è certo perpetuamente» (169).

Per assolvere il Risorgimento e gli studi di collegio accusati dalla storia d'aver partorito il Volterianesimo, non ostante gli sforzi e le virtù delle congregazioni insegnanti, ci era stato detto che il Volterianesimo aveva avuto per causa il malo spirito che nel XVIII secolo soffiava sopra l'Europa. Si aggiungeva che questo malo spirito era, da una parte il Cesarismo e dall'altra il Protestantesimo. Abbiamo mostrato che lo stesso Cesarismo è figlio del Risorgimento e degli studi di collegio: ci rimane a provare che anche il Protestantesimo deriva dalla medesima fonte. Il che sarà l'obbietto della parte seguente.








FINE DELLA PARTE SESTA






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LA RIVOLUZIONE

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PARTE SETTIMA



Proemio



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Dobbiamo rispondere all'obiezione che ci è stata fatta; e questa risposta costituisce il nesso tra la parte precedente di quest'opera e quella a cui ci accingiamo.

Si è detto: «Il Risorgimento e gli studi di collegio non hanno avuto sul Volterianesimo tutta quell'influenza che gli attribuite. Uno spirito maligno soffiava sul decimottavo secolo e pervertiva la gioventù allorché usciva dalle mani dei pii suoi istitutori. Questo sprito maligno era, da una parte, il Cesarismo, e, dall'altra parte, il Protestantesimo. La prova che il Risorgimento e gli studi di collegio sono meno colpevoli di quello che dite si è che con lo stesso insegnamento si sono formate alla fine del sestodecimo secolo ed in tutto il decimosettimo, generazioni veramente cristiane.

Ecco l'obiezione. A parer nostro si sarebbe potuto spingerla più oltre. E per completarla, domanderemo: «Forse che il sistema di studi letterari, che in oggi è il medesimo come negli ultimi secoli, non produce, specialmente in Francia, cattolici ferventi ed un clero esemplare?»

Nostro ufficio è di recar lume in queste dubbiezze.

Fedeli al carattere di quest'opera, lo adempiremo non già con ragionamenti, ma con fatti; non discutendo, ma narrando. Nella stessa guisa che abbiamo fatto per la rivoluzione francese, pel Volterianesimo e pel Cesarismo, interrogando il malvagio spirito che soffiava sul decimottavo secolo, gli domanderemo: Chi sei tu? donde vieni? Quali sono i tuoi caratteri? Quali furono i tuoi mezzi? E vero che tu sei figlio del Protestantesimo? e se il Protestantesimo è tuo padre, chi fu il tuo avo? Il Protestantesimo è forse nato da sé come il fungo sotto la quercia dei boschi? E se non è nato da sé, quale ne è la genealogia? Qual è il segreto della sua forza?

A tutte cotali questioni, la cui importanza è superfluo il dimostrare, l'istoria risponderà.



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Dopo la pubblicazione del Cesarismo, ci è venuto a mano un documento importante pel gran processo che noi istruiamo. Il luogo proprio di questo documento era in quella parte della nostra opera; ma per non lasciarne privi i nostri lettori, noi gli diamo qui luogo.

Il recente attentato commesso contro la persona del re di Napoli, aggiungendo una nuova pagina alla storia del regicidio nei tempi moderni, prova che non vi ha principe in Europa che oggi non sia minacciato dal pugnale. Più d'ogni altro, il re Ferdinando doveva paventare il ferro degli assassini. Alcuni giorni prima del misfatto, i giornali italiani pubblicavano quanto segue:

«SENTENZA DI MORTE CONTRO IL RE DI NAPOLI».

Crediamo opportuno di richiamar la sentenza di morte pronunziata contro il re di Napoli dal Comitato mazziniano d'Italia, e che, stampata a migliaia di esemplari, è stata sparsa per tutto il regno. Ecco il testo di questo documento:

«CONSIDERANDO CHE L'OMICIDIO POLITICO NON È UN DELITTO, ed ancora meno quando si tratta di disfarsi d'un nemico che ha in sua mano mezzi potenti, e che può in qualche modo rendere impossibile l'emancipazione d'un generoso e grande popolo;

«Considerando che Ferdinando di Napoli è il nemico più, accanito dell'indipendenza italiana e della libertà del suo popolo; «È approvata la seguente risoluzione da essere pubblicata con tutti i mezzi possibili nel regno di Napoli:

«Una ricompensa di 100.000 ducati è offerta a colui, od a coloro che libereranno l'Italia dal detto tiranno. E come non vi sono nella cassa del comitato che 65.000 ducati disponibili per questo scopo, gli altri 35.000 saranno esatti per soscrizione» (170).

Quando si considera che tutti i mazziniani, Gallenga, Ruffini, Mazzini stesso sono unanimi, in riconoscere coi regicidi del 1793 che hanno negli autori pagani attinto quest'odio feroce contro i re, si chiede dove sia la mente dei governi, dove la coscienza degli istitutori della gioventù che, dopo tanti esempi, si ostinano a perpetuare un sistema d'insegnamento che riempie l'Europa di Bruti e di Aristogitoni!





IL PROTESTANTESIMO



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CAPITOLO I.



Stato della questione. - Duplice carattere dell'empietà Volteriana. Deriva essa dal Protestantesimo? - Nell'ordine sociale? - Nell'ordine religioso? – Autorità che invoca. – Mezzi che impiega.- Paesi che devasta. - Scopo che si propone. - Donde è venuto il Protestantesimo?



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Considerata in sé stessa e nelle sue opere, l'empietà del decimottavo secolo presenta un duplice carattere: essa fu ad un tempo l'odio dell'ordine religioso e dell'ordine sodale esistenti, e la tendenza costante verso un nuovo ordine religioso e verso un nuovo ordine sociale.

La storia del Volterianesimo non permette ai negare l'esattezza di questa definizione.

Donde procedeva cotal odio? Ci era stato detto che, nell'ordine sociale, procedeva dal Cesarismo, i cui abusi e gli scandali accumulati per due secoli concitavano gli animi. Quest'irritazione concentrata preparava sordamente una reazione terribile ed alimentava i sentimenti repubblicani, di cui i filosofi del secolo XVIII si fecero gli organi pericolosi.

Noi abbiamo ammesso questa spiegazione. Ma dimostrando che il Cesarismo è figlio dell'insegnamento classico; che nella manifestazione dei suoi principii generali è anteriore a Lutero; che è debitore della propria formola e del proprio trionfo a Machiavelli, figlio primogenito del Risorgimento, la storia assolve il Protestantesimo d'una metà del male che gli viene imputato. Al Risorgimento ed agli studi delle classi letterarie rimane tutta intera la responsabilità del Cesarismo, principio dell'odio volteriano contro l'ordine sociale stabilito, e preparatore della rivoluzione francese.

Che il Protestantesimo abbia insegnato il Cesarismo; che lo abbia praticato in vaste proporzioni è cosa irrepugnabile: Ma in ciò esso non ha fatto se non quello che facciamo poi stessi riguardo alla polvere, di cui ci serviamo senza averla inventata. Se l'odio del secolo XVIII contro l'ordine sociale non può senza ingiustizia essere attribuito al Protestantesimo come a cagione primiera, si mantiene che nell'ordine religioso quest'odio procedeva non dal Risorgimento né dagli studi classici, ma dalla pretesa Riforma. Questa asserzione è il punto capitale della discussione. Al lungo ripeterla essa è divenuta una specie di assioma, ed anche oggidì un gran numero d'uomini rispettabili vedono nel Protestantesimo la cagione prima dell'empietà volteriana, della rivoluzione e del male attuale. Per fermo il Protestantesimo ha cagionato nell'ordine religioso immensi guasti, stantechè fra tutte le eresie è quella il cui principio dà il crollo più formidabile all'edifizio cattolico. Ma la questione non è in ciò: essa consiste tutta nel sapere se il Protestantesimo basta per spiegare l'empietà del secolo XVIII, la rivoluzione, il socialismo brutale e saccheggiatore, la corruzione dei costumi, il disprezzo dell'autorità, in una parola il male che divora l'Europa moderna.

Per rispondere è bene esaminare dapprima le questioni seguenti. Nel suo odio contro l'ordine religioso, quali nomi invoca l'empietà volteriana? quali sono i mezzi che impiega? quali paesi ha invaso? quale scopo si propone?

Se nella sua guerra accanita contro la religione, l'empietà volteriana ha di continuo o almeno di frequente i nomi di Lutero, di Calvino, di Zuinglio, di Ecolampadio, di Carlostadt in sulle labbra; se essa invoca la loro testimonianza; se si colloca sotto il patrocinio della loro autorità, converremo schiettamente che l'empietà volteriana si dichiara figlia non dell'antichità pagana, ma del Protestantesimo, i cui fondatori essa riguarda come suoi avi e come suoi maestri. Ma se non le accade mai d'invocare i loro nomi, né di ripararsi dietro alla loro autorità; se, per lo contrario, essa non può metter fuori una massima anticristiana, pronunciare una bestemmia, provocare una distruzione senza puntellarsi sui poeti, su gli oratori, sui filosofi pagani, non si deve forse, a meno che non si abbiano due pesi e due misure, riconoscere con uguale schiettezza che l'empietà volteriana si dichiara figlia non del Protestantesimo ma dell'antichità pagana, i cui grandi uomini riguarda come suoi avi e come suoi maestri?

Ora, abbiamo veduto che il nome dei fondatori dei Protestantesimo non si trova mai sulle labbra dei filosofi del secolo XVIII; che mai non ne invocano né la testimonianza, ne l'autorità. Alcune lodi date alla sfuggita, spesso accompagnate da qualche lepidezza, costituiscono tutti gli omaggi che ad essi tributano. Per lo contrario, ei sembra che non sappiano dir parola senz'ispirarsi agli autori pagani: ecco un primo fatto.

Esaminano poscia quali furono i mezzi impiegati dall'empietà del secolo XVIII per distruggere la religione. Anche qui facciamo lo stesso ragionamento di poc'anzi. Se le sue macchine di distruzione procedono dal Protestantesimo, se vi procedono originariamente, diremo eziandio che il malvagio spirito che soffiava sul XVIII secolo era uscito dalla bocca di Lutero, e che il patriarca di Ferney, con la numerosa sua famiglia, non fu che il continuatore del frate di Vittemberga. Per lo contrario, se nessuno di tali mezzi procede dal Protestantesimo o se non ne procede originariamente, diremo che l'empietà volteriana non è figlia né di Lutero, né di Calvino, e che conviene cercarle altri avi.

Ora, i mezzi impiegati dal Volterianesimo per distruggere la religione si dividono in due classi: gli uni assaltano le credenze, gli altri i costumi. Assalto dei dommi mediante la negazione delle verità cattoliche e dell'autenticità persino dei libri santi: assalto mediante la calunnia, il sarcasmo ed il ridicolo, versati a piene mani sopra gl'insegnamenti, le istituzioni, gli uomini, le lettere, le arti ed i secoli cristiani: assalto dei costumi mediante i libri licenziosi in verso e in prosa, il teatro, le mode, tutte le arti, pittura, scultura, intaglio, danza, musica, divenute altrettanti strumenti di corruzione.

Riguardo alla negazione delle verità cattoliche, mostreremo quanto prima che essa è figlia del libero pensare e che il libero pensare ossia il Razionalismo è figlio del Risorgimento e non del Protestantesimo. Mostreremo di più che in fatto di calunnia, di sarcasmo e di ridicolo, Lutero non è che l’eco dei più celebri risorgenti. Se si tratta degli assalti contro i costumi, chi oserebbe sostenere che i libri osceni, il teatro, le arti corruttrici, le mode indecenti, il lusso sensualista non entrino per nulla nella scostumatezza che aveva invaso le classi letterate del secolo XVIII?

Ora tutti questi possenti mezzi di corruzione non procedono dal Protestantesimo a cui sono anteriori, e che spesso li ha combattuti, ma sì dal Risorgimento che il primo li ha rimossi in onore, e che ne ha costantemente favorito l'applicazione. Ecco un secondo fatto.

Passando ad un'altra questione, dobbiamo esaminare quali parti dell'Europa lo spirito d'empietà aveva invaso nel secolo XVIII.

Se viene dal Protestantesimo avrà fatto sentire la propria influenza e dovrà farla ancora sentire prima di tutto e soprattutto nei paesi dove regna da signore assoluto. Ma così non avviene. Trattasi dello spirito d'insubordinazione e di ribellione? Si è costretti a confessare che l’Inghilterra e certi paesi protestanti sono scevri delle agitazioni e delle rivoluzioni che ruinano oggidì i paesi cattolici. Si è costretti a confessare che gli organi più potenti dello spirito di ribellione nel secolo XVIII furono cattolici e non protestanti, e che la grande rivoluzione, quella che è divenuta la madre ed il modello di tutte le altre, è scoppiata non in un paese protestante, ma in seno di un paese cattolico, nel regno cristianissimo. Si è costretti di confessare che anche oggidì la rivoluzione trova simpatie per lo meno così vive, soldati per lo meno così ardenti e numerosi in Francia, in Ispagna, in Italia, cioè in paesi dove il Protestantesimo non regnò mai che nei paesi luterani o calvinisti.

Trattasi della negazione dei dommi? È egli provato che nel secolo XVIII vi aveva in Francia, fra le classi letterate minor numero d'empi è d'increduli, oppure empi ed increduli meno avanzati, per esempio, che non in Inghilterra? È egli provato che oggidì, nelle medesime classi, avvi in Francia, nella Spagna, in Italia minor numero di miscredenti che non in Inghilterra, nella Svezia, in Prussia, in Danimarca? Quello che tutti sanno si è che in generale il protestante crede ancora nella Bibbia, ed i paesi cattolici sono pieni di letterati che fanno pompa di non creder nulla, nemmeno a Dio. Il protestante osserva ancora la domenica, e fra noi quanti uomini non vi ha pei quali la domenica non esiste più che nel calendario! Finalmente è forse più frequente fra noi e più splendido il ritornare alle pratiche della religione che non é fra protestanti il ritorno alla verità cattolica?

Se parlassi della corruzione di costumi, è egli certo che nel secolo XVIII fossero più puri in Francia, dico sempre nelle alte classi, che non in verun paese protestante? Dove trovavasi allora, dove si trova anche, presentemente, maggior corruttela nei teatri, maggiori oscenità nei libri, maggiore lascivia nelle pitture, nelle sculture nelle stampe, maggiore indecenza nelle mode? Nei paesi protestanti forse o nei cattolici? chi non sa che l'Inghilterra e la Germania protestante hanno sempre interdetto ed interdicono ancora sui teatri la rappresentazione d'un gran numero di componimenti drammatici che sono in gran voga fra noi (171)?

Ma ammettiamo che sopra tutti questi punti lo svantaggio sia pel Protestantesimo: rimane un'ultima relazione il cui esame recide la questione. Lo spirito d'empietà che soffiava sul XVIII secolo non era solamente distruzione, era anche ricostruzione. Se era protestante, doveva tendere naturalmente a ristabilire il Protestantesimo. Ora, quali furono in politica, in religione, in letteratura, in sociali istituzioni le costanti tendenze del XVIII secolo? Per far prevalere forse in Europa le idee religiose, letterarie, artistiche e sociali di Lutero, di Calvino, di Zuinglio, combatterono Voltaire, Rousseau, Cordorcet, Elvezio, Mably e tutti gli altri filosofi? Non è lucido come il giorno che il sogno di tutti quei letterati cattolici era il ritorno all'antichità pagana, e la sua restaurazione sotto tutti gli aspetti? La Rivoluzione, nata dai loro scritti, non ha forse rivelato agli occhi del mondo intero lo spirito che gli animava e lo scopo supremo a cui miravano con tutta la potenza dei loro sforzi?

E d'altra parte, quello spirito protestanico di cui si pretende fossero infetti, donde saria venuto? La storia ci fa sapere che la maggior parte degli empi del passato secolo, tali erano all'uscir di collegio quali furono per tutta la vita: anime vuote di cristianesimo ed ebbre di paganesimo. Come mai così giovani conoscevano il Protestantesimo? Forse che nei collegi ecclesiastici, dove tutti senza eccezione furono educati si davano per libri classici le opere di Lutero e di Calvino? I temi, le versioni avevano per obbietto le vite, le sentenze, gli alti fatti degli eroi della Riforma? La storia che si faceva leggere ed ammirare ora forse quella dei protestanti d'Inghilterra e di Germania? I grandi uomini che si cantavano in verso e in prosa si chiamavano forse Zuinglio, Farel, Ecolampadio, Carlostadt?

Si dirà che lo spirito del Protestantesimo fosse nell'aere, che passasse sopra le mura dei collegi e che andasse a pervertire i giovani cattolici sino nelle scuole degli oratoriani e dei gesuiti? Per quanto sia fantastica, ammettiamo pure quest'ipotesi; ammettiamo di più che quel Protestantesimo aereo sia bastato per attutire gli sforzi degl'istitutori religiosi, e rendere sterile il loro insegnamento: rimarrebbe ancora a dirsi donde sia uscito questo Protestantesimo e quali sono le cagioni che ne hanno favorito lo sviluppo. Al che risponderemo nel Capitolo seguente.



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CAPITOLO II.

LUTERO.



Il libero pensare, anima del Protestantesimo. - Origine del libero pensare, il Risorgimento. - Prove: vite, scritti, atti dei riformatori. -Testimonianze della storia. - Caratteri del Protestantesimo. - Vita di Lutero. ­ Suoi primi anni. - Studia ad Eisenach e s'invaghisce dell'antichità pagana. - Studia ad Erfurth - Parole decisive di Melantone. - Atto più decisivo di Lutero. - Con chi entra in convento. - È ordinato prete. - Insegna a Vittemberga. - Va a Roma. - Sue impressioni.



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Il libero pensare è l'anima del Protestantesimo: tutti ne convengono; e le incessanti variazioni della riforma ne sono una prova palmare. Ma col contentarsi a dire che il libero pensare è il padre del Protestantesimo tedesco, del deismo inglese, del filosofismo francese e della rivoluzione, é un fare incompletamente la genealogia del male; lo stipite rimane sconosciuto. Facciamovi bene attenzione, perché la cosa è gravissima; fermiamovici non già come sopra un'incidenza secondaria, ma come sul merito stesso e sulla sostanza della questione. Importa di non mettere dal lato di Lutero se non quello che realmente gli appartiene, e di lasciare al Risorgimento la sua vera parte. Di tal guisa s'avranno in modo bastantemente chiaro e nella loro esatta misura, gli elementi del problema che ci occupa e della soluzione che debba intervenire.

Ciò che è emana da ciò che fu; il protestantesimo non è nato da sé stesso. La ribellione di Lutero non è un avvenimento isolato: essa ha i suoi precedenti ed i suoi sincronismi. L'eresiarca, è vero, rivolse contro l'autorità religiosa, in modo violento e solenne, il principio del libero esame; ma questo principio non era stato prodotto da lui.

Prima di lui un gran numero di Risorgenti, e fra essi Pomponacio e Machiavelli, i due più splendidi alunni dei Greci, avevano fatto della sovrana indipendenza della ragione un uso più radicale; imperocchè si erano ad un tempo emancipati e dalla Chiesa e dalle sante Scritture.

Pomponacio aveva separato la morale dalla religione, e Machiavelli ne aveva separato la politica (172). L'uno e l'altro trovarono nell'antichità pagana il principio e l'applicazione dal libero pensare; in altre parole, una leva ed un punto d'appoggio per schiantare l'Europa cristiana dai suoi fondamenti, e lasciarla in balia a tutti i venti delle speculazioni indipendenti (173).

Risulta da ciò che se il Protestantesimo è figlio del libero pensare, il libero pensare è figlio del Risorgimento. Per provare questa genealogia dobbiamo dimostrare da una parte che il principio della Riforma è lo stesso che quello del Risorgimento, applicato ad oggetti differenti; dall'altra parte che questo principio si trova esclusivamente nell'antichità pagana, e che era sconosciuto in Europa prima del Risorgimento. Così il nostro studio si dividerà in due parti: la prima conterrà la storia del Protestantesimo; la seconda quella del Risorgimento. Per riunire tutti i generi di prove, studieremo il Protestantesimo nei suoi fondatori, nelle testimonianze della storia, nella sua intima natura e nei suoi grandi caratteri; ed uno studio eguale sopra i Risorgenti ci mostrerà, i vincoli di parentela che uniscono le due famiglie.

Fin da principio questa comunanza d'origine si rivela in un fatto che domina e che riassume tutto il Protestantesimo. Il fatto è questo: l’opera di Lutero e dei suoi compagni d'armi fu una rivoluzione. - Ora qualunque rivoluzione consiste in due cose; essa è distruzione e ricostruzione.

Lutero ed i riformatori hanno distrutto nell'ordine religioso il principio di fede o di autorità, e vi hanno sostituito il principio del libero esame o della sovranità della ragione in materia di credenze, e specialmente d'interpretazione biblica .

Per raggiungere il loro duplice scopo, qual via seguono essi? Precisamente la stessa che è stata seguita dal Risorgimento, dal Cesarismo, dal Volterianesimo e dalla Rivoluzione francese. Per anni interi fanno piovere il sarcasmo, l'ingiuria, la calunnia sul passato cristiano dell'Europa e sul principio d'autorità che la reggeva: sul medio evo, che per essi è un tempo di barbarie; sulla filosofia e sulla teologia scolastiche che presentano siccome le fonti di tutte le ignoranze e di tutte le vergogne che disonorano lo spirito umano: sulle dottrine cattoliche e sugli ordini religiosi, complici interessati, dicono essi, degli abusi che segnalano alla pubblica indignazione.

Col medesimo ardore che impiegano per caricare di disprezzo i secoli cristiani, esaltano l'antichità pagana. Come il Risorgimento, come il Cesarismo, come il Volterianesimo e la rivoluzione francese, dicono che l'Europa, per rigenerarsi, debba risalire ai secoli splendenti di Virgilio e di Platone, che tutto lo spazio interposto è schiavitù e barbarie.

Per buona sorte, dicono, è sorto in Italia l’aurora d'un nuovo giorno. La bella antichità è ritornata a noi coi dotti espulsi da Costantinopoli.

Dopo di aver così preparato gli animi, e battuto in breccia le opere avanzate, una logica implacabile trascina i riformatori ad assaltare il cuore della fortezza, l'edifizio cattolico. Tali furono, se abbiamo fede nella storia, cui lasciamo parlare, lo spirito generale, il procedere e la tattica dei fondatori della riforma.

Incominciamo da Lutero.

Martino Lutero nacque il 10 novembre 1483, ad Islebia, contea di Mansfeld, nella Sassonia.

«I miei genitori, scrive egli, erano poveri. Per mantenermi mio padre era obbligato di zappar la terra, e mia madre si caricava sulle spalle i fasci di legne necessarie per la famiglia » (174). Giovanni, padre di Lutero, era uno di quei buoni contadini di Alemagna, intesi al lavoro e alla preghiera. La, sera, nel canto del fuoco, dopo aver ascoltato qualche racconto biblico, faceva la preghiera e veniva spesso ad inginocchiarsi a piè del letto di Martino, domandando a Dio che il figlio ingrandisse nel timor del Signore (175).

Nel 1407 Lutero, in età di quattordici anni, andò a Magdeburgo per incominciare i suoi studi. E poiché era povero, mendicava il pane due volte la settimana, cantando sotto la finestra delle case, e salmeggiando in coro. E stantechè gli abitanti di Magdeburgo si mostravano poco caritatevoli, preso il suo sacco e il suo bastone di pellegrino e si trasferì ad Eisenach, piccola città di Turingia dove sua madre aveva parenti. Una vedova, chiamata Cotta, ebbe compassione del giovane scolaro, gli diede l'ospitalità e gli comperò anche un flauto e una chitarra. Nei suoi momenti d'ozio Lutero suonava su quegli strumenti qualche antico cantico del medio evo, come: Benediciamo il fanciullo che ci è nato; oppure: Buona Maria, stella del pellegrino. Finora Lutero è un fanciullo cattolico di nascita, di fede, di costumi, che non ha altre ammirazioni che ammirazioni cristiane, non altra vita intellettuale che quella che ha attinto in seno della pia sua famiglia, e che riflette d'intorno a sé in tutto ciò che vede, in tutto ciò che ode.

Non più angustiato dalle strettezze del bisogno, il giovane scolaro si dà con ardore allo studio. Nel ginnasio di Eisenach ebbe a maestro di grammatica Giovanni Trebonio. La grammatica abbracciava allora lo studio della lingua latina. Risorgente, o, come allora si diceva, umanista, di qualehe fama, Trebonio faceva quello che ancora non si faceva altrove. Presumeva d'insegnare la bella latinità con cura speciale; e ben s'intende che ne cercava il tipo non nei Padri della Chiesa, né nei grandi scrittori del medio evo, ma negli autori pagani (176).

Lo spirito vivace del giovane Lutero, la rara sua facilità di comporre in versi e in prosa, lo pongono alla testa dei suoi condiscepoli. Passa quattro anni ad Eisenach e ne esce ebbro della dolcezza delle lettere. Uscendo dal ginnasio anela all'Accademia, ch'egli riguarda come una fontana dove potrà dissetarsi a lunghi sorsi di letteratura e di scienza. Ripigliando il suo sacco, ed il suo bastone, s'incammina verso Erfurth: aveva diciotto anni.

Nel sistema degli studi del medio evo, la dialettica succedeva alla grammatica. Sotto la disciplina del dottor Giodoco, Lutero si applica a questa scienza. Ma ben tosto l’amore dell'antichità, che ha attinto nelle prime sue classi, gli fa trascurare la dialettica, e lo trascina allo studio profondo degli autori pagani. Tre secoli dopo abbiamo veduto Mably, già suddiacono e nel seminario di San Sulpizio, dominato dalla stessa passione, bevuta alla stessa fonte, abbandonare i libri di teologia e lasciare la carriera ecclesiastica per andar a vivere fino alla morte in mezzo ai Greci ed ai Romani. L'autore della vita di Lutero ben è lontano dal farne un rimprovero al suo eroe: Il suo animo avido di sapienza, dice Melantone, cerca le fonti più copiose e più pure: legge la maggior parte degli antichi autori latini: Cicerone, Virgilio, Tito Livio ed altri ancora. Li legge, non come un fanciullo per cercarvi soltanto parole, ma per attingervi la scienza ed il modello della vita umana. Più profondamente degli altri si addentra nel senso dei loro insegnamenti e delle loro massime; e poiché era fornito di mirabile memoria, nulla dimenticava di quanto aveva letto o udito. Di tal guisa quel giovane prodigioso divenne l’ammirazione di tutta l'accademia di Erfurth (177).

Invano il dottore Giodoco Truttveller contende d'infondere in Lutero gusti più seri e più conformi alle istruzioni di suo padre che lo destinava al foro: il posto era occupato. Come Voltaire, e per gli stessi motivi, Lutero invaghito della bella letteratura, oblia i consigli del proprio padre. Riguardo al suo professore lo trafigge coi suoi motteggi contro la scolastica. Egli stesso, in un luogo, si accusa di aver affrettato la morte del professore con la sua ostinatezza contro quel metodo d'insegnamento, sconosciuto all'antichità (178).

Eppure, se invece di passar la sua gioventù coi Greci e coi Romani, Lutero avesse imparato a conoscere i secoli cristiani, avrebbe veduto i più illustri dottori della Chiesa, capitanati da San Tommaso d'Aquino, conciliare in un armonioso tutto le scienze divine e umane, ordinarle fra loro come un esercito schierato in battaglia sotto il supremo comando del Verbo di Dio, la Sapienza Eterna, dalla quale emanano tutte. Avrebbele veduto, per mezzo del metodo scolastico o geometrico, distribuir tutto l'insieme come un campo, come una fortezza, dove la filosofia e il vanguardo o il baluardo esterno, e la teologia il grosso dell'esercito, il corpo della fortezza (179).

Ma il Risorgimento aveva dispettato questo metodo, e Lutero condivideva le idee di suo padre è ne ripeteva il linguaggio. Quantunque le sue predilezioni fossero altrove, nondimeno il giovane adolescente imparò tanto di filosofia da prenderne i gradi accademici. Ciò avvenne nel 1504: aveva allora ventidue anni. Si poneva anche a studiare la filosofia ed i morali d'Aristotele; allorché un accidente impreveduto venne a mutar il corso delle sue idee. Alessi, uno dei suoi migliori amici, gli morì a fianco, colpito dal fulmine. Temendo, di essere fulminato esso pure, Lutero cade in ginocchio e prende la risoluzione di abbracciare la vita monastica. Raccoglie per l'ultima volta i suoi amici per esercitarsi con essi nella musica. Venuta la notte, senza dir nulla a veruno va a battere alla porla del convento degli eremitani di Sant'Agostino ad Erfurth, ed ottiene di esservi ricevuto come novizio.

Ma, indovinate che cosa porta seco, come il suo tesoro più prezioso, come il suo inseparabile vademecum! Forse l'Imitazione di Gesù Cristo, una Bibbia, qualche libro ascetico? Nulla di tutto questo. Per viatico intellettuale e morale, questo giovane cristiano che va a consacrarsi a Dio, porta seco sotto un braccio un Plauto ed un Virgilio! (180)

Questo fatto, forse unico nella storia, e che rivela tutto, nulla ha però che debba farci stupire. L'uomo non è forse figlio della sua educazione, e Lutero stesso, Lutero educato da religiosi e da preti, non ha scritto: «Di venti anni io non aveva ancor letto un verso delle scritture? (181)». Checché ne sia, questo fatto riferito da tutti i diversi storici della sua vita, ci mostra assai meglio che tutti i discorsi quello che era Lutero di ventitré anni, quale educazione aveva ricevuto, quali erano le ammirazioni della sua mente e quali le affezioni del suo cuore. Ora, quello che Lutero era all'uscire dell'università, vedremo che sarà per tutta la sua vita: il convento non ne cangerà nulla. Adolescens juxta viam suam.

Vestito dell’abito di novizio Lutero ne adempie i doveri con fervore. Lo si vede ora nettare dalle immondezze la casa, scopare i dormitori, aprire e chiudere le porte della chiesa, tirar i pesi dell'orologio ed andar mendicando con la bisaccia sulle spalle per le contrade di Erfurth; ma principalmente egli studia. La sacra Scrittura, i teologi del medio evo, i Padri della Chiesa, e specialmente Sant'Agostino, occupano tutto il suo tempo. La regola così vuole; così richiedono le funzioni del sacerdozio a cui Lutero è destinato. Nel 1507 proferisce i voti, è ordinato prete, ed il 2 maggio dello stesso anno celebra la prima messa. L'anno seguente, il suo superiore, Giovanni di Staupitz, manda fra Martino ad insegnar filosofia nell'università di Vittemberga.

Quell'università era stata fondata da Federico elettore di Sassonia. Fedele allo spirito del suo fondatore che si vantava di saper a memoria tutti i poeti classici dell'antichità, l'università di Vittemberga divenne in Alemagna uno dei focolari del Risorgimento (182). I suoi vasti cortili, le numerose sale rimbombavano continuamente delle lodi date dai maestri e dagli scolari ai grandi uomini ed alle grandi cose di Roma e della Grecia. In mezzo a quell'atmosfera è facile il comprendere quanto dovesse soffrire Lutero, obbligato com'era d'insegnare la filosofia scolastica, la filosofia d'Aristotele, di quel maestro diabolico, com'ei lo chiamava (183). «Sto bene, scriveva egli, ma starei ancor meglio se non fossi costretto d'insegnar la filosofia (184)».

Un'impensata circostanza venne a stornare la sua pena. Nel 1510 fu mandato a Roma per trattare un negozio concernente gli Agostiniani di Germania; quel viaggio gli fu funestissimo. Lutero comprendeva il Risorgimento, come lo comprese la stessa Alemagna dal punto di veduta letteraria e filosofica. Per lui era il risorgimento del bel linguaggio e del libero pensare. Ei non dubitava punto che fosse né che potesse essere il risorgimento di tutte le impudicizie artistiche di cui erano piene le città esemplari di Atene e di Roma. Vedendo da lontano la città dei pontefici, cade in ginocchio, alza le mani al cielo, e salutando la città eterna con tutti i nomi di amore e di riverenza, esclama: «Roma santa, tre volte santificata dal sangue dei martiri (185)». Ma tosto l'anima sua si rimescola vedendo nelle contrade, sulle piazze, nei musei, nelle feste della città dei papi, un risorgimento delle nudità e delle follie del paganesimo. «Cerca egli una santa immagine, non scorge che divinità olimpiche, Apollo, Venere, Marte, Giove, a cui lavoravano mille mani di scultori. Sono gli dei di Demostene, di Prassitele, le feste e le pompe di Delo. il movimento del Foro, follie tutte mondane: ma quella follia della croce, preconizzata dall'Apostolo, non la vede rappresentata in nessun luogo. Ei crede di sognare, e si sdegna, e perché Roma non è fatta a sua immagine, è pronto a condannarla » (186).

D'altra parte, la sua educazione che gli ha fatto conoscere gli antichi Romani, la loro mitologia, i loro eroi, i loro iddii, gli ha lasciato ignorare la Roma cristiana. Tra Angusto e Leone X tutto il passato per lui è morto. Di tutti i papi che si sono succeduti sulla cattedra di San Pietro, ignora i titoli all'ammirazione ed alla riconoscenza.

«Ei neppure sospetta che l'intelligenza non ha protettore, dopo Dio, che nel suo vicario sulla terra; che il papato, spezzando la forza materiale e costringendola a piegare davanti alle leggi della morale, ha dato il più bello spettacolo a cui l'uomo potrà mai assistere » (187).

Era entrato in Roma da pellegrino e ne esce come Coriolano, sclamando col Bembo: «Addio Roma, cui debba fuggire chiunque vuol vivere santamente: addio, città dove tutto è permesso eccetto che di essere uomo probo » (188).

Quando udiremo Lutero chiamar Roma una Babilonia, e stimolare il mondo ad abbandonarla, ci ricorderemo questi versi del Bembo e le parole di Machiavelli, e sapremo che Lutero non è stato che l'eco dei più famosi Risorgenti.



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CAPITOLO III.



LUTERO (Continuazione).



Lutero ricevuto dottore in teologia. - Manifesta tutto il suo disprezzo pel medio evo. - Suoi sermoni. - Sue tesi. - Origine e cagione della sua antipatia. - Parole del signor Audin. - Influenza del Risorgimento sulla Riforma. - Nuova testimonianza del signor Audin.- Disposizioni generali degli animi, specialmente in Alemagna. - Lettera del canonico Adalberto.



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Ritornato a Vittemberga, Lutero riceve col titolo di dottore in teologia quello di predicatore della città: Ciò era nel 1512. Questo nuovo ufficio gli agevola il modo di potere abbandonarsi a tutto il suo disprezzo per la scolastica, e di ripetere al cospetto di numerosi uditori i sarcasmi ed i motteggi di cui Ulrico di Hutten e Reuclino facevano rimbombare l'Alemagna a spese del filosofo di Stagira e del medio evo. «Le risa suscitate da Lutero erano così fragorose, dice uno storico, che si udivano sino ad Erfurth ed a Colonia; e tutti gli umanisti di quelle due città facevano plauso all'arrivo di questo nuovo combattente, che contendeva, con l'aiuto della Scrittura, di abbattere l'autorità della scolastica (189)».

Lutero non si ferma alle prediche. Nel segreto della sua cella, compone tesi in regola contro tutto ciò ch'egli riguarda siccome una piaga della Chiesa. Giovane ancora e fervente religioso, scrive di Vittemberga, l'8 febbraio 1516 al priore, degli Agostiniani d'Erfurth: «Padre mio, mando all'eccellente Jose d'Eisenach questa lettera piena di questioni contro la logica, la filosofia e la teologia, cioè anatemi ed esecrazioni contro Aristotele, Porfirio e gli scolastici o, in altre parole, contro i pessimi studi dei nostri tempi … Niente desidero con tanto ardore, se ne avessi tempo, che di mettere Aristotele a nudo davanti al mondo intero, e di mostrare in tutta la sua vergogna questo commediante che ha ingannato sì lungo tempo la Chiesa con la maschera greca ... Una delle principali porzioni della mia croce, si è di essere condannato a vedere le migliori teste dei nostri fratelli, che sarebbero proprie alle belle lettere, perdere il loro tempo e le loro fatiche in questo fango ed in queste immondezze (190)». E mandava novantanove tesi contro la scolastica.

L'anno seguente scrive allo stesso priore: «Aspetto con grande dolore, con ansietà e sollecitudine quello che dite dei miei paradossi. Informatemi adunque il più presto possibile ed assicurate i reverendi padri della Facoltà di teologia che sono pronto a venire a disputare pubblicamente, sia in conferenza, sia nel monastero, affinché non pensino ch'io voglia borbottar nulla di simile in un cantuccio, essendo infatti la nostra università bastantemente mediocre da sembrare un cantuccio (191)». Tutto ciò precede la famosa questione delle indulgenze. Lutero non è ancora un eretico; anzi è un fervente religioso. Donde procede in lui quell'antipatia profonda pel metodo d'insegnamento seguito nel medio evo e di cui i dottori cattolici hanno fatto un uso così magnifico? Per trovarne l'origine e la cagione, conviene risalire al Risorgimento. Ascoltiamo un autore non sospetto:

«Era allora consuetudine in Germania che, uscendo dalle scuole di diritto o di medicina, i giovani andassero a perfezionare i loro studi in Italia, a Bologna o a Padova. Perché poesia, pittura, musica, scienza naturale, tutte le mode del pensiero germogliano ad un tempo in quella terra privilegiata ... Questo spettacolo dovette far vivo colpo sulle fantasie tedesche, che non avevano ancora afferrato la scienza in nessuna intuizione attiva o passiva (192).

Tutti dunque partivano dall'Italia recando germi d'indipendenza intellettuale che andavano, a loro volta, a diffondere nel loro paese. .. il dubbio trovava il suo conto in questi pellegrinaggi, il cui gusto esso manteneva: vi faceva plauso; vi impelleva le menti, persuaso che da quelle scientifiche migrazioni nascerebbe qualche bel trionfo per lui, e per la fede un prossimo oscuramento. Ciò che aiutar doveva il trionfo del Razionalismo era lo stato del pensiero che avevano lasciato in Germania così sommesso, così austero, così devoto, e che trovavano a Roma, a Venezia, a Firenze, emancipato, indipendente, non riconoscendo né giogo né padrone.

«Questo pensiero beffardo, libertino, incredulo rideva di tutto, del cristianesimo, della morale, del clero, dei papi stessi. Esso ha per suoi banditori Dante che mette pontefici ancor vivi nell'inferno; Petrarca che fa di Roma una meretrice, e persino un frate chiamato Battista di Mantova che si è messo a cantare gli amori dei preti (193). I loro libri, sebbene proibiti, circolavano in Roma sotto Giulio II e Leone X, e si trovavano nella biblioteca della maggior parte dei cardinali: Sadoleto e Bembo ne sapevano a memoria lunghi brani che si divertivano a declamare ad alta voce (194)».

All'amore per le arti e per le lettere antiche si aggiungeva in Italia, un grande entusiasmo per la filosofia poetica di Platone. «I Greci sbandeggiati da Costantinopoli l'avevano recentemente recata seco dall'esilio e rivelata alle menti italiane, che si erano improvvisamente invaghite dei sogni misteriosi del discepolo di Socrate. Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, Lorenzo de' Medici, padre di Leone X, contribuirono in mirabile modo a diffondere i dommi di quella filosofia, la quale, non ostante la sua eterodossia, seduceva molti uomini religiosi. In vece d'un Dio in tre persone, i platonici ammettono un'anima unica; anima, raggio, particella della divinità unita alla materia; dopo le prove della vita, l'anima spezza i suoi vincoli e va a perdersi nel seno della divinità, come una goccia d'acqua nel mare. L'Italia tutta intera co' suoi chierici, co' suoi laici e persino co' suoi papi, abbracciò avidamente le dottrine platoniche (195); di qualità che per un momento i cantici della sua Chiesa ne furono tutti impregnati (196)».

Dopo aver detto, sotto forma di rimprovero, quello che per altri sarà un encomio, che il clero di Germania invece di andare, come in Italia, ad ispirarsi alle fonti antiche, preferì di rimanere nei suoi chiostri, di studiarvi i grandi teologi, e di attenersi al metodo di insegnamento del medio evo, l'autore aggiunge: «Dal clero in fuori, Platone trovò più di un'anima entusiasta. Gli umanisti, i letterati inclinavano per Platone: Ulrico di Hutten, Reuclino, anime poetiche, ripudiavano Aristotele e spingevano la moltitudine verso l'antichità. La moltitudine obbediva e si rideva dei frati.

«Voi ora comprendete che il giorno in cui il prete tedesco poté essere berteggiato e la sua parola discussa, in cui si poté ridere con tutta sicurezza delle sue dottrine letterarie, il dubbio, mediante una reazione naturale al nostro orgoglio, dovette necessariamente investire la parola dogmatica; l'esame adunque venne ad indebolire la fede. Per un popolo così religioso come quello di Germania era una sventura che spezzava il cuore. Così, per ciò che alcuni frati hanno mal compreso il loro secolo, hanno, a torto, avuto paura dei lumi, quanto fracasso non fece Reuclino e la sua scuola! «Come volete ch'io creda a questo purgatorio, diceva egli, annunziato da un labbro peloso, che non sa neppur declinar musa? E si rideva» (197).

Noi non possiamo ammettere il giudizio del signor Audin. L'esperienza ha provato troppo bene che col resistere al Risorgimento, il clero d'Alemagna non comprendeva male il suo secolo, e che non a torto aveva paura dei nuovi lumi. Sopra questo punto capitale uno storico protestante ha veduto più giusto dello scrittore cattolico. Parlando del Risorgimento letterario e filosofico anteriore alla riforma, Bruchero si esprime in queste parole:

«Il risorgimento delle lettere contribuì potentemente al risorgimento della filosofia (198). L'Italia fu la prima a disgustarsi dell’antica filosofia, di quella filosofia stretta dal vincolo dell'autorità, auctoritatis capistro. Ma la nostra Germania non si addormentò nelle sue antiche tenebre; e come l'Italia, non ostante i vivi lumi che la rischiaravano, non patì di rimanere schiava della grande superstizione. Appena ebbe ella intravisto l’aurora del Risorgimento delle lettere, e ricevuto nelle scuole d'Italia i loro preziosi germi, i suoi figli reduci nella loro patria, riunirono i loro sforzi per proscrivere la barbarie, inaugurare una filosofia ed un insegnamento più in armonia col buon senso, animare i dotti, deridere l'ignoranza, mostrare la corruzione che sformava la repubblica cristiana e la repubblica delle lettere, ed indicare coraggiosamente il rimedio eroico che richiedeva questo male pestilenziale» (199).

Da queste preziose testimonianze risulta che i giovani tedeschi reduci dallo studio fatto in Italia, andavano in estasi sulle cose d1e s'insegnavano, e sul modo onde si insegnavano a Firenze, a Padova, a Bologna. «L’Europa, dicono essi; è caduta nelle tenebre, le lettere sono perdute, la filosofia è divenuta barbara, la Chiesa stessa è corrotta: noi siamo bestie guidate dal guinzaglio dell'autorità, tutti questi mali vogliono un rimedio potente che trovasi nella restaurazione dell'antichità artistica, filosofica e letteraria. Imitiamo l'Italia: ivi si parla come Cicerone, si filosofeggia come Platone. Al linguaggio ed ai metodi barbari usati fra noi è succeduto un linguaggio di squisita eleganza e metodi, che, non imprigionando più la mente in vergognose catene, permettono al pensiero di lanciarsi e di tentare nobili ed utili investigazioni. Ivi, invece di possedere, come noi, alcuni trattati soltanto dei grandi filosofi dell'antichità, si hanno tutte intere le loro opere; invece di studiarle come noi nelle traduzioni, leggonsi nella loro lingua originale. Invece di giurare sulla parola di Aristotele e delle formole che gli hanno attribuito i nostri dottori, si esamina, si discute, si apprende e non si giura sulla parola di nessun maestro».

Nella sostanza di tutto ciò, come si vede, respira l'amore appassionato della forma pagana e del libero pensare. Questo linguaggio, ispirato dal Risorgimento, riepiloga fedelmente i numerosi libelli degli umanisti anteriori alla Riforma, come Ulrico di Hutteno, Reuclino, e principalmente Erasmo, il Voltaire del secolo XV, la cui vena inesauribile rallegrò per trent'anni i'Europa letterata a spese del passato.

«Tanta era in Germania, dice Bruchero, la celebrità di Erasmo, che tutti gli amici della bella letteratura si schierarono sotto le sue bandiere per far la guerra alla barbarie del medio evo, e per conquistare il diritto del libero pensare (200)».

Gli uomini più gravi anche nel clero si lasciano sbigottire dai motteggi del letterato di Rotterdam, dai sofismi di Reuclino, e fanno eco alle odiose e loro deplorabili calunnie. Fra una moltitudine di documenti, la storia ci ha conservato la lettera singolare che nel 1483 scriveva a Reuclino, Bernardo Adelmanno, canonico d’Augusta.

«O delitto! esclama, noi disprezziamo, che dico? Aborriamo come veleno, e tal volta siamo impediti di studiare ciò che formava le delizie e la voluttà degli antichi! No, no; a meno che non siano immersi nelle lettere latine e greche, i nostri giovani non faranno mai nulla.

«Non ignoro che molti uomini, non amici della sapienza, ma dell'orgoglio, non professori di sante lettere, ma di tenebre, non giureconsulti ma parassiti di diritto, esecrano il nome di poesia, e gridano dappertutto che i poeti sono pieni di oscenità e di frivolezze. Perciò, mio amatissimo Giovanni, ricorro a te come al più sicuro rifugio degli umanisti, affinché tu pigli sotto la tua protezione tutti coloro che sono avidi di belle lettere, affinché invigili alla salute dello Stato, e persuadi bene al nostro sovrano che niuno non potrà mai giungere al vero conoscimento delle cose, se non comincia a studiare gli autori pagani (201)».

Credere che la salute dello Stato dipenda dal conoscimento di Virgilio o d’Orazio! Riguardar come delitto il divieto di leggere le oscenità poetiche degli dei dell'Olimpo. Pretendere che non si possa giungere alla verità che per la via della menzogna! Se gli fosse stato proibito di recitare il breviario o di studiare la Scrittura, il buon canonico avrebbe fatto udire più dolorosi lamenti? Tale è per altro il fanatismo per l'antichità pagana a cui il Risorgimento conduceva gli uomini più gravi; che doveva poi essere dei cervelli più leggeri, e specialmente dei giovani? Cotal lettera ha ancor questo di prezioso che mostra la ripulsione che ispirava alla fine del secolo XV lo studio degli autori pagani, e le proteste che si sollevavano contro quel sistema nuovo, e per conseguenza sconosciuto o quasi nel medio evo.

Bruchero è premuroso di aggiungere che cotale entusiasmo pel Risorgimento non era personale al canonico di Augusta, ma che aveva invaso tutta la Germania, e specialmente la gioventù, grazie ai letterati ritornati dall'Italia, col proposito di scacciar la barbarie dal seno della Chiesa.

«Al momento, continua il signor Audin, in cui questi nuovi magi (i giovani tedeschi ritornati dall'Italia), venivano ad annunziare ai loro compatrioti la stella luminosa che li aveva guidati in Italia, dove erano andati ad adorarla, i cittadini tedeschi erano emancipati ... Perciò furono veduti questi emancipati dello ieri, una volta ch'ebbero assicurata la sorte futura del loro corpo, pensar subito ad affrancare la loro anima (202). Questa luce spirituale che risplendeva dalle Alpi attrasse dapprima i loro sguardi: libri, arti, idee, filosofia, tutto ciò che veniva dall’Italia occupò i loro pensieri. I cittadini sassoni sono i primi discepoli della scuola filosofica tedesca rappresentata da Reuclino; scuola scettica e beffarda, la quale ha per divisa: Odio ai frati ed a tutto ciò che viene dai conventi!

«Voi li vedete appigliarsi, come se le comprendessero, a quelle dispute platoniche ed aristoteliche le quali cominciano ad agitare in Germania tutte le persone, e come a Roma adottare per rappresentante chi parla, all'anima, chi sogna, chi infiltra un po' di poesia in tutte le sue speculazioni. Queste dispute, in cui il monachismo lasciava una parte troppo larga agli umanisti laici, contribuirono all'avvenimento della riforma.

«L'Alemagna voleva imitare l'Italia. Tubinga nel 1477; Magonza, nel 1482; Vittemberga nel 1502, e Francoforte sull'Oder nel 1506, avevano fondato e dotato scuole; e, come di là dalle Alpi, università nelle quali spiegavasi l'antichità e si commentava avanti ad una turba di ferventi discepoli ... Così i vescovi, col fondar quelle università avevano, senza pur sospettarlo, adoperato al trionfo del razionalismo, ed apparecchiato la strada alle novità religiose (203)».

Senza rammentare quello che ha detto, il signor Audin, grande ammiratore del Risorgimento, soggiunge: «Il clero cattolico avrebbe potuto dispensare al popolo la nuova manna, se avesse voluto cercarla dove la trovavano i laici; ma prese un'altra via, e poiché vide che il passato era la grande sorgente d'ispirazione, pensò a richiamarlo. Ma invece di quelle ombre che avevano riempito l'antichità della loro gloria, richiamò altri morti: ed erano Durando, d'Ailly, San Tommaso, Scoto ..., garruli dii che spirarono nei loro discepoli uno spirito di sofismi, di astuzie, d'equivoci, di sottigliezze grammaticali, e li aiutarono a ricominciare quelle lotte il cui segreto avevano con sé portate» (204).

Chiamare i più grandi dottori del medio evo professori di sofismi, d'equivoci e di sottigliezze grammaticali, e San Tommaso un garrulo iddio! Allorché anche al giorno d'oggi cadono tali parole dalle labbra d'un cattolico istruito, si può egli stupire agli oltraggi onde i Risorgenti del sedicesimo secolo furono così prodighi riguardo a tutte le glorie cristiane e nazionali dell'Europa?


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CAPITOLO IV.

LUTERO (Continuazione e fine).



Il Protestantesimo prima di Lutero. - Disprezzo del medio evo. - Entusiasmo per l'antichità pagana.- Querela delle indulgenze. - Essa non è la cagione del Protestantesimo. - Lutero assalisce l’autorità della Chiesa. - Parole notevoli di Bruchero – Lutero sempre simile a se stesso, e sino alla morte quale lo ha fatto l’educazione. - Ei non è altro che un Risorgente.


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Eccoci all’anno 1517, anno famoso nella vita di Lutero, e nella storia del mondo moderno. I fatti che abbiamo allegati e quelli in maggior numero che potremmo allegare ancora riepilogano in tal modo la condizione intellettuale dell'Europa in generale e dell'Alemagna in particolare: grande fermento delle menti dei letterati; grande dispregio pel medio evo, per la sua scienza, pei suoi metodi, pei suoi dottori: grande entusiasmo per l'antichità pagana, per la sua letteratura, per le sue arti, per la sua filosofia: grande desiderio, o, come si direbbe oggidì, grande aspirazione verso un nuovo ordine di cose e d'idee diverso dal passato, che si riguardava siccome il regno della barbarie: tali erano, grazie al Risorgimento, le disposizioni generali degli animi.

Ora che è ciò, se non il Protestantesimo, nella più larga significazione della parola! Col preconizzare la nuova filosofia, la nuova poesia, la nuova pittura, la nuova musica, la nuova storia, la nuova politica, la nuova lingua, e col presentarle siccome il tipo del vero, del bello, del buono, che facevano i filosofi, i letterati, gli artisti ed i politici del Risorgimento, in Italia e altrove, se non protestare altamente contro tutte queste cose quali il medio evo le aveva conosciute, insegnate, praticate; ed invitare per tal modo l'Europa a ripudiare la propria filosofia, la propria letteratura, le sue arti, la sua politica, la sua civiltà, la stessa sua lingua, per adottare la filosofia, la letteratura, le arti, la politica, la civiltà, la lingua dell'antichità greca e romana? Da questo universale Protestantesimo un punto solo fino 'altora era eccettuato, l'autorità dogmatica della cattolica Chiesa. Sopra tutto il resto si affrancava la ragione e la si chiamava all'indipendenza,

Da tutte parti la ragione rispondeva a quest'appello. Con un ardore che non ha esempio nella storia dei Barbari allorché devastarono il mondo pagano e lo distrussero coi suoi palagi, coi suoi templi, coi suoi dii e con le sue istituzioni per far luogo al cristianesimo, si vide l'Europa gettare al vento il patrimonio dei suoi avi, distruggerne i monumenti, abiurare la propria letteratura, e le sue arti tradizionali, ripudiare la politica sua nazionale e la domestica sua civiltà per dar luogo all'antichità pagana.

Intanto che le lettere e le arti emancipate dalle regole del pudore, la filosofia dal vincolo dell’autorità, la politica dalle leggi della giustizia inondavano l'Europa di scandali greci e romani, si udiva il suono del martello che nella stessa Roma demoliva la prima chiesa del mondo, l'antica e tante volte venerabile basilica di San Pietro, per sostituirvi, non ostante le rimostranze del sentimento cristiano, un edificio greco costruito secondo le regole di Vitruvio (205).

Con maggior zelo che non impiegò il medio evo a ricercare le opere dei Santi Padri, a ritrovare le reliquie dei martiri, o a conquistare il sepolcro del Figliuolo di Dio, si ricercarono i libri dei pagani, le statue dei loro iddii, le ruine dei loro templi, i busti dei loro grandi uomini; se ne festeggiò la scoperta con solennità pubbliche; si collocarono onorevolmente nei palazzi dei principi, e l'Europa, briaca di fanatismo, non si stancava di ammirare quelle vergognose vestigia d'un mondo che aveva gettato i suoi avi alle tigri ed ai roghi, e che Iddio nella giusta sua collera aveva distrutto. Si sarebbe detto l'adempimento, in senso contrario affatto della parola di San Remigio al capo dei Franchi: «Fiero Sicambro, brucia quello che hai adorato, e adora quello hai bruciato».

Questa duplice predicazione di disprezzo per l'antichità cristiana e di entusiasmo per l’antichità pagana durava già da cinquant'anni; e per la sua educazione, Lutero, come abbiamo veduto, ne era uno dei più ferventi apostoli. In compagnia di Utteno, di Reuclino, di Nizolio e d'Erasmo continuava a far ridere la Germania a spese del medio evo, dei suoi dottori e dei loro discepoli. «Tutti i suoi sforzi, dice Bruchero, tendevano non solamente a screditare la filosofia scolastica, ma, a farla discacciare dalle scuole. Cotal odio (non è punto a dubitarne) aveva lo stesso principio che nella letterata Italia. Inebriati dell'amore della bella letteratura, non potevamo sopportare il giogo della filosofia scolastica; perciò Lutero, educato fino dagli anni suoi giovanili fra gli antichi era penetrato d'orrore per la barbarie delle scuole (206)».

Melantone, soggiunge: «Quest'odio diventava ogni giorno più vivo, per lo spettacolo che agli occhi di Lutero presentava la gioventù, alemanna di cui gli scritti di Erasmo avevano rivolta l'ammirazione verso la bella antichità, e risvegliato il disprezzo per la barbara e sofistica dottrina dei frati» (207).

Lutero stesso, aprendo tutto il proprio pensiero, in tal modo si esprime in una sua lettera a Giodoco: «Insomma, io credo assolutamente essere impossibile il riformare la Chiesa se non si aboliscono da capo a fondo il diritto canonico, le decretali la teologia scolastica, la logica, la filosofia quali ora esistono e non si rifabbrica tutto di nuovo (208)».

Come ciascun vede, qui vuolsi scalzare il principio di autorità. Troppo accorto per dire avanti tempo l'ultima sua parola, il Paganesimo risorgente, sempre simile a sè medesimo nasconde il proprio scopo sotto pretesti mendaci. Nel sestodecimo secolo, la barbarie del medio evo gli serve di maschera: in appresso, la superstizione; poscia, il fanatismo e le ricchezze del clero; sempre larve per coprirsi la faccia; sempre pretesti, per ingannare, insino a che finalmente la verità, la Chiesa, la religione stessa siano scrollate nella riverenza dei popoli. Allora i nemici si fregano le mani; e gli amici esclamano: Ah! nol sapevamo!

Lutero e l'Europa erano al punto che abbiamo detto allorché si suscitò la controversia delle indulgenze. Non è del nostro disegno di richiamare le particolarità, assai note per altro, di questo deplorabile negozio, che non avrebbe avuto luogo, se non fosse stato necessario di ricostruire la chiesa di San Pietro di Roma, demolita dal Risorgimento.

Ci basti il dire che la questione delle indulgenze non fu la cagione del Protestantesimo, come il disavanzo delle finanze non fu la cagione della rivoluzione francese; come le ordinanze di Carlo X non furono la cagione della rivoluzione del 1830, o il banchetto elettorale quella della rivoluzione del 1848. La controversia delle indulgenze, fu, se vuolsi, la scintilla che diè fuoco alle polveri, ma le polveri erano fabbricate e riunite già prima.

Sia, come si è preteso, gelosia di corporazione nel vedere affidata ai domenicani la missione d'annunziare l'indulgenza del giubileo in Alemagna, sia, come pare più verisimile, desiderio di approfittare di un’occasione solenne per fare una formale campagna contro i dottori cattolici del medio evo, cioè contro il principio d’autorità, Lutero, alla vigilia d’Ognissanti del 1517 va affiggere alle porte del castello di Vittemberga novantacinque tesi contro le indulgenze.

In quel momento decisivo che successe nel suo anima? Due scrittori protestanti, Bruchero e Seckendorf ce lo diranno: «Lutero, nutrito della bella antichità, era convinto che la filosofia e la teologia scolastiche erano la causa degli errori che vedeva germogliare nella Chiesa; vedeva i sostegni della superstizione romana puntellarsi su quei due mezzi per difendere come la pupilla dei loro occhi la barbarie della dottrina e la barbarie dei costumi: vedeva la Chiesa romana posare sopra questa immensa base il suo potere e la sua ambizione: vedeva tutte le persone dabbene impazienti di scuotere quel giogo imposto alle coscienze e ne concluse che avanti tutto si doveva strappare al nemico la sua armatura. Al vedere il pericolo che lo minaccia ci sta titubante ... ma rivolge gli sguardi sopra i grandi uomini dell'Italia che gli hanno aperto la strada; il loro esempio rafferma la sua grand'anima, e dà principio all'assalto (209)».

Così è: il libero pensare, nato dal Risorgimento, ha trovato un logico più ardito e più consentaneo dei suoi predecessori:

L'autorità dogmatica della Chiesa, rispettata fino allora, è combattuta di fronte: il protestantesimo è completo.

Predisposti com'erano gli animi dagli ammiratori dell'antichità pagana, la Riforma s'appiccò in Alemagna come il fuoco negli aridi spini. Una gran parte di questa gloria, dice Bruchero, è dovuta al letterati cattolici, fra i quali Erasmo, Vives, Lefèvre, Nizolio. Questi non osarono, è vero, di assalire Roma di fronte, ma contribuirono grandemente al buon esito della battaglia, propagando la bella filosofia, coprendo di disprezzo quella dei secoli precedenti, e suscitando gli altri a scacciare quegli spettri dalla repubblica letterata. Si aspettava una mano tanto ardita che sapesse metter fuoco alla bomba: e questa mano fu quella di Lutero (210)».

Fatto il primo passo, la logica, trascinò Lutero da una all'altra negazione. Ciò non di meno però, cosa veramente notevole! non andò così avanti come certi Risorgenti d'Italia, i cui mostruosi errori furono, come vedremo, condannati nel concilio di Laterano. Ma coll'assalire la filosofia e la teologia scolastiche, egli aveva ad un tempo scompigliato tutto il sistema cattolico della scienza che della filosofia faceva un'ancella della fede, ed abbattuto l’argine che sosteneva il torrente del Razionalismo (211).

Noi non seguiremo Lutero nelle continue lotte che compongono la seconda parte della procellosa sua vita. Come nella prima, egli si mostra costantemente simile a sé stesso e figlio della propria educazione. Disprezzo del medio evo, disprezzo della sua scienza, disprezzo dei suoi dottori, disprezzo della Chiesa e dei suoi insegnamenti ch'ei tratta da errori nati nelle tenebre dei secoli d'ignoranza: ammirazione non meno costante per la letteratura dell'antichità pagana di cui vantasi d'essere un modello, pel suo libero pensare di cui si gloria d'essere l'apostolo. Leggiamo alcune pagine del Tisch-Reden in cui lo stesso Lutero fa di sé stesso questa rivelazione.

«Trent'anni addietro, dice egli, la Bibbia era ignota, i profeti non compresi. Di vent’anni io non avevo ancor letto nulla delle Scritture … (212). I frati sono le colonne del papismo: essi difendono il papa come certi ratti il loro re … Ma io, io sono l'argento vivo del Signore sparso; nello stagno, cioè nella frateria. I francescani sono i pidocchi che il diavolo attaccò alla pelle di Adamo; i domenicani, le pulci che punzecchiano continuamente ... Nel chiostro non si studia, ma si oscura la Scrittura. Un frate non sa che cosa sia studiare; in certe ore ei brontola certe preghiere, dette canoniche; ma il dono concesso a me di leggere le Scritture non vi ha neppure un frate che l’abbia ricevuto (213).

San Bonaventura, San Tommaso erano pidocchi e pulci! San Bernardo, Alberto Magno, Rogerio Bacone non avevano né dottrina né intelletto; erano specie di barbari che non studiavano ma che ottenebravano la Scrittura! Non è forse quanto, in altro parole, avevano detto i Risorgenti prima di Lutero, e quanto pensano ancora oggidì?

Dagli ordini religiosi Lutero passa ai giuristi. Il medio evo, convinto di non intender nulla in teologia, né in filosofia, né in belle lettere, non è meno ignorante in materia di giurisprudenza e di diritto canonico. «Che cosa è un giurista? chiede Lutero. Gli è un ciabattino, un rigattiere, un tagliasuole che fa mestiere di disputare di cose che non mandano buon odore, del sesto comandamento di Dio, per esempio .... Non avrei mai creduto ch'ei fossero così papisti come sono. Veggo che sono tuffati nella m… sino al collo: luridi che non sanno discernere lo zucchero dalla m …. Omnis jurista est aut nequista, aut ignorista (214)».

I Padri della Chiesa non sono trattati meglio dei dottori del medio evo: ignoranti, eretici, imbecilli, ecc., tali sono gli epiteti di cui Lutero li onora. In quanto ai cattolici in generale, principalmente quelli che non sono Risorgenti: «Sono papisti che non sanno una parola di latino, esseri scaduti, senza dottrina; senza discernimento, meschini scolaretti che si trascinano sulle orme d'Aristotele, che non hanno mai saputo leggere; umanisti tutti infarciti d'un latino che moverebbe a pietà un pedante di villaggio; teologi che cantano vittoria quando hanno citato Tommaso o Scoto (215)».

Lutero, falsamente accusato di essere nemico del Risorgimento, si reputa uno dei più squisiti latinisti del suo tempo. È d'uopo udirlo con qual superbo disdegno ei parli della latinità dei suoi avversari. Rispondendo alla costituzione di papa Adriano VI, si esprime in questi termini. «Duolmi di perdere il tempo a rispondere a lettere ignoranti e veramente papali. Esse sono scritte in modo così sciocco ed in uno stile così barbaro, che sono indegne di essere confutate anche da un fanciullo. Ma Iddio colpisce miracolosamente l'Anticristo, sino a togliergli qualunque successo, sino a togliergli la conoscenza stessa di qualunque lingua ed ogni specie di abilità, di qualità che in ogni cosa egli è caduto nell'infanzia e nella follia. È il colmo della vergogna il mandare un tal latino a Tedeschi, ed il proporre a persone ragionevoli spiegazioni cotanto sciocche della Scrittura. Tutto questo è veramente e mirabilmente papistico, monacale e lovaniano (216)».

Le sue pretensioni alla bella latinità non sono uguagliate che dalla sua ammirazione per la bella grecità. Scrivendo al suo amico Eobano Hesso, gli dice: «Senza lo studio delle lingue, non vi ha teologia: teologia e belle lettere ci sono state recate nel medesimo naufragio … la gioventù adunque si dedichi alle muse, tale è il mio voto più ardente. Vengono a turbe e poeti e retori per iniziare gli uomini ai misteri delle Scritture ... Mio dotto amico, sérviti del tuo e del mio nome, se vuoi invocarlo, per poetizzare la gioventù. Tutto il mio cordoglio è che il nostro secolo e le mie occupazioni m'impediscano di svolgere i poeti ed i rétori antichi, per diventar greco a mio agio (217).

Lutero però li aveva svolti, e svolti esclusivamente sino a vent'anni, come ce lo fa sapere egli stesso: continuava a svolgerli ed a marciare alla pugna sotto la loro scorta, come gli rimprovera il conte di Carpi. «Fedele alle tue astuzie, gli dice, citi le insulsaggini e le favole dei poeti, perché esse si acconciano con le tue menzogne, scegli negli autori pagani nomi ed esempi talmente profani, che non solo è vera sconvenienza il ricordarli in questioni sacre, ma eziandio manifesta empietà. Che hanno di comune le verità della teologia con Oreste, Proteo, Ercole, Enea, e loro simili onde tu rabeschi i tuoi scritti? Ed intanto che ti appoggi a simili cose, tu, schernisci quel genere di letteratura che si oppone alla tua dottrina; perché non ignori essere un coltello che facilmente apre le tue piaghe. Ecco perché rifuggi da un metodo d'insegnamento il quale, rigettando le parole e le inezie recide al vivo tutto ciò che è superfluo e va diritto allo scopo» (218).

«Affinché sia bene stabilito che, sotto il nome di Risorgimento e di Protestantesimo, vi ha il vecchio paganesimo, la cui essenza è insiememente orgoglio e voluttà che ritornano in Europa, Lutero deifica la carne dopo di avere indiato la ragione. Il famigerato suo sermone sul matrimonio, predicato nel 1522, nella gran chiesa di Vittemberga, non è che un eco dei canti più osceni dei poeti dell'antichità. Dalla predicazione del Vangelo in poi, il mondo non aveva udito un simile appello alla ribellione dei sensi. Dopo di aver parlato in tedesco pel popolo, Lutero traduce in latino il suo sermone per uso degli umanisti di tutti i paesi. Erasmo, principe dei letterati, si contenta di chiamarla una burletta: gli altri vi applaudiscono.

Fatto ardimentoso da questo trionfo, Lutero continua nelle sue lettere la deificazione della carne. Ad ogni voto di castità infranto ei batte le mani. Carlostadt, arcidiacono di Vittemberga, Bernhard, abate di Kemberga, Gerbel parroco di Strasburgo si maritano; e Lutero se ne rallegra e se ne congratula. «Salutate, dice loro, risalutate vostra moglie ... Essa, se piacerà a Cristo, partorirà un figlio che con la sua verga di ferro stritolerà i papisti, i sofisti, i religiosisti e gli erodisti. Oh quanto siete felici d'aver trionfato di cotesto impuro celibato!... Il matrimonio è un paradiso» (219)

Ed egli stesso entra nel paradiso della carne sposando una religiosa, Caterina Bora, che ha tratto fuori del suo convento. Ben tosto d'accordo con gli umanisti suoi ammiratori e suoi discepoli, Lutero spezza gli ultimi impacci imposti alla carne, negando l'indissolubilità del vincolo coniugale ed autorizzando la poligamia. Anche da questo lato il paganesimo è teoricamente e praticamente restaurato.

Per completare il proprio trionfo restava a rendergli nell'ordine sociale e potitico il posto che gli aveva preparato la bella antichità. Allora non più papa, non più vescovo, non più Chiesa che controbilanci il potere di Cesare. Nella mano dell'uomo, imperatore e sommo Pontefice, si riunivano la potestà dei corpi e la potestà delle anime, ciò era il dispotismo brutale. Il paganesimo sociale ricomparisce in Europa quale era in Roma e nella Grecia. Con voce instancabile, Lutero, eco fedele di Machiavelli e degli antichi, non cessa di predicare l'emancipazione del potere politico dalla tutela della Chiesa. Usurpazione, tirannide, abuso, vergogna dell'Alemagna e del mondo, in tal modo ci rappresenta l'autorità temporale della Santa Sede.

Il più piccolo segno di rispetto pel diritto antico lo mette in furore. Dopo la dieta d'Augusta, ei grida: «Guai a voi tutti che avete sostenuto il papismo ad Augusta! Infamia su di voi! Di voi arrossirà la posterità; né potrà credere di aver avuto simili antenati. Oh dieta infame che mai non avesti né avrai l'uguale! tu copristi di vergogna i nostri principi e la patria. Che dirà il Turco all’udire un tale scandalo? Che diranno i Moscoviti e i Tartari? Chi d'ora innanzi, sotto il cielo, avrà qualche timore o qualche rispetto di noi Tedeschi, quando si saprà che ci siamo lasciati così disonorare, braveggiare, trattar da bambini, da stupidi, da macigni, dal papa e dal suo codazzo» (220).

E in altro luogo: «Principe, dice all'Imperatore, sii padrone. Il potere che ha Roma lo ha rubato a te: il papa mangia il grano e noi la paglia (221)». Quest'inno alla Tirteo sommuove tutta la nobiltà, e Lutero fa così bene, che le potenze temporali dell'Alemagna rompono gli ultimi vincoli di sociale subordinazione che le uniscono alla Santa Sede. Da quel dì in poi un ostinato dualismo si pone fra i re e i popoli. Vere o pretese doglianze insorgono ed un gran duello, cioè guerra, saccheggio, arsione, sterminio, ritorna ad essere, come nella bella antichità, l'ultima ragione del diritto.

Finalmente, la parola divina si compie in Lutero come negli altri: l'adolescente camminerà sino alla tomba nella via dove stampò le prime sue orme. Prima di morire da libero pensatore, cioè da vero pagano, Lutero proclama per l'ultima volta ch'esso riguarda, come ne ha detto Melantone, gli autori pagani siccome i modelli della vita e i maestri della dottrina, di cui il mondo non può assolutamente far senza. «Metto innanzi a Cicerone Aristotele ... Cicerone ha scritto egregiamente e dato ammaestramenti delle virtù; di prudenza, di temperanza e di altre. Aristotele similmente in modo perspicuo e con erudizione nei suoi morali. I libri dell'uno e dell'altro sono utilissimi e sommamente necessari per la condotta della vita (222)». Lutero morì in patria, il 18 febbraio 1546.

Se nel suo principio il Risorgimento fu il libero pensare, e nelle sue manifestazioni il disprezzo del medio evo congiunto con l'ammirazione e con la restaurazione completa per quanto era possibile dell'antichità pagana, si è proprio in obbligo di concludere dai fatti che precedono che Lutero non fu altra cosa che un Risorgente. Il libero pensare che i suoi predecessori applicavano alla filosofia, alla letteratura, alle arti, alla politica, egli lo applica all'ordine religioso. Tra essi e lui questa è tutta la differenza. Per fermo quest'applicazione è più audace delle altre, ma essa è logica, ed inoltre è inevitabile.


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CAPITOLO V.

ZUINGLIO.



Progressi del libero pensare. - Nascita di Zuinglio.- Sua educazione. - Essa produce in lui gli stessi effetti che in Lutero. - Zuinglio studia a Berna e s'invaghisce degli autori pagani. - Si reca all'università di Vienna. - Raffronto fra lui e Lutero. - Che è Zuinglio, compita l'educazione; anima vuota di cristianesimo ed ebbra di paganesimo. - È ordinato prete e nominato parroco di Glarona. - Nuovo raffronto con Lutero. - Occupazioni di Zuinglio nella sua parrocchia. - Studio degli autori pagani. - Loro influenza. - Influenza d'Erasmo. - Nuovo raffronto con Lutero.



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Lo spirito del Risorgimento, il cui focolare era di là delle Alpi, soffiava sopra tutta l'Europa. Niente l'arrestava: non la distanza dei luoghi, non l'altezza delle montagne, non la differenza degl'idiomi. Questo spirito, come abbiamo veduto, era il libero pensare che da una parte si manifestava mediante il disprezzo dei secoli cristiani, e dall'altra, mediante l'ammirazione dell'antichità pagana. Nel momento in cui esso pervertiva il giovane Martino Lutero in seno del ginnasio cattolico di Eisenach, faceva un'altra vittima nel cuore medesimo della Svizzera.

Il 1° gennaio 1484 nasceva a Wildhaus, nel contado di Tockenburgo, in Isvizzera, Ulrico Zuinglio. I primi suoi anni li passò coi fanciulli del suo villaggio. I suoi genitori, buoni contadini svizzeri, pieni di fede e di semplicità, avendo scorto nel piccolo Ulrico buone disposizioni, lo confidarono ad un suo zio, parroco di Wesen, sulle rive del Lago Wallenstadt. Presto imparò a leggere e a scrivere. Di là fu mandato a Basilea, alla scuola di Gregorio Binzli. Questo nuovo istitutore gli diede i primi rudimenti delle lingue e non tardò a consigliare i genitori d'Ulrico di mandarlo a Berna.

Intorno a questa importantissima circostanza della sua vita, udiamo un biografo non sospetto: «La scuola di quella città, dice Chauffour, aveva un maestro che i contemporanei chiamano l'uomo più dotto e più illustre che fosse nella confederazione. Questi era Velflino, o, per conservargli il suo nome da erudito, Lupulus. Era iniziato ai primi risultamenti del Risorgimento, e nell'insegnamento del latino, aveva rinunziato ai metodi puerili del medio evo, ed al linguaggio scolastico. Apprezzava i capolavori della classica antichità, e sotto l'esperto suo magistero, Zuinglio penetrò in quelle ricche miniere ed informò il proprio giudizio, il gusto e lo stile (223)».

Precisamente lo stesso avveniva nel medesimo tempo a Lutero nel ginnasio d'Eisenach. Velflino Lupulus è un Risorgente come Giovanni Trebonio. Tutti e due hanno scosso il giogo dei metodi tradizionali: tutti e due sono pieni di disprezzo pel medio evo e di ammirazione per la classica antichità: tutti e due trasfondono i loro sentimenti nell'animo dei giovani loro alunni; e questi, entrati essendo cristiani nello loro scuola, ne escono pagani e pagani per tutta la vita. Giudizio, gusto, stile, tutta la loro vita intellettuale, attinta alle fonti antiche, sarà lo svolgimento della loro educazione di collegio, e si riepilogherà, come quella di Voltaire, di Rousseau, di tutti i Risorgenti, consentanei con sé stessi, in due parole: disprezzo del cristianesimo, ammirazione del paganesimo.

Uscendo dal ginnasio d'Eisenach, Lutero, come abbiamo veduto, si recò all'università d'Erfurth, per studiare la dialettica e le arti liberali. Zuinglio passa da Berna all'università di Vienna per farvi gli studi medesimi: aveva allora quindici anni. Non abbiamo dimenticato l'avversione di Lutero per la scolastica, e la sua passione per gli autori pagani, durante la sua dimora ad Erfurth; in Zuinglio sono le stesse disposizioni. «Nel 1499, continua a dire il suo biografo, si trasferì a Vienna per studiare, in quella, famosa università, la filosofia, o quello che allora chiamavasi filosofia. Dalla forte sua educazione letteraria era premunito ... contro le meschine sottigliezze d'una vana dialettica ... come tutti i grandi uomini del XVI secolo, Zuinglio ebbe un odio gagliardo per la scolastica ... Continuò ad esercitarsi nella musica ed a coltivare le lettere in compagnia di alcuni amici che poscia furono illustri: Vadiano, Glareano, Giovanni Faberto» (224)

Tali erano le disposizioni di Zuinglio riguardo alla filosofia del medio evo. A motivo della forte sua educazione letteraria, Lutero ad Erfurth sentiva, come abbiamo veduto, una somma, avversione, manifestava un profondo disprezzo per la teologia scolastica, per San Tommaso, Scoto, Alberto Magno e per tutti i dottori che l’avevano insegnato con tanto lustro. Sotto quest'aspetto vi ha somiglianza perfetta tra Lutero e Zuinglio. «Riguardo alla teologia scolastica, dice Miconio, contemporaneo di Zuinglio e suo amico d'infanzia, vide subito come fosse un gettare il tempo a studiarla. Questa pretesa scienza non era che pura confusione, sapienza mondana, vaniloquio, barbarie; e non si poteva trarne veruna sana dottrina (225)».

L'ignoranza e il disprezzo del cristianesimo, delle sue glorie scientifiche, artistiche, filosofiche, teologiche, letterarie, ecco, in tutti i tempi, il risultamento inevitabile dell'educazione classica. Questo male negativo è immenso, e per mala sorte non è il solo. Nauseato del suo naturale, alimento lo spirito della gioventù cerca necessariamente un altro nutrimento: l'antichità, oggetto dei suoi studi fanciulleschi, l'antichità che gli è stata rappresentata siccome ciò che mai vi è stato di più grande, di più bello, di più ricco al mondo, traggelo a sé. Cotale attrai mento, è pur forza il dirlo, tanto è più forte in quanto che l'antichità è il paese dove l'uomo decaduto respira a suo miglior agio. Ivi niun giogo difficile a portarsi dal cuore; ivi niun freno all'indipendenza del pensiero. In cotale pericoloso attraimento e nell'ammirazione che ne è ad un tempo causa ed effetto, consiste il male positivo della classica educazione. Supposto che tutta una generazione sia educata in tal modo, basterà una circostanza accidentale, per trascinarla lontana dal cattolicismo e gettarla nei più grandi errori religiosi e sociali. Tale era Zuinglio all'uscire dagli studi: nave senza bussola e senza zavorra che al primo soffio di procella vedremo rompere in naufragio.

«Già la Riforma, continua il suo biografo, gettava alcuni raggi precursori. L'insegnamento iniziatore degli umanisti aveva reagito anche sui teologi: non si può avvicinarsi ai grandi uomini della Grecia e di Roma senza ritrarre dal loro commercio un supremo disdegno per ogni sottigliezza. Zuinglio udì a Basilea uno di quegli uomini che, come il nostro Lefebvre d'Étaples preparavano le vie portando sopra un gran numero di delicate questioni le investigazioni del loro spirito indipendente (226)». Quest'uomo era Wittembacbh.

Teodoro Wittembach era un umanista, quale se ne foggiavano in Europa a inizio del XVI secolo. La lunga consuetudine coi grandi uomini di Roma e della Grecia ne aveva fatto un libero pensatore, e per mala sorte ei pensava ad alta voce. «Wittembach, dice Leone Jud, uno dei suoi alunni, era riguardato come una meraviglia ed una fenice. Alla sua scuola Zuinglio ed io fummo educati non solo alle belle lettere, che gli erano famigliarissime, ma anche nella vera dottrina evangelica. Perché Wittembach ... antiveniva e presagiva molte cose, in ordine alle indulgenze e ad altre dottrine di cui il Pontefice romano aveva riempito il mondo da sì lungo tempo (227)». E Zuinglio riconosce ch'egli, per la prima volta, ha raccolto il principio fondamentale della Riforma, la giustificazione mediante Cristo (228).

Zuinglio uscì da Basilea recando il germe del libero pensare. Più tardi, per un giusto ritorno, sviluppò nel suo maestro il male che aveva da lui ricevuto. Nel 1523, Wittembach, eccitato dall'esempio di Zuinglio, lasciò l'università di Basilea e venne a dimorare a Bienna sua patria, dove incominciò la Riforma. Quanto a Zuinglio, in età di soli ventidue anni, il comune di Glarona lo elesse per suo parroco. Ordinato prete prima dell'età canonica, prese possesso del suo beneficio nel 1507.

Lutero entrò in convento con Plauto e con Virgilio. Vuolsi sapere di che si occupa nella sua parrocchia il giovane pastore di Glarona, qual società frequenta, quali teologi consulta? ascoltiamo ancora Chauffour. «A Glarona Zuinglio terminò la propria educazione di riformatore. Da lungo tempo teneva dietro al movimento che traeva l'umanità in quel tempo. È noto quale influenza lo studio delle lingue esercitò sul cammino della civiltà nel XV e XVI secolo. Aprendo allo spirito i grandi geni dell'antichità, forniva all'umanità un punto di partenza in tutte le direzioni (229), i risultamenti finali della civiltà greco­romana.

«Applicate alla religione, le lingue spezzavano il giogo delle prescrizioni papali, permettendo di raffrontarle col testo non adulterato della Scrittura. Esse ebbero nelle rivoluzioni del XVI secolo un'importanza molto simile a quella che le scienze matematiche e naturali hanno preso ai nostri tempi. Perciò tutti i grandi intelletti di quell'età ne celebrano a gara e ne raccomandano lo studio.

«A Berna, a Vienna, Zuinglio si era fatto famigliare con la letteratura latina. A Basilea aveva incominciato senza maestro ad accostarsi ai Greci, tanto superiori ai Latini, come dice egli stesso. A Glarona continuò con ardore i suoi studi. Il suo carteggio in questo tempo è quasi esclusivamente letterario (230)».

Il giovane parroco passa a rassegna tutti i classici pagani, e di ciascuno fa un elogio speciale. In posto luminoso colloca le Vite di Plutarco, il primo dei libri da studiarsi: parla di quel vasto fiume delle storie di Tito Livio: commenta Omero e Luciano, studia Demostene, fa una tavola per Cicerone, una prefazione per Pindaro. Pindaro in modo speciale lo invaghisce: ei, ne fa un santo. «Chi potrebbe dire, esclama, se il genio di Pindaro fu più dotto o più santo, più dilettevole o più virtuoso? La sua dirittura non ha chi la pareggi, la sua purezza è tale che invano nelle sue poesie si cercherebbe una frase lasciva. Niuno più di lui ebbe un cuore incorruttibile, innamorato del giusto, del vero, del santo (231)».

Erasmo, il grande panegirista degli antichi in Alemagna, ebbe, come abbiamo notato, una grande influenza sopra Lutero; a tal segno che Erasmo stesso scrisse quel celebre eletto che la storia ha pienamente confermato: «Io ho fatto l’uovo, Lutero l'ha fatto schiudere. Ego peperi ovum. Lutherus exclusit». Nuovo raffronto tra Lutero e Zuinglio. Il parroco di Glarona attribuisce ad Erasmo l'onore di avergli aperto la strada alla piena indipendenza del pensiero.

«Fra i promotori del gran moto del Risorgimento, dice Chauffour, Erasmo è uno di quelli che sopra Zuinglio ebbero più profonda e più durevole influenza. Per lungo tempo ebbero commercio di lettere .... Si separarono poi quando Erasmo, volgendo le spalle al progresso, cominciò a scrivere contro Lutero. Zuinglio non ammirava in lui soltanto la sua erudizione e la inesauribile vena onde si giovava in servigio delle lettere. A lui attribuisce un'influenza decisiva sopra le sue idee come riformatore. A lui ed a Wittembach fa risalire la sua conversione al principio della giustificazione mediante Cristo» (232).

Chauffour ha cura di confermare il giudizio di Zuinglio dicendo che infatti la Riforma, questa grande emancipazione della libertà dell'umana coscienza fu preceduta da una grande e profonda opera di risorgimento morale, la cui immediata conseguenza era il ripudio dell'autorità della Chiesa. Non si può dire né di più né di meglio.



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CAPITOLO VI.

ZUINGLIO.

(Continuazione).



Raffronti fra lui e Lutero.-Viaggio d'Italia, impressioni. - Zuinglio studia la Scrittura, come Lutero, sotto l'ispirazione del libero pensare. - Sue dottrine. - Come Lutero ingiuria i suoi contraddittori. - Invoca gli autori pagani. - Sua professione di fede, ultimo limite del libero pensare. - Paradiso di Zuinglio, panteon dei pagani. - Come Lutero, emancipa la carne. - Applica il principio pagano all'ordine sociale. - La guerra. - Morte di Zuinglio.


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Per agevolare l'ufficio dello storico che attribuisce il Protestantesimo al Risorgimento, e per provare l'autenticità di questa genealogia, la Provvidenza ha permesso che nell'educazione dei riformatori, nei loro gusti, nei loro atti, nelle loro dottrine vi avesse relazioni di somiglianza in sì gran numero e sì parventi, che fosse impossibile il negare l'esistenza di un medesimo principio generatore. Non sembra forse che, scrivendo la storia di Zuinglio a Berna, a Vienna, a Basilea, a Glarona, abbiamo riprodotto quella di Lutero? Ma le somiglianze continuano.

Giovane ancora, e religioso pieno di fervore, Lutero fa un viaggio a Roma, ed abbiamo veduto le funesto, impressioni che ne riporta. «Giungo, dice Chauffour, ad un altro fatto ch'ebbe sul carattere di Zuinglio e sopra le sue opinioni un'influenza incalcolabile. Il viaggio d'Italia è decisivo nella storia della Riforma. Tutti i riformatori vanno ad acuirvi la loro indignazione e le loro ire. Zuinglio lo compì, credente come Lutero; e, come Lutero, ne ritornò turbato nella sua coscienza (233)».

Matter discorre come Chauffour: «Dal 1506, dice egli, semplice sagrestano di Glarona, Zuinglio leggeva ad un tempo, nei testi originali, Platone, Tucidide, Plutarco, Cicerone e il Nuovo Testamento. Cappellano delle truppe svizzere in Italia, vi aveva preso la sua porzione di entusiasmo per l'antichità che inebriava quel paese (234)».

Un poema allegorico intitolato il Bue fu per Zuinglio il frutto del suo viaggio. Vi si trovano parecchie malevole allusioni contro il papato ed il germe delle diatribe che ad esempio di Lutero scaglierà poi contro Roma.

Entrato in convento, Lutero si mise a studiare la Scrittura, non con la fede sommessa di un cattolico, ma sotto l’ispirazione pagana del libero pensare. A Glarona, Zuinglio fa lo stesso, e si conserva ancora a Zurigo un esemplare delle Epistole di San Paolo scritte di sua mano. Gonfio della sua scienza profana Zuinglio, divenuto parroco d'Einsideln nel 1516, si sollevò improvvisamente, in virtù dell'indipendenza del pensiero, sopra la tradizione cattolica, sopra la fede della Chiesa e sopra l'insegnamento dei Santi Padri: Dall'alto di questo piedistallo d'orgoglio, annunzia ai molti pellegrini accorsi al venerabile santuario di Maria che Cristo è il solo mediatore, che il solo modo d'onorar Maria è di aver fede e fiducia nel suo Figliuolo, e di consacrare, ai poveri le somme di danaro che si votano alle sue immagini.

«Ognuno può immaginare, dice Chauffour, la commozione prodotta da queste parole. Molti se ne sdegnarono, scrive Bullinger, e le ebbero per empie, strane, inaudite: altri altamente le approvarono. I pellegrini lasciavano Einsideln, riportando le loro offerte, e seminando in ogni paese la nuova dottrina. Turbe che erano in viaggio ritornavano indietro, meditando su quelle grandi parole, che, sino alle conquiste della filosofia moderna, fu la più potente parola d'emancipazione che sia stata pronunziata nel mondo dopo Cristo ... Ciò avveniva nel 1516, prima del fragoroso colpo che vibrò Lutero, e che ancor risuona: per tutto il mondo» (235).

Però contro queste scandalose dottrine s'innalzano rimostranze.

Zuinglio nella Svizzera, vi risponde con ingiurie, come fa Lutero in Alemagna. Scrivendo al suo amico Miconio: «Tutti coloro che amano la gloria dell'umanità credevano poc'anzi che fossimo per veder rifiorire le scienze come nelle più belle età; ma ecco che questa speranza ci è tolta dall'ignoranza o più veramente dall'impudenza di alcuni uomini che congiurano contro ogni scienza per non dover arrossire di sé stessi» (236).

Abbiamo udito un principe cattolico rimprocciare a Lutero d'introdurre nelle più gravi disputazioni teologiche gli dei dell'Olimpo, i semidei e gli eroi del paganesimo: e Lutero medesimo ci ha detto che la sua passione per gli autori pagani, maestri della dottrina, modelli della vita, non solo non l'aveva lasciato dopo la sua infanzia, ma eziandio che la maggior sua ambizione era di godere di un poco di riposo per divenir Greco a suo bell'agio. Or ecco Zuinglio che nei suoi sermoni invoca promiscuamente i nomi di Mosè, di Paolo, di Sacrate, di Plinio e principalmente di Seneca, di cui dice paragonandolo a San Basilio: «Questi, era cristiano e grande teologo; l'altro pagano e più grande teologo ancora» (237). Poscia, come Lutero, studia senza posa, pei bisogni della lotta, la Scrittura ed i classici greci e latini (238). Finalmente per mostrare di qual latte sia stato nutrito, scrive nella sua ammirazione per Lutero: «Non dimenticherò mai quello che è dovuto all'illustre atleta della Riforma, a quel valoroso Diomede che ha perseguitato la Venere romana (239)».

In Zuinglio come in Lutero non solamente il linguaggio è paganizzato, giusta la frase di Erasmo; ma non lo sono meno i sentimenti e le credenze. Applicando in tutta la sua pienezza all'ordine religioso il libero pensare portato in Europa dai grandi uomini dell'antichità che ne furono gl'illustri apostoli, Zuinglio indirizza a Francesco I la sua professione di fede. Spiegando l'articolo della vita eterna, dice a questo principe: «Vedrete nel cielo i due Adami, il redento, e il Redentore. Vi vedrete Abele, Enoch, Noè, Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuda, Mosè, Giosuè, Gedeone, Samuele, Finees, Elia, Eliseo, Isaia con la Vergine Madre di Dio da esso annunziata, David, Ezechia, Giosia, Giovanni Battista, San Pietro, San Paolo, Ercole, Teseo, Socrate; Aristide, Antigono, Numa, Camillo, Catone, gli Scipioni. Che si può pensare di più bello, di più gradevole, di più glorioso di un simile spettacolo»? (240)

«Chi mai, scrive Bossuet, aveva pensato di mettere così Gesù Cristo alla rinfusa coi Santi, e in sequela dei Patriarchi, dei Profeti, degli Apostoli, e dello stesso Salvatore, persino Numa, il padre dell'idolatria romana; persino Catone che si uccise da sé come un furioso, e non solamente tanti adoratori delle false divinità, ma anche gl'iddii, e gli eroi, un Ercole, un Teseo ch'essi hanno adorato? Non so perché non vi abbia messo anche Apolline, Bacco e lo stesso Giove; e se egli ne è stato distolto dalle infamie che i poeti attribuiscono ad essi, quelle di Ercole erano forse minori?

«Ecco di che è composto il cielo secondo il capo del secondo partito della Riforma: ecco quello che ha scritto in una professione di fede ch'ei dedica al più grande dei re della cristianità, ed ecco quello elle Bullinger suo successore ci ha dato come il capolavoro e l'ultimo canto di questo cigno melodioso (241). E non si stupirà che tali genti abbiano potuto essere tenuti in conto d'uomini straordinariamente inviati da Dio per riformare la sua Chiesa»! (242)

Che si abbia da stupire il vedere cotali genti darsi pei riformatori della Chiesa, egregiamente; ma quando vi si guarda da vicino, nulla è meno sorprendente delle loro aberrazioni. Il paradiso di Zuinglio è il panteon dei pagani; fabbricati tutti e due dal libero pensare. Il cristianesimo venendo nel mondo, aveva demolito il primo; il paganesimo ritornando sulla terra lo ha ricostruito e ripopolato. Aggiungiamo che la prima pietra dell'edificio, non è, stata portata dai protestanti, ma dai figli del Risorgimento.

Prima di Zuinglio, Erasmo non aveva aperto il cielo a Socrate? non voleva egli metterlo nelle litanie: «Sancte Socrates, ora pro nobis?» E Pomponio a Roma, non aveva deificato Romolo? E prima di Pomponio e di Erasmo, Ficino non aveva fatto a Firenze ciò che si rimprovera a Zuinglio? Cosa singolare! intanto che i successori divenissero i distruttori dei Santi del cattolicismo, i Risorgenti del secolo XVI si erano fatti i canonizzatori dei santi del paganesimo. «La legge naturale, dice il canonico italiano, consiste in due cose; nel culto d'un solo Dio, e in una vita ben costumata. Pitagora, Socrate, Platone ed altri simili, adoratori d'un solo Dio e di esemplare purezza di costumi, discepoli di Mosè o della legge naturale, hanno evitato l'inferno. Ma la grazia sola di Cristo poteva loro aprire il cielo. Perciò furono trasportati in una regione mediana, dove riposando nel limbo, seppero la venuta del Messia o dalla bocca, degli angeli, o per voce dei profeti che abitavano lo stesso soggiorno. Di che i pagani come i giudei, prima per la speranza, poi per la presenza di Cristo, sono saliti fra gli celesti (243)».

Quello che vi è di riprensibile in questa dottrina, si è il diritto che si arroga il libero pensare di distribuire a questi od a quei personaggi brevetti di santità e bolle di canonizzazione. Se una tale temerità è condannabile in Zuinglio, è essa forse innocente in Ficino che gliene ha dato l'esempio? Ma noi siamo così fatti. Siamo avvezzi a far risalire tutto il male o alla filosofia del secolo XVIII, o al protestantesimo: più in là non vediamo nulla. Somigliamo ad uno sciagurato padre che percuotesse il proprio figlio perché è affetto da una malattia ereditaria che egli stesso ha comunicato alla madre di questo figlio; la quale l'ha poi comunicata al frutto delle sue viscere.

Queste mostruose conseguenze del libero pensare scandalizzarono Lutero. Egli non risparmiò Zuinglio, e dichiarò apertamente «che disperava della sua salute, perché non contento di continuare a combattere il sacramento, era divenuto pagano, mettendo empii pagani e perfino un Scipione epicureo, perfino un Numa, organo del demonio per istituire l'idolatria presso i Romani, nel novero degli spiriti beati. Imperocchè a qual cosa ci giovano il battesimo, gli altri sacramenti, la Scrittura e lo stesso Gesù Cristo, se gli empi, gli idolatri e gli epicurei sono santi e beati? E ciò non è altra cosa che insegnare poter ciascuno salvarsi nella sua religione e nella sua credenza (244)».

Ecco quello che pensava or ha tre secoli, il capo del protestantesimo alemanno. Ascoltiamo quello che dice oggi un cattolico. «Io debbo, scrive Chauffour, citare un passo della professione di fede di Zuinglio, il quale, sin dai giorni nostri ha suscitato un grande scandalo fra i protestanti, e che mostra a quale altezza Zuinglio si innalzava sopra ai suoi contemporanei» (245).

Dopo aver citato il passo che abbiamo riferito, l'autore aggiunge: «Mi sembra essere la conseguenza logica, necessaria dei principii che ho avuto l'occasione di rilevare nell'opera di Zuinglio ... Questa grande pacificazione nel dominio religioso, questa riconciliazione dell'antichità pagana e del cristianesimo, quest'apoteosi generosa della virtù, sotto qualsisia domma siasi riparata, è il punto culminante a cui Zuinglio siasi sollevato come riformatore. Con ciò egli dà la mano al mondo moderno, ed apre la via a coloro che dovevano più tardi promulgare la legge di continuità nella storia del genere umano» (246).

Unito a quello, che vediamo intorno a noi, questo giudizio ci dà la misura dei progressi del razionalismo. Se ne spaventi ognuno, ma non ne stupisca niuno! Dopo il Risorgimento l'antichità pagana, quel vasto focolare dell'indipendenza intellettuale e morale, è divenuta la scuola delle generazioni letterate: sarebbe cosa ben più da stupirne se ne divenissero sommesse e credenti.

Quello che Lutero faceva in Alemagna, Zuinglio, come abbiamo veduto, lo fa nella Svizzera. Loro mercé, emancipata è la ragione. Il paganesimo, che è ad un tempo orgoglio e voluttà, trionfa nella metà di sé stesso: resta a compiere la sua vittoria emancipando la carne. Anche, qui vediamo Lutero e Zuinglio camminare, di passo pari. L'abolizione delle leggi del celibato, il matrimonio dei religiosi e dei preti compariscono fra le prime e più costanti predicazioni del dottore di Wittemberga: egli stesso conferma le sue dottrine col proprio esempio. Le stesse prediche e la stessa condotta da parte del parroco di Glarona.

Nel 1522, manda innanzi come saggio un libro sulla libertà degli alimenti; poscia indirizza al vescovo di Costanza una tesi formale soscritta da dieci preti riformati, per chiedere l'abolizione del celibato ecclesiastico (247). Ben tosto egli medesimo inalbera lo stendardo dell’emancipazione sposando una ricca vedova chiamata Reinhard. Da quel momento la carne è liberata dai vincoli in cui l'aveva costretta il cristianesimo. Sotto il duplice aspetto della ragione e dei sensi, l'uomo ha riconquistato la libertà di cui godeva in seno della classica antichità: il trionfo del paganesimo è completo.

Restava a fare all'ordine sociale l'applicazione di questo gran principio d'indipendenza. Nel sistema antico, la potestà temporale e la potestà spirituale sono raccolte nella stessa mano. Per salvare la coscienza umana, il Vangelo ha diviso il potere e sottoposto la potestà temporale all'alta direzione della potestà spirituale.

Ritornando al secolo XV, il paganesimo trova occupato il posto. Per organo di Machiavelli dice al cristianesimo: Togliti di là che mi ci metta io. Lutero, figliuolo del Risorgimento, ha raccolto questo detto. I costanti suoi sforzi mirano a riprodurre il Cesarismo antico; scacciare la Chiesa dalla politica; affrancare dalla potestà spirituale i re e le società, cioè sostituire i re ai papi, lo scettro alla tiara. Quante lotte furibonde non ha esso su questo punto ingaggiate! Iddio, nel suo sdegno, gli ha dato la vittoria; e il potere senza sindacato è divenuto il dispotismo; ed i popoli senza guarentigia non hanno cessato di vagheggiare il regicidio e la ribellione; e nel seno dell'Europa cristiana si è persino scancellata la nozione della libertà!

Quello che Lutero fa in Germania, Zuinglio lo compie nella Svizzera. L'autorità sociale della Chiesa è negata: i vescovi sono spogliati dei loro diritti temporali; i consigli urbani, composti di laici, decidono i casi di coscienza; Zuinglio è condotto a bandire il principio della insurrezione.

«Il cristiano, dice egli, deve obbedire al tiranno sino a quell'occasione di cui parla San Paolo: Se puoi renderti libero, fallo (248).

Gli anabattisti credono di essere oppressi, ed essere venuta l'ora di scuotere il giogo. Fra essi ed i discepoli di Zuinglio si accende una guerra furiosa; e la Svizzera come l'Alemagna, l'Alsazia, la Franconia è tostamente inondata di sangue e coperta di ruine. Zuinglio sostiene la propria dottrina con l'armi in mano. Con l'alabarda in sulla spalla, sale a cavallo e si fa uccidere alla battaglia di Cappel il giorno 11 ottobre dell'anno 1531.



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CAPITOLO VII.

CALVINO.


Libero pensatore come Lutero e Zuinglio.- Nascita e prima educazione di Calvino. - Centro in cui si trova a Parigi. - Suoi primi studi nel collegio della Marche. - Come Lutero ad Eisenach, Zuinglio a Basilea, Calvino s'invaghisce degli autori pagani. - Il suo maestro Maturino Cordier. - Calvino commenta Seneca. - Studia diritto ad Orléans, e il Bourges sotto due famosi Risorgenti. - Notizia sopra Alciati. - Come Lutero ad Erfurth e Zuinglio a Glarona, Calvino si dà al culto delle muse. - Com'essi studia la Scrittura e la teologia. - Lascia Bourges.



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Sotto qualunque clima sia seminata la ghianda produce la quercia. Il libero pensare, insegnato dal Risorgimento, produce Lutero in Alemagna; nella Svizzeral Zuinglio; nella Francia, produrrà Calvino. La stessa educazione, le stesse ammirazioni, gli stessi disprezzi, le stesse applicazioni all'ordine religioso e sociale; in una parola, le stesse manifestazioni del medesimo principio generatore, attinto alla medesima sorgente.

Il 10 luglio 1509 nacque a Noyon Giovanni Cauvin. Suo padre fu Gerardo Cauvi, prima bottaio, poi procuratore fiscale del conte di Noyon e finalmente segretario del vescovo. Povero e padre di numerosa famiglia Gerardo nei momenti di penuria trovava pane e vestimento nella nobile e pia famiglia dei Mommor. Giovanni cresceva e suo padre scorgendo in lui disposizioni allo studio, lo destinò alla carriera ecclesiastica. Nella famiglia Mommor ricevette i primi rudimenti di latinità. Di dodici anni anelò a continuare al collegio della Marche a Parigi lo studio degli autori pagani che aveva incominciato a Noyon.

Non ostante le gagliarde rimostranze della Sorbona, e fra le altre del dottor Beda, le cui profetiche parole citeremo altrove, l'università di Parigi, si popola di umanisti. Ivi si facevano udire Aleandro, venuto da Venezia col capo pieno di greco e di latino; Giovanni di Bellay, talmente invaghito d'Orazio, che dormiva con essolui, Ramo, che per pensare, parlare e vivere alla socratica più a suo agio andava a respirare l'aria libera di Ginevra; Melchiorre Wolmar, uno di quei puristi che Lutero chiamava censori di parole che, all'uopo, rifarebbero il Paternostro (249). Agli umanisti in prosa e in verso si aggiungevano alcuni teologi che commentavano la Scrittura assai meno sotto l'ispirazione dello Spirito Santo e della tradizione cattolica che al lume del libero pensare, come fra gli altri: Le Febvre d'Étaples, già precettore dei principi di Francia; Guglielmo Farel, Arnaldo Roussel, e Gerardo Roussel, chiamati nella diocesi di Meaux dal vescovo Briçonnete che sotto il manto della parola di Dio, spandevano la parola dell'uomo ed il principio razionalista, il cui veleno avevano portato dalla scuola di Strasburgo. Tutti questi umanisti lavoravano copertamente sotto il manto d'ermellino di Guglielmo Budeo e di Pietro della Stella, «i quali tutti s'infarcivano di greco e d'un po’ d'ebraico, con grande fastidio della Sorbona, la quale si oppose a tutto con tanta furia, che se si avesse voluto prestar fede ai nostri maestri, lo studiar greco era una delle più grandi eresie del mondo» (250) Tal era il centro in mezzo a cui Calvino si trovava.

Ospitato in casa di suo zio Richard, fabbro ferraio e cattolico eccellente, dimorante presso San Germano d'Auxerre, Calvino andava a prendere le lezioni al collegio della Marche. Vi ebbe per professore dei primi rudimenti grammaticali Maturino Cordier, il quale degli scrittori latini dell'antica Roma aveva fatto i suoi amici, i suoi ospiti, i suoi dei. «Ottima persona, dice Beza, di grande semplicità ed accuratissima nel suo stato; che dappoi ha logorato la propria vita insegnando ai fanciulli a Parigi, a Nevers, a Bordò, a Ginevra, Neuchàtel, Losanna, e finalmente ancora a Ginevra dov'è morto nel 1564, in età di ottantacinque anni, istruendo la gioventù nella sesta classe, tre o quattro giorni avanti la sua morte che avvenne il dì 8 settembre (251)».

Il fatto è che Maturino Cordier era un Risorgente appassionato ed uno degli uomini che hanno maggiormente contribuito a render pagana la gioventù. Invece di educare i fanciulli affidati alle sue cure proponendo loro per soggetti di temi e di versioni massime cristiane, pubblicò, dice du Verdier, l'Interpretazione e costruzione in francese dei distici latini attribuiti a Catone, opera stampata più di cento volte a Lione e poi altrove, essendo un libro che i fanciulli hanno a mano comunemente nelle scuole» (252).

Il signor Audin, la cui testimonianza noti è sospetta, aggiunge: «Cordièr era un vero spirito rivoluzionario il quale, dopo di aver gettato un salutare disordine nell'insegnamento, avrebbe voluto trattare il catechismo come una gramatichetta. Era in cattedra elegante e fiorito; la sua frase, alquanto famigliare, sentiva l'odore antico; poeta dopo la sua lezione, lasciava, all'uscir dalla scuola, tutto l'Olimpo pagano per cantare qualche inno al Signore ... Cordier inclinava per le novità germaniche, perché erano dottrine del giorno, perché quelli che le propagavano intendevano a meraviglia la lingua d'Omero e di Virgilio (253)».

Questa disposizione condusse Cordier al Protestantesimo, e vedremo che non fu solo. Intanto quello che Trebonio fu ad Eisenach per Lutero, Lupulo a Berna per Zuinglio, Cordier fu a Parigi per Calvino. Dal collegio delle Marche passa a quello di Montacuto, dove, sotto la direzione d'un professore di nascita Spagnolo, si dedica per formalità, come Lutero ad Erfurth, come Zuinglio a Vienna, allo studio della filosofia scolastica: le sue migliori ore sono consacrate alla bella antichità. Lo stesso Calvino ce ne ha lasciato la prova nel suo commentario di Seneca che pubblicò uscendo di collegio, all'età di ventuno anni. E per ringraziare in certa guisa la famiglia Mommor e mostrargli i frutti preziosi che ha ritratti dai benefizi di essa, dedica il suo libro all’abate di Hangest, nella cui casa e con cui aveva passato i primi suoi anni (254). Questo libro è un monumento prezioso o piuttosto spaventevole dell'entusiasmo per l'antichità pagana che trasportava Calvino uscendo di collegio. Per lui, ben s'intende; Seneca il filosofo, che lo scolaretto confonde con Seneca il Tragèdo, è un essere sovrumano, una specie di semidio, un santo. Ei rifulge fra i principi della bella latinità: puro è il suo stile come raggio di sole, limpido siccome specchio: gli è la cima della filosofia e dell'eloquenza romana. Non ebbe nessuno dei difetti che gli vengono imputati e morì come un eroe». Niuno mi contraddirà, dice classicamente il giovane commentatore, eccettochè egli non sia in ira alle Muse e alle Grazie (255)».

Per commentare i pochi capitoli del Trattato della clemenza, Calvino sfodera tutta la sua erudizione di fresca data; ei ne fa pompa, se ne compiace. A ciascuna frase sembra ch'ei dica: Guardate un po' se io mi conosco bene di antichità! Si ha da spiegare una frase, una parola, un fatto che spesso non abbisognano di spiegazione alcuna? invoca i classici gli uni dopo gli altri, talvolta tutti insieme, Cicerone, Orazio, Ovidio, Virgilio, Plinio, Quinto Curzio, Claudiano, Plauto, Cesare, Tito Livio, Sallustio, Terenzio, Giovenale, Omero. Per imprimere alla sua opera il suggello dei fini umanisti di quel tempo, frammette nelle sue citazioni alcune parole greche; poscia come ultimo mezzo di schiarimento riferisce le diverse storielle di Scevola, di Coclite, di Curzio, certe usanze militari, e descrive battaglie. Da tutto questo vano sfoggio risulta un commentario più oscuro del testo e soprattutto più noioso. Per coronar l’opera, Papirio Masson afferma che ad esempio dei celebri Risorgenti, Calvino segnò il suo libro: Lucius Calvinus civis Romanus (256).

L'amore per la bella antichità disgusta Calvino dalla carriera ecclesiastica. Per conformarsi ai desideri ambiziosi del proprio padre, incomincia lo studio del diritto (257). In quel tempo entra in una continuata relazione con uno dei suoi parenti, Pietro Robert, chiamato Olivetano dal suo nome classico, il quale aveva tradotto la Biblia sotto l'ispirazione del libero pensare. «Olivetano, dice Teodoro di Beza, fece gustare a Calvino qualche cosa della pura religione. Egli cominciava a distrarsi dalle superstizioni papali, e seguì piuttosto lo studio delle leggi che della teologia, essendo essa allora nelle scuole tutta corrotta (258)».

Tale è l'oltraggioso opinione che il Risorgimento aveva accreditato a Parigi, a Vienna e ad Erfurth. Calvino che ne era partecipe come Lutero e Zuinglio, si trasferisce all'università d'Orléans dove leggeva diritto un celebre Risorgente, Pietro della Stella, che fu poscia presidente del parlamento di Parigi. Al dire di Beza, Calvino era assiduo, docile e pieno di ardore per lo studio: ben presto non lo si tenne più come scolare, ma come maestro (259). Un altro storico aggiunge: «Calvino non faceva altro mestiere in collegio che calunniare i suoi compagni: perciò l'avevano soprannominato l'Accusativo, e dicevano di lui: Giovanni sa declinare sino al caso accusativo» (260).

Da Orlèans Calvino passa a Bourges per compiere il corso di diritto. Alciato, chiamato dall'Italia da Francesco I, al prezzo di mille dugento scudi d’oro all'anno, traeva la moltitudine a quell'università. Quel famoso giureconsulto è il padre della scuola così detta storica del diritto: «Alciato, dice Terrasson, fu il primo che abbia assunto d'associare insieme il diritto e la letteratura» (261). Invaghito dell'antichità pagana, non vede, non sa, non ammira, non insegna che il diritto romano. Ai suoi occhi, finché le nazioni cristiane non avranno sostituito al loro diritto indigeno e nazionale la ragione, la sapienza, la giustizia stessa che hanno parlato per bocca di Numa, dei decemviri e dei giuristi di Giustiniano, saranno condannate alla barbarie. Questo è nell'ordine civile e politico quello che tutti i Risorgenti non cessano di ripetere nell'ordine filosofico, artistico e letterario.

Giurista, poeta, filosofo, un po' teologo, vero tipo dell'umanista del sestodecimo secolo, Alciato può dire dell’antichità pagana: Nutrito nel serraglio, ne conosco gli andirivieni. Roma antica gli è famigliare come se vi avesse abitato; lo si direbbe un arringatore della Via sacra, che spieghi le leggi, le consuetudini, le usanze del paese latino. Talvolta, in mezzo alla lezione, il poeta succede al giurista, ed Alciato mette in versi le sue massime alla foggia d'Orazio. Del resto così libero pensatore che ride di tutto gusto delle satire di Melantone contro l'insegnamento della teologia cattolica, tenendo la religione per cosa indifferente all'insegnamento del diritto, ed allontanandola allorché essa si trova sul suo cammino con questo detto che la storia ha conservato: Nihil pertinet ad praetoris edictum. Ciò non riguarda l'editto del pretore.

Alle lezioni di Alciato niuno era più assiduo di Calvino. Scolpita nella memoria o scritta sul classico limbello di pergamena, neppur una parola del professore andava perduta per lo scolare. «Ritornato a casa, dice Teodoro Beza, scriveva, studiava sino a notte; e per far questo, mangiava ben poco a cena; poi risvegliatosi la mattina, stava ancora un poco nel suo lettuccio, richiamando e ruminando tutto quello che aveva imparato la sera (262)». Dal convento, Calvino non sarebbe uscito che con un solo Dio, Aristotele: dai banchi dell'università di Bourges ne annoverava mille che Alciato davagli da adorare. Essi erano tutti quei fondatori del diritto romano che, nel lirico suo entusiasmo, il Milanese paragonava a Romolo (263).

Quantunque alla scuola di Alciato, Calvino vivesse in pieno Paganesimo, cioè quantunque imparasse da una parte ad ignorare ed a disprezzare il diritto civile e politico introdotto dal cristianesimo, la missione sociale della Chiesa e del papato; e dall'altra parte ad ammirare l'antichità sotto l'aspetto legislativo, dopo averla ammirata nell'infanzia dal lato letterario, ciò non gli basta. Abbiamo veduto Lutero ad Erfurth, Zuinglio a Glarona intermettere gli studi più gravi per coltivare le muse. Trascinato dal medesimo gusto, Calvino cammina sulle medesime orme.

«Ben presto, dice uno dei suoi biografi, lo scolare cambiò gl'imperatori, i consoli, gli edili e la magistratura di Roma per la Grecia, pei suoi dei e pei suoi poeti, di cui un tedesco chiamato Wolmar, per ordine del re, aveva incarico di spandere il culto in Francia. Melchiorre Wolmar amava gli alunni ch'esso rigenerava a Sofocle ed a Demostene come i figli della propria sua carne. Di che avviene che in particolar modo prediligeva Calvino. Frequentemente il maestro, discendendo dalla cattedra, prendeva lo scolare sotto il braccio, e conversava con lui nel cortile del collegio sulla mitologia greca, di cui era veramente innamorato (264) »

Dopo essersi rimpinzati di studi pagani, Lutero e Zuinglio si risolvono un giorno di studiare la Sacra Scrittura e la teologia. Si pongono a questo studio col disprezzo del medio evo e dell'autorità, coll'ammirazione per l'antichità e col culto del libero pensare. Una sera Wolmar, passeggiando con Calvino, gli dice: «Tuo padre si è ingannato intorno alla tua vocazione. Tu non sei chiamato come Alciato a dettar diritto, né come me ad insegnar il greco. Volgiti alla teologia, perché la teologia è la scienza maestra di tutte le scienze (265)». Wolmar era luterano, e certamente non insegnò a Calvino le regole cattoliche per studiare la Scrittura. Il giovane discepolo delle Muse prende la traduzione del suo parente Olivetano, e nel suo ardore di neofito si mette a spiegare i sacri testi, come avrebbe potuto fare di una di quelle commedie antiche che commentava Melchiorre Wolmar, e come egli aveva fatto del trattato di Seneca. Tale era Calvino, quando uscì dall'università di Bourges nel 1552.



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CAPITOLO VIII.



CALVINO (Continuazione e fine).



Disprezzo pel Cristianesimo. - Ammirazione pel Paganesimo. - Lettera di Ficino.- Calvino a Parigi. - Ei dommatizza in virtù del libero pensare come Lutero e Zuinglio. - Suo linguaggio classico. - Restaurazione del Paganesimo sotto il duplice aspetto dello spirito e della carne. - Dispotismo razionalistico di Calvino. - Egli deifica la carne. - Applica il Paganesimo all'ordine sociale.- Governo di Ginevra. - Morte di Calvino. - Conclusione.



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Orgogliosi del loro greco e del loro latino i Risorgenti d'Italia che si davano il titolo di bilingui e di trilingui, bilingues et trilingues, facevano pompa di un profondo disprezzo pel medio evo, cioè per l'insegnamento dei dottori, dei vescovi e dei papi medesimi. Secondo loro, né i filosofi né i teologi cattolici meritavano di servir di regola, poiché, ignorando l'antica latinità ed il greco antico, non avevano potuto attingere alle medesime fonti della scienza. Per ritrovare la vera filosofia, il vero senso delle Scritture, la vera teologia, conveniva, da una parte studiare i testi primitivi, e dall'altra parte, leggere non solamente alcuni trattati, ma tutte le opere dei filosofi e dei Padri e tutta intera la Scrittura.

«Avvi ai nostri giorni, scriveva Marsilio Ficino, un gran numero non di filosofi, ma di filopompi che orgogliosamente si vantano di conoscere il senso di Aristotele; eppure costoro non hanno mai udito parlare Aristotele, e non hanno ricevuto che alcune delle sue parole. Ed anche in questo caso non l'hanno udito spiegarsi in greco, ma in una lingua barbara; perciò non intendono neppur una parola della sua dottrina (266)».

Che mai era questo se non un gettare l'oltraggio in viso al passato, e bandire per ciascuno il diritto e il dovere di rifare a suo modo la scienza teologica, filosofica, politica, artistica e letteraria, risalendo alle fonti antiche, senza tener conto né dell'insegnamento tradizionale, né del principio d'autorità? Questo principio d'orgoglio e d'indipendenza di cui Lutero e Zuinglio erano debitori alla pagana loro educazione, Calvino l'aveva attinto alla medesima sorgente, e com'essi ne fece l'applicazione all'ordine religioso ed ecclesiastico.

Venuto a Parigi si mette a dommatizzare. Ciascuna novità che egli annunzia la sostiene con la Scrittura interpretata da lui sotto l'ispirazione del libero pensare. Come Lutero in Alemagna, come Zuinglio nella Svizzera, Calvino trova nei sacri testi l'inutilità della confessione, la negazione dei sacramenti e dell'autorità della Chiesa. Com'essi e come tutti i Risorgenti mette in ludibrio i frati, i conventi, i dottori, i preti cattolici; declama contro gli abusi della Chiesa e contro la ignoranza del sacerdozio; annunzia una parola che dee mutare il mondo, rendere morale la società, distruggere la superstizione e recar la luce.

Mercé lo spirito d'indipendenza che spira sul mondo, queste dottrine trovano molti seguaci. Lo stesso Calvino scrive: «Io era tutto attonito che in meno d'un anno tutti coloro che avevano qualche desiderio della pura dottrina accorrevano a me per impararla, sebbene non facessi quasi che cominciare io stesso. Per parte mia, tanto più che essendo d'indole un po' selvatica e vergognosa, ho sempre amato la quiete e la tranquillità, incominciava a cercare qualche nascondiglio e qualche mezzo da tenermi occulto alle persone; ma non potei riuscire nel mio desiderio, ché anzi tutti i ritiri e luoghi appartati mi erano come pubbliche scuole (267)». Il vero è che Calvino, riparatosi in casa d'un mercatante chiamato Stefano della Forge, dogmatizzava di nascosto, a porte chiuse, di notte. La notizia delle sue prediche giunse all'orecchie dell'autorità, e Calvino, travestito da vignaiolo, ebbe per grande ventura di poter uscir di Parigi e scampar dalla polizia. Riparatosi a Nérac, come Lutero a Wartburgo, compose la sua Istituzione cristiana (268). Ad esempio di Lutero che nelle sue dispute teologiche fa intervenire gli dei e gli eroi del paganesimo, Calvino, educato alla stessa scuola, toglie le sue immagini dalla storia mitologica di cui è nutrito.

Parlando dell'augusto sacrificio degli altari, osa così esprimersi: «Certamente Satanasso non innalzò mai una più forte macchina per combattere ed abbattere il regno di Gesù Cristo. Questa messa è come un'Elena per la quale i nemici della verità oggi battagliano tanto crudelmente, con sì gran furore e con tanta rabbia. E veramente essa è un'Elena con la quale bordellano con spirituale fornicazione la quale è la più esecrabile di tutte (269)».

Non seguiremo Calvino nelle sue diverse fughe a Strasburgo, a Basilea, a Francoforte, a Vormazia, a Ratisbona, in Italia, nella Svizzera. Basti il sapere che da per tutto ei conduce il libero pensare in materia di religione come altri fanno in tutti i paesi in materia d'arte, di filosofia e di politica. Alla sua voce come a quella di Lutero e di Zuinglio sorgono, principalmente fra i letterati, generazioni di liberi pensatori che gettano il superbo loro disdegno sopra tutto ciò che aderisee al principio di autorità, e si danno vanto di non più piegar il capo che davanti la sacra Scrittura. Quest'emancipazione della ragione, o, per parlare con più di esattezza, quest'apoteosi dell'orgoglio, è la prima parte dell'assunto di Calvino, di Lutero, di Zuinglio e degli altri riformatori.

Ma il Paganesimo, ritornato a vita dal Risorgimento e dalla Riforma sua figlia, non è soltanto orgoglio, ma anche. voluttà. Come i liberi pensatori di Vittemberga e di Zurigo, Calvino non manca di restaurarlo anche da questo lato. Dopo le declamazioni contro il celibato che rammentano quelle di Lutero e di Zuinglio, Calvino abolisce i voti religiosi, nega il sacramento del matrimonio; proscrive la confessione, le astinenze ed i digiuni; in una parola rompe tutti i vincoli imposti alla carne. Per quanto lo può permettere l'influenza del Cristianesimo, ecco dunque il Paganesimo, nei suoi due essenziali principii, ristabilito in seno all'Europa.

Per confermare la propria dottrina, Calvino dà l'esempio dell'adorazione costante delle due divinità, Giunone e Venere, che nella classica antichità personificano l’orgoglio e la voluttà. Niuno più di lui fu despota. «Che vuoi tu, Calvino? gli grida un protestante dei nostri giorni: convertire la Francia al calvinismo, cioè all'ipocrisia, madre di tutti i vizi? Non vi riuscirai. Ti chiami pure Beza a sua voglia il profeta del Signore: è una menzogna. Espulso dalla Francia, troverai ricovero a Ginevra dove sarai colmato di tutti gli onori immaginabili tu che parli di povertà! Acquisterai un'autorità illimitata con ogni sorta di mezzi; e quando sarai sicuro d'avere una fazione potente, convertirai la Riforma a tuo profitto; farai sbandeggiare i fondatori della ginevrina indipendenza che avevano dato il loro sangue e i loro beni per la libertà. A quelle anime cittadine griderai dal pulpito : Bricconi, furfanti, cani: farai ardere, dicollare, affogare, impendere alle forche quelli che vorranno resistere alla tua tirannide. Lungo sarà il tuo regno, e le barbare tue istituzioni ti sopravvivranno per un secolo e mezzo (270)».

Questo ritratto di Calvino si attaglia a Lutero, a Zuinglio, a tutti i razionalisti, a tutti i rivoluzionari, loro figli e loro nipoti. Al giogo legittimo dell'autorità non mancano di sostituire il despotismo della loro ragione individuale. «Si dice che il pensiero oppresso dormiva incatenato, e che alla voce di Lutero si risvegliò. E per verità che faceva dunque Lutero se non che fondare un’altra schiavitù sotto il nome di ragione individuale, strumento di verità nell'opinion sua, e di verità assoluta, non derivante che da sé stessa, raggio che non ha che un'origine umana, il cervello donde guizza? Osservate dunque come Lutero preme per lo contrario il pensiero, obbligato a riconoscere in proprio padre il frate, senza che Lutero gli dice: «Tu non sei più mio figlio, tu ti smarrisci nelle vie di perdizione, tu sei la progenie delle scuole.

«E sapete quello ch'esso intende per scuole, l'insegnamento della Chiesa che si è perpetuato di secolo in secolo, da Cristo al suo vicario, dal vicario ai vescovi, dai vescovi ai preti, dal prete alla comunione dei fedeli: divina e stupenda aurea catena che esso è venuto a spezzare di sua privata autorità; perché pontefice, vescovo, Chiesa di Cristo, sacerdozio, tutto ciò è opera di Satanasso. Non avvi più che un prete, è desso, è l'uomo (271)».

In Calvino come in Lutero, l’uomo, divenuto suo proprio pontefice e suo dio, si adora nella propria ragione e nella propria carne. Lutero prende moglie; Zuinglio esso pure si ammoglia, e lo stesso fa Calvino (272), altrettanto Viret e non dissimilmente Farel. Erasmo ride di questo furore matrimoniale onde sono tormentati i liberi pensatori; e la storia ci fa sapere che in Sassonia definivasi il predicante luterano: un uomo cui la moglie è più necessaria del pane (273). Così era nella bella antichità.

Calvino però non aveva aspettato il matrimonio per emancipare la sua carne. Leggesi in Stapleton, grave e dotto inglese, che aveva più di trent'anni, quando morì Calvino, e che passato aveva una gran parte della sua vita nella vicinanza di Noyon: «Oggidì si vedono ancora nella città di Noyon, nella Piccardia, gli archivi ed i monumenti di quello che vi è avvenuto. Oggidì vi si legge ancora che Calvino, convinto di pederastia, fu soltanto marchiato sulla spalla per indulgenza del vescovo e del magistrato, e che uscì dalla città; e uomini onorevolissimi della sua famiglia, che vivono ancora, non hanno potuto ottenere finora che fosse cancellato dagli archivi della città la memoria di questo fatto che imprime una certa infamia in tutta la famiglia (274).

Dal canto suo Campiano rinfacciando ai protestanti la vita infame di Calvino, e dicendo loro ch'esso era stato gigliato, non ha ottenuto da Wittaker che questa insulsa risposta: «Calvino è stato bollato; ma lo fu anche S. Paolo ed altri con lui (275)». Finalmente i luterani di Germania ne parlano come d'un fatto innegabile. E riguardo al silenzio di Beza, rispondono che il discepolo essendosi reso famoso pei medesimi delitti del maestro, non merita su questo punto la fede di nessuno (276).

Se dobbiamo credere ad un testimonio oculare l'età non aveva spento in Calvino le fiamme delle più turpi passioni. Quando fu morto si ebbe premura di gettare sul viso del cadavere un nero lenzuolo, tanto si temevano gli sguardi indiscreti. Ma accadde che un giovane studente, penetrato essendo nella camera del morto, sollevò il drappo e vide misteri che s'aveva interesse di tenere occulti. Niuno gli aveva chiesto il segreto ed egli scrisse: «Calvino è morto colpito dalla mano d'un Dio vendicatore, consumato da una turpe malattia che finì nella disperazione (277)». Questo studente era Arranio venuto a Ginevra per udirvi le lezioni di Calvino.

La carne emandpata s'abbandona senza ritegno all'adorazione di sé stessa. Il Paganesimo greco e romano ricomparisce a Ginevra come in Germania. «Mostrerò, scrive un protestante ginevrino a coloro che pensano non avere il riformatore prodotto se non del bene, i nostri registri formicolare di figli spurii; se ne esponevano in tutti gli angoli della città e della campagna; turpi processi di oscenità; transazioni per atto notarile tra fanciulle e i loro amanti che loro davano, alla presenza dei genitori, di che allevare i loro bastardi: moltitudini di matrimoni coatti; in cui i delinquenti. erano condotti dalla prigione al tempio; madri che abbandonavano i loro figli allo spedale, mentre esse vivevano nell'abbondanza col loro secondo marito; fasci di liti tra fratelli; mucchi di segrete denunzie: e tutto questo in mezzo alla generazione nutrita dalla mistica manna di Calvino» (278).

«Di dieci evangelici, aggiunge lo stesso Calvino, ne troverete appena uno solo che sia divenuto evangelico per altro motivo che per potere abbandonarsi più liberamente alla crapula ed alla lascivia ... Ma vi ha una piaga ancor più deplorabile: i pastori, sì, i pastori stessi che salgono in pulpito sono in oggi i più vergognosi esempi della perversità e degli altri vizi .... Io stupisco alla pazienza del popolo; stupisco che i fanciulli e le donne non li coprano di fango e d'immondezze (279)».

Lutero e Calvino danno l'ultima mano alla risurrezione del Paganesimo applicandolo all'ordine sociale. Ora, nell’ordine sociale, il Paganesimo è l'antica unità dello Stato personificata in Cesare. Calvino incomincia col rovesciare l'ordine sociale cristiano negando la missione politica della Chiesa, la distinzione delle potestà, lo scopo supremo delle società; poscia stabilisce a proprio profitto un despotismo che unisce la crudeltà di Nerone all'ipocrisia di Tiberio.

Sotto il nome di concistoro, ha un tribunale inquisitorio che fa eseguire le sue leggi. Esso imprigiona i delinquenti, li ammonisce, li scomunica, li esilia, li marchia in fronte con un ferro arroventato, li fa dicollare, affogare, bruciare. Dopo il codice rivoluzionario, in nessuna legislazione ricorre così frequentemente la parola fatale: Morte. Sopra parecchie piazze di Ginevra sono rizzate forche con un cartello su cui si legge: Per chi dirà male del signor Calvino (280).

Si determina all’abitante di Ginevra il numero dei piatti, la forma delle scarpe; l'acconciatura della moglie, i sollazzi che debbono interdirsi e le prediche cui debbono assistere sotto pena di multa. «Allora, dice Audin, Ginevra presenta un tristo spettacolo allo storico. La Chiesa tende ad essere assorbita nello Stato. Lo Stato non è più una dualità, ma un'unità, in cui il potere fa l'ufficio d’apostolo e tratta la più bell'opera di Dio come Caterina Bora la masserizia di Lutero, discendendo alle più minute particolarità della cucina (281)». Un protestante, fanatico ammiratore di Calvino, Paolo Henry, continua: «Le leggi di Calvino sono scritte non solamente con sangue ma con fuoco: direbbonsi istituzioni rapite a Decio o a Valente .... Avvi nel codice calvinista tutto quello che si trova nella legislazione pagana, anatemi, verghe, piombo liquefatto, tanaglie, corde per dar la colla, forche, una spada, un rogo, una corona di zolfo (282)».

Dopo aver attuato infatti il principio pagano della deificazione dell'uomo, ed effettuato la servitù intellettuale, il libertinaggio dei costumi e il dispotismo civile, Calvino morì a Ginevra il 27 maggio 1564.

Ed ora se la storia merita qualche fede, se i fatti significano ancora qualche cosa; come si potrà negare che lo spirito che ispirò Calvino,Zuinglio, Lutero, i tre patriarchi della Riforma, è lo spirito del libero pensare; che questo spirito che si manifesta ad un tempo col disprezzo profondo dell'antichità cristiana, e con l'ammirazione non meno profonda dell'antichità pagana, Lutero, Zuinglio, Calvino l'avevano attinto negli studi di collegio; che cotale spirito che si esala dallo studio dell'antichità e che inebria la gioventù, spirava sull'Europa, e specialmente sull’Italia, dopo l'arrivo dei Greci da Costantinopoli, che Lutero, Zuinglio, Calvino, non hanno fatto che applicare all’ordine religioso ed ecclesiastico quello spirito o quel principio del libero pensare che un gran numero di letterati cattolici avevano precedentemente applicato, e che applicavano ancora all'ordine politico, filosofico, artistico e letterario?

Resta dunque stabilito che Lutero, Zuinglio, Calvino non sono stati altro che Risorgenti, più audaci degli altri, se vuolsi, ma pur partiti dal medesimo principio; cioè, secondo il detto di Erasmo: il risorgimento partorì l’uovo e Lutero l’ha fatto schiudere.


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CAPITOLO IX.

MELANTONE



Il Protestantesimo figlio del Risorgimento. - Melantone. - Sua educazione. -S'invaghisce dell'antichità pagana. - Il suo maestro gl'insegna il greco di nascosto. - Reuclino gli dà un dizionario. - Melantone fa una commedia di tredici anni. - Riceve il battesimo alla greca. - Lascia il ginnasio per l'università. - Fa quel che fecero Lutero, Zuinglio, Calvino. - A Tubinga s'inebria ed inebria gli altri della bella antichità.- È professore a Vittemberga. - Suo discorso inaugurale. - Due idee. ­ Disprezzo del passato cristiano, ammirazione dell'antichità pagana. - Effetti di quest'insegnamento.


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Per stabilire la genealogia del Protestantesimo, basta l'aver provato che Lutero, Zuinglio e Calvino non furono che Risorgenti. Ma in una sì grave questione è bene il moltiplicare le prore. Qui l'evidenza non giova soltanto a dissipare l'errore generalmente diffuso che il Protestantesimo è la prima origine del male attuale; nel mostrare che quest'origine è altrove, concentriamo le nostre forze e prepariamo la vittoria.

I tre generali della Riforma hanno ciascuno il proprio aiutante di campo, o, se così vuolsi, un altro sé stesso. A fianco di Lutero si colloca Melanlone; di Zuinglio, Miconio; di Calvino, Teodoro Beza. Il farne la biografia è un completare la storia del Protestantesimo nei suoi principali fondatori, per conseguenza nella sua origine, nel suo spirito e nel suo scopo.

Giorgio Schwartzerde, divenuto poscia Filippo Melantone, nacque a Bretten, nel Palatinato, il 16 febbraio 1497, tredici anni dopo Lutero. La sua famiglia occupava un grado assai distinto nel paese. Ancor giovinetto, Giorgio fu mandato al ginnasio di Pforzheim, dove insegnava con un certo grido un urnanista nomato Giorgio Simlero. «Era questi, dice Camerano, un dotto ed erudito uomo per quei tempi. Infatti, in molte parti la gioventù era meglio istruita che pel passato; riceveva una scienza meno barbara, stantechè le si mettevano in mano le opere dei buoni autori (283). In alcuni ginnasi si giungeva persino ad insegnarle gli elementi della lingua greca, con grande ammirazione dei vecchi e con immenso giubilo dei giovani (284). Questo duplice sentimento, fondato allora, non sopra un ragionato giudizio, ma sulla novità del fatto, indusse Simlero a dar nel principio poca pubblicità al suo insegnamento. Contentavasi adunque di far imparare il greco di nascosto ad un piccolo numero dei suoi scolari più prediletti, fra i quali si annoverava Melantone (285)».

Niuno palesava tanto ardore per lo studio dell'antichità quanto il giovane Schwartzerde. Se gli autori latini erano suoi amici e suoi maestri, gli autori greci erano suoi dii. Un caso impensato sollevò a passione l'amor suo per Roma e per Atene. Il famoso Reuclino, suo parente, andava a visitare di volta in altra il ginnasio di Pforzheim. Un giorno donò a Giorgio un lessico greco-latino. Lo scolare è al colmo della beatitudine. Per significare la propria riconoscenza, compone una commedia all'antica, distribuisce le parti ai suoi compagni, ed alla prima visita di Reuclino la commedia viene recitata con grande contentezza del celebre Risorgente: Giorgio aveva tredici anni. Reuclino non trova miglior mezzo di significare la propria gioia che amministrando, in presenza di tutto il ginnasio, al giovane emulo di Plauto, il battesimo pagano, che egli stesso aveva ricevuto in Italia da Ermolao Barbaro: Giorgio Schwartzerde pertanto diviene Filippo Melantone (286).

Il neofito delle muse stette due anni a Pforzheim. Nella guisa stessa che Lutero da Eisenach era passato ad Erfurth; Zuinglio, da Berna a Vienna; Calvino, dal collegio della Marche ad Orléans ed a Bourges, Melantone abbandona il ginnasio di Pforzheim per frequentare l'accademia d'Eidelberga. Ivi prende calorosamente le parti di Bebel che difendeva la tesi delle lettere umane contro i religiosi che ne segnalavano il pericolo. Ricevuto baccelliere, parte, per Tubinga, dove studiando ad un tempo la medicina, il diritto e la teologia, continua come Lutero, Zuinglio e Calvino a coltivare con fervore le lettere antiche. In lui, come negli altri Risorgenti e negli altri Riformatori avvi lo stesso fastidio per l'insegnamento del medio evo. Secondo essi, la scienza che aveva parlato per l'organo di San Tommaso non era punto la teologia, ma un cumulo di sottigliezze spinose ed inestricabili, buone soltanto a stancare l'intelletto, ma non ad illuminarlo (287).

Durante il suo soggiorno a Tubinga, Melantone s'inebria sempre più e continua ad inebriare gli altri della bella antichità. Cosi avevano fatto i suoi predecessori ad Erfurth, a Vienna, a Bourges. D’accordo con Ecolampadio si dedica allo studio assiduo degli autori greci, per richiamar a vita la vera filosofia di Aristotele. Nel tempo stesso spiega in segreto, Virgilio e Terenzio ad alcuni giovani, come era stato fatto per lui al ginnasio di Pforzheim (288). Conosciuta la cosa, gli viene conferita una cattedra di rettorica dove interpreta Cicerone e Tito Livio (289); né dimentica il suo caro Terenzio, di cui pubblica una edizione. Nella prefazione ne raccomanda le commedie siccome propriissime a formare la gioventù; e lo chiama un modello di vita e di eloquenza.

Il suo disprezzo per le scienze e per l'insegnamento del medio evo cresce in ragione diretta del suo entusiasmo pei Greci e pei Romani. Il primo di questi due sentimenti trova ben presto occasione di manifestarsi splendidamente. Reuclino era nel più forte calore della sua disputa contro i teologi cattolici, rappresentati dai dottori di Colonia: Melantone gli viene in aiuto, somministrandogli ingiurie ed acuendo gli epigrammi contro i suoi avversari (290).

La parte ch'ei prendeva nel conflitto congiunta alla sua riputazione d'umanista, lo fece chiamare nel 1518 dall'elettore Federico all'università di Vittemberga per insegnarvi le lingue antiche: Melantone aveva ventuno anni. Nel primo suo discorso rivela ai suoi uditori tutto intero il suo animo. Quest'animo, come quello di Lutero, di Zuinglio, di Calvino e dei Risorgenti più celebri non ha né tre pensieri, né tre sentimenti: non ne ha che due: il disprezzo del passato cristiano, e l'ammirazione dell'antichità pagana, sospinti agli estremi.

La riforma degli studi, tale fu il subbietto della sua orazione inaugurale. Dopo aver fatto un quadro orribile della barbarie del medio evo, il professore aggiunge: «Si prese, è vero, a studiar Aristotele; ma Aristotele mutilato e non più intelligibile: ciò fu l'inciampo della scienza e della fede. Di che i buoni studi negletti, obliata la greca erudizione, il male insegnato pel bene. Di che uscirono i Tommasi, gli Scoti, i Durandi, i Serafici, i Cherubici ed altrettale genia più numerosa della progenie di Cadmo (291)».

Ma quello che Melantone non può perdonare al medio evo, si è d'aver disprezzato gli autori pagani, fiaccole immortali che avrebbero impedito la scienza cadesse nella barbarie, e la Chiesa nella corruzione. «Si aggiunge inoltre che non solo furono disprezzati gli antichi, ma quel poco che di loro rimaneva perì nelle acque di Lete. Questa maniera di studi regnò circa trecent'anni in Inghilterra, nelle Gallie ed in Germania … corruppe i riti cristiani e i costumi della Chiesa, ed imbastardì gli studi delle lettere ... e i vecchi, due volte fanciulli, si perdettero in inezie (292)».

Queste cose dicevansi il 29 agosto 1518 all'università di Vittemberga, alla presenza di meglio di duemila uditori! Stabiliamo solamente un fatto, ed è che, per confessione di Melantone, durante i tre secoli che precedettero il Risorgimento, gli autori pagani non erano studiati né in Inghilterra, né in Francia, né in Germania.

Al disprezzo del medio evo succedono le lodi del Risorgimento, «Mi congratulo a voi, o giovani, della fortuna che vi tocca d'essere nutriti di alimenti incomparabilmente più salutari. Mercé gli eccellenti autori che avete fra le mani, voi attingete alla fonte medesima delle buone arti. Qui avete Aristotele stesso, in originale e intero che v'insegna filosofia: ivi Quintiliano che v'insegna rettorica: altrove Plinio, la storia naturale. Alle lettere latine aggiungete le lettere greche, affinché leggendo i filosofi, i teologi, gli storici, gli oratori, i poeti afferriate la sostanza e non l'ombra delle cose (293)».

Qual uso dovranno poi fare di tutta quest'erudizione pagana? Dovranno servirsene per divenir filosofi. Ma quale filosofia segurranno? La filosofia del libero pensare, l'eclettismo, che, prendendo quello che vi ha, ciòè quello che si crede il meglio in ciascun filosofo, ne fa un sistema, una guida, una regola di costumi. Studiare profondamente Omero, Platone e Aristotele fra i Greci, Virgilio e Orazio fra i latini è il mezzo, infallibile di effettuare questo capolavoro: (294)

Tale è il programma di Melantone; tale è la nuova via, nella quale condurrà quella gioventù ancor cattolica, ma che ben presto, per fatto di lui; non lo sarà più. Docile agli insegnamenti del proprio maestro, scuoterà il giogo dell'autorità, si renderà prima protestante, poscia razionalista; e, dopo aver adorato la propria ragione, adorerà la propria carne. Allora sarà completamente rifatto ad immagine degli antichi; e per un giusto castigo Melantone fu condannato a vedere coi suoi propri occhi gli effetti del suo insegnamento.

In una lettera a lui indirizzata, Schwenzfeld, professore a Vittemberga, si esprime così: «La condizione dell’università è miserevole: non si conosce né disciplina né timor di Dio. Il dottor maggiore anche ultimamente ha predicato che si credeva di trovarvi angeli, ma che venendo a Vittemberga ognuno è rimasto attonito di non vedervi che demoni ... L'università di Vittemberga era chiamata una cloaca del diavolo, e si diceva pubblicamente che una madre avrebbe fatto meglio a soffocare il proprio figlio anziché mandarlo a Vittemberga (295).

Il male progredisce col libero pensare; e nel 1568, Rodolfo Walter, amico di Melantone, scrive a Bruchero sull'università di Marburgo in particolare: «Tale è in oggi lo stato delle università di Germania che, lasciando stare il fasto e la pigrizia dei maestri, e la spaventevole corruzione dei costumi, nulla presentano di notevole (296)

A Francoforte sull'Oder è così grande, nel 1562, la selvaggia vita degli scolari che i professori stessi ed i cittadini non sono sicuri della propria vita: a Jena l'università non produce che rissosi: a Tubinga, la bestemmia, l'ubriachezza e la crapula regnano impunemente. Nel 1577 il sotto-rettore si lamenta di questo stato di cose in pieno senato e lo paragona a quello di Sodoma e di Gomorra. Parlando di cotali eccessi, Camerario scrive a Lutero: «piacesse a Dio che rimanesse almeno qualche asilo al pudore, o che si nascondessero in caverne siffatte turpitudini (297).

Nel 1556, un altro protestante esclama: «Direbbesi che si avvicina la fine del mondo, tanto si guastano i costumi! Su tal punto tutte le persone dabbene non hanno che una voce. Se voglionsi esaminare la vita ed i costumi del giorno d'oggi, qual differenza col secolo passato! Dove sono i gradi, le condizioni che non abbiano calpestato gl'insegnamenti dei nostri antichi, e che non tengano una condotta diametralmente opposta alla loro? Dov'è quella gravità e quella virtù che risplendono nelle parole e nelle azioni dei padri nostri? Dov'è la fede, la costanza che il passato secolo ammirava sì giustamente nei suoi figli»? (298).

Tali furono, sotto il duplice aspetto della fede e dei costumi, i risultamenti immediati del Risorgimento, cioè l’andazzo per l'antichità pagana.


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CAPITOLO X.



MELANTONE (Continuazione e fine).



Melantone diventa protestante. - Prepara reclute a Lutero, innamorando la gioventù dell'antichità pagana. - Sua ammirazione pel Risorgimento. ­ Elogio di Firenze. - Le belle lettere ausiliari del Protestantesimo. - Parole notevoli. - Passo di Bruchero. - Opera di Sadoleto. - Lettera del Bembo. - Riflessioni.-Disprezzo del medio evo. - Fine di protestare opposto alle condanne delle università cattoliche. Preziosa testimonianza di Beda. - Come Lutero, Zuinglio, Calvino, Melantone deifica la carne. - Bigamia del langravio d'Assia. - Morte di Melantone.



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Melantone, libero pensatore in filosofia non doveva tardare a divenirlo poscia anche in materia di religione. Nel novero dei suoi auditori era Martino Lutero, suo collega all'università. Riferisce la storia, ch'esso più volte interruppe con applausi il primo discorso del giovane professore. Melantone si annunziava come riformatore: avversava l'antica scolastica e le tradizioni del passato. Da quel giorno, una segreta simpatia, simile in certa guisa a quella che esiste fra un principio e la sua conseguenza, tirò quelle due anime l'una verso l'altra. Per parte di Melantone, questo passo fu presto superato: da protestante parziale divenne protestante completo; e Lutero ebbe un altro sé stesso (299).

Intanto che Lutero sostiene la causa del libero pensare sul terreno della Scrittura e della teologia, Melantone gli prepara reclute continuando ad innamorare la gioventù della antichità pagana. Ben presto la vasta sala dell’università non può contenere gli uditori che si affollano per udire il nuovo maestro. Vi si veggono borghesi; conti, marchesi, baroni, principi, dignitari. Melantone spiega successivamente le commedie di Aristofane, le arringhe di Demostene; Esiodo, Omero, Teocrito, Tucidide ed Apollonio (300).

Quand'egli ha comandato l'ammirazione per questi grandi uomini, si prostra ai piedi del Risorgimento ed invita i suoi uditori ad offrirgli solenni azioni di grazie, per aver reso all'Europa cristiana le splendide faci il cui fulgore dissipa le tenebre della barbarie. «L'Europa intera, dice egli, è debitrice alla città di Firenze del più grande benefizio. Essa per la prima chiamò poc'anzi nel suo seno i maestri delle lettere greche, espulsi dal loro paese. Non solamente li soccorse concedendo loro ospitalità, ma retribuendo anche sontuosamente le loro lezioni. Nel resto dell'Italia niuno badava a quei professori della bella letteratura; e se Firenze non fosse venuta in loro aiuto, pressappoco la era finita per la lingua e per le lettere greche ... «Ma avendo le belle arti trovato vita in Firenze, l'Europa intera è stata partecipe di quest'immenso benefizio. In ogni dove si è manifestato il desiderio di studiare le migliori cose che vi abbia al mondo. L'ardore dei Greci a restaurare la loro lingua è divenuto, pei latini un possente motivo di risuscitare quella del Lazio, quasi del tutto sformata. Le leggi sono state corrette; e la religione che prima era soffocata ed oppressa nei sogni dei monaci, venne purificata. Non vi ha dunque verun dubbio che Firenze non sia la benefattrice del genere umano. Ad esempio dunque di quella città, in questi tempi calamitosi, sappiate combattere per le belle lettere, poiché per assicurarne il trionfo, i vescovi stessi prendono le armi (301)».

Melantone è talmente convinto che il Protestantesimo filosofico e letterario introdotto dal Risorgimento conduce al Protestantesimo teologico e dommatico, che scrive: «Spero che lo studio delle belle lettere, che comincia ad aver voga, farà nascere qualche nuovo Ercole che libererà il mondo da tutti i mostri che vi vivono, e renderà alla filosofia e alla dottrina cristiana la loro purezza e la loro gloria primitive (302)».

I mostri, erano i teologi cattolici: l'Ercole, fu Lutero, cui Melantone diede questo soprannome. In ogni pagina dei suoi scritti, Melantone ritorna su questa necessità di rigenerare il cristianesimo alle fonti primitive, di ripudiare il medio evo, di sprezzare le opere e le istituzioni della Chiesa, di mutare l'insegnamento dei teologi cattolici che, per difetto del conoscimento dell'antichità, avevano, secondo lui, riempito la Chiesa di empie e perniciose dottrine (303).

Per rendere poi maggiormente autorevoli le sue parole, Melantone, come Lutero, come Zuinglio, come Calvino mette continuamente in evidenza ciò ch'egli chiama rozzezza, ignoranza, barbarie del medio evo, e gli splendenti lumi della pagana antichità. Nella sua opera intitolata: Dell'odio della sofistica, ricomincia tutte le sue diatribe contro i Tommasi, gli Scoti e i Durandi, e dichiara che il loro insegnamento è stato la sorgente della barbarie e della corruzione della Chiesa (304).

«Queste incessanti declamazioni, dice schiettamente, il Protestante Bruchero, produssero un effetto eccellente: esse reagirono potentemente sugl'intelletti, e li innamorarono della letteratura e della filosofia pagane. Tutte le menti elette s'accesero di grande zelo per la riforma della filosofia; e quantunque tutti non si dedicassero allo studio di questa scienza, nondimeno furono unanimi a rigettare il fimo che sin allora contaminava pressappoco tutte le scienze, e contesero con ardore ad acquistare una sapienza ed un'erudizione più degne d'uomini ragionevoli. Per amore della filosofia studiarono gli antichi filosofi greci e latini, si fecero loro interpreti, illuminati dalla face della letteratura antica; e l'opera loro non poco contribuì all'avanzamento della filosofia (305)».

In questa guerra fanatica contro l'insegnamento tradizionale, cioè contro il principio d'autorità, i riformatori avevano avuto per capi, e continuavano ad avere per compagni d'armi, gli scrittori cattolici. «Fra cotali artefici del libero pensare, continua Bruchero, è giusto il nominare Jacopo Sadoleto, che ha scritto un bel libro delle Lodi della filosofia. Questo libro piacque sì fattamente al cardinale Pietro Bembo, che scrivendo al cardinale Polo, dice: «Dopo il secolo d'Augusto, che per fermo ha prodotto i più alti intelletti ed i più grandi scrittori che mai furono, non è mai apparsa, a mio giudizio, opera migliore; né più bella, né più magnifica né più prossima allo stile, alla forma ed all'eloquenza ciceroniana. L'illustre autore è certamente debitore di ciò all'amicizia che manteneva con Erasmo e con Melantone. Vedendo in essi i campioni delle lettere, e come volgessero la loro eleganza a giovamento della filosofia, con laudabile accorgimento li seguì » (306).

Ecco dunque tutti i Padri della Chiesa d'Oriente e d'Occidente, ecco tutti i grandi dottori ed i grandi scrittori del medio evo, impallidire, a detta d'un cardinale, davanti ai pagani del secolo d'Augusto: ecco quello stesso secolo offerto come l'apogeo dell'intendimento umano; ecco il progresso intellettuale, filosofico, artistico, letterario, compito dal Vangelo, come non avvenuto; ecco per le nazioni cristiane, se vogliono rigenerarsi, la necessità d'andar a mendicare nel seno del Paganesimo idee filosofiche e bellezze letterarie che il cristianesimo non ha saputo loro dare!

Coloro che professano siffatto disprezzo pel passato cristiano, e siffatto entusiasmo per l'antichità pagana e che perciò diventano gli ausiliari del libero pensare, sono uomini illustri e superiori ad ogni encomio! Quando udiamo tali cose, uscite da tali bocche, domandiamo quello che pensar doveva il secolo sestodecimo, e quello principalmente che la gioventù doveva diventare. Essi nell'ordine religioso, filosofico e letterario pensarono quello che la generazione del 1789 pensò nell'ordine politico, cioè che il passato non era che barbarie, e che conveniva rifare la società sul modello del secolo d'Augusto e di Pericle. Ed abbiamo avuto il Protestantesimo e la Rivoluzione.

La pretesa barbarie di cui Melantone, i Riformatori ed i Risorgenti accusano i secoli cristiani non è soltanto il tema inesauribile dei loro sarcasmi; essa serve di fine di protestare contro la condanna dei loro errori. Prova evidentissima che il libero pensare dispettava non la sola forma, ma la sostanza stessa della dottrina. Abbiamo udito Reuclino esclamare: «Come potrei credere ad un purgatorio annunziatomi da una bocca pelosa, che non sa declinare Musa? Quando nei satirici dialoghi e nelle buffonesche loro commedie, Reuclino, Utteno, Erasmo, Lutero hanno trasformato i teologi di Colonia, di Lovanio, di Parigi in altrettanti barbari che non conoscono né la bella grecità, né la bella latinità, non credono forse di aver risposto vittoriosamente a tutte le loro ragioni?

Cotal rimprovero faceva già ad essi nel 1526 il celebre dottore della Sorbona Beda. Nelle sue note sopra Lefèbre d'Etaples e sopra Erasmo, così si esprime: Per opera dei letterati, giurati nemici del medio evo ed orgogliosi del loro capo si spande l'eresia. Per ciò ch'essi hanno una certa tintura di belle lettere e delle lingue, si credono capaci di ragionare di tutte le scienze sacre. Mercé quest'artifizio il male progredisce e diventa tanto più incurabile, in quanto che i medici chiamati a guarirlo, cioè i maestri della religione, sono trattati da teologastri da questi umanisti che li disprezzano come uomini al tutto ignoranti di quello che insegnano ... In ciò, lo scopo di cotali grecizzanti è di arrogarsi il titolo di teologi e di farsi credere i veri maestri della scienza sacra: - Noi, dicono, attingiamo la scienza delle cose divine e la vera nozione della teologia nelle fonti medesime, non nei rigagnoli: noi studiamo la Scrittura nei testi originali, non nelle opere dei teologi scolastici. - Noi leggiamo le opere degli antichi dottori, non i trattati degli autori del medio evo. - Ecco i titoli che a sé medesimi decretano quegli umanisti e che annunziano a suono di tromba a tutto il mondo. Nel tempo stesso qualificano i dottori scolastici da uomini spregevoli, sporchi, barbari, ignoranti in fatto di belle lettere e perciò nemici dei lumi (307).

Educato alla scuola degli autori pagani, maestri e modelli di Lutero, Zuinglio e Calvino, non rimaneva più a Melantone che d'imitare sino alla fine l'esempio dei suoi predecessori. Abbiamo veduto i capi della Riforma, dopo aver deificato l'orgoglio dell'uomo, riuscire invariabilmente in deificare i propri sensi. Tale è in tutti i tempi ed in tutti i luoghi l'ultima parola del Paganesimo.

Ora, un dì, Filippo, langravio d'Assia, libero pensatore dal guanto di ferro, si mette in testa d'aver due mogli. La Biblia interpretata secondo i principii di Lutero gli somministra testi, che ne giustificano i desideri. Chiede una decisione o più veramente un'approvazione solenne ai capi della Riforma: la risposta non si fa aspettare. Essa è divisa in ventiquattro articoli, il ventunesimo dei quali è così concepito: «Se Vostra Altezza è risoluta di sposare una seconda moglie, giudichiamo che debba farlo clandestinamente, come abbiamo detto in occasione della dispensa che Vostra Altezza domandava, cioè che non vi sia che la persona che sposerà, e alcune altre all'uopo che lo sappiano, obbligandole al segreto sotto il sigillo della confessione. Qui non vi ha a temere né contraddizione né scandalo considerevole; poiché non è cosa straordinaria ai principi il mantenere concubine, ed allorché il popoletto se ne scandalizzerà, i più veggenti intravedranno il vero. Non si dee darsi molto pensiero di quello che se ne dirà, purché la coscienza sia tranquilla. In tal modo l'approviamo » (308).

Questa consulta è soscritta da Lutero, Melantone, Bucero, Corvino, Adam, Leningen, Vinfert, Melanther, cioè da tutte le glorie della Riforma di quel tempo. L'atto di bigamia si celebrò il 3 marzo 1540 a Rothenburg sulla Fulda, in presenza di Melantone, Brucero e di altri teologi.

Riguardo alla politica di Melantone, essa fu quella di Lutero, di Zuinglio, di Calvino, che fu quella di Machiavelli e del Risorgimento; voglio dire il Cesarismo antico.

Datosi in balia ad ogni vento di dottrina, in virtù del libero pensare, Melantone, ad esempio dei filosofi dell’antichità, suoi maestri e suoi modelli, cangia continuamente d'opinione e di sistema (309). Disperando, com'essi, di trovar la verità, mediante il raziocinio, finisce col domandarla alle pratiche superstiziose. Melantone morì a Vittemberga nel 1560 in età d'anni 73.




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CAPITOLO XI.

TEODORO BEZA.



I capi del Protestantesimo sono Risorgenti.- Detto di Melantone. - Nascita e prima educazione di Teodoro Beza. - S'invaghisce degli autori pagani. - Culto della carne. - Come Lutero, Zuinglio, Calvino, Melantone reca questa passione all'università. - Invece di studiar diritto, coltiva le Muse. - Facilità con cui diventa protestante. -Pubblica le sue poesie. - È costretto a fuggire. - Si ritira a Ginevra. - Calvino lo manda ad insegnare il greco a Losanna. - Vi semina il libero pensare. - Ritorna a Ginevra. - È fatto ministro del santo Vangelo. - Sua polemica simile a quella dei Risorgenti e degli autori pagani. - Applica il Paganesimo all'ordine sociale. - Muore come ha vissuto. - Pagano, è celebrato da poeti pagani.



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A fianco di Lutero abbiamo veduto Melantone, venuto dall'antichità alla Riforma, passar la propria vita a predicare il disprezzo del medioevo e l'ammirazione pei grandi oratori e pei grandi filosofi di Roma e di Atene, dicendo: «Volete raccogliere liberi pensatori? seminate umanisti» . Presso Zuinglio troviamo Osvaldo Miconio, il risorgente evangelico di Lucerna, la cui vita è scritta in quella di Melantone (310). Finalmente a fianco di Calvino apparisce Teodoro Beza; l'alter ego del riformatore francese. La sua biografia non è meno istruttiva di quella dei suoi maestri.

Teodoro Beza nacque a Vézelay, antica città, degli Edui, il 24 giugno 1519, e fu battezzato nella chiesa dove San Bernardo aveva predicato la crociata. Suo padre, balio della città, si chiamava Pietro Beza, e sua madre Maria Bourdelot, amendue di nobile stirpe. «La famiglia Beza, scriveva in appresso Teodoro, è antica nel paese di parecchi secoli, e se ripigliasse ai frati quello che ha loro dato, sarebbe oggidì ricchissima (311) ».

Teodoro aveva un zio, Nicolò Beza, consigliere al parlamento di Parigi e priore di Villeselve. Presso di lui andò, in età di appena nove anni, per fare gli studi in compagnia di un suo cugino pressappoco della stessa età. Gli autori pagani che si cominciava, come ci hanno detto Camerario e Melantone, a mettere nelle mani dei fanciulli, furono il latte di cui si nutrirono quei due animi. Per Teodoro questo latte diventò una bevanda inebriante che primamente agì sopra i suoi sensi, e poscia sopra la sua ragione. Cosa degna di essere notata! a dodici secoli di distanza vediamo lo stesso risultamento in Sant'Agostino.

«Nei sette anni che passò nella casa di suo zio, dice il protestante Faye, non ci ha un autore greco o latino di qualche fama ch'egli non abbia letto ». (312)

Un altro protestante, Corrado Schlusselburg, aggiunge: «È un fatto innegabile che Teodoro Beza s'inebriò fin dall'infanzia delle impudicizie e delle insolenze dei poeti: e che ha passato la propria vita a soddisfare le sue passioni, a cantare i suoi amori, ad ingiuriare i suoi avversari ed a trasformarsi in Laide e in Cupido (313)».

La lettura degli autori pagani, che dicesi tanto innocente, aveva in Beza emancipato la carne: lo spirito non stette molto a spezzare i suoi vincoli. Teodoro aveva sedici anni: era il momento di dedicarsi a studi speciali. La sua famiglia lo destina al foro, ed egli recasi all'università d'Orléans a studiarvi diritto.

Come Lutero, Zuinglio Calvino, e Melantone avevano recato dal ginnasio all'università il loro amore appassionato per l'antichità pagana, nel cui seno furono nutriti. Teodoro Beza giunge ad Orléans, poscia a Bourges nelle medesime disposizioni. Il giovine adolescente per non studiare diritto si serve del medesimo pretesto che i re del Protestantesimo avevano allegato per dispensarsi dallo studio della filosofia e della teologia. «In quel tempo, dice Faye, il diritto era insegnato in modo barbaro ed incomprensibile, di che accadde che Beza prese in orrore questa scienza, e che impiegò il tempo a studiare la bella letteratura e gli autori greci e latini. I poeti in particolar modo avevano per lui grande attraimento; non si contentò soltanto di leggerli, ma si studiò d'imitarli. Prima dell'età di ventuno anni compose quasi tutte le sue poesie e le dedicò al suo maestro. Catullo ed Ovidio furono i suoi modelli prediletti. Benché egli non volesse imitarne i costumi, ma lo stile, compose alcuni epigrammi più licenziosi di quello che poscia avrebbe voluto (314)».

Né Pietro della Stella che insegnava ad Orléans con grande riputazione, né Alciato che riempiva la città di Bourges dei suoi uditori si procacciarono l'attenzione di Beza. Le sue simpatie erano pei grandi uomini dell'antichità e per Wolmar che lo iniziava a tutte le loro bellezze. Wolmar, come abbiamo già detto, era protestante: Beza lo diventò prontamente e senza fatica. Così naturalmente come la calamita tira il ferro, il principio tragge la conseguenza. Il libero pensare in materia di costumi e di filosofia, conduce al libero pensare in materia di fede e di teologia. Nell'età di sedici anni, il che vuol dire pochi mesi dopo il suo arrivo ad Orléans, Beza, come ce lo fa sapere egli stesso, gustò la dottrina della pura religione. All'apoteosi della carne aggiunge l'apoteosi della ragione. In lui il Paganesimo è completo, e la sua educazione è finita. Tutta la vita di Beza non sarà che lo svolgimento di questo duplice fatto psicologico. Le muse latine continuano, ad essere i soli suoi amori. Non sogna che giambi e ne scrive di quelli che si direbbero dettati dal cantore del passere di Lesbia. Dopo averli letti ai suoi compagni ed averli diligentemente ritoccati per dar loro tutto il sapere antico, viene a Parigi, e, nel 1548, pubblica la raccolta delle sue opere liriche (315). Per mala sorte Teodoro erasi creduto in Roma pagana e aveva celebrato amori che il parlamento condannava al fuoco. Fra gli epigrammi della raccolta, uno principalmente fece grande scalpore; ed è quello in cui canta uno scolare di Orléans, chiamato Audeberto, e Candida, moglie d'un sartore abitante a Parigi nella contrada della Calandra (316).

Il parlamento era in acconcio di far metter le mani sul poeta che prese la fuga dopo aver venduto o affittato i suoi benefizii, e, con Candida riparò a Ginevra, sotto il nome di Tebaldo di May. Il ministro Launay non ha avuto nessun riguardo alla riputazione del suo correligionario: «Dappoichè, dice egli, si fu contaminato di ogni sorta d'infamie e del peccato ch'egli stesso non ha citato, sedusse la moglie del suo prossimo, vendette i suoi benefizii, e ritirossi per fuggire, non già la persecuzione, ma il supplizio e la punizione dei suoi misfatti. Ma prima di partire, truffa ai suoi fittaioli e si fa pagare anticipatamente le rendite dei benefizi che più non possedeva; di che fummo assai impacciati durante la conferenza di Poissy; perché una delle vedove coi figli venne a gridargli dietro per essere soddisfatta. Questa povera donna mi disse ch'egli aveva loro truffato più di mille dugento lire.

«Per prova di sua conversione e che era assistito dallo Spirito Santo, compose l'epistola di Passavanti: leggiadro scherzo contro il presidente Liset, cui odiava cordialmente, perché lo aveva condannato a restituire i calici e gli ornamenti della nazione di Borgogna di cui era stato procuratore all'università d'Orléans, e che era venuto a venderli sul ponte del Cambio, senza accommiatarsi dai suoi compagni che ne ottennero sentenza (317)».

Calvino accolse con premura l'antico suo condiscepolo. Persuaso come tutti i riformatori d'Alemagna, che un mezzo eccellente di spingere innanzi l'opera del Protestantesimo era di appassionare la gioventù per l'antichità pagana, inviò Beza ad insegnar il greco a Losanna. Così faceva Melantone a Vittemberga.

Per nove anni Beza poté lasciarsi andare a tutto il suo entusiasmo pei Greci e pei Romani e trasfonderlo nell'animo dei molti suoi uditori. Ebbe uno splendido successo: che per udirlo, si veniva da Berna, da Friburgo, e perfino dalla Germania. Coloro che l'ascoltavano credevano di udire Melantone.

Ad imitazione di questo, Beza fa succedere all'interpretazione degli autori pagani la spiegazione dell'epistola? di San Paolo ai Romani. «Egli ne dà, dice Faye, il senso proprio ed apostolico» (318). Cioè ch'esso, la interpretò non secondo la tradizione, ma guidato dal solo lume del libero pensare. Quest'opera è il preludio dell'intera traduzione del Nuovo Testamento con note. Nello studiare la Scrittura, per sostenere la lotta, Beza lasciasi andare, come a Bourges, alle favorite sue inclinazioni: compone tragicommedie e s'abbandona ad azioni infami che lo costringono a fuggire da Losanna.

Viene a cercare rifugio a Ginevra, dove Calvino lo fa ammettere nel numero dei pastori: nel che s'ebbero ad incontrare non poche difficoltà. Cop, Raimond, Enoch, ministri del Santo Vangelo e membri del concistoro, si opposero all'ordinazione di questo priore «inamidato, inanellato, azzimato, facendo ancora il damerino, cantando coi suoi capelli grigi le ninfe del Parnaso, e gli antichi Cupidi» (319) .. Divenuto il compagno inseparabile di Calvino, come Melantone era di Lutero, Beza serve d'aiuto al suo maestro nei conflitti incessanti contro i cattolici e contro i protestanti di Germania. Il poeta dalla frase fiorita e dolce, il languido cantore di Candida, intinge ormai la sua pena nel fiele. Lutero e Melantone riversano fiumi d'ingiurie contro i loro avversari cattolici o protestanti. Calvino tratta i suoi oppositori da bricconi, da pazzi, da ubriachi, da furiosi, da arrabbiati, da bestie, da tori, da asini, da cani, da porci. La scuola di Vestfalia, secondo lui è un fetido porcile (320). Se dice frequentemente che il diavolo partorisce i papisti, ripete cento e cento volte ch'esso ha affascinato i luterani, e che non può comprendere perché accaneggino più violentemente lui che tutti gli altri, se non perché Satanasso, di cui, sono vili schiavi, li anima tanto più contro di lui in quanto che vede più utili le opere di lui che le loro al bene delle Chiesa (321). E conchiude dicendo: «Mi intendi, o cane? m'intendi bene, o frenetico? m'intendi, o bestiaccia? (322)» Beza rincalza il suo maestro: «L'urbanità di Beza, dice il luterano Schlusselburg, non è quella dei teologi educati alla scuola della pietà, ma quella dei libertini sfrontati, dei laidi saltimbanchi usciti dai lupanari di Taide la prostituta o di Candida la fuggitiva. Se alcuno ne dubita, legga i suoi due famosi dialoghi contro Hessus. Essi sono di tal fatta che direbbonsi scritti non da un uomo, ma da Belzebù incarnato. La penna rifugge a riferire le bestemmie, le oscenità, scritte veramenle con l'inchiostro del diavolo, di cui questo sporco oltraggiatore, quest'ateo ha riempito quei dialoghi nei quali si tratta delle più gravi questioni (323)».

Questo linguaggio sconosciuto dal medio evo, ha il suo tipo nella classica antichità. Se ne trovano molti esempi in Cicerone contro Antonio; in Demostene contro Filippo, nei filosofi più ammirati. Vedremo che i primi Risorgenti, come Poggio, Filelfo e Valla ne introdussero l'uso in Europa. Tanto è vero che il Paganesimo antico ci è ritornato in tutta la sua interezza!

Dopo averlo applicato all'ordine religioso, Beza, ad esempio degli altri riformatori, ne ha fatto l'applicazione, all'ordine sociale. Calvino ha fatto ardere Servet, decapitare Gruet: riempie le prigioni di Ginevra di pretesi eretici e li sottopone a crudeli torture. Re e pontefice, Calvino esercita a proprio profitto il Cesarismo antico: Beza lo giustifica.

L'autorità che nega alla Chiesa, la concede ai principi secolari. I laici sono ad un tempo giudici della dottrina ed esecutori delle loro proprie sentenze. Tale è la teorica svolta nell’opera: De haereticis a magistratu puniendis. Nulla avvi di più contrario agli stessi principii del Protestantesimo.

«L'utilità di questo libro, dice Bayle, è ben poca cosa a confronto del male che produce tuttodì: imperocchè, dal momento che i protestanti vogliono lamentarsi delle persecuzioni che soffrono, si allegano ad essi i diritti che Calvino e Beza hanno riconosciuto nei magistrati. Fin qui non si è veduto nessuno che non sia stato sconfitto con quest'argomento ad hominem (324) ».

Come Calvino, Lutero, Zuinglio e Melantone, Teodoro Beza cammina sino alla morte nella via pagana dove lo ha fatto entrare la sua educazione. Il culto della ragione ed il culto della carne compongono tutta la sua religione. Ai piedi di questi due idoli morì a Ginevra il 13 ottobre 1605, in età d'anni 86.

I Risorgenti gareggiano in ritenerlo come uno dei loro; e fanno piovere sulla sua tomba un nembo di epicedi. in latino, in greco ed in ebraico. Questi componimenti, eloquenti testimonianze dello spirito di quell'età, sono vuoti di Cristianesimo, e tutti ingemmati di classiche rimembranze: ciò vuol dire che sono egualmente degni di coloro che li scrissero e di colui al quale sono diretti. Ecco quello d'un Risorgente evangelico, chiamato Giovanni Jacomot. Gli è un dialogo tra un viaggiatore ed un abitante di Ginevra.

VIAGGIATORE: «È forse questo, di grazia, il mausoleo di Beza? Che! un monumento così piccolo per rinchiudere i mani di Beza?

GINEVRINO: Beza ha vietato gli si rizzasse un marmoreo sepolcro, ed un monumento sontuoso.

VIAGGIATORE: «Chi sono quelli che piangono qui? chi è questa turba che si stempera in lacrime intorno al suo sepolcro? e chi sono queste vergini che si percuotono il nudo seno?

GINEVRINO: «Ecco le Muse che piangono il loro cantore: ecco Pallade che piange il suo alunno: ecco le tre Grazie che piangono il loro amico: ecco Apolline, padre della cetra; la Dea dell'eloquenza; la Bellezza, la pura e graziosa Innocenza (325)».

Non vi manca che l'acclamazione: Sit tibi terra levis!



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CAPITOLO XII.

PROPAGAZIONE DEL PROTESTANTESIMO



Detto di Erasmo. - Propagare lo studio dell'antichità pagana per giungere al libero pensare: parola d'ordine data dai capi del Protestantesimo. ­ Ben compresa e bene osservata. - Ermanno Buschio, apostolo del Risorgimento. - Percorre la Germania predicando Omero e Virgilio. - Camerario predica pei ginnasi e per le università. Sua vita. - Se i protestanti furono nemici delle arti. - Parole di Zuinglio. - Opere di Camerario. - Trattato di pedagogia. - Trattato di morale pagana. - Composizioni poetiche di Camerario.



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Il risorgimento ha partorito l'uovo: il protestantesimo è il pulcino che ne è uscito.

Le biografie precedenti, scritte dietro originali documenti, hanno giustificato questo detto pittoresco di Erasmo. Ora, gli esseri si perpetuano con gli stessi mezzi che li producono. Se è vero che il Protestantesimo é figlio del Risorgimento, i riformatori dovranno instantemente raccomandare lo studio dell'antichità, e nulla omettere per propagarne il culto e per renderla anche popolare. Sopra questo proposito che risponde la storia? Breve è la sua risposta, ma perentoria. Essa, si trova nell'autore protestante Gottlieb Buble il quale discorre così:

«I riformatori Lutero, Melantone, Zuinglio, Calvino, Bellingero, Ecolampadio, Camerario, Eobano Hessus, e gli altri dotti collegati con essi, per giungere al medesimo scopo, si trovarono in tale condizione, in mezzo ai grandi interessi della Riforma, che appena era loro possibile di far altro che raccomandare assolutamente lo studio delle lingue antiche, come il miglior mezzo di condurre ad una teologia più ragionevole» (326) della teologia cattolica.

Il che in altre parole vuol dire: «Seminate umanisti e raccoglierete protestanti». Così appunto l'intendevano i riformatori: e conviene render loro questa giustizia che sapevano quel che facevano. In questa raccomandazione si celano ad un tempo e il sospetto mal palliato che la Chiesa e i dottori cattolici hanno falsificato i testi sacri, e l'apoteosi della ragione individuale che, mediante il conoscimento delle lingue, debba trovare il vero senso della Scrittura, purificare la dottrina e riformare il mondo. Come si vede, al libero pensare non erasi mai dato impulso più gagliardo: adulazione più inebriante non era mai stata indirizzata all'orgoglio dell'uomo.

Che tale sia stato l'intendimento dei capi del Protestantesimo è un fatto la cui prova si trova in mille luoghi delle loro opere. Né le versioni dei Padri della Chiesa, né le interpretazioni della Chiesa stessa, né l'esegesi di Lutero loro maestro non bastavano ai loro occhi, per tranquillar l'animo: è d'uopo di tutta necessità l'interpretare da sé stesso i testi originali: tale è l'unico mezzo, il mezzo obbligatorio di giungere alla verità ed all’unità della dottrina. Cotal mezzo sembra loro infallibile.

«Qual forza di convincimento, sclama Melantone, il grande istitutore dell'Alemagna, sentiamo ogni giorno, quando in mezzo al conflitto delle opinioni opposte, scopriamo da noi stessi il vero senso dello Spirito Santo! (327)»

Laonde, guai ai teologi cattolici che osano sollevarsi contro questo studio pagano dei testi sacri e delle lingue antiche, strumento di tale studio. Barbari, pedanti, succiole, ecco gli epiteti che sono ad essi dati dagli umanisti; il pacifico Melantone vi aggiunge quelli di sacrileghi e di dannati (328).

Lutero, Chemnitz e tutti gli altri non parlavano diversamente da Melantone (329). Per mostrare la necessità di coltivare con passione la bella antichità, gli uni mettevano pubblicamente in ludibrio la pretesa barbarie letteraria dei dottori cattolici, gli altri divulgavano i pretesi errori commessi dalla Chiesa e dai Padri nell'interpretazione dei libri sacri. Era il parossismo dell'orgoglio, e quest'orgoglio fu punito come sempre fu: il Protestantesimo divenne una Babele! Invece dell'unità di dottrina che doveva essere il risultamento dello studio dei testi originali, ebbevi migliaia d'interpretazioni contraddittorie, anatemi reciproci, scissure sanguinose.

Checché ne sia, la parola d'ordine dei primi riformatori fu perfettamente compresa e fedelmente osservata. Ad esempio d'Erfurth e di Vittemberga, tutte le università, tutti i ginnasi dell'Alemagna divennero ben presto tanti fomiti di studi appassionati, e di entusiasmo fanatico per l'antichità pagana. La stampa, scoperta poc'anzi, secondò il moto ma non lo creò; la stampa fu uno strumento, non un principio. Né si stette paghi all’insegnamento sedentario delle Accademie. Nella stessa guisa che si erano veduti gli apostoli, con la croce in mano, viaggiare, il mondo per annunziare il Vangelo, si videro i missionari dell'antichità, con in mano un Virgilio, un Omero, un Cicerone, passare d'una in altra città e predicare alla moltitudine le glorie di Roma e della Grecia. Fra gli altri esempi, rammemoriamo un uomo che spese quarant'anni di vita in tale apostolato.

Ermanno Buschio, nato a Sassenburgo nel 1468, ebbe in maestro il famoso risorgente Rodolfo Agricola. Uscì dal ginnasio talmente fanatico per l'antichità pagana che diedesi il sopranome greco di Pasifilo, e si dedicò particolarmente al culto di Cicerone. Giovane ancora mosse verso l'Italia per attingere alla fonte stessa del Risorgimento. Ritornato in patria, due occupazioni ne divisero la vita; denigrare il Cristianesimo ed esaltare il Paganesimo. Sdebitossi religiosamente della prima cooperando alla compilazione dell'opera Epistolae obscurorum virorum. Quest'opera è un libello di cinquecento pagine contro l'insegnamento, i dottori e le istituzioni cattoliche.

Con zelo non minore Buschio compì la seconda parte del suo incarico. Giorno e notte con gli autori pagani, li legge, vi si addentra, l'impara a memoria, li postilla e li chiosa. Né le oscenità di Petronio, né i nauseosi equivoci di Plauto e di Marziale risvegliano in lui veruna ripugnanza. Anzi arricchisce il mondo cristiano di lunghi commentarii sopra quei laidi poeti, sopra Silio Italico, sopra Persio, sopra Claudiano, ed incorona la sua opera, con la Vita di Seneca e con osservazioni sopra Virgilio. Per mostrar poi i progressi che ha fatto, alla scuola di questi grandi maestri, scrive egli stesso poesie sul gusto antico, compone epigrammi e finisce col darci un Florilegio poetico del latinissimo Plauto, Plauti latinissimi poetae.

Era Buschio a tal punto, allorché Lutero e Melantone innalzarono lo stendardo del Protestantesimo. Il principio del libero pensare che, com'essi, aveva abbondantemente attinto alle fonti antiche, si spinse molto agevolmente all’ultima sua conseguenza: Buschio si rese protestante. Fedele all'ordine dei capi ed ai suggerimenti del proprio cuore, il nuovo convertito percorre l'Alemagna per insegnare non già la teologia, la filosofia o la pura parola di Dio, ma per predicare Virgilio, Omero, Orazio, Ovidio, e principalmente i suoi amatissimi Plauto e Marziale. Munstor, Osnabruck, Brema, Amburgo, Minden, Deventer, Amsterdam, Utrecht e le principali città della Germania trassero successivamente alle sue lezioni, come mezzo secolo prima le città e le provincie dell'Europa traevano a turbe ai sermoni di San Vincenzo Ferreri.

L'entusiasmo era lo stesso: l'oggetto solo era diverso. All'uscire dalle lezioni del Risorgente si veniva alle mani: all'uscir dalle prediche del prete cattolico, tutti si percotevano il petto. Dopo aver udito Buschio, il popolo stesso rideva della scolastica, di San Tommaso, di Scoto, di Durando: credeva alla barbarie del medioevo con la stessa fede con cui credeva alla bella antichità, ai suoi lumi, alla splendida sua civiltà. Gli oratori, i poeti, i filosofi della Grecia e di Roma per lui diventavano colossi: l'insegnamento tradizionale gli pareva una catena alla libertà, un ostacolo al progresso, ed anticipatamente faceva plauso a coloro che, in un modo o nell'altro venissero a spazzare la terra da questa gotica stupidezza. Tale era il pericolo che le esegesi letterarie di Buschio facevano correre alla fede, che l'università di Colonia ebbe cura di tenerlo mai sempre lontano da quella città. Buschio morì nel 1534 (330).

Intanto che Buschio predica l'antichità sulle pubbliche piazze, con ardor non minore Camerario la predica nei ginnasi e nelle università. Intimo amico di Lutero e storico di Melantone, meglio d'ogni altro conosco il loro pensiero ed il segreto di farlo trionfare. Gioachino Camerario, nato a Bamberga nel 1500, divenne, mercé i suoi studi classici, uno dei più famosi umanisti d'Alemagna, ed uno degli apostoli più fervidi del libero pensare.

Diciamolo di passaggio: le opere di Camerario e quelle d'una turba dei suoi correligionari dimostrano la falsità di un'asserzione che si ripete ancora oggidì, cioè: che i protestanti in generale, e quelli di Alemagna in particolar modo, furono nemici del Risorgimento. Il vero è che, dopo gl'Italiani, niuno palesò maggior entusiasmo per gli autori pagani dei protestanti, e dei protestanti d'Alemagna. A chi sono dovute la maggior parte delle numerose ed interminabili opere filologiche, commentari, traduzioni, annotazioni, elucubrazioni pagane onde il XVI secolo fu inondato? Le loro tipografie non hanno quanto e più di tutte quelle d'Europa, esse sole contribuito a spandere le opere ed a propagare il culto dell'antichità?

Ecco l'origine dell'errore: per gl'italiani il Risorgimento fu specialmente il culto della forma, il sensualismo; pei Tedeschi, fu il libero pensare, il razionalismo. Gli uni l'afferrarono dal lato materiale; gli altri dal lato spirituale. Da questa differenza in fuori, i protestanti della Germania si mostrarono costantemente gli ammiratori del bello letterario. Riguardo al loro odio per le opere di arte, esso prendeva origine non da un sentimento di ostilità contro il Risorgimento, ma da un errore religioso. Se essi distruggono i quadri, le statue, i crocefissi, perché secondo essi, rendono materiale il culto e conducono il popolo all'idolatria, si fanno solleciti di aggiungere: «Dipingete Apollini, Mercurii, Giovi, Giunoni e Veneri: scolpite quanti vorrete dei, semidei, eroi ed eroine, e vi applaudiremo, ché le arti sono doni di Dio».

Sopra questo punto niuno è stato più esplicito del rigorista Zuinglio. E quello che vi ha di sommamente notevole si è che se ei distrugge o conserva, è sempre ispirato dall'antichità pagana. Nel mese di giugno 1524, egli predicò contro le immagini. Uscendo dalla predica i membri del consiglio di Zurigo, con legnaioli, con scarpellini e con muratori si recano nei templi, chiudono le porte, e tolgono le immagini con molta cura. Si deposero primamente in una cappella per rimetterle a chi le reclamasse: ma non essendosi presentato nessuno, furono spezzate od arse (331).

«In tal modo, aggiunge Chauffour, fu compita a Zurigo con tutta la gravità d'un atto ufficiale, e con la calma d'una risoluzione maturata, la più grave innovazione che si sia mai tentata nel culto. Mentre che le altre religioni invitano tutte le arti e tutte le magnificenze per le loro cerimonie, Zuinglio voleva astrarre unicamente l’animo nella meditazione religiosa. Egli era profondamente compreso di questa massima di Catone: «Se Iddio è spirito, debba essere onorato spiritualmente;» e di questo gran detto di Seneca: «Iddio sfugge allo sguardo: ei non può essere contemplato che dal pensiero (332)».

In conseguenza di queste possenti autorità, Zuinglio temeva tutto ciò che poteva distrarre l'animo dalla contemplazione interna, e faceva spezzare le immagini. «Non è inutile, continua a dire Chauffour, il far notare che questa semplificazione del culto non procedeva già dà un’opposizione sistematica alle arti: Zuinglio non dispettava le arti, ed ancor meno le considerava come corrompitrici. Le escludeva dal culto, ma fuori del culto concedeva loro un ampio ed alto posto nella vita. Abbiamo già veduto l'entusiastica sua ammirazione pei poeti; la sua passione per la musica. Non pensava certamente a proscrivere queste arti divine, coltivandole egli con tanto amore; ma non ributtava seppure la pittura. Egli stesso dice: «Mi piacciono le belle immagini, le belle statue ... Dove non v'ha pericolo d'idolatria non è a pigliarsi inquietudine delle immagini. Ben si possono conservare le statue degli antichi dei, che niuno adora né venera: se fossero adorate, converrebbe toglierle (333)». Finalmente si trova un passo in cui Zuinglio applica alla pittura ed alla statuaria un nome ch'ei riserba alle cose che ai suoi occhi hanno maggior pregio: le chiama doni di Dio (334).

Ritorniamo a Camerario. Per preparare agli altri la strada che conduce tanti Risorgenti al Protestantesimo, impiega i suoi studi a far rivivere i liberi pensatori dell'antichità greca e romana. Grazie a lui, Demostene, Senofonte, Omero, Luciano, Galieno, Erodoto, Aristotele, Teofrasto, Archita, Sofocle, Tucidide, Esopo, Teocrito, Plutarco, Tolomeo, Teone, ecc., parlano in latino, e giungono nelle mani della gioventù in mezzo alle lodi superlative del traduttore: Dalla penna dell'infaticabile apostolo dell'antichità escono, chiosati, annotati, raccomandati Plauto, Terenzio, Cicerone, Virgilio, Quintiliano, ecc., in una parola tutti i grandi maestri, di Roma e della Grecia:

Camerario non si fermò a questo. Fedele alla sua missione di render pagana la gioventù per renderla protestante, compone dapprima un trattato di pedagogia, in cui non vedesi comparire neppure un autore cristiano (335).

Al trattato di educazione tiene dietro un libro ancor più pagano, se è possibile, Preludendo al naturalismo moderno, che riduce tutta la religione alla pratica di alcune umane virtù buone tutt'al più a fare probi pagani, Camerario pubblica le sue Regole della vita o i Sette Savii: Praxepta vitae, seu Septem Sapientes. Per dirigere il fanciullo nel cammino della vita e condurre l'uomo all'ultimo fine, non si chiamano presso di lui né nostro Signore, né i profeti, né gli apostoli, né i martiri, né i santi; ma Talete, Pittaco, Biante, Cleobolo, Solone, Misone, Chilone (336) .

Non basta a Camerario l'aver dettato regole per rendere la gioventù greca e romana: per adempiere il proprio ufficio in tutta la sua pienezza, ai precetti aggiunge l'esempio. Il mondo letterato gli va debitore d'una doviziosa collezione di egloghe, fra le quali: Tirsi, Lupo, Licida, Melibeo, Dafni, Pane, Meri, Fille, Coridone, ecc. Questo egloghe, brutte copie delle antiche, sono da cima a fondo ingemmate di centoni virgiliani, e di divinità olimpiche. Vi si trova Cupido, Pane, le Furie, gli dei infernali, Lete, i Ciclopi, le Muse Siciliane, Palemone, la zampogna, i Fauni, le Naiadi, le Ninfe, l'inevitabile faggio bucolico. Vi ha le pecorelle di Menalca e le caprette di Titiro che pascolano il timo della Germania come un giorno pascevano quello della regione mantovana (337).

A queste scipitezze aggiungete l'esegesi od esposizione di alcuni libri sacri, nell'interesse del conflitto e sotto l'ispirazione del libero pensare, ed avrete, a un di presso, la somma delle opere di colui che il Protestantesimo chiama l'occhio, il fiore, e la fenice dell'Alemagna. (338).


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CAPITOLO XIII.

PROPAGAZIONE DEL PROTESTANTESIMO (Continuazione).



Eobano Hessus. - Sua vita, sue opere. - Gio. Caio in Inghilterra. Ardore pel Risorgimento. - Il vescovo di Winchester. - Francia, Giulio Scaligero. - Sue opere - Parole di Bayle. - Ingiurie dirette dai Risorgenti ai grandi uomini del Cristianesimo. - Lodi date ai pagani. ­ Tratto e detto di Walkenaer. - Le stamperie protestanti. - Edizioni degli autori pagani di Enrico Stefano.- Fedeltà alla parola d'ordine dei capi della Riforma.



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Alla coda di Buschio e di Camerario vediamo un numero incalcolabile di protestanti rivolgere per ogni verso il campo dell'antichità. Per un secolo tutte le forze vive del Protestantesimo sono impiegate ad innamorare l'Europa dei Greci e dei Romani quanto della Bibbia. Durante questo periodo si può citare appena un riformatore o un riformato di qualche vaglia che non abbia esordito con traduzioni, con annotazioni, con commentari d'autori pagani, e che non gli abbia insegnati alla gioventù delle università e dei ginnasi: citiamo ancora alcuni nomi.

Uno degli amici intimi di Lutero e di Melantone, il fedele depositario dei loro pensieri, Eobano Hessus, nacque nel 1488. Invaghito fin dalla giovinezza dell'antichità greca e romana, mutò il proprio nome di battesimo che era Elia in quello di Elio, preferendo d'aver il nome d'un dio della favola che non quello d'un profeta. Il suo amore alla poesia gli fece adottare preferibilmente questo nome greco che significando il sole o Apollo, dio dei poeti, gli richiamava continuamente la sua passione favorita. Il suo gusto per l'antichità lo trasse dapprima verso Erasmo, poi verso Melantone, poi al Protestantesimo (339).

La vita sua privata aggiunge un nuovo carattere alla vita della maggior parte dei Risorgenti di quell'età. Eobano, non si gloriava soltanto di essere buon umanista ed elegante poeta; ma di essere anche solenne bevitore. In quelle cene letterate del Risorgimento, preludio dei simposi filosofici, del secolo XVIII, i più gagliardi bevitori tedeschi non osavano di venire alla prova con Eobano. Un giorno per altro ve ne ebbe uno che volendo contendergli la vittoria, fece recare un secchio pieno di birra di Danzica.

Bevilo alla mia salute, disse ad Eobano, ed in premio della tua vittoria ti do un diamante.

A tali parole trae dal dito un diamante e lo getta nel secchio. Senza scomporsi, Eobano prende il secchio e lo tracanna in un fiato: poscia lo capovolge e getta sulla tavola il diamante.

- Bravo! esclamano i convitati; e l'avversario di Eobano presenta egli stesso il diamante al vincitore.

- Credi tu, gli dice allora Eobano, ch'io beva per interesse? tieniti il tuo diamante, ed imitami se puoi.

Si riempì il secchio, ed il dotto emulo incomincia a bere; ma prima d'aver vuotato il secchio cade ubriaco fracido.

Il tempo che Eobano non passa a bere, lo impiega a tradurre gl'idilli di Teocrito, l’Iliade d'Omero, ecc.; poscia, aggiungendo l'esempio al precetto, compone elegie e poemi ad imitazione di Ovidio; finalmente, per mostrare qual fosse l'ultima sua idea, canta, esalta Lutero nelle molte sue lettere, fra cui ci basterà di citar quella che ha per titolo: Ecclesia captiva Luthero (340).

In Alemagna troviamo anche Peutingero, Rafelingio, Gronovio, Grevio, i due Perei, Ringelbergo, Cellario, che passò quarant'anni della sua vita a postillare gli autori pagani; Irmischio, che trovò il modo di fare cinque grossi volumi di note sopra Erodiano, storico di secondo ed anche di terzo ordine, la cui opera non ha più di centocinquanta pagine in ottavo. Uno dei suoi colleghi passò la propria vita a commentare i ventisette idilli di Teocrito; un altro riempie due immense sale soltanto di opere scritte sull'Arte poetica d'Orazio.

In Inghilterra i letterati adempiono lo stesso ufficio e giungono allo stesso termine di quelli dell'Alemagna.

Tommaso Linacero, nato a Cantorbery nel 1460, nel momento in cui il Risorgimento era nel primo suo fervore, abbandonai il proprio paese e va a cercare in Italia quello che non poteva trovare altrove. Firenze, soggetto della sua ammirazione, ebbe la sua prima visita. Lorenzo de' Medici lo accolse con favore e permise che avesse gli stessi maestri dei suoi figli. Questi maestri erano i padri del risorgimento letterario, Demetrio Calcondila ed Angelo Poliziano. Il giovane Linacero attinge avidamente a quella fonte e va a perfezionarsi a Roma nell'intimità di Ermolao Barbaro.

Ben pasciuto della bella antichità, ma soltanto della bella antichità, ritorna in Inghilterra. La filosofia, la teologia, le arti, i magnifici monumenti cristiani del suo paese, quella splendida, cattedrale di Cantorbéry che ombreggiò la sua culla, non sono per lui che barbarie.

Nel 1515, provveduto d'un beneficio, è ordinato prete: ma, oimè! egli aveva ricevuto uno spirito ben diverso da quello del sacerdozio cattolico. Prete di nome, Linacero fu un pagano in realtà. La sua vita passò nello studio degli autori classici. Pubblicò: Proclus de sphaera, greco e latino; poscia, De emendata latini sermonis structura; e finalmente il trattato di Galieno: De tuenda valetudine.

Questo primo apostolo del Risorgimento in Inghilterra si dava così poco pensiero di studiare la religione, che non rivolse mai gli occhi sulla sacra Scrittura, se non al termine della sua vita. E la lettura che ne fece lo adirò anche grandemente. Sentendosi assai male, si fece recare il libro divino, e l'occhio cadde su quel luogo di San Matteo, in cui nostro Signore proibisce di giurare pel cielo. Stantechè Linacero era grande bestemmiatore, se ne scandalizzò sì fattamente che si mise a bestemmiare, a giurare, a spergiurare con tutte le sue forze, dicendo: «O questo libro non è il Vangelo, o al mondo non vi ha cristiani». Poco dopo spirò: era nel 1524.

Linacero aggiunge una trista conferma all'esperienza di Sant'Agostino e di S. Girolamo. Risponde anche a coloro che pure ai nostri giorni non temono di dire: Non vi ha nessun inconveniente a nutrire la gioventù degli autori profani; il gusto degli autori cristiani, dei Padri della Chiesa e della Scrittura verrà più tardi. Passiamo ad un altro.

Giovanni Caio, così dal suo nome di Risorgente, e Caye dal suo nome di famiglia, nacque a Norwich nel 1518. Appassionato fin dai più teneri anni per l’antichità, partì ancor giovane per l'Italia al fine di perfezionarsi sotto gli abili maestri che vi insegnavano. Con un ridicolo fanatismo pei letterati e pei filosofi pagani, riportò dal suo viaggio il libero pensare in materia di religione. Provò il suo amore pel Risorgimento facendo fabbricare quasi a sue spese il collegio di Cambridge, che divenne uno dei focolari delle lettere pagane, di cui, nel 1821, Giovanni Bussel diceva: «Poco mancò che l'amore degli studi i classici nel XVI secolo non abbattesse la costituzione inglese». Egli stesso pagò il suo tributo di scrittore: al Risorgimento con diverse opere, fra le quali un Trattato in quarto della Pronunzia greca e latina. In tutte le rivoluzioni religiose, cattoliche, scismatiche, luterana, puritana, Caio fu sempre del parere del principe regnante: non si può praticare più perfettamente il libero pensare!

Verso il 1540 l'opera di Caio fu impugnata da uno dei suoi colleghi. Questi, risorgente appassionato cui l'amore dell'antichità aveva condotto al Protestantesimo, insegnava il greco a Cambridge. Intraprese di riformare la pronunzia. Questa innovazione venne riguardata per lo meno tanto pericolosa quanto un'innovazione religiosa. S'accese la guerra: si lanciarono scomuniche da una parte e dall'altra; il clero intervenne. Il vescovo protestante di Winchester pubblica un'ordinanza il primo giugno 1542 con la quale proibisce sotto gravi pene di fare verun mutamento nella pronunzia del greco. Tanto per la sostanza come per la forma, le espressioni di questo singolare documento meritano di essere riferite: In sonis ne philosophator, sed utitor praesentibus. In his si quid emendandum sit, id omne autoritati permittito.

Lo zelo dell'antichità classica non si rallentò punto nei protestanti. Alla fine del secolo XVI lo troviamo tanto operoso quanto nel principio. Per la massima parte gli autori pagani tengono luogo della Bibbia anche nelle mani dei loro figli. Il famoso Bartio ne è un nuovo esempio. Nato nel 1585 impara a leggere in quei libri che San Girolamo chiama il pascolo dei demoni. Un giorno, alla presenza di suo padre e di tutta la sua famiglia, recita a memoria tutte le commedie di Terenzio, senza sbagliarne parola: aveva nove anni. I suoi costumi furono degni del suo maestro. Giovane ancora, mettesi in viaggio, pellegrino della bella antichità. Una gran parte della sua vita l'impiega a percorrere l'Europa letterata, pubblicando le sue Juvenilia, le sue Amabilia, imitate da Anacreonte. Il resto del tempo, sino alla morte, avvenuta nel 1658, lo spende a chiosare Esopo e Petronio (341).

Tutte le opere di questi Risorgenti riuscivano ordinariamente pei loro autori alla professione del Protestantesimo: pei lettori il disprezzo solenne del passato cattolico dell'Europa e all'ammirazione fanatica dell'antichità pagana. Fra mille esempi, alleghiamo soltanto quello di Giusto Scaligero.

Nato nel 1540, e risorgente fin dalla culla, Scaligero esordisce in età di quindici anni con una tragedia di Edipo. Divora Omero: tutti gli autori pagani sono cosa sua. Passa la lunga sua vita a chiosare, postillare, illustrare per la centesima volta Terenzio, Festa, Catullo, Tibullo, Properzio, Virgilio, Marziale, Seneca il tragedo, Galieno, Cesare, Empedocle, Ippocrate, Orfeo, Eschilo, Teocrito, Bione, Sofocle ed una moltitudine d'altri. Tanta è la sua passione che in ciascuna frase, in ciascuna parola di questi grandi modelli trova bellezze infinite che non vi furono giammai.

«Non so, dice lo stesso Bayle, se non si potrebbe dire che Scaligero avesse troppo spirito e troppa dottrina per fare un buon commento. Perché, a forza d'essere spiritoso (342), trovava negli autori che chiosava più ingegno e più finezza che realmente non avevamo ... Non è neppur da supporre che gli autori abbiano pensato a tutto quello che fa dir loro. Non devesi credere che i versi d'Orazio e di Catullo comprendano tutta l'erudizione che ai signori commentatori piace di trovarvi (343).

Di quanto Scaligero esalta i più piccoli autori pagani, di altrettanto deprime i più illustri autori cristiani. Ei non teme di trattar Origene da visionario; San Giustino da semplice; San Girolamo da ignorante; Ruffino da villano briccone; San Giovanni Crisostomo da villano orgoglioso; San Basilio da superbo; Sant'Epifanio da ignaro; San Tommaso da pedante. Da questi giudicate degli altri.

Ben diverso è il rovescio della medaglia. Ecco un saggio degli encomi dati al cospetto dell'Europa, e specialmente della gioventù, agli autori pagani. Udiremo Scaligero, Erasmo, Ficino, Gemisto Pletone, Pontano, Cardano ed i più celebri Risorgenti.

Chi è Cesare? Se non fosse morto sarebbe un dio. Erodoto? Il latte delle muse.

Tito Livio? Un mare tranquillo.

Cicerone? L'anima dell'eloquenza.

Virgilio? La musa sovrana.

Omero? Il divinissimo, il solo poeta del mondo.

Ovidio? Il tesoro delle muse. Catullo? Il pettine delle muse.

Stazio? Un corriere malato.

Platone? Un fiume perenne; il padre, il migliore ed il maggiore dei filosofi.

Aristotele? Una mente vasta quanto il mondo.

Demostene? Ercole nudo.

Socrate? Il Nereo degli oratori.

Pindaro? L'aquila.

Sofocle? La cima del Parnaso.

Catone? Il più grande dei mortali.

Tacito? Il maestro della politica, l'arbitro dell'immortalità.

Dione Prusia? Un filosofo ed un oratore cui niuno si trova da anteporre.

Ennio? Una reliquia che si dee adorare come le antiche quercie de' boschi sacri.

Euripide? Il poeta moralista tutti i cui versi sono gemme.

Esopo? Il filosofo dei fanciulli.

Orazio? La fenice dei lirici.

Terenzio? Il più bello, il più elegante, il più latino dei latini.

Petronio? Il candore, la grazia e la dolcezza.

Plutarco? L'educatore di Traiano.

Polibio? Il santuario della politica.

E così degli altri (344).

Quello che pensavano nel secolo XVI degli autori pagani e degli autori cristiani, i protestanti letterati continuano a pensarlo e a dirlo. Nel passato secolo esisteva in Olanda il celebre triumvirato della filologia. I triumviri erano Walkenaer, Hemster­Huys e Ruhnkenius. Si avevano in conto di depositari di tutte le buone tradizioni del Risorgimento e d'interpreti aristocratici della bella antichità. Ora il primo, parlando dei Mimi di Sofrone e di quelli di Laberio, così si esprime nel commentario sopra le Adoniazasi di Teocrito: «Siamo qui ben cento amatori dell'incorrotta antichità che assai volentieri daremmo gli undici volumi di S. Agostino per ricuperare questi due opuscoletti, non volendo per altro che andasse perduta l'erudita opera della città di Dio (345)».

Tutte le opere del più vasto ingegno cristiano per due cattivi ed inutili libercoli pagani! Ecco il voto dei Risorgenti luterani e il caso che facevano dei monumenti del Cristianesimo! E si verrà a dirci poi che i riformatori ed i riformati furono nemici delle lettere pagane?

La febbre dell'antichità che agitava i protestanti del XVI secolo non può paragonarsi che alla febbre dell'oro che si è indonnata dell'Europa attuale. Mentrechè con un ardore instancabile questi smuovono i campi della Grecia e di Roma, quelli con non minor ardore convertono in volumi i risultamenti di tante investigazioni e li versano nel pubblico.

Reca veramente stupore il numero prodigioso di libri pagani che uscirono dalle loro tipografe. Oltre i dizionari e le grammatiche greche e latine, i trattati di pronunzia e di prosodia, le filosofie delle lingue antiche, le illustrazioni poetiche, veggonsi messi in luce con note, commenti, glosse, osservazioni ed encomi interminabili tutti gli autori profani greci e latini, ora in gran sesto per gli uomini più dotte ora in piccolo formato ed in trattati separati pei giovani.

Alla testa di quest'esercito pagano che s'avanza al conquisto dell'Europa procede l'Andria di Terenzio, uscita dai torchi di Carlo Stefano nel 1547; e che ha per titolo: P. Terentii, afri comici, omni interpretationis genere, in adolescentulorum gratiam facilior effecta; adjectus est index latinarum et gallicarum dictionum. Un tal libro, con un tal titolo prova meglio di tutti i discorsi lo spirito di quel tempo. Nello stesso ordine trovasi la Medea di Euripide che si spiega ai fanciulli e che si fa loro declamare. Questa recita, accompagnata sempre da applausi, piaceva in mirabil modo al giovane Enrico Stefano, il quale concepì un ardente desiderio di divenire anch'esso attore. Ei divora la grammatica greca; ben presto gli si mette in mano la Medea; l'impara a memoria, la declama, diventa greco ed anche protestante.

Successore di suo padre, inonda l'Europa delle sue edizioni di autori pagani.

Nel 1549, pubblica Orazio completo, con note ed argomenti.

Nel 1554, Anacreonte completo, con traduzione latina e commenti;

Nel 1556, tutti i lirici greci, con versione latina, note e varianti;

Nell'anno medesimo, gl'idilli di Mosco di Bione e di Teocrito, con traduzione latina ed argomenti;

Nel 1557, Aristotele e Teofrasto;

Nell'anno stesso, Eschilo, con note, Massimo da Tiro il

platonico;

Nel 1559, Diodoro Siculo;

Nel 1560, Pindaro, con traduzione latina a fronte; Nel 1561, Senofonte, con copiose, note;

Nel 1562, Sesto Empirico, filosofo pirroniano, graece numquam, latine nunc primum editus;

Nell'anno stesso, Temistio;

Nel 1563, frammenti di tutti gli antichi poeti latini, di Ennio, Accio, Lucilio, Laberio, Pacuvio, e di molti altri;

Nell'anno stesso, Tucidide greco e latino. con note e commenti;

Nel 1566, l'Antologia, raccolta di poeti epigrammatici, con doppio testo, con note e con tutto ciò che è necessario per sentire il sapore di quei componimenti sì acconci a formare lo spirito ed il cuore della gioventù cristiana.

Dal 1566 al 1592, tre volte Erodoto, greco e latino;

Nel 1566, i grandi poeti greci; Omero, Orfeo, Callimaco, Arato, Nicandro, Teocrito, ecc. ecc., con note e prefazioni a gloria degli autori.

Nel 1567, Polemone ed Imerio, greco, con ampio commento;

Nello stesso anno i Medici greci, con note ed aggiuntovi un indice non solum copiosus, sed etiam ordine artificioso omnia digesta habens;

Nello stesso anno, scelta delle tragedie d'Eschilo, di Sofocle e di Euripide, con traduzione latina a fronte;

Nel 1568, Sofocle, con un commentario su tutte le tragedie;

Nell'anno stesso, Sofocle ed Euripide, con un trattato dell'ortografia di questi due autori.

E nello stesso anno ancora le Massime dei re, dei capitani, dei filosofi, e di altri personaggi antichi, in greco con traduzione latina.

Nel 1569, Massime e Pensieri, dei comici greci, in greco e in latino;

Nel 1570, Epigrammi greci, interpretati a parola per parola;

Nello stesso anno, Diogene Laerzio, vite, dottrine, massime dei filosofi, greco-latino;

Nello stesso anno ancora, Conciones, scelta dei discorsi tratti dagli storici greci e latini, con indice ed applicazioni;

Nel 1572, Plutarco completo, greco e latino, arricchito di note e di appendici;

Nel 1573, la poesia filosofica della Grecia, Empedocle, Senofonte, Timone, ecc., con note e prefazioni;

Nel 1573, Lodi della virtù, tratte dagli autori greci e latini;

Nel 1574, Apollonio Rodio, con note;

Nel 1575, discorsi d'Eschine, Lisia, Andronide, Dicearco, Licurgo, ecc., in greco e in latino;

Nello stesso anno, Orazio, con note, argomenti, avvertenze di ogni genere;

Nel 1076, Plauto e la sua latinità:

Nel 1577, Cicerone, epistole, con lunghi commenti;

Nello stesso anno, Callimaco di Cirene, inni, epigrammi, con note e commenti;

Nello stesso anno, Virgilio, con note d'ogni genere;

Nel 1578, Centoni d'Omero e di Virgilio;

Nello stesso anno ancora, Platone completo;

Nel 1579, Teocrito e gli altri poeti greci, idillii, epigrammi, ecc., con grande corredo di note;

Nel 1581, Erodiano, con commenti;

Nello stesso anno, Plinio il giovane;

Nel 1585, Aulo Gellio e Macrobio;

Nel 1587, i Critici greci, con note;

Nel 1588, Dionigi d'Alicarnasso;

Nel 1589, Dicearco, greco e latino;

Nel 1592, Dione Cassio; Appiano, Csifilino, greco e latino;

Nel 1593, Isocrate, orazioni e lettere, in greco e io latino, con note;

Nel 1594, Memnone, storie scelte, greco-latino, e molti altri.

Ciò non è che una piccola parte dei lavori della Riforma in favore della classica antichità. Durante l'intero secolo XVI, le tipografie protestanti di Lipsia, di Basilea, d'Amsterdam e di Ginevra gareggiarono di operosità con quelle di Stefano per riprodurre le opere dei pagani di Roma e di Atene. Che ve ne pare? Questi fatti irrepugnabili provano forse che i riformatori e i riformati, come pretendesi, fossero, nemici del Risorgimento? Non provano anzi la voga universale di quel tempo per l'antichità pagana, ed in particolar modo l’importanza estrema che la Riforma dava alla parola d'ordine dei suoi capi: Seminate umanisti e raccoglierete protestanti?


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CAPITOLO XIV.



PROPAGAZIONE DEL PROTESTANTESIMO (Continuazione e fine).



Riprovazione della filosofia e della poesia del libero pensare.- Leone X, Paolo III. - Il libero pensare conduce al Protestantesimo.- Giustezza della parola d'ordine dei capi della Riforma.- Vermiglio. - Curione. ­ Dudith. - Gilberto di Longueil. - Altri nomi. - Le famiglie Gentilis e Beccaria. - Averrani. - Landi. - Giudizio reso sopra tutta questa progenie di umanisti.



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Lo studio appassionato degli antichi produceva immanchevolmente un grande disprezzo pel Cristianesimo ed una grande ammirazione pel Paganesimo. Da questo duplice sentimento nascevano e l'impazienza del giogo dell'insegnamento cattolico e il desiderio del libero pensare. Ora, il libero pensare aveva suo complemento nel Protestantesimo. Di che il fatto notevolissimo c non meno doloroso d'una moltitudine di Risorgenti che passano dal Cattolicismo al Protestantesimo per poter filosofare a tutto loro agio.

Fin dal principio del secolo XVI, nel 1512, il pontefice. Leone X aveva solennemente riprovato la nuova filosofia e la nuova poesia dichiarando che le erano guaste fino nelle loro radici: Philosophiae et poeseos radices esse infectas. (346).

I suoi successori, e specialmente Paolo III, repressero gagliardamente i propagatori del libero pensare in Italia.

«Ebbevi un papa, dice il protestante Leibnizio, così caparbio da formare una specie d'inquisizione contro i poeti nel tempo che le buone lettere incominciavano a rinascere. Ei credeva che essi volessero ripristinare il Paganesimo; ma si rise dei suoi sospetti (347)».

Quante le parole tanti gli errori. Paolo III non era punto un papa caparbio, ma il custode zelante e vigile del deposito della fede. In altro dei volumi di quest'opera abbiamo veduto ch'egli non proscrisse già i poeti, ma i filosofi dell'accademia pagana di Callimaco; non si rise punto de' suoi sospetti, stantechè avevano buon fondamento, e stantechè i suoi successori sbandirono realmente, e con ragione, il platonismo e la filosofia greca dall'Italia.

Nulladimeno i germi di questa filosofia, come anche l'ardente coltura del paganesimo letterario produssero i loro frutti in Italia e nelle altre regioni rimaste cattoliche. Adduciamo qualche esempio. Abbiamo già veduto tutti i capi del Protestantesimo giungere, mediante lo studio dell'antichità, all’emancipazione del pensiero, li abbiamo uditi raccomandare questo studio come un mezzo eccellente d'arruolare l'esercito dei liberi pensatori. Il loro istinto, la loro esperienza non li traevano in inganno.

Pietro Martire Vermiglio, nato a Firenze nel 1500, fin dalla culla aveva succhiato un latte pagano.

Siccome un gran numero di dame italiane di quel tempo. così anche sua madre erasi invaghita degli autori dell'antichità. Essa stessa insegnò la lingua latina a suo figlio, facendogli studiare le commedie di Terenzio. Dalla scuola della madre, o piuttosto da quella di Terenzio, Vermiglio passò sotto il magistero di Marcello Virgilio, celebre Risorgente che insegnava allora latinità ai nobili giovani fiorentini. Ebbe a condiscepoli Francesco de' Medici, Alessandro Capponi e Pier Vettori.

Nella sua ammirazione per l'antichità, quest'ultimo erasi imbevuto di tal disprezzo del medio evo o, più veramente, di un tal odio del cristianesimo, che essendo ambasciatore della sua repubblica, scriveva: «Se vediamo quanto prima i Turchi riversarsi sull'Italia sarà pel meglio. Perché io m'acconcio male all'ubriachezza di questi preti, non dico del papa, che, se non fosse prete, sarebbe un grand'uomo» (348). Intorno al che uno scrittore protestante aggiunge: «Ognuno lo vede, qui non si tratta del capo, si tratta dei ministri della religione: non si tratta di alcuni abusi di potere, si tratta del carattere stesso che costituisce il sacerdozio e che dà azione sulle coscienze; questo è che si assalisce» (349).

Con l'animo tutto pieno dell'antichità, ed assai leggermente provveduto di spirito e di cognizioni cristiane, Vermiglio entra nell'ordine dei Domenicani di Fiesole, e con ardore intende all'eloquenza. Dopo tre anni è mandato a Padova, dove studia la filosofia d'Aristotele. Ma, persuaso che non era un conoscere Aristotele; conoscendolo come San Tommaso, impara il greco per poter leggere il filosofo di Stagira nel testo originale. In età di ventisei anni, gli viene affidato il ministero della predicazione, che adempì con lustro nelle principali città dell'Italia. Ma i suoi gusti d'infanzia non l'abbandonano. Come Lutero ad Erfurth, Zuinglio a Vienna e Calvino a Bourges, Vermiglio, anche facendo le sue prediche, impiega la maggior parte possibile del tempo al culto della bella antichità. Lo vediamo insegnare successivamente la filosofia e la poesia greche. A Vercelli spiega Omero, ad instanza di Benedetto Cusani con cui passa sovente le intere notti sui libri greci.

La buona opinione che si aveva del suo merito lo fa nominare abate di Spoleto. Ivi gli vengono nelle mani i Commentarii di Bucero sui Vangeli ed il Trattato di Zuinglio sulla vera e falsa religione. Il Protestantesimo incontrando il libero pensare, è il lampo che s'incontra nel lampo. Vermiglio che, come tanti altri, aveva attinto nei suoi studi pagani il libero pensare, sentesi tirato verso il Protestantesimo. Il missionario cattolico diventa in pulpito un libero pensatore. Grande fu lo scandalo prodotto dalle sue dottrine, e non meno grande l'ostinazione di Vermiglio a sostenerle.

Una sera va a trovare alcuni Risorgenti, suoi amici, Paolo Lancisi, maestro di lingua latina nel collegio di Verona, Antonio Flaminio, Giovanni Valdès, e Galeazzo Caracciolo. Incoraggiato da loro, abbandona segretamente l'Italia, si reca a Zurigo, poscia a Strasburgo, si ammoglia. passa in Inghilterra, di là nei Paesi Bassi, poi a Ginevra e finalmente ritorna a Zurigo, dove muore nel 1562.

Sulle vestigia di Vermiglio, alcuni anni dopo, vediamo un altro Risorgente prendere la stessa strada ed andare in Alemagna ad aprire il suo libero pensare: questi è il famoso Curione, nato nel 1503, nutriti di prosa e di poesia pagana, e che di ventidue anni va a farsi luterano. Parte con due giovani suoi amici ed animati dalle medesime disposizioni, Giacomo Cornelio e Francesco Guarini. Questi due diventano ministri del santo Vangelo (della ragione), e Curione professore di belle lettere a Losanna ed a Basilea. Tito Livio, Cicerone, Appiano, Giovenale, Plauto; i maestri della sua infanzia, sono i compagni inseparabili della sua vita ed i modelli della sua morte. Nelle loro braccia rese l'estremo sospiro nel 1569.

Scrivendo la storia d’un gran numero di Risorgenti, ritorna volontariamente sotto la penna il detto di Erasmo. Fatti pagani fino dall'infanzia, questi letterati tendono al Protestantesimo come il pulcino tende ad uscire dal suo guscio, per respirare all’aria libera. Ova partorite da Erasmo, desiderano Lutero che debba farle schiudere: Ego peperi ovum, Lutherus exclusit. Il famoso Dudith ne è un nuovo esempio. Nato in Ungheria nel 1533, riceve nel suo paese i primi rudimenti delle lettere e viene a perfezionarsi in Italia nella filosofia e nella letteratura. A Venezia, a Padova, a Firenze ha per maestri i più celebri Risorgenti: Manuzio, Robertello, Vettori.

Prende tale passione por Cicerone che non può più separarsene come l'ombra dal corpo, e scrive tre volte di sua mano tutte le opere, per imprimersene profondamente nella memoria i pensieri, e pigliarne con più di sicurezza lo stile. Lasciando l'Italia, Dudith viene a Parigi, dove sotto il magistero di Francesco Vicomercato, celebre Risorgente, si applica alla filosofia. Ma, come tutti coloro che abbiamo nominato, s'abbandona allo stesso tempo alla sua tendenza per l'antichità pagana, studiando alla scuola di Angelo Caninio, la greca letteratura.

Ricco di tutte queste cognizioni, debole baluardo contro le passioni del cuore e specialmente contro l'orgoglio della ragione, Dudith ritorna nel suo paese, dove è provveduto d'un canonicato di Strigonia.

Il Protestantesimo gli si affaccia ben presto siccome il complemento dell'emancipazione dell'uomo e come il rappresentante del progresso. Dudith scuote il giogo dell'autorità ed entra nel Protestantesimo per la porta del matrimonio. Postosi sul terreno della libertà, socratizza a suo agio; da luterano si fa sociniano; poi, dopo una breve sosta, continua il suo cammino: nega persino le verità fondamentali del cristianesimo e finisce coll'addormentarsi nell'indifferenza. In questo stato, ultimo termine del razionalismo, la morte viene a colpirlo il 23 febbraio 1589.

Dudith pagò il suo tributo all'antichità classica, dotando l'Europa d'un volume in foglio di Commenti sulla meteorologia d'Aristotele, di poesie latine del gusto di quel tempo, e di lettere ai capi principali della Riferma.

A quest'esempio aggiungiamo quello di Bullingero. Nato nel 1504 in Isvizzera, nel cantone cattolico di Lucerna, Bullingero è destinato agli studi da suo padre, che non mancava pur esso di coltura intellettuale. Ma in quel tempo gli autori pagani non erano spiegati alla gioventù, di guisa che, dice il biografo protestante, gli studi erano pressappoco nulli da per tutto. Bullingero fu dunque mandato, in età di dodici anni, nel ducato di Clèves, alla scuola di Mosellano, celebre Risorgente, cui lo studio dell'antichità pagana condusse, come tanti altri, al Protestantesimo. Sotto la disciplina di questo nuovo maestro, Bullingero si diede con passione allo studio della bella antichità. Da Clèves passa a Colonia, dove, studiando logica, coltiva, ad imitazione di Lutero e di Zuinglio, le muse. Divora Aulo Gellio, Macrobio, Quintiliano, Plinio, Solino, ecc. Però diventa prete e poscia parroco nel proprio paese. Scoppia il Protestantesimo; Bullingero rinunzia al sacerdozio, ritorna al culto della bella antichità, si rende protestante, si ammoglia, è creato ministro e diviene il successore di Zuinglio (350).

Verso lo stesso tempo, l'Olanda ci presenta un nuovo esempio dell'influenza degli studi pagani sulla fede della gioventù. Nel 1507 nacqne ad Utrecht Gilberto di Longueil. Fornito di grande ingegno, il giovinetto ode i suoi maestri levare a cielo gli autori pagani che gli fanno spiegare. S'invaghisce di quei grandi modelli, impara profondamente la loro lingua e si trasferisce in Italia per perfezionarsi nel conoscimento dell'antichità. Ne ritorna convinto che ben pensare è pensare come i grandi ingegni di Grecia e di Roma, le cui lodi ha udito ripetersi da ogni voce di Firenze, di Venezia e di Padova.

Rientrato nel suo paese, gli vien parlato di valenti umanisti che in nome di Platone e di Aristotele, meglio conosciuti guerreggiavano l'insegnamento cattolico. La verità non può essere che dalla parte della scienza e dei lumi, e non già con l'ignoranza e con la barbarie. Ora, cotali umanisti il cui nome è nelle bocche di tutti si chiamano Ulrico Utteno, Lutero, Camerario, Melantone. Longueil si schiera dalla loro parte: è protestante; A tutto suo agio, nel seno della Riforma, prepara agli altri la strada battuta da lui. Vent'anni di fatiche sono impiegati a volgarizzare, chiosare, illustrare la vita di Apollonio Tianeo, di Filostrato; le Metamorfosi di Ovidio, le epistole di Cicerone, le vite di Probo e le commedie di Plauto! Con questo tesoro di meriti Longueil, spogliato della fede del suo battesimo, comparve alla presenza di Dio nell'entrante dell'anno 1543.

Potremmo estendere molto più questa nomenclatura; e mostrare con nuovi esempi tolti da tutti i paesi la giustezza della parola d'ordine data dai capi della Riforma: seminate umanisti, e raccoglierete protestanti. Ci basti il nominare, in Inghilterra, Milton; in Alemagna, Cisner, Schuler che prese il nome di Sabino; in Francia, Lefèbre, di Caen, la Ramée, Bartolomeo Aneau, Cordier, Chandieu; in Italia, Gregorio Leti e quell'Averrani di Firenze, che a lungo studiare l'antichità divenne non solo protestante, ma stoico. Si giudicherà di ciò che era quando si saprà che ci ha lasciato ottantasei dissertazioni sopra gli epigrammi greci: ventisei sulle tragedie d'Euripide; cinquantotto su Tucidide; trentuno su Tito Livio; quarantacinque, sopra Virgilio, novantadue, sopra Cicerone. Non passeggiava mai senza declamare versi d'Omero, di Pindaro, di Tibullo. Per coronare tutte le sue opere tradusse Sallustio in greco.

Talvolta famiglie intere passavano dal Risorgimento al Protestantesimo. Così, vediamo la famiglia dei Gentilis, della Marca Anconitana, valicare i confini dell'Italia e dare al Protestantesimo, elvetico non solo proseliti, ma apostoli: vediamo un membro dell'antica famiglia Beccaria di Firenze, appassionato per l'antichità pagana, abbandonare la città sua nativa, abbracciare il Protestantesimo, e fermare sua stanza in Danimarca, dove prese il nome di Becker, e divenne il capo d'una famiglia che esiste ancora. In Francia, al seguito di Calvino, di Beza, di Cordier, di Farel, di Ramo vediamo il famoso Dolet, dare un tale scatto al suo libero pensare che d'errore in errore cade nell'empietà più ributtante. Egli era amico intimo d'Ortensio Landi, altro Risorgente, intorno al quale un contemporaneo ha scritto alcune linee che palesano che cosa fosse in generale tutta questa progenie di umanisti.

«A Bologna, dice quest'autore, abbiamo conosciuto ben addentro Ortensio Landi. A Lione ei ci ripeté questo aforisma: «Altri leggono altri libri; a me piacciono soltanto Cristo e Tullio: Cristo e Tullio mi bastano». Ma intanto non aveva mai Cristo né in mano né nei libri; se poi lo avesse in cuore, lo sa Iddio. Questo noi sappiamo dalla sua bocca, che fuggendo in Francia non portò seco né l'Antico né il Nuovo Testamento, come consolazione del viaggio, ma le lettere famigliari di M. Tullio. Noi non ci saremmo indotti a brevemente descrivere la sorte di quest'uomo, degna della sua vita, né la sua leggerezza, né la sua mollezza, né i suoi costumi niente religiosi, se non sapessimo essere della stessa malvagità e petulanza quante abbiamo da vicino conosciuto di queste scimmie di Cicerone».

È facile comprendere che Ortensio Landi divenne protestante (351).



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CAPITOLO XV.

TESTIMONIANZE



Il protestantesimo venuto dal Risorgimento. Testimonianza dell'autore protestante Gottlieb Buhle. - Dallo studio dell'antichità è uscito il libero pensare. - Il disprezzo del cristianesimo. - La ribellione contro la Chiesa. - Parola d'ordine dei capi del Protestantesimo. -Testimonianza del dottor Beda. - Disprezzo d'Erasmo e dei Risorgenti pei Padri e pei dottori della Chiesa che non sapevano il greco. - Confutazione. - Testimonianza del conte di Carpi. - Sua lettera ad Erasmo. - Il Risorgimento vera causa del Protestantesimo. - Stato dall'Alemagna prima e dopo il Risorgimento. - Effetti degli studi pagani sugli animi.- Conclusione.



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Abbiano dimostrato, da una parte, che i capi della Riforma furono gli alunni appassionati e gli ardenti propagatori del Risorgimento filosofico e letterario; d'altra parte, ch'essi riguardavano lo studio dell'antichità greca e romana come un mezzo potente di disporre gli animi al Protestantesimo; ed i fatti ci hanno rivelato la giustezza di loro previsioni. Ma la parte che qui imputiamo al Risorgimento non è forse esagerata? Gli esempi che abbiamo allegato e quelli in maggior numero che ancora si potrebbero allegare, sono poi così dimostrativi come sembra? Non appartiene a noi il rispondere, ma alla storia.

L'autore protestante Gottlieb Buhle così si esprime nella sua Storia della filosofia: «Nel medio evo, in cui l'uomo, digiuno di ogni cognizione scientifica, dominato da una cieca credulità, è tuffato ogni dì più nella barbarie, la letteratura e la filosofia dell'antichità cessano per noi, come si vedono succedere le tenebre ad un bel giorno. La storia moderna dello spirito umano incomincia allo studio della classica letteratura. Il contrasto saliente del gusto squisito che dirigeva gli antichi artisti, poeti, storici e rétori e della libertà di pensare che guidava i filosofi coi caratteri di barbarie che la gerarchia (352) e la scolastica avevano impresso in tutte le produzioni dei secoli in cui dominarono, fecero vivamente sentire all'uomo la vergogna dell'oppressione sotto cui aveva gemuto fino allora (353)».

Dopo aver richiamato l'ardore incredibile con cui si studiarono gli antichi, non omette d'aggiungere che da questo studio nacque il libero pensare, e che allora si stabilì il duello fra il principio d'autorità e il principio d'indipendenza intellettuale, tra la Chiesa e gli umanisti. «Di che, dice egli, scaturirono avvenimenti di cui la propagazione dei lumi e la libertà di pensare dovevano essere il necessario risultamento. La lotta, a vero dire, fu lunga fra la gerarchia e coloro che, illuminati dalla lettura dei greci e dei romani, lacerarono il velo di cui la Chiesa copriva il suo sistema, ne smascherarono la perversità e dimostrarono il poco fondamento delle sue pretensioni.... essa non poté evitare il disprezzo di tutte le persone illuminate dal momento che si consultarono le opere originali dei greci ... la filosofia moderna ha principio dal ripristinamento degli antichi (354)».

Qui sarebbe superfluo qualunque commento. Cotale preziosa testimonianza rivela chiaramente il pensiero intimo dei riformatori, il frutto che traevano dagli studi classici e la giustezza della loro parola d'ordine. Insistendo sopra questo punto fondamentale, l'autore ci descrive la maniera che tennero i capi del Protestantesimo, aiutati dal Risorgimento per inaugurare il regno del libero pensare: «I lumi, dice egli, di cui il Risorgimento e lo studio della letteratura e della filosofia antica avevano riacceso la fiaccola in Italia, diffusero anche la loro influenza benefica nelle vicine contrade e specialmente in Alemagna:. Verso la fine del XV e all'inizio del XVI secolo, i dotti italiani annoverano fra i loro discepoli un gran numero di stranieri che studiavano con loro le opere classiche dell'antichità. Ritornati nel loro paese nativo vi spandevano i germi delle più profonde cognizioni, che non tardarono a germogliare fra i nostri, ed a produrvi frutti abbondevoli (355)».

Al vedere le novità e lo spirito d'indipendenza che, sotto il mantello dei Greci e dei Romani, si manifestavano da tutte parti, il principio cristiano di fede e d'autorità gridava al pericolo e combatteva con vigore: sentivasi fino d'allora che in tutto questo vi aveva ben altro che una questione di forma e di letteratura. «Ciò nondimeno, continua l’autore, la dura lotta che Petrarca, Boccaccio, i dotti greci e i loro amici avevano dovuto sostenere in Italia contro la barbarie della scolastica, le pretensioni della gerarchia e le tenebre della superstizione, cotal lotta, dico, dovette estendersi nei paesi vicini. Perciò gl'uomini illuminati di quelle regioni appigliaronsi dapprima a segnalare il nulla della scolastica, a stenebrare gli occhi del popolo sia con motteggi, sia con gravi dicerie sull'ignoranza, sui pregiudizi, sulla pigrizia, sul libertinaggio e sulla turpitudine dei frati, finalmente a mostrare il bisogno stringente di riformare gli studi letterari, e d'introdurre una filosofia meno assurda. Conveniva sterpare dal terreno tutte le male erbe che lo inselvatichirono. Quest'era l'opera più meritoria che si potesse intraprendere in quel tempo; cotal opera preparava gli animi a ricevere una nuova filosofia» (356)

Disprezzo del medio evo, ammirazione dell'antichità pagana: ecco tutta l'industria ed eccone i risultamenti. Lo storico filosofo aggiunge: «Dacché fu ripigliato lo studio delle lingue antiche e degli scrittori profani, si stupì della differenza enorme che vi era tra la filosofia antica, attinta alla sua fonte, e la scolastica dominante, e si sentì vivamente quanto l'una fosse deforme e l'altra all'incontro attraente per la ragione. I dotti dovettero dunque finalmente studiare la Bibbia e gli antichi Padri della Chiesa nella loro lingua originale. Questi studi fecero ad essi scorgere una differenza non meno mirabile fra il cristianesimo evangelico e l'antica costituzione della chiesa, da una parte; la teologia dogmatica moderna ed il papato, dall'altra;

«Tale scoperta non poté mancare di produrre a poco a poco nella credenza dei teologi istruiti e ragionevoli una rivoluzione non meno grande di quella che era stata in filosofia la conseguenza del ristauramento delle belle lettere antiche ... L'indignazione delle persone illuminate dal popolo non fece che aumentarsi man mano che lo studio della classica letteratura dell'antichità, della Biblia, nella lingua originale e dell'antica storia della Chiesa si estese per tutta l'Alemagna. Questo studio fornì loro anche le armi più formidabili di cui si potessero giovare contro la gerarchia. Non è a stupire che i primi assalti mossi nel 1517 da Martino Lutero, abbiano avuto un successo maggiore d'ogni speranza» (357).

Come è ben ragionevole, lo scrittore protestante gioisce a questi bei risultamenti: benedice il Risorgimento che li ha prodotti, e richiama con gioia mista ad orgoglio la profonda sapienza e l'immensa forza del motto dei capi della Riforma: Seminate umanisti e raccoglierete protestanti. «Stantechè, dice egli, era nello spirito del Protestantesimo il far progredire grandemente il genio filosofico, i riformatori Lutero, Melantone, Zuinglio, Calvino, Bullingero, Ecolampadio, Camerario, Eobano Hessus e gli altri dotti collegati con essi per giungere al medesimo scopo, si trovarono in tale condizione, in mezzo ai grandi interessi della Riforma, che appena era loro possibile il fare altra cosa che di raccomandare instantemente lo studio delle lingue antiche come il miglior mezzo di condurre ad una teologia più ragionevole» (358).

Se, riassumendo questa testimonianza perentoria, si fa l'enumerazione dei benefici prodotti e da prodursi dallo studio assiduo dell'antichità, si trova, a giudizio dei capi del Protestantesimo, la libertà di pensare, il disprezzo dell'insegnamento e dell’autorità cattolica, la prova che la filosofia cristiana e la letteratura cristiana non sono che barbarie, che la Chiesa è caduta nell'errore e nella corruzione, la necessità di riformar tutto questo, non consultando la tradizione, né i dottori, né la Bibbia interpretata dalla Chiesa, ma leggendo da sé medesimo nel greco e nell'ebraico i Padri e la Scrittura, e spiegandoli sui testi originali sotto l'ispirazione del libero pensare.

Agli scrittori protestanti si aggiungono, per confermare, questi risultamenti dello studio appassionato dell'antichità pagana, gli autori cattolici. Fino dal 1529, il dottor Beda, una delle glorie della Sorbona, rinfacciando ad Erasmo le sue ingiurie verso i secoli cristiani, si esprime in queste parole: «Di qual valore sarebbero stati gli antichi dottori cattolici se non avessero conosciuto il greco? Non ne so nulla, dice Erasmo. - Osserva, o lettore, con quale iattanza pone sé stesso, Lefebvre d'Étaples e pressappoco tutti i discepoli di Lutero, sopra a tutti i dottori puramente latini. Così, secondo Erasmo, si debba contare per poca cosa in teologia i sommi pontefici San Leone le San Leone III, San Gregorio Magno, S. Isidoro, Alcuino, Rabano, Aimone, Sant'Anselmo, San Bernardo, Ugo e Riccardo di San Vittore, Pietro Lombardo, Guglielmo d'Auxerre, San Tommaso, San Bonaventura, Alessandro di Halès ed i loro illustri colleghi! -

Quale poteva essere, dice Erasmo, in fatto di teologia, il valore di tutti questi uomini, poiché non conoscevano la grammatica greca? È come se dicesse: Pressappoco, nulla. E non vede che se i Greci hanno la loro grammatica, gli Ebrei hanno la propria e noi la nostra, e nondimeno non vi ha che una sola teologia, e che tutta questa teologia, per quanto lo Spirito Santo l'ha giudicato utile, è avventurosamente infusa o tradotta nella lingua latina!

«Credete voi che Erasmo dia a San Gregorio il soprannome di Grande? Non già. - Follie e sciocchezze (359): tali sono agli occhi suoi le opere del pontefice immortale. Ei non sapeva di greco, ed io lo conosco e così pure l'ebraico: laonde né egli né gli altri autori e dottori latini non sono di veruna autorità in teologia (360) - Vuolsi rispondergli: Se non credete a nessuno, credete almeno alle opere di teologia che vi hanno lasciato i dottori puramente latini: credete all'ubertosa messe che hanno prodotto le sementi delle lettere deposte nel campo della Chiesa latina. Poscia mettete a confronto i bei frutti che hanno dato alla Santa Chiesa con tutte le loro lingue i Lefebvre, i Luteri, gli Ecolampadii, i Melanloni e tutti i bilingui e i trilingui tanto orgogliosi del loro sapere, dopo quel furore di linguistica che da circa dieci anni si è manifestato (361). Le tue opere, o Erasmo, e quelle di cotali scrittori sono monumenti autentici e tristamente famosi che ci fermano su questo punto (362)».

Questa voce sollevata contro il pericolo dalla prima università dell'Europa veniva potentemente ripercossa anche in Italia fra i cattolici intelligenti che avevano saputo munirsi contro il torrente generale. In fra tutti ascoltiamo un uomo disinvolto, buon letterato e famigliare della corte di Leone X. Rispondendo ad Erasmo, il celebre conte Alberto di Carpi diceva, or ha più di tre secoli, le stesse cose che diciamo noi stessi oggi; e, il che è da notarsi, a niuno pareva strano, niuno pensava ad accusarlo d'oltraggiare la Chiesa. La stupenda sua lettera stabilisce i punti seguenti:

1° Lo studio della letteratura antica non è essenzialmente cattivo;

2° nondimeno è una vivanda leggera, che debilita il temperamento morale;

3° nutrisce di vento gli animi che vi si abbandonano;

4° conduce alla nausea degli studi gravi e al disprezzo della scienza cattolica;

5° forma uomini superficiali, senza forza di resistenza contro l'errore;

6° esalta l'orgoglio e conduce all’indipendenza ed alla ribellione;

7° è la vera causa del Protestantesimo.

«L'Alemagna è in fiamme, gridava egli, il resto dell'Europa è sopra un vulcano, e tu dici, o Erasmo, che la prima causa del male è la condotta scandalosa di alcuni preti, l'orgoglio di alcuni monaci. Io punto non negherò che il torrente devastatore abbia più affluenti; ma la cagione principale di questa procella è altrove, e tu medesimo lo riconosci, quando dici: «il principio di tutto questo è la guerra dei teologi contro le lingue e le belle lettere (363)».

«Tale è la più vera cagione del male.

«Di là è venuto l'odio tra i legisti ed i teologi da una parte ed i Risorgenti dall'altra. Di là, la controversia di Reuclino, prima emanazione del torrente impuro. Io posso parlarne, poiché non fui estraneo a questo negozio. Mercé le mie relazioni con uomini eminenti, non ho debolmente giovato presso Leone X agl'interessi di Reuclino: le lettere ch'egli mi ha scritto ne fanno fede. Da questo uscirono le Lettere degli uomini oscuri che misero in ludibrio i teologi che non parlavano la bella latinità. Da ciò finalmente, e tu lo riconosci ingenuamente, è accaduto che fra voi tutti gli amatori della bella letteratura sono divenuti i fautori di Lutero. Tale è la cagione di tanti mali (364).

«Sostenuto da tali aderenti, Lutero, naturalmente temerario, non pose più limite alla sua audacia ed al suo orgoglio. Oh Dio! quali sventure avrebbero risparmiate al mondo cotesti campioni di Lutero, nella sua lotta contro la teologia cattolica, se si fossero dati con minor passione allo studio delle belle lettere! Quanto meglio sarebbe stato che non le avessero mai apprese anziché servirsene per allumare un vasto incendio che mette in combustione quasi tutta l'Alemagna! Qual fortuna per la Germania se queste belle lettere non avessero mai valicate le Alpi, e se i Tedeschi, contenti della loro propria lingua o d'una lingua, latina qualsisia, non avessero mai suscitato fra loro così atroci dissensioni! Quanto sarebbe stato meglio il parlar male e il pensar bene, che divulgare empie dottrine elegantemente scritte, e scompigliare tutta la repubblica cristiana; il commettere barbarismi e solecismi piuttosto che abolire la vera religione ed i costumi degli antichi!

«Ben la sai: innanzi che le belle lettere avessero invaso la Germania si vedeva regnare in quel paese la pace, l’unione, la tranquillità: i Tedeschi si distinguevano per la loro gravità e per loro fermezza, per la loro modestia, pel loro amore, degli studi gravi: presso di loro, filosofi distinti, illustri matematici, teologi eminenti, una religione ammirabile, una pietà squisita, una felicità somma (365)».

Ecco l'effetto, dell'educazione cristiana del medio evo. Come l'olezzo indica la natura del fiore, questo profumo di vita sparso in tutta la società manifesta la qualità dell'educazione ché l'aveva formata. Ecco ora gli effetti della nuova educazione. «Oggi, continua l'illustre scrittore, tutto ha cangiato. In luogo della pace, la guerra; in luogo della quiete, il tumulto; in luogo della calma, la tempesta. Quale città fruì della quiete? che dico? qual casa non è il teatro d'una guerra intestina? Guerra tra i mariti e le mogli, tra i genitori ed i figli, tra i fratelli e i fratelli, tra i padroni e i servitori. Gli uni rimangono cattolici, gli altri si fanno eretici. In tutti i paesi avete, per le leggi, la rapina, i ladronecci, gli omicidi, la devastazione delle castella; pel pudore, lo stupro delle vergini consacrate a Dio e tupanari; per la gravità, la leggerezza e il motteggio; per la disciplina, la licenza; per gli studi gravi, il cicaleccio e l'impertinenza; per la modestia, l'arroganza, le risse e le contese; per la religione, l'eresia e la bestemmia; per la felicità, l'estrema miseria (366)».

Riconoscendo come noi che lo studio delle lettere antiche non è essenzialmente cattivo, fa a questo proposito quelle stesse riserve che facciamo noi stessi, mostra il vuoto ed il pericolo di tale studio ed indica le precauzioni di cui debba premunirsi sotto pena d'esser sempre quello che fu fino da principio una fonte perenne di errori e di calamità.

«La grammatica, dice egli, la retorica e la poetica sono per fermo belle ed utili cose: ma esse non formano il saggio. Per lo contrario, troppo spesso rendono arroganti e presuntuosi coloro che ne fanno l'esclusivo loro studio. Tutti gli aderenti di Lutero ne sono la prova. Ma altrimenti avviene degli studi gravi. La filosofia di tanto sta innanzi all'eloquenza di quanto la dirittura del giudizio sopravanza la facilità dell’elocuzione; la saggezza, il cicaleccio; la ragione, la loquela. Silenziosi e muti non possiamo essere sapienti; senza il conoscimento delle cose, senza lo studio della sapienza non possiamo essere uomini che di nome. Non usiamo dunque le cose a ritroso: il linguaggio serva alla ragione, l'eloquenza alla sapienza, e sia suo strumento e suo condimento. È assurdo il sacrificare il nutrimento al condimento: la sapienza è quella che conduce alla felicità, non l'eleganza del discorso» (367).

Ci sembra impossibile che si possa caratterizzar meglio il vuoto lasciato negli animi dal Risorgimento e dal sistema di studi da esso introdotto. Prima di esso, l'educazione era tutta scientifica; dopo divenne tutta letteraria: nel medio evo l'educazione era un corso continuo di filosofia: dopo il risorgimento essa è un corso continuo di retorica. Allora essa insegnava a pensare prima d'insegnare a scrivere; dopo, insegna a scrivere innanzi d'insegnare a pensare. Allora essa formava uomini del loro tempo e del loro paese, formando cristiani; dappoi essa non ha formato che farneticanti ed utopisti, formando pagani. Allora essa formava uomini operosi e devoti, dappoi non ha formato, secondo il detto dello stesso Erasmo, che ciarloni in versi e in prosa.

Ma ascoltiamo ancora il nobile scrittore: se l'avessimo indettato, non avrebbe detto meglio: «Lo studio dell'eloquenza è spesso un ostacolo allo studio della filosofia e della religione.

L'uomo è troppo debole da guidar di fronte parecchie scienze ad un tempo: quanto che dà all'una toglie all'altra. Facendo dell'arte di ben dire l'obbietto principale degli studi, siete obbligati di passare il tempo a studiare le bellezze della lingua, le proprietà dei vocaboli, i colori ciceroniani e i precetti di Quintiliano. Laonde, da ciò che avvi di più importante, cioè dalle cose, cadete alle parole, dal grave al leggiero, dal vero all'appariscente. In luogo dei filosofi siete costretti a leggere gli storici; i poeti pagani invece dei teologi; gli autori di favole, invece degli scrittori che trattano delle scienze più gravi (368).

«Pertanto se non si dà opera a questo studio con prudenza e con sobrietà, il vantaggio non sarà mai compensato dalla perdita. Tale è la verità che Salomone, il più savio fra gli uomini conferma con queste parole: La caccia dei vocaboli non produce nulla; la cognizione di sé stesso produce l'amore dell'anima propria. Il cacciatore di parole si farà osservare per la volubilità del discorso, ma poca o niuna cognizione delle cose, sebbene questi professori di loquacità s'arroghino il diritto di parlare di tutto ... Dove non vanno le pretensioni di questi retori e di questi letterati che per saper voltare tre o quattro parole greche e cucire alcune formole sonore, si credono capaci d'insegnare quello che non hanno mai imparato, compongono sopra ogni sorta di argomento dei libri con pomposi titoli che pubblicano quasi prima d'averli composti, e che scrivono prima di averli concepiti? Opere vane, nelle quali non trovate né sugo, né midollo, ma soltanto scipitezza e parole vuote di senso. Per quanto fortemente si premano, che può uscire da vesciche piene di vento, se non vento? (369)»

L'illustre autore termina ritornando là dove prese le mosse.

Dimostra nuovamente ad Erasmo il male fatto dal Risorgimento alla religione, gettando il disprezzo sul cristianesimo filosofico, artistico, teologico, e dando innumerevoli proseliti al Protestantesimo: «Infatuati dei loro studi pagani dice egli, tutti questi ammiratori dell’antichità conoscono appella alcune parole delle scienze gravi, e queste parole le hanno imparate come le gazze ed i pappagalli, col lungo averle udite ripetere; e quanto più le ripetono, tanto meno le comprendono. Ciò non di meno si fanno beffe di tutti coloro che non hanno la loro eloquenza, siano anche i filosofi più esatti o i teologi più sapienti: li giudicano indegni di toccare le scienze sacre, stantechè non sono trilingui né bilingui» (370).

Nelle sue relazioni col Protestantesimo, tutto il Risorgimento si compendia in queste parole: Parlate la latinità di Cicerone? intendete il greco? voi siete un grand'uomo, l'oracolo della verità. Ignorate queste lingue? foste anche San Bernardo o San Tommaso, siete un ignorante, un barbaro, un zotico, che non sapete quello che dite e non meritate nessuna fiducia» (371).

Lo storico tedesco di Lutero, Ulenberg, tiene precisamente lo stesso linguaggio del principe di Carpi, e prova con evidenza, che Lutero non è altra cosa che un risorgente (372).


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CAPITOLO XVI.



TESTIMONIANZE (Continuazione e fine)



La Sorbona e l'università di Colonia. - Rodolfo di Lange alza in Alemagna lo stendardo del Risorgimento. - Condannato dai teologi di Colonia. ­ Influenza della sua scuola. - Sua morte. - Budeo in Francia. - Opposizione al Risorgimento. - Passaggio di Maimbourg. - Testimonianza di Bayle, - di Cousin, - di Buhle. - di Zuinglio, - d'Alloury - e di Chauffour.



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Il Protestantesimo è venuto dal libero pensare, ed il libero pensare è venuto dal Risorgimento. A prova di questo fatto capitale nella storia genealogica del male attuale, rechiamo qui alcune nuove testimonianze, ancor più significative, se pur è possibile, di quelle che abbiamo allegate.

Fra le grandi scuole teologiche del XV secolo si distinguevano la società della Sorbona e l'università di Colonia. I loro dottori venivano riguardati come gli oracoli della scienza, e meritamente. Depositari fedeli dello spirito sì fortemente cattolico del medio evo, avvezzi allo studio delle cose divine, conoscitori profondi della continua lotta del male contro il bene, dai principii e dei progressi delle diverse eresie, questi uomini pensatori furono compresi da inquietudine, vedendo la febbre dell'antichità pagana impossessarsi dell'Europa letterata.

Per reagire contro questa funesta tendenza, Colonia non aspettò lo scoppio del Protestantesimo; attaccò il male in germe. In sullo scorcio del XV secolo, tra il 1480 e il 1590, un canonico di Munster, Rodolfo di Lange, inalbera per primo e con grande scalpore lo stendardo del Risorgimento. Aveva avuto in maestro Alessandro Egio; direttore della famosa scuola di Deventer. Questa scuola che formato aveva Tommaso da kempis, aveva slanciato nel mondo Erasmo Agricola, Cesario ed Ermamno Buschio, amendue espilsi di Colonia, Goclenio, maestro di Giovanni Sturm e finalmente Erasmo.

Come un grandissimo numero di giovani tedeschi, Rodolfo di Lange era andato a perfezionarsi in Italia; e com'essi n'era ritornato pieno di disprezzo per l'insegnamento tradizionale e di ammirazione per la letteratura pagana. Ripudia i libri usati nelle scuole e vuole, sostituirne altri. L’università di Colonia, per la sua postura geografica ai confini della Germania, della Francia e dell'Italia, era più d'ogni altra in grado di giudicare delle influenze delle nuove dottrine. Essa dunque si oppone vigorosamente alla riforma di Lange. Scrive ai capi delle scuole cattedrali, e fa loro divieto di mutare i libri classici. Lange dal canto suo, resiste ostinatamente e si richiama agli umanisti italiani. Questi sentenziano in favore di Lange, e nella loro risposta trattano da imbecilli i professori di Colonia (373).

Forte del loro appoggio, Lange favorisce per quarto può, coi suoi consigli e col suo danaro, i giovani amatori della bella letteratura. Quelli che l'università di Colonia espelle dal proprio seno a cagione del loro amore per gli autori antichi, vengono da lui accolti in sua casa. Fra i discepoli di questo ardente nemico dell'insegnamento del medio evo, vuolsi annoverare Ennanno Buschio, il quale si fece apostolo della bella letteratura e percorse tutte le città della Germania per predicarla (374). Come la maggior parte dei loro discepoli, il maestro ed il propagatore del Risorgimento giustificarono pur troppo le previsioni dei dottori di Colonia. Gli alunni di Lange e di Egio, divenuti liberi pensatori, s'abbatterono in Muntzer, dove prepararono il regno degli anabattisti, in Eidelberga, Tubinga e Schelestadt in Alsazia, dove introdussero il Protestantesimo. Riguardo a Rodolfo di Lange, ei viene a sapere, al suo letto di morte, lo scandalo delle tesi di Lutero, ed esclama: «Venuto è il tempo in cui le tenebre verranno cacciate dalla Chiesa e dalle scuole, e che nella Chiesa entrerà la purezza della fede, e nelle scuole la primitiva eleganza della lingua latina (375)

Una delle loro vittime fu Melantone, il quale studiò successivamente ad Eidelberga ed a Tubinga. In questa città, prese le parti di Bebel, il quale difendeva animosamente la tesi delle belle lettere, facendo prevalere gli studi classici contro gli sforzi dei monaci che li dicevano anticristiani. Melantone poi sedusse Ecolampadio. Questi, dapprima fervente religioso, si lasciò prendere alle reti filologiche di Melantone e di Koepfteim, ossia Capitone. Ne fecero un umanista, poscia un apostata. In tal guisa, come abbiamo già notato, Eobano, Bucero, Capitone e molti altri cominciarono e finirono in eguale maniera (376). «L'educazione classica, aggiunge Raumero, è talmente collegata con la riforma della chiesa, che lo stesso Erasmo le più volte non ha saputo se avesse a fare con questa educazione o con disputazioni religiose » (377).

Non dissimile è l'opinione che se n'aveva anche in Francia. La Sorbona, rappresentata principalmente dai suoi dottori Natale Beda e Gabriele Depuy-Herbaut, teneva l’occhio aperto sulle nuove dottrine filosofiche e letterarie: i Risorgenti le erano sospetti. Essa, dichiarò loro la guerra, e senza la protezione di Budeo è verosimile che il loro trionfo avrebbe corso grave pericolo, o sarebbe stato almeno, lungamente differito. Ma Budeo si adoperò per modo che la sua passione per l'antichità non lo rese sospetto agl'inquisitori: «Così rimanendo intatta la sua riputazione fu essa un valido patrocinio alle belle lettere che si tentano di soffocare al loro nascere, siccome madri e nudrici delle opinioni che non piacevano alla corte di Roma (378)».

Ma vuolsi ascoltare il classico storico di Budeo: «In mezzo ai terribili conflitti d'opinioni, dice egli, ed alle formidabili procelle che suscitarono, lo studio del greco corse i più grandi pericoli. Esso fu riguardato come la radice e il germe di tutti i mali. Da tutte le parti i cattivi, con la fiaccola in mano, concitarono all'incendio; sotto il pretesto dello scompiglio dell'antico metodo d'istruire pretendevano di offuscare, non solo lo splendore della bella le letteratura, ma anche di farla discacciare dai principi. In queste difficili contingenze, gli amici delle belle lettere essendo quasi tutti sospetti in materia di religione, non si tenevano sicuri in mezzo a quelle mandrie d'imbecilli. Il solo Budeo godè d'una intatta riputazione. Niuno poté appuntare né la sua vita, né i suoi discorsi: in ciò fu la salvezza della letteratura. Se le belle lettere non avessero trovato un tal protettore, che ne tolse la difesa alla corte, al parlamento, nelle assemblee dove erano gagliardamente impugnate, che offrì loro durante la maggior furia della tempesta un rifugio in propria casa ed un baluardo contro gli assalti degli scellerati, non è da dubitare che sarebbero state sbandite dal regno (379)».

Da questa notevole testimonianza si scorge che la resistenza fu vigorosa e che in Francia come in Alemagna è fondata sugli stessi motivi, cioè che i Risorgenti erano sospetti in materia di religione; in altri termini, che erano liberi pensatori. Erasmo stesso conviene che tale era la generale opinione in Europa. Il che per altro non gl'impedisce di deridere gli avversari del Risorgimento e di somministrare ai protestanti le ingiurie plebee ond'essi fecero uso così frequente contro i difensori del cattolicismo. Parlando di uno di quegli uomini a cui la storia ha dato ragione sì recisamente, Erasmo lo chiama una bestia curiosa, un pazzo, applaudito da altri pazzi che si nomano teologi e certosini (380).

Se Erasmo fosse stato meno cieco, avrebbe veduto che i teologi non erano tanto bestie quant'egli dice. Avrebbe veduto il Protestantesimo invadere l'Europa sotto la larva della bella letteratura.

«La Chiesa gallicana, dice Maimbourg, godeva di una pace profonda per le cure di Francesco I, allorché a questo principe venne desiderio di far rifiorire nel suo regno la gloria delle lettere ... La strada da lui presa per riuscirvi aprì l'adito nel suo regno all'eresia. In breve tempo l'università di Parigi si trovò piena di forestieri, i quali, perciocché sapevano un po' d'ebraico o tanto di greco da parere molto più dotti di quello che non erano realmente, s'insinuarono nelle case delle persone distinte, che, ad esempio del re, facevano grande stima degli uomini dotti. La Sorbona deputò due dei suoi più sapienti dottori al re per rimostrargli essere cosa pericolosa, che i grammatici venuti da un paese infetto di eresia, non portassero questa contagione in Francia. Ma il re, che allora era tutto prevenuto in loro favore, e che non considerava in essi che la qualità d'uomini dotti (381), non volle che fossero molestati, per tema che ciò non distornasse i grandi ingegni dal venire in Francia. In tal modo il male andava sempre crescendo, ed il veleno delle opinioni ereticali che si chiamavano i sentimenti dei begli spiriti e dei dotti, si spandeva insensibilmente (382)».

Per dichiarare la Riforma, figlia del Risorgimento, i protestanti ed i filosofi s'aggiungono agli scrittori cattolici. «Quello che vi ha di certo, dice Bayle, si è che la maggior parte dei begli spiriti e dei dotti umanisti che rifulsero in Italia, allorché incominciarono a rinascere le belle lettere, dopo la presa di Costantinopoli, non avevano molta religione. Ma dall'altro lato, la restaurazione delle lingue dotte e della bella letteratura ha preparato la via al riformatori, come avevano preveduto i monaci e i loro partigiani, che non rifinivano di declamare contro Reuclino e contro Erasmo e contro gli altri flagelli della barbarie. Così, mentre i cattolici romani hanno motivo di deplorare le conseguenze prodotte dagli studi delle belle lettere, i protestanti hanno di che lodarne Dio e glorificarnelo (383)».

Si può egli dire più chiaramente: Il Protestantesimo è figlio del Risorgimento: senza lo studio appassionato delle lettere pagane, la Riforma non sarebbe nata? Ritorniamo pur sempre al detto di Erasmo: Ego peperi ovum, Lutherus exclusit.

Se la Francia letterata del XVI secolo non è divenuta protestante in un maggior numero dei suoi membri, ciò non é, come abbiamo veduto, per difetto degli studi classici. Senza l’energica sollecitudine dei sommi pontefici che espulsero il paganesimo filosofico dall'Italia, è egli certo che questa contrada avrebbe conservato la fede? In Germania, la filosofia platonica non incontrò dalla parte del clero né la stessa vigilanza, né la stessa opposizione che a Roma, ed il paganesimo filosofico vi si sviluppò liberamente. Abbattuta la scolastica, dispettata la filosofia di San Tommaso, il platonismo pubblicamente insegnato in tutte le cattedre delle università: ecco quanto avvenne in Alemagna dal 1460 al 1520; ecco quello che preparò le menti alla Riforma e pose le fondamenta del Protestantesimo (384).

Il signor Cousin ha riconosciuto questo fatto capitale nelle linee seguenti: «Quando all’Europa del XV secolo apparve la Greca filosofica, giudicate qual impressione dovettero produrre i suoi molteplici sistemi, animati da un'assoluta indipendenza, in quei filosofi del medio evo chiusi ancora nei chiostri e nei conventi! L'effetto di quest'impressione doveva essere una specie di fatagione e di affascinamento momentaneo. La Grecia non ispirò soltanto l’Europa; la inebriò; ed il carattere della filosofia di quel tempo è l'imitazione della filosofia antica, senza critica veruna ... L'alleanza del platonismo con la riforma è un fenomeno che non voglio né posso tacere (385)».

Il fenomeno accennato da Cousin era stato avvertito prima di lui da molti scrittori, ed ha fatto dire ad un protestante: «Si è sempre considerato il ripristinamento degli studi classici come la causa principale dei movimenti religiosi e morali che aprono la scena del mondo nel sestodecimo secolo (386) ».

«Quella memoranda rivoluzione, dice Gottlieb Buhle, cui Martino Lutero, Filippo Melantone e i loro amici e seguaci incominciarono nel 1517, fu occasionata dal perfezionamento della filosofia, conseguenza nel risorgimento degli studi classici» (387).

Ma che bisogno vi ha di tutte queste testimonianze e di altre simili che si potrebbero riferire, poiché su questo punto abbiamo le dichiarazioni formali dei capi medesimi della Riforma? I nuovi lumi, dice Zuinglio, che si sono sparsi dopo il risorgimento delle lettere infievoliscono la credulità del popolo, gli aprono gli occhi sopra una quantità di superstizioni e gli impediscono di adottare ciecamente ciò che gl'insegnano i preti (388)».

Fra i contemporanei alleghiamo soltanto alcune testimonianze. «Per l'uomo che riflette, dice Michiels, é uno spettacolo singolare il vedere la civiltà greco-romana, ferita a morte e sepolta dal cristianesimo, uscir lentamente dal suo sepolcro, piena di sdegno è sitibonda di vendetta, piombare la volta sua sul proprio nemico, balestrarlo, combatterlo senza posa, incalzarlo, con la punta della spada alla gola, e precipitarlo nell'abisso del Volterianesimo. Qual singolare vicenda di fortuna! qual effetto bizzarro di quella gran legge d'equilibrio che si trova da per tutto»! (389)

E cosa non meno singolare il vedere la Francia impiegare dapprima il ferro, il fuoco, la ruota e la forca: ordire anche una grande strage per comprimere in casa la Riforma: poscia accogliere questa stessa Riforma sotto un abito posticcio, lasciare i filologi, gli archeologi, i poeti, i moralisti, i novellieri, i drammaturghi spandere nelle menti il dubbio, l'amor della licenza, il sensualismo, i principii anticristiani dei greci pensatori! Blandire così il proprio avversario, spartire, con esso l'acqua ed il fuoco, la mensa, ed il letto, perché ha preso un altro nome, si é vestito di altri panni, questo si chiama mostrar discernimento! E quello che ancora dee parere più straordinario si è che il clero, signore di tutto l’insegnamento gli abbia spalancato la porta, offerto un seggio al focolare, rimesse, le chiavi della casa! Si poteva mai aspettare che i capi stessi della religione la lasciassero senza difesa in balia del politeismo e dello scetticismo mascherati? (390)

Ecco quello che il semplice buon senso appoggiato sui fatti, ispira agli uomini mondani: ed il clero continuerebbe a mostrarsi indifferente od anche ostile alla riforma d'un insegnamento che riconduce l'Europa al paganesimo!

Ascoltiamo ancora il signor Alloury, uno dei redattori filosofi del Giornale dei Dibattimenti. Se niun testimonio è più esplicito, niuno anche è meno sospetto. Facendo in nome della generazione razionalistica del nostro tempo la genealogia della Rivoluzione, del Volterianesimo, del libero pensare, della religione di Socrate, di cui egli si gloria, e molti altri con lui, d'essere figlio e seguace, si esprime in queste parole: «È impossibile lo sconoscerlo: lo spirito del Risorgimento era ciò che in oggi noi chiameremmo spirito nuovo, spirito rivoluzionario, spirito di reazione contro le idee, le credenze, le istituzioni del medio evo. La scuola del Risorgimento non si cura di dissimulare i vincoli che l'uniscono alle diverse fazioni, che sono state in opposizione contro la Chiesa.

«Resta a sapere qual parte d'influenza si dee riconoscere ed attribuire al Risorgimento nell'opera ben altramente ostile, ben altramente rivoluzionaria compita da Lutero. In quanto a noi, non abbiamo nessun motivo da negare quest'influenza; non sappiamo per quale scrupolo il signor Charpentier tituba a riconoscerla, e come possa egli affermare che il Risorgimento è stato al tutto innocente di quel grande avvenimento. Non è da stupire che lo spirito di esame, entrato, una volta nel mondo, abbia prodotto nelle diverse parti dell'Europa delle conseguenze più o meno estese, più o meno radicali, più o meno contrarie all'ordine stabilito ... Non vi ha dubbio, che vi furono novatori ed eretici prima del Risorgimento, e, come è stato detto, ebbevi riformatori prima della Riforma ... Ma non è meno vero che tutti quei tentativi parziali riuscirono indarno fino a Lutero; non è meno vero che, per produrre un incendio, la fiaccola della riforma ha dovuto accendersi alla face del risorgimento.

«Il dire che la riforma è uscita dal Risorgimento, non è dunque un calunniare il risorgimento; è un riconoscere soltanto ch'esso ha prodotto effetti diversi, più o meno avventurati, più o meno legittimi, secondo i luoghi, le circostanze, l'indole particolare dei popoli» (391).

Se la storia ha qualche valore, resta dunque bene stabilito, come dice il signor Chauffour, che la riforma è la figlia diretta del Risorgimento» (392).


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CAPITOLO XVII.

IL PROTESTANTESIMO IN SÉ STESSO



Detto di Erasmo.- Riepilogo.- Origine e natura del paganesimo antico, composto di tre elementi: l'elemento intellettuale o filosofico, ed è il libero pensare; l'elemento morale, ed è l'emancipazione della carne; l’elemento politico, ed è il Cesarismo. - Caduta del paganesimo. - Riscossa del paganesimo. - Apparizione di Lutero.- Il protestantesimo composto degli stessi elementi del paganesimo antico. - Questo è l'opera del demonio in persona. - Intervento personale e sensibile del demonio nella fondazione del Protestantesimo. - Fatti e testimonianze.



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Secondo il detto pittoresco di Erasmo: Il Risorgimento ha partorito l’uovo: il Protestantesimo è il pulcino che ne è uscito. Tale é la genealogia che dovevamo provare. Perciò abbiamo esaminato la vita e i discorsi dei fondatori del Protestantesimo; abbiamo citato i testimoni pro e contro di questa grande rivoluzione. Ora, questo studio corroborato costantemente da documenti irrefragabili, dimostra i due fatti seguenti:

Il primo, che Lutero, Zuinglio, Calvino e gli altri riformatori non fecero che applicare all'ordine religioso il principio del libero pensare, che i Risorgenti, discepoli dei Greci di Costantinopoli, trovavano espediente di applicare, da sessant'anni, all'ordine politico, filosofico, artistico e letterario.

Il secondo che negli autori pagani che si cominciava a mettere nelle mani della gioventù, innamorandonela, sì i Riformatori come i Risorgenti attinsero il principio del libero pensare, che si manifestava simultaneamente pel disprezzo del cristianesimo e per l'ammirazione dell'antichità pagana.

Per compiere la dimostrazione del punto capitale che ci occupa, cioè che il Protestantesimo é figlio del Risorgimento, ci resta a studiare il Protestantesimo in sé stesso ed a mostrare i suoi vincoli di parentela col Paganesimo antico, il cui ritorno in seno all'Europa è dovuto al Risorgimento. Di che scaturiscono due questioni da risolversi: Che cosa fu il Paganesimo antico? Che cos'è il Protestantesimo?

Considerato nella sua origine, nei suoi elementi costitutivi e nelle sue manifestazioni, il Paganesimo ci dice: «Io nacqui il dì che l'angelo ribelle, prese le sembianze di rettile, fece accettare ai padri del genere umano questa parola: Disobbedite e sarete come Iddii». In quel momento vi ebbe una specie di incarnazione di Satana nel seno dell'umanità: lo spirito del male ne prese possesso. Ora Satana è costantemente chiamato spirito d'orgoglio, e spirito immondo; spiritus superbiae, spiritus immundus. Con queste due qualità ritiene l'uomo tutto intero. Sottomettendosi a Satana, l'uomo riceve questa duplice infezione; nella guisa che sottomettendosi a Dio, l'uomo diventa uno stesso spirito con lui: qui adhaeret Deo unus spiritus est. Perciò vediamo che la ribellione originale, primo germe del Paganesimo, fu ad un tempo orgoglio della ragione e dilettazione dei sensi.

Col tempo questo germe funesto va sviluppandosi. Dal cuore dell'uomo, dove è per così dire in serbo, passa in atto e veste una forma sensibile. Con mille riti, sotto mille diversi emblemi, l'uomo pagano adora la propria ragione e la propria carne con tutte le loro cupidigie. Continua parodia del regno di Dio, il regno di Satana sull'uomo è ad un tempo religioso e sociale. Nell'ordine religioso ci apparisce coi suoi oracoli, coi suoi libri, coi suoi prestigi, colle sue ossessioni, coi suoi invasamenti: tutte cose più reali che non si crede comunemente. Nell'ordine sociale, ordina il mondo materiale al duplice profitto dell'orgoglio e dei sensi.

Laonde, il Paganesimo antico, opera del demonio, considerato in sé stesso non è altra cosa che un vasto sistema d’indipendenza dell'uomo rispetto a Dio. Esso si compone di tre elementi: l'elemento intellettuale, l’elemento morale e l'elemento politico.

L'elemento intellettuale, è l'emancipazione della ragione.

L'elemento morale, l'emancipazione della carne.

L'elemento politico è il Cesarismo, ossia il regno assoluto dell'uomo sull'ordine religioso e sull'ordine sociale.

In una parola, il Paganesimo antico, veduto nel suo insieme, è un ordine di cose in cui tutto era Dio, eccetto Dio stesso; e, in ultima analisi questo tutto si riduceva all’uomo, schiavo e zimbello del demonio. Aggiungiamo, per non omettere nulla, che tutto questo sistema d’indipendenza era dominato dal domma della fatalità.

Nulladimeno il regno visibile del demonio, inaugurato dalla proclamazione dei pretesi diritti dell'uomo nel Paradiso terrestre, fu abbattuto in quel giorno in cui, dall'alto del Calvario, il Redentore, morendo, proclamò di nuovo i diritti di Dio. Ma la virulenza satanica non fu inaridita nel cuore dell'umanità. Dopo quell'epoca vediamo Satana che continua ad agitarsi nei suoi ceppi, come la iena nella sua gabbia. I secoli anche più cristiani odono alcuni dei suoi ruggiti. Ario, Pelagio, gl'ignobili settari del Settentrione e del Mezzogiorno, i Cesari non meno ignobili di Lamagna e d’Oriente; qua e colà alcuni scrittori contendono di sguinzagliarlo nel seno delle nazioni cristiane. La gloria perenne del medio evo sarà d'aver resi vani tutti quegli sforzi. Durante quel periodo, il regno di Satana non giunge mai a ricostituirsi sia nello stato intellettuale, sia nello stato morale, o nello stato politico. Per lo contrario, si vede allora un ordine religioso, filosofico, politico, artistico e letterario che nel suo complesso ha per movente, per fine, per reggitore lo spirito di sommessione dell'uomo a Dio in tutte le cose.

Mille anni sono scorsi, e di nuovo Satana spezzando i suoi ceppi, irrompe nel seno dell'Europa cristiana. La prima parola che pronunzia, quella che pronunzierà sempre, poiché non ne sa altra, è questa: Popoli troppo lungamente schiavi, scuotete il giogo della barbarie, della schiavitudine e della superstizione, cioè il giogo dell'autorità: contemplate i bei secoli in cui l'uomo visse emancipato, fateli rivivere e sarete come Iddii».

In Germania, in Inghilterra, in Francia, in Italia, migliaia di voci rispondono alla sua. Gli uni, assumendo di spezzare il giogo, spendono la loro vita a mettere in ludibrio, in disprezzo e in odio l'ordine politico, filosofico, artistico e letterario dei secoli cristiani. Barbarie, ignoranza, schiavitù, abusi, superstizioni: tale è la definizione ripetuta tuttodì a viva voce nelle accademie e nei ginnasi, in presenza della gioventù, o lanciata nel pubblico a migliaia d'esemplari, ch'essi danno dei secoli di Carlomagno e di San Bernardo, di San Luigi e di San Tommaso, delle crociate e delle cattedrali. Le loro contumelie diventano assiomi; passano di bocca in bocca, e la generazione che le ripete non è per anco spenta.

Intanto che gli uni sono larghi di oltraggi al passato cristiano, gli altri, spingendo l'uomo alla propria apoteosi, esaltano in ogni maniera l’antica età del suo preteso trionfo. Ingegno, cognizioni, incivilimento, libertà, eloquenza, poesia, arti, scienze, grandi uomini e grandi cose, tutto questo apparve nella durata del suo regno. Tale è la dottrina di cui i letterati, i filosofi, gli oratori, i pedagoghi di ogni colore o di ogni paese abbeverano le generazioni nascenti e le generazioni formate. Sono creduti; e il tempo in cui Satana regnò da padrone assoluto sul mondo, in cui l'orgoglio era dio, in cui la carne era dio, in cui la forza era il diritto, in cui la virtù era quello che sono le lucciole nell'oscurità della notte (393); in cui i tre quarti del genere umano erano schiavi; in cui l'uomo spandeva come acqua il sangue dell'uomo; in cui le arti erano prostituzione: i teatri ed i templi, lupanari; i circhi, macelli; tutte le città, Sodoma: in cui finalmente la vita religiosa e sociale era di tal natura ch'era dispettata da Dio stesso (394): Questa lunga fornicazione di satana con l'anima umana si chiamò e chiamasi ancora la bella antichità! Ed i poeti e gli oratori che cantarono questo mostruoso ordine di cose furono presentati come i più grandi ingegni che il mondo abbia mai veduto!

L'Europa era a tal punto quando apparve Lutero. Collocato fino dall'infanzia nella scuola dell'antichità pagana, nutrito sino all'età di vent'anni delle dottrine che S. Girolamo chiama il cibo dei demoni, cibus demoniorum, fa più completamente suo sangue questo mortifero nutrimento. Vi attinge ed applica in tutta la sua pienezza il principio di emancipazione che i suoi antecessori più fortunati o più timidi non avevano acquistato o non osarono applicare che in modo incompleto. Che poi sia tale la storia psicologica di Lutero, le considerazioni seguenti, aggiunte ai fatti già riferiti, non permettono, per quanto ci sembra, il minimo dubbio su questo punto.

Che mai è infatti l'opera di Lutero o il Protestantesimo? Considerato come eresia, il Protestantesimo è la più grande di tutte, in questo senso che rende generale il principio stesso di tutte le eresie, il libero pensare. Ora dove si trova il libero pensare in tutta la sua pienezza, il libero pensare messo come assioma e ridotto in pratica? Invano lo cercate negli eretici anteriori a Lutero, nei filosofi posteriori alla predicazione del Vangelo. Per ritrovarlo, è d'uopo risalire agli autori pagani che Lutero, a detta di Melantone, studia con passione come modelli della vita e maestri della dottrina.

Ma agli occhi nostri il protestantesimo è più che una eresia: è il paganesimo stesso, tranne la forma materiale. Non dimentichiamo anzitutto che l'antico paganesimo era un vasto sistema d’indipendenza, composto di tre elementi: l'emancipazione della ragione, l'emancipazione della carne ed il Cesarismo; Ora, il Protestantesimo, è mai altra cosa che un vasto sistema d'indipendenza composto degli stessi elementi?

Nell'ordine intellettuale o filosofico, il Protestantesimo è l'emancipazione della ragione. Questo primo fatto non ha bisogno di prova; in ciò anche il Protestantesimo fa consistere la sua gloria. In apparenza, esso piega la ragione dell'uomo davanti alla Biblia, ma, in realtà; lascia l'interpretazione e l’autenticità stessa del libro, divino alla ragione individuale, operando nella pienezza della sua infallibilità. Ed è a tal punto che se gli vien talento di negare la divinità della Scrittura e la realtà dei fatti ch'essa, contiene, la ragione protestantica lo può legittimamente fare, senza cessare d'essere protestante. Così era dell'antico paganesimo. Anche allora vi aveva un corpo di verità, che si potrebbero chiamare la Biblia della tradizione. Ma la ragione dell'uomo, e soprattutto la ragione dei savi, operava sulla verità tradizionali a voglia della sovrana sua indipendenza. Invece di crederle con rispetto, le ammetteva o le rigettava, le discuteva le interpretava, senz'altra regola che il principio stesso della sua infallibilità.

Nell'ordine morale, il Protestantesimo è l'emancipazione della carne. Che hanno fatto Lutero, Zuinglio, Calvino e gli altri fondatori della Riforma? Essi hanno costantemente declamato contro tutto le pratiche cattoliche che tendono a sottomettere la carne allo spirito. Hanno abolito i digiuni e le astinenze, hanno abolito la confessione; hanno, abolito i voti monastici; hanno escluso il matrimonio dal novero dei sacramenti; hanno, giustificato le relazioni passeggere e clandestine dei due sessi; hanno negato l'indissolubilità del vincolo coniugale: hanno autorizzata la poligamia (395). Ora, che è tutto ciò? se non l'emancipazione della carne? Ammesse alcune poche differenze; in più o in meno, il paganesimo antico faceva forse altra cosa?

Quello che hanno predicato, tutti i riformatori l'hanno confermato col loro esempio. Preti e religiosi; Lutero, Zuinglio, Carlostadt, Ecolampadio, Federico Miconio, Bullingero, Giovanni Hessus, Bucero, Farel, Viret, Ochino, Capitone ed una moltitudine di altri, calpestando i più sacri vincoli e facendoli calpestare ai loro discepoli, si sono ammogliati sovente con religiose tratte dal loro monastero. Che è questo, se non l'emancipazione della carne nella loro persona?

Nell'ordine politico il Protestantesimo è il Cesarismo antico. Tutti i principi protestanti si sono fatti papi. L'autorità spirituale e temporale, la potestà dogmatica e politica l’hanno concentrata nelle loro mani; l'hanno esercitata, la esercitano ancora, e possono dire con verità come i Cesari d'una volta: Imperatore e sommo Pontefice; Imperator et summus Pontifex.

Emancipazione della ragione, ed emancipazione della carne, Cesarismo: cioè apoteosi dell'uomo nell'ordine intellettuale, nell'ordine morale e nell'ordine sociale: tali sono i tre elementi costitutivi del Protestantesimo. Questi tre elementi non li trovate riuniti in nessuna delle grandi eresie che hanno desolato la Chiesa, mentre furono, a parola per parola, quelli del paganesimo antico. Supponiamo ora che questi elementi, prendendo corpo, si personifichino negli esseri chiamati Giunone, Venere, il divo Cesare, o con un altro nome qualunque: che questi, esseri simbolici abbiano statue e templi; che siano onorati con invocazioni e sacrifici, non è manifesto che avremmo il paganesimo antico in tutta la sua integrità? Infatti, per esserlo, non manca dunque al Protestantesimo che la forma plastica ed il culto materiale (396)?

Mercé l'azione del cristianesimo, nel seno stesso delle nazioni protestanti, né questa forma, né questo culto saranno ristabiliti.

Tuttavia è notevole che, nei tempi moderni, la prima apologia, in certa guisa dommatica, del paganesimo antico, sia stata fatta da un protestante, Gibbon: è parimenti notevole che la Rivoluzione francese, ultima, figlia del Protestantesimo e del libero pensare, abbia tentato di ristabilire e la forma e il culto materiale del paganesimo. Tanto egli è vero che non vi ha mezzo per l'uomo tra il cattolicismo e il paganesimo, tra la religione di Gesù Cristo e la religione di Satana, sotto una forma o sotto l'altra. Non omettiamo un nuovo carattere di somiglianza: come il paganesimo antico, il Protestantesimo ha rinnovato la dottrina del fatalismo, e ne ha fatto uno dei suoi dommi principali.

Finalmente il paganesimo antico fu l'opera del demonio operante in persona ed in modo sensibile. Ciò vedesi non soltanto nel paradiso terrestre, ma anche in tutto il seguito della storia. Essa ci mostra il demonio sotto diversi nomi, intervenire materialmente nella fondazione dell'idolatria presso le differenti nazioni dell'antichità: nella Grecia, in generale, sotto il nome di Apolline e d'oracolo di Delfo o di Dodona: in Atene, sotto il nome di Minerva; in Roma, sotto quello di ninfa Egeria. In appresso lo vediamo sotto il falso nome d'angelo Gabriele conferire col falso profeta della Mecca e fondare con lui l'impero formidabile che tenne sì lungo tempo in pericolo il regno, di Gesù Cristo. Ora i due primi fondatori del Protestantesimo, Lutero e Zuinglio, dicono apertamente d'aver avuto colloqui col demonio in persona e che essi hanno operato dietro i suoi suggerimenti: nessun fatto è più irrepugnabile.

Zuinglio, pensando ad assalire il cattolicismo nel sacramento che ne è l'anima, era assai imbarazzato per certi passi della Scrittura dai quali risulta chiaramente il domma della presenza reale. Passa dodici giorni per cercare in quei testi un altro senso. Inutili sforzi: finalmente alla duodecima notte apparve a Zuinglio un fantasma nero o bianco, uno sconosciuto, e gli detta una risposta. Zuinglio si alza e va a predicare la spiegazione dello spirito, e Zurigo cessa di credere alla presenza reale (397).

Riguardo a Lutero, racconta egli stesso con una specie d'orgoglio le molte sue conferenze con Satana; e se abolisce il sacrificio dell'altare, giustamente chiamato dai Padri il perno della Chiesa e del mondo, ne attribuisce l'onore allo spirito delle tenebre.

«Mi accadde una volta, dice egli, di risvegliarmi d'improvviso verso la mezzanotte, e Satana incominciò così a disputar meco:

Ascolta, mi disse, dottore illuminato: sai che per quindici anni hai celebrato quasi tutti i giorni messe private. Che sarebbe mai se tali messe fossero un'orribile idolatria»? (398) I luterani dubitano così poco della realtà della conferenza che per provare contro ai cattolici che la messa è un'opera pagana, allegano la testimonianza di Satana (399). Questa circostanza non è la sola in cui il demonio mostrasi a Lutero. Il riformatore confessa che l'intera sua vita è stata una serie di conflitti e di dispute con Satana. Lo spirito gli apparisce e viene a tormentarlo di giorno, a tavola, in mezzo ai suoi libri, e fino nella sua cantina. Se Lutero fa mostra di non badargli, il diavolo va in furore, mette sossopra le sue carte, chiude e lacera i libri, spegne la candela. Di notte gli apparisce sotto le sembianze di tutte le divinità dell'Olimpo, sedute al suo capezzale: Un dì che a cena si parlava dello stregone Fausto, Lutero disse: «Il diavolo non impiega contro di me il soccorso degli stregoni, se con tal mezzo potesse nuocermi, l'avrebbe già fatto da gran tempo. Egli mi ha già tenuto più volle per la testa, ma convenne per altro che mi lasciasse andare. Ho bene sperimentato che compagno sia il diavolo; egli mi ha spesse volte serrato sì dappresso che non sapeva se fossi morto o vivo (400).

Tutti gli storici di Lutero, cattolici e protestanti, riconoscono la realtà di questo intervento satanico: e non è possibile il negarlo. «Ma, chiede l'autore della Storia universale della Chiesa, come si spiegherà in modo soddisfacente questo fatto innegabile che riempie tutta la vita di Lutero? E evidente che Lutero vi credeva: eppure egli non è né una mente mediocre né d'indole pusillanime. Il modo più ragionevole di spiegarlo, o piuttosto il solo, non è di riconoscervi un'azione incessante, una specie di ossessione di quello che il Vangelo chiama spirito delle tenebre, principe di questo mondo, dio di questo secolo, che dopo di aver sedotto i nostri primi padri, sedusse l'intero mondo con gli idoli»? (401)

Senza che sia bisogno di dirlo, si vede tutta l'importanza di questo studio del Protestantesimo considerato in sé stesso. Mostrando nel vero suo aspetto l’opera di Lutero, esso giustifica pienamente la gran tesi che sosteniamo: perocchè non lascia sussistere veruna incertezza sull'origine della pretesa riforma ed insegnandoci con chi abbiamo a fare, reca la questione nel vero suo campo. Invece di cominciare la genealogia del male, il Protestantesimo non fa che continuarla; invece di esser causa, è effetto. Allora invece di concentrare tutto l'assalto contro a questo punto secondario, i difensori della religione e della società sono avvertiti di raccogliere i loro sforzi contro il punto culminante: in una parola, rimane stabilito che in oggi specialmente il conflitto è tra il cattolicismo da una parte, ed il paganesimo, dall'altra.

Aggiungiamo che, fra i Riformati ed i Risorgenti di quel tempo, un gran numero dei più celebri praticarono l'astrologia giudiziaria e le scienze occulte, il cui scopo è, come è noto, di mettere l'uomo in relazione più o meno diretta col demonio. Tali sono, fra gli altri, Bodino, Agrippa, Ficino, Melantone, Ringelbergo, Giuniano. Il male diventò talmente contagioso, che nello spazio di sessant'anni, per fede dei registri della città, centocinquanta individui furono arsi a Ginevra per delitto di magia (402).

Non solamente i due primi fondatori del protestantesimo, Lutero e Zuinglio, ma i loro principali discepoli, Munzer, Pélasge, Carlostadt ed altri ancora parlano in tutta serietà dei loro colloqui col demonio e delle costui apparizioni sensibili. «Infatti, dice Ulenberg, nulla era più frequente in quel tempo che il veder Satana trasformarsi in angelo di luce» (403). Domandiamo ora noi ad ogni uomo imparziale se da ciò che precede non risulti questa conclusione storicamente e logicamente irrepugnabile, cioè: il protestantesimo, nato dal Risorgimento, essere il paganesimo stesso, tranne la forma plastica?


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CAPITOLO XVIII.



ESAME DI ALCUNE DIFFICOLTÀ



Lutero non era Risorgente. - Risposta: Tutta la sua vita prova il contrario. - Egli ha proscritto le arti. - Distinzione essenziale. - Ha declamato contro gli autori pagani. - Ragione di tali declamazioni; esse nulla provano. - Il Protestantesimo ha avuto altre cause che il Risorgimento. ­ Esame e natura di queste cause; distinzione fondamentale. - Il Protestantesimo avrebbe avuto luogo senza il Risorgimento. - Esame di questa questione. - Risposta. - Il Risorgimento non ha prodotto da per tutto il Protestantesimo. - Ragione di questo fatto. - Ha prodotto il libero pensare. - Fenomeno notevole. - Soggetto del volume seguente.



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Contro la genealogia che la storia, sopra autentici documenti, assegna al Protestantesimo, si oppongono parecchie difficoltà.

Si dice: - 1° Lutero non era risorgente: egli ha proscritto le arti; ha declamato successivamente contro Aristotele e contro San Tommaso, contro gli autori pagani e contro gli autori cristiani».

Lutero non era risorgente! - Tutta la sua vita prova il contrario. Abbiamo già veduto che niuno, dopo gl'Italiani, acclamò con maggior entusiasmo il Risorgimento filosofico, letterario e politico; niuno studiò con maggior ardore gli autori pagani: niuno ne fece maggior conto; poiché riguardavali come i modelli della vita umana e i maestri della dottrina, poiché entrando in convento non recò seco che Plauto e Virgilio, poiché raccomandava instantemente di studiarli, siccome un mezzo di affrancar la ragione, poiché uno dei suoi cordogli, in mezzo alle tempestose sue lotte, era di non poter vivere in loro compagnia e di divenire greco a suo talento poiché finalmente niuno più di lui e, dei suoi discepoli si è industriato a diffondere il conoscimento ed il culto dell'antichità pagana.

Lutero ha proscritto le arti! - Egli ha vietato di fare statue e quadri di santi e di sante, e soprattutto di esporli nelle chiese, lo sappiamo: ma sappiamo anche, come tutti gli altri, che a ciò era costretto dalla necessità della lotta: Lutero voleva giustificare l'accusa d'idolatria lanciata contro il Cattolicismo. Ma che egli abbia proscritto le arti profane; fatto lacerare o spezzare i ritratti o le statue dei grandi uomini, non ne abbiamo trovato traccia nella sua storia. Forse ch'egli non applaudiva, e tutti i suoi discepoli con lui, alle pitture ed alle caricature di Cranach e di Holbein? Il compagno d'armi di Lutero, Zuinglio, non chiamava forse le arti doni divini? Forse che il Protestantesimo tedesco del secolo XVI, non ha chiamato più d'ogni altro, in suo aiuto il pennello ed il bulino degli artisti? I pittori e gli scultori protestanti non andavano forse in Italia a cercare nei monumenti pagani, modelli del bello, come i letterati e i filosofi protestanti vi andavano ad attingere, nello studio degli autori classici, la vera filosofia e la bella letteratura?

Lutero ha declamato contro gli autori pagani. - Nei suoi impeti d'ira Lutero faceva la guerra a tutto ciò che non era lui. Aristotele e San Tommaso, i Padri della Chiesa ed i filosofi dell'antichità, Bucero e Zuinglio, Carlostadt ed Ecolampadio, gli autori pagani e gli autori cristiani, nulla era risparmiato. Ma non dobbiamo riportarci a Lutero nello stato d'ubriachezza, ma a Lutero signore di sé stesso. Ora abbiamo veduto per chi erano, nella calma della ragione, le sue ammirazioni e le sue preferenze. Dopo aver sostenuto che la Riforma è uscita dal Risorgimento, «la sola cosa che possa stupire, soggiunge il signor Alloury, si è il veder comparire Lutero fra i detrattori più disdegnosi e più accaniti della letteratura antica e di ogni letteratura profana (404). Il signor Charpentier ha dato la vera spiegazione di questa anomalia. La missione che aveva assunto Lutero dichiarando la guerra alla Chiesa e al papa, era di ricondurre il Cristianesimo alla primitiva sua austerezza ... La contraddizione non era che apparente. Il terribile riformatore, scagliando i suoi fulmini contro il movimento letterario, era consentaneo con sé stesso: era nella sua pesta (405)».

2° «Il Protestantesimo ebbe altre cause che il Risorgimento».

Lo sappiamo: alcuni attribuiscono lo scoppio del Protestantesimo alla controversia delle indulgenze ed agli abusi che regnavano nel clero. Similmente molti attribuiscono lo scoppio della rivoluzione del 1789 ad un disavanzo nelle finanze ed agli abusi dell'antico regime. Gli altri accusano la cupidigia dei principi ingordi delle spoglie della Chiesa e dei conventi; quelli, la scostumatezza di certi monaci impazienti del giogo imposto alle loro passioni. Finalmente vi ha alcuni che in Vicleffo, in Giovanni Huss, in Girolamo da Praga vedono i precursori di Lutero.

Che tutte queste circostanze riunite abbiano formato una specie di preparazione al Protestantesimo; che abbiano anche cooperano a propagarlo, niuno pensa a metterlo in dubbio. Ma altro sono le cause determinanti d'un fatto, altro la causa efficiente. Le prime, essendo estrinseche, influiscono sul fatto, ma non lo costituiscono: la seconda soltanto, essendo intrinseca, dà vita al fatto di cui determina la natura: ad essa sola spetta veramente l'onore di esser causa. Quest'importante distinzione è passata nel linguaggio ordinario. Non accade a nessuno d'attribuire un effetto qualunque alle cause determinanti, ma sempre alla causa efficiente. Così, l'acqua, l'aria, il calore contribuiscono alla formazione dei frutti: però non si attribuiscono i frutti né all'aria, né al calore, ma agli alberi: e nulla vi ha di più ragionevole.

Ora, se dall'albero si conosce il frutto, si riconosce parimente l'albero dal frutto. Se non abbiamo perduto di vista gli elementi costitutivi ed in certa guisa le proprietà del frutto protestantico, siamo ricondotti a dire col conte di Carpi, con Erasmo e con tutti i testimoni che abbiamo citato, il Protestantesimo essere il frutto del libero pensare, e il libero pensare essere il frutto del Risorgimento.

3° «Senza il Risorgimento il Protestantesimo avrebbe avuto luogo, perché una riforma era divenuta necessaria.

Che una riforma sia stata necessaria, niuno lo nega. Ma il dir questo è un dir nulla, poiché ovunque esiste l'umanità, sono sempre) necessarie riforme. La questione è di sapere in quale misura e sopra quali punti era necessaria la riforma nel secolo di Lutero, e da chi ed in quali circostanze doveva essere eseguita. E poi, una riforma non è una rivoluzione: se era necessaria quella, non era questa. La Chiesa che reca in sé stessa il principio e la scienza della propria immortalità, la Chiesa, che raggiunge il suo fine con forza e con soavità, aveva essa sola il mandato di riformare sé medesima, o più veramente di riformare abusi che erano in essa, ma che non procedevano da essa. Incominciata nel Concilio di Laterano, questa riforma, sola salutare perché era la sola legittima, fu, non ostante le opposizioni del secolo, felicemente compita nel concilio di Trento. Così niente prova che senza il Risorgimento il Protestantesimo avrebbe avuto luogo. In qualunque caso poi questa non è la questione; essa consiste in sapere se il Protestantesimo è venuto dal Risorgimento. Ora, questa genealogia è un fatto che non si può più negare.

4° «La prova che il Protestantesimo non è la conseguenza necessaria del Risorgimento si è che il Risorgimento è stato generale in Europa, mentre il Protestantesimo è stato fin da principio, e rimane locale».

Richiamiamo qui le parole del signor Alloury: «Il dire che la Riforma è uscita dal Risorgimento, non è un calunniare il Risorgimento: è soltanto un riconoscere ch'esso ha prodotto effetti diversi e più o meno felici, secondo i luoghi, le circostanze e l'indole speciale dei popoli (406)».

Il signor Alloury ha ragione. Il libero pensare, uscito dal Risorgimento, è un principio talmente generale e talmente fecondo che produce infallibilmente il suo effetto; se non che quest'effetto é vario secondo i luoghi e le circostanze. Se ha precipitato l'Alemagna e l'Inghilterra nel paganesimo filosofico e dommatico, ha gettato l'Italia e la Francia nel paganesimo artistico e letterario, l'Europa intera nel Cesarismo. Non gli è per vero riuscito di formolarsi da per tutto pubblicamente in eresia, ed in eresia protestantica, ma ha tentato almeno di farlo con una minacciosa energia.

Che furono le sanguinose guerre della Svizzera e della Germania durante e dopo il regno di Lutero e di Zuinglio; che sono le guerre civili di Francia dei secoli XVI e XVII, se non l'ostinata resistenza del principio cattolico agli assalti non meno ostinati del principio protestantico per ottenere il diritto di cittadinanza? Se questo non ha trionfato, vuolsene rendere grazie, per l’Italia, all'azione immediata ed in certa guisa alla presenza reale del papato: per la Francia, alla fede della nazione ancor tutta penetrata dello spirito del medio evo; per l'una e per l'altra alla protezione speciale di Colui che vigila sulla Chiesa, e che la liberò dal maggiore pericolo che mai abbia corso dopo il suo nascimento.

Ma se, per le ragioni che abbiamo accennato, il Risorgimento non ha prodotto da per tutto il Protestantesimo nel senso dogmatico della parola, ha sparso però da per tutto il principio stesso del Protestantesimo, ed ha prodotto anche presso le nazioni mantenutesi cattoliche, qualche cosa di più dello stesso Protestantesimo. Il libero pensare si è profondamente radicato in un gran numero di letterati. In Italia a centinaia, in Francia, a migliaia, veggonsi i Risorgenti nel secolo XVI, passare al Protestantesimo. Gli altri cattolici di nome, o si mostrano generalmente poco credenti, o prendono un colore bene sfoggiato di scetticismo, e finiscono col divenire filosofi e razionalisti. Almeno per qualche tempo, la ragione, imperiosamente dommatica di Lutero vincolò i riformati alla credenza di certe verità; non così fu dei liberi pensatori cattolici: niuna autorità li fermò nella via del razionalismo.

Di che questo fenomeno, altrimenti inesplicabile, che si è osservato dopo il Risorgimento: i primi razionalisti conosciuti in Europa, i più arditi ed i più influenti, sono apparsi nel seno delle nazioni cattoliche, e sono stati per lo meno tanto numerosi come nei paesi protestanti. Basti il nominare Machiavelli, Pomponaccio e la numerosa loro sequela: Pomponio Leto, Callimaco, Cardano, Bodino ed un'infinità d'altri. Col tempo, il razionalismo dei letterati cattolici, ed il razionalismo dei letterati protestanti si sono riuniti, amalgamati, e salendo in oggi alla loro ultima potenza, distendono un aere di scetticismo e di naturalismo universale in cui l'Europa è minacciata di perire.

Che questi due giganti del male siano figli dello stesso padre, lo mostreremo nel volume seguente.

Per finir questo, restaci da rispondere alle obbiezioni accennate nel proemio.


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CAPITOLO XIX.

ESAME DI ALCUNE DIFFICOLTÀ (Continuazione).



L’insegnamento classico e le generazioni letterate del sedicesimo e diciassettesimo secolo. - Le generazioni veramente cristiane sono le generazioni che credono e che praticano. - Esame dei costumi delle nazioni letterate dei secoli XVI e XVII. - La loro fede sarà esaminata altrove. ­ Loro arti. - Loro conviti. - Storia riferita da Brantòme. - Loro sale. - Loro giardini. - Loro teatri domestici. - Loro lettere. - Loro teatri pubblici.- Risultamenti morali. - Costumi delle corti. - Costumi delle alte classi. - Testimonianze di Laplanche, di Bodino, di Mézeray, di Brantòme. - Del presidente di Thou. - Di Voltaire. - Di Mezeray - Di Gentillet.



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Si è detto: «La prova che il Risorgimento e gli studi di collegio non hanno avuto quella disastrosa influenza che ad essi imputate si ha da ciò che col medesimo insegnamento si sono formate alla fine del secolo XVI e durante tutto il corso del secolo XVII generazioni veramente cristiane».

Per completare l'obiezione, abbiamo aggiunto:

«Forse che il sistema di studi, che è il medesimo oggi quale era nei passati secoli, non produce, specialmente in Francia, cattolici ferventi e un clero esemplare? «Ecco le ragioni che dobbiamo saldare; e lo faremo senza preamboli con la storia alla mano.

Sono generazioni veramente cristiane quelle che credono, e che praticano quel che credono. È egli vero, e sino a qual punto che le generazioni letterate dei secoli XVI e XVII meritino questo titolo glorioso? Nel prossimo volume ci occuperemo della fede di queste generazioni: parliamo qui soltanto dei loro costumi.

Nobili e borghesi, giureconsulti, scienziati, scrittori in prosa e in verso, pittori, scultori, incisori, artisti compongono ciò che generalmente, appellasi generazione letterata. Ora quali erano nei tempi predetti i costumi di questi generazioni, considerate nel loro complesso?

L'albero si conosce dai suoi frutti. Durante i secoli XVI e XVII, le generazioni letterate hanno inondato l’Europa di traduzioni degli autori pagani più laidi, di romanzi osceni, di balli, di tragedie, di commedie, di poesie lubriche, di statue, di pitture, d'incisioni lascive. I loro palazzi, i loro appartamenti, i loro giardini, le loro tappezzerie, i loro mobili di legno, d'oro, d'argento, d’acciaio, di vetro, di porcellana riproducono sotto tutte le forme le laidezze pagane. Queste generazioni si dilettano di vedere tali oggetti coi loro occhi, di toccarli con le loro mani, di servirsi di quei mobili, ogni parte dei quali è una pagina di turpezza mitologica; e le più immonde sono le più ricercate (407).

Nei loro simposi, precursori di quelli del Reggente, di Federico, del barone d'Holbach, alcuni si fanno un gioco di portate, mediante questi oggetti classici, la corruzione sin nel fondo delle anime. La storia seguente, narrata da Bràntome, ci dà un saggio dei costumi della buona società di quel tempo. «Ho conosciuto, dice egli, un principe che comprò da un orefice, una bellissima tazza d'argento dorato, come opera preziosa e rara disegnata e cesellata con mirabile squisitezza d'arte, in cui erano finemente incise a bulino parecchie figure dell'Aretino, dell'uomo e della donna nel piede della coppa; e nella parte superiore diverse guise di congiungimenti d'animali ...

«Questa tazza era l’onore della tavola di quel principe; poiché, come ho detto, era bellissima, mirabilmente lavorata, e piacevole a vedersi di dentro e di fuori. Quando, questo principe convitava le dame e le damigelle della corte, come spesso accadeva, i suoi coppieri non mancavano mai, per suo comandamento, di presentargliene a bervi; e di quelle che non l'avevano mai veduta, o bevendo o dopo bevuto, alcune rimanevano attonite e non sapevano che dire; altre ne rimanevano vergognose, ed il rossore saliva loro al viso; ed altre dicevano fra sé: Che cosa vi è inciso? E' mi pare che le siano oscenità: oh io non vi bevo più, e converrebbe. ch'io fossi arsa di sete per tornare a bervi».

«Ma conveniva che le bevessero là entro o che morissero di sete; e perciò alcune chiudevano gli occhi bevendo; altre, meno vergognose, li tenevano aperti; quelle che ne avevano udito parlare, sì dame, come donzelle, ridevano di soppiatto, altre sghignazzavano. Quando s'interrogavano che avessero da ridere, e che cosa avessero veduto, dicevano non aver veduto null'altro che pitture, e che perciò esse non lascerebbero di bere un'altra volta. Dicevano altre: «Quanto a me non penso maliziosamente: la vista e la pittura non contaminano l'anima: Ed altre: «Il buon vino è buono tanto là dentro come altrove».

«Alcune venivano rimproverate perché non chiudevano gli occhi bevendo; ed esse rispondevano che volevano vedere ciò che bevevano, temendo che non fosse vino, né qualche medicina o veleno. Ad altre si domandava se prendevano maggior diletto a vedere o a bevere, e rispondevano: A tutto. Queste dicevano: Oh i bei grotteschi! Quelle: «Oh le belle caricature! Alcune: Oh i bei ritratti! Altre: Oh i begli specchi! »

«Insomma mille frizzi e motti si lanciavano i gentiluomini e le dame a tavola, ed io ho veduto che la era una piacevole conversazione sì a vedersi come a udirsi; ma principalmente, a mio parere, il meglio era contemplare quelle fanciulle innocenti o che fingevano di esserlo; ed altre dame venutevi per la prima volta, starsene serie come statue di marmo, ridere a fior di labbra, o a raffrenarsi e a far le ipocrite, come facevano molte. E notate che quando pure avessero dovuto morir di sete, i coppieri non avrebbero osato di presentar loro a bere in altra tazza o bicchiere. Vi ha di più che alcune giuravano per fare buon contegno che non ritornerebbero mai più a quei conviti; ma non per questo omettevano di ritornarvi spesso, perché il principe era splendidissimo e ghiotto. Altre dicevano quando le si convitava: Andrò, ma con protesta che non ci si offrirà a bere nella tazza». E quando vi erano, vi bevevano più che mai.

«Ecco gli effetti di quella bella tazza così bene storiata: su di che immagini ciascuno gli altri discorsi, i sogni, i gesti e le parole che quelle dame dicevano e facevano fra loro, o in disparte o in compagnia. Insomma quella tazza produceva terribili effetti, tanto erano vive quelle visioni, immagini e prospettive (408)».

Abbiamo dovuto sopprimere molti brani di questa laida storia; poiché, come dice Brantòme, il rossore ne sarebbe salito al viso.

Dalle sale dei conviti passiamo alle gallerie e vi troveremo le stesse lezioni di lubricità. «Quelle visioni mitologiche, continua lo storico, si risvegliavano alla vista delle pitture di cui erano ornate le gallerie ... Tali pitture e quadri, recavano più nocumento ad un'anima fragile di quello che non si pensi, come era d'una Venere affatto ignuda giacente e guardata da suo figlio Cupido .... Tante altre ve ne erano colà (nella galleria del conte di Chasteauvillain) ed altrove che sono un po' più modestamente dipinte e velate .... Ma quasi tutte le figure sono nude, ed a somiglianza della nostra tazza » (409). Queste abominazioni offerte da per tutto agli sguardi, avevano rapidamente resa popolare la scienza del male, e Brantòme aggiunge: «Oggi non vi è più bisogno né di questi libri né di queste pitture; perché se ne sa.

Il fuoco della lascivia arde nei giardini come nelle stanze. «Ritenete, continua Brantòme, che il dio dei giardini, messer Priapo, i fauni e i satiri procaci che presiedono ai boschi, assistono colà quei buoni compagni e favoriscono il fatto loro (410)». Quei giardini dei Risorgenti consistevano principalmente in labirinti circolari o quadrati che si vedevano a profusione nei palazzi reali e nei castelli signorili, dove Cupido teneva il filo che guidava i suoi adoratori. Rientrata nelle sale, la bella comitiva si sollazzava al giuoco, alle rappresentazioni mimiche, alle più seducenti sarabande, in cui le dame non dimenticavano né movimenti, né pose lascive, né gesti procaci, né bizzarri contorcimenti (411)».

Dopo i giuochi, gli spettacoli. Nei teatri privati si recita Catullo, Anacreonte, Aristofane e Terenzio, nuovamente tradotti e non purgati. Quelli o quelle che per l'età, per la loro complessione morale o fisica stanno lontani da questi clamorosi sollazzi, si danno alla lettura. Gli Amori di Dafni e di Cloe, gli Amori di Teagene e di Cariclea, tradotti da Amyot; l'Arte d'amare di Ovidio erano su tutte le tavole (412). Alle oscenità antiche si aggiungono anche le oscenità moderne, scritte in versi e in prosa dai discepoli del Risorgimento. In Italia, Poggio, l'Ariosto, Poliziano, Bibiena, il Berni, il Mauro, Della Casa e molti altri pubblicano tali infamità che le uguali l'Europa non l’aveva mai udito; in Francia, Rabelais e la pleiade poetica camminano sulle loro orme e preludiano i Racconti di La Fontaine, e cento altri libri non meno corrompitori.

«Quello che aggravò lo sdegno di Dio, dice lo storico di Laplanche, fu che il conoscimento delle buone lettere, ricondotto in Francia dal re Francesco .... agli uomini maligni e curiosi si volse in occasione di ogni sorta di malvagità; il che si è principalmente trovato in certe grandi menti date alla poesia francese che vennero allora a sorgere come a turbe: i cui scritti laidi e sporchi e pieni di bestemmie, sono tanto più detestabili, in quanto che sono ingemmati di tutti gli allettamenti che possono far cadere non solo in ogni fetida oscenità, ma anche in ogni orribile empietà tutti coloro che gli hanno per le mani » (413).

Ma un libro infame, e che sarà sempre il vitupero dell'umanità, aveva allora tutti gli onori della voga: ed è quello delle Figure dell'Aretino.

Chi ne avrà il coraggio vegga nel corrotto Brantòme quello ch'esso racconta della scostumatezza in cui il libro dell'Aretino fece cadere le più grandi dame, i più alti gentiluomini della corte di tutti i nostri re del Risorgimento, da Francesco I sino ad Arrigo III inclusivamente. Ed il libro di quest'infame Italiano, degno alunno del Risorgimento, formava le delizie del letterati di quel tempo. «Ho conosciuto, dice Brantome, un buon stampatore veneziano, che aveva bottega nella contrada San Giacomo, il quale mi disse e mi giurò che in meno d'un anno aveva venduto più di cinquanta copie del libro ... a molte persone maritate e non maritate, a donne di alto affare ch'ei mi nominò, e ch'io non nomino, e li diede esso stesso a loro, ben legati, sotto giuramento che non ne direbbe parola (414)».

Le infamie che si vedono nei libri, nelle statue, nelle pitture, sui teatri privati, rappresentansi sui teatri pubblici, rifabbricati dal Risorgimento; e la turba letterata trae avidamente a quello spettacolo dove beve a lunghi sorsi la corruzione; tale è la lubricità di quelle sceniche composizioni, copiate dai Greci e dai romani, che Giangiacomo Rousseau medesimo non poté comprimere la propria indignazione, e che in tali termini infama il Giocatore di Regnard: «La è cosa incredibile che col beneplacito della polizia si rappresenti pubblicamente, in mezzo a Parigi, una commedia in cui, nella stanza d'un zio che si è veduto a spirare, il nipote, l’uomo onesto della commedia, si occupi col degno suo corteggio di tali cose che la legge punisce col capestro .... falsità di atto, supposizione di persona, furto, giunteria, menzogna, inumanità, tutto vi è, e tutto vi è applaudito .... Bella istruzione pei giovani che si mandano a questa scuola, in cui gli uomini maturi durano fatica a guardarsi dalla seduzione del vizio!... Vi s'impara a non coprire che d'una vernice la deformità del vizio, a sostituire un gergo teatrale alla pratica delle virtù, a mettere tutta la morale in metafisica, a travestire le madri di famiglia in ganze, e le fanciulle in amorose da commedia » (415).

Ma ciò basti pel teatro, di cui parleremo altrove.

I nostri re del Risorgimento, educati la maggior parte come i letterati del loro tempo, da Plutarco e dagli autori pagani, danno esempio di egual corruttela. Per due secoli non veggonsi alla corte cristianissima che balli, feste e piaceri d'ogni sorta. Per scolpire con una sola parola la vita di tutta quell'alta aristocrazia letterata, Bodino, scriveva nel 1577: Finché la nave della nostra repubblica aveva in poppa il vento favorevole, non si pensa a che a godere ... con ogni sorta di burle, caricature e mascherate che poterono inventare gli uomini, fusi in ogni sorta di piaceri (416)».

Mézeray aggiunge: «Sarebbesi potuto lodare Arrigo II del suo amore per le belle lettere, se la dissolutezza della sua corte, autorizzata dal suo esempio, non avesse rivolto i migliori ingegni a comporre romanzi pieni di stravaganti fantasie e di poesie lascive per lusingare l'impurità che teneva in mano le ricompense (417), e per somministrare sollazzi ad un sesso che vuole regnare scherzando (418)».

Si raccoglie quello che si semina: Il sensualismo pagano inciso, dipinto, scolpito, scritto, cantato, danzato, con tarda molto tempo a manifestarsi nei costumi pubblici. Salvo una o due eccezioni, tutti i nostri re del Risorgimento, da Francesco I sino a Luigi XV inclusivamente, si mostrano agli sguardi dell'Europa circondati da favoriti, da drude e da bastardi. Quegli che i letterati chiamavano Giove, Luigi XIV, incede alla testa di quattro drude e di undici figli adulterini. Parlando delle corti del secolo XVI: «L'impudicizia ed il lusso, dice Mézeray, vi trionfarono con licenza sfrenata. Il tradimento, il veneficio e l'assassinio vi divennero tanto comuni, che non era più che un gioco il perdere coloro dalla cui morte si credeva di poter cavare qualche vantaggio. Prima di questo regno (419), gli uomini col loro esempio e con le loro persuasioni tiravano le donne alla galanteria; ma dappoiché gli amoretti fecero la maggior parte degli intrighi e dei misteri di Stato, le donne stesse invitavano gli uomini. I mariti lasciavano loro la briglia, sciolta per compiacenza e per interesse; e d'altra parte quelli che amavano di cangiare erano soddisfatti di questa libertà, che, invece d’una donna, ne dava loro cento (420)».

Nelle classi letterate, non altrimenti che alla corte, gli assassinii delle mogli per opera dei mariti, e dei mariti per opera delle mogli divennero frequentissimi; e Brantòme soggiunge che essi erano la conseguenza delle infedeltà e degli adulteri occasionai dalla tazza, dalle figure e dai quadri del Risorgimento (421). «Allegherei, dice il bizzarro moralista, un'infinità di dame piuttosto chiedenti che richieste..... Ho udito parlare anche di assai padri che, per rispetto alle loro figlie, non si fanno veruna coscienza .... La qual cosa però sente dell'imperatore Caligola .... La corruttela diventò tale che fu veduto che Venere non aveva nessuna stabile dimora come una volta in Cipro, in Pafo, in Amatunta, e che essa abita da per tutto».

Quello che Brantòme attribuisce particolarmente al paganesimo artistico, de Thoul l'imputa al paganesimo letterario: per la sostanza, l'origine è la stessa. «Coloro, dice egli, che passavano in rassegna i disordini del regno d'Arrigo II, non contavano per uno dei meno funesti quel nugolo di Catulli, di Anacreonti, di Tibulli e di Properzii, cioè di poeti ond'era piena la sua corte, e che, per le vergognose loro piacenterie per una donna ambiziosa, corruppero la gioventù, nausearono anche l’infanzia degli studi gravi, e finalmente con le loro poesie lascive, strapparono il pudore dal cuore delle donzelle (422).

Prima del Risorgimento, ci furono scorretti costumi; niuno pretende negarlo; ma la nobiltà, la generazione letterata, la corte di Francia in specie, ben erano lontane dall'essere ciò che divennero sotto l’influenza del paganesimo. «Le nostre Francesi, aggiunge Brantòme, furono vedute per lo passato assai rustiche ..., ma da cinquant'anni in qua hanno tolto e imparato dalle altre nazioni, tante gentilezze, leggiadrie d'abiti, vezzi, moine, o da sé medesime si sono studiate a illeggiadrirsi, che ora conviene dire che stanno avanti a tutte le altre in ogni maniera ... (423)». Parlando in particolar modo della corte sotto Anna di Bretagna, dice: «La sua corte era un'assai bella scuola per le dame, perché essa le faceva ben allevare e saviamente, e tutte a suo modello si facevano saggissime e virtuosissime (424) ».

Quello che racconta Brantome degli assassinii commessi nelle alte classi del secolo XVI in conseguenza della corruttela, venuta dal Risorgimento, continua nel secolo XVII, e, da Voltaire stesso, viene attribuito alla medesima causa. Dopo avere annoverato la moltitudine degli avvelenamenti che avevano luogo nella classe letterata; dopo aver mostralo i più gran nomi di Francia sulla lista degli avvelenatori, come nel passato secolo li abbiamo veduti uniti a quelli delle commedianti; dopo aver detto che i venefici si moltiplicarono a tal segno che si dovette stabilire, per giudicarli, un tribunale speciale, detto la Camera dei veleni, il filosofo soggiunge; «Tutta la corte era occupata d'intrighi amorosi; lo stesso Louvois era sentimentale: Allora il veneficio cominciò ad essere comune in Francia. Questo delitto, per una singolare fatalità, infettò la Francia nel tempo della sua gloria e dei piaceri che raddolciscono i costumi; come penetrò nell'antica Roma; nei più bei giorni della Repubblica (425)».

Ciò non ostante le tradizioni cristiane conservavano ancora tanta autorità da richiedere certe apparenze e certi atti di religione. Di che quel miscuglio mostruoso di paganesimo e di cristianesimo che si scorge nei libri e nella condotta delle classi letterate dei secoli XVI e XVII. Le storie, le memorie, le opere di quell'età testificano ad ogni pagina questo fenomeno che rivela la presenza d'un duplice spirito nel seno della società (426). Parlando della regina Margherita, figlia di Caterina de' Medici, Mèzeray dice: «Nel sobborgo di San Germano essa tenne la sua piccola corte pel resto dei suoi giorni, mescolando in modo bizzarro le voluttà alla divozione, l'amore delle lettere e quello della vanità, la carità cristiana e l'ingiustizia; Imperocchè come essa si gloriava di essere frequentemente veduta in chiesa, di mantener uomini dotti e di dar le decime delle sue rendite ai monaci, così si gloriava anche d'aver sempre qualche galanteria, d'inventar nuovi sollazzi e di non pagar mai i suoi debiti (427)».

A queste testimonianze contemporanee d'uomini mondani e di cattolici, sarebbe facile l'aggiungere quelle dei protestanti del medesimo tempo. Limitiamoci ad uno solo. Gentillet deplora i mostruosi disordini del suo secolo, li attribuisce recisamente al Risorgimento del paganesimo, e fa notare la sapienza degli antichi Padri che tanto energicamente raccomandano ai cristiani di non leggere, o con sobrietà, gli autori pagani; poscia soggiunge:

«Le quali ammonizioni sono buone e sante ed anche necessarie ai nostri tempi. Poiché oggidì vi ha un'infinità di persone che tanto si dilettano degli autori pagani, questi dei poeti, quelli degli storici, quegli altri dei filosofi che non pensano in verun modo di voler legger nulla né sapere per la salute e per la consolazione delle loro anime.

«Alcune non se ne danno punto pensiero, altre riserbano questo studio dopo che avranno finito i loro studi delle altre scienze. Ed intanto il tempo passa e spesso avviene che quando s'ha da partire da questo mondo, i loro studi profani non sono per anco finiti, né lo studio delle sante lettere è incominciato, e muoiono come bestie.

«Perciò non sono punto riprensibili gli antichi dottori d'aver ammonito gli uomini di leggere sobriamente gli scritti dei pagani e di non dedicarvisi tanto che per conoscere le scienze umane lasciassero in obblivione la divina che di tanto è più eccellente di quanto Iddio sta sopra l'uomo. Oltreché vi ha certi autori pagani che non dovrebbero mai esser letti dai cristiani, o almeno non esser messi nelle mani della gioventù, la quale per sé stessa è già troppo inclinata ai vizi ed alla lubricità. Imperocchè un giovane potrebbe egli meglio imparare in un bordello fra baldracche e mezzane le frasi d'ogni sporcizia ed oscenità che in quel fetido Marziale, o in Catullo e in Tibullo, o in alcuni libri d'Ovidio? (428)».

E cotali oscenità ed empietà che fanno morire le persone come bestie, contaminano ancora i classici che sono in uso nelle nostre scuole.


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CAPITOLO XX.



ESAME DI ALCUNE DIFFICOLTÀ (Continuazione e fine).



Testimonianza del clero. - Delle congregazioni insegnanti. - I costumi degli ultimi tre secoli dipinti da tre gesuiti. - Pel sestodecimo secolo, dal P. Possevino. - Secondo lui, i costumi delle classi letterate sono pagani. - Pel secolo decimosettimo, dal P. Rapino. - Secondo lui, i costumi delle classi letterate sono pagani. - Pel secolo decimottavo, dal P. Grou. - Secondo lui i costumi delle classi letterate sono pagani. L’obbiezione annichilata.



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Intorno ai costumi delle generazioni letterate dei secoli XVI e XVII, educate alla scuola degli autori pagani, abbiamo udito le testimonianze dei laici sì cattolici e sì protestanti. Per compiere l’istruzione del processo, è giusto ed anche necessario l'udire il clero. Ora, fra i membri di questo corpo rispettabile ve n’ha la cui testimonianza è di un’autorità tutta speciale: ciò sono i membri delle congregazioni insegnanti, e fra queste congregazioni ve n'ha una principalmente che merita di essere creduta. Sparsa per tutta l'Europa, in abituale relazione con tutte le alte classi della società, in contatto quotidiano con la gioventù letterata, uscita in massima parte dai suoi collegi, dalla seconda metà del sestodecimo sino a mezzo il decimottavo, essa ha veduto coi propri occhi e toccato con le sue proprie mani i fatti che afferma; abbiamo nominato la Compagnia di Gesù. Ora, tre gesuiti ci diranno quello che si ha da pensare della moralità delle generazioni letterate degli ultimi tre secoli.

Pel sestodecimo secolo abbiamo il celebre P. Possevino che scrisse dal 1589 al 1611.

«L'educazione fa tutto, dice egli con Aristotele, non parum, sed totum est qua quisque disciplina imbuatur a puero. Di che viene che nello stesso seno di Roma, alla presenza dei monumenti che attestano ai loro occhi l'adempimento delle profezie, gli ebrei rimangono ebrei. Perché? Perché fino dall'infanzia sono stati educati nel giudaismo. Per la stessa ragione i Turchi rimangono i Turchi; i Tartari, Tartari; gli eretici e gli scismatici, eretici e scismatici, non ostante anche mille prove della falsità delle loro dottrine.

«Quale credete voi dunque che sia la cagione terribile che precipita le anime nell'abisso dei loro appetiti, nelle impudicizie, nelle usure, nelle bestemmie, nell'ateismo, se non perché fino dalla giovinezza nelle stesse scuole che sono il vivaio degli Stati, si insegna tutto, fuorché la pietà: si spiega tutto, fuorché i buoni autori cristiani; oppure se si fa studiare un poco di religione, tutto ciò si trova mescolato con le cose più impure e più lascive, vera peste delle anime. A che serve, dico io, il versare un bicchiere di buon vino in una botte d'aceto? Voglio dire, che serve un po' di catechismo ogni settimana, allorché si versa ogni giorno nell’animo dei fanciulli Terenzio ed altre empietà?

«Tale è in oggi la consuetudine del mondo. Essa non è speciale a questa città; e quanto più essa è diffusa, tanto più si crede d'aver diritto a conformarvisi. L'esempio la sanzjona, e l'abuso diventa una regola che si crede di poter seguire con sicurtà di coscienza. Ma chi tiene lo sguardo fisso sulla volontà di Dio, non piglia spavento alle opposizioni del mondo, e d'altra parte, attento a procurar la salute delle anime, pondera le cose con giustizia e non dà ad anime battezzate orpello per oro, né vetri per perle.

«Volete dunque salvare la vostra Repubblica? Portate tosto la scure alla radice dell'albero; sbandite dalle nostre scuole lo studio abusivo dei libri disonesti ed empi che, sotto pretesto di insegnare ai figli vostri la bella lingua latina, insegnano loro la lingua dell'inferno. Vedeteli: appena usciti di fanciullo essi si dedicano allo studio della medicina, o del diritto, o del commercio, e dimenticano ben presto quel po' di latino che hanno imparato. Ma quello che non dimenticano sono i fatti, le massime impure che hanno letto negli autori profani e che hanno imparato a memoria. Queste rimembranze restano per maniera scolpite nella loro mente, che per tutta la loro vita preferiscono di leggere e di udire cose vane ed anche le più laide che non cose utili ed oneste. Stomachi infermi che rimettono tosto ogni parola di Dio. Qui potrei esser lungo se il tempo lo richiedesse, benché la necessità lo richiegga, e sia senza dubbio uno dei principali punti questo, onde dipenda la salute dell'universo (429).

Gli Stati scrollati dai loro fondamenti, le generazioni di collegio precipitarsi nell'abisso del razionalismo, del sensualismo, dell'egoismo, della bestemmia e dell’ateismo; tutti questi mali originarsi dal commercio impuro della gioventù cristiana con gli autori pagani: tale è l'idea che ci dà dello stato morale delle classi letterate del secolo XVI un testimonio oculare e degno di tutta fede. Poteva egli dire in modo più aperto che i loro costumi erano pagani? Dopo questo quadro doloroso, esclama: «E noi che per la grazia di Gesù Cristo viviamo in mezzo alla luce del Vangelo, noi perdiamo il senno a tal punto da divenir strumenti di dannazione alle anime di cui dobbiamo essere gli angeli custodi, i tutori e le guide verso il cielo! Dopo che hanno ricevuto l'innocenza battesimale, noi metteremo per più anni pesi così gravi ai piedi di questi figli, ed impediremo in quell'età così proclive alla pietà di camminare nelle vie di Dio e della santificazione»! (430)

«Il P. Possevino, dicesi, parla degli autori pagani non purgati, e quali in origine il Risorgimento li mise nelle mani della gioventù. Ma questi autori, purgati che siano ed insegnati dagli ordini religiosi, non presentano verun pericolo: i costumi edificanti delle classi letterate nel secolo decimosettimo ne sono la prova irrepugnabile».

Nel mondo letterario, il secolo decimosettimo, è chiamato il gran secolo, il secolo di Luigi il Grande. Se esso lo meriti per ogni titolo, specialmente in ordine alla libertà ed alla politica, è questione che abbiamo esaminata nel Cesarismo. Qui non dobbiamo, occuparci che del lato morale. Sopra questo punto, ecco la testimonianza di uno degli uomini che erano in miglior condizione di conoscere a fondo le generazioni letterate di quel tempo, poiché, essendo stato uno dei principali loro educatori, fu, sino alla fine della lunga sua carriera, in contatto immediato con esse: quest’uomo è il P. Rapino, gesuita, per molti anni professore di retorica, nel collegio di Luigi il Grande a Parigi

Nella sua opera Della Fede degli ultimi secoli, pubblicata nel 1678, egli fa la seguente pittura dei costumi del gran secolo.

«Ebbevi mai, sclama egli, costumi più scorretti nella gioventù, maggior ambizione nei grandi, maggiori turpezze nei piccoli, maggiore sregolatezza negli uomini, maggior lusso e maggior mollezza nelle donne, maggior falsità nel popolo, maggior malafede in tutti gli stati ed in tutte le condizioni? Ebbevi mai minor fedeltà nei connubii, minore onestà nelle compagnie, minor pudore e modestia nella società? Il lusso delle vesti, la sontuosità dei mobili, le delicature delle mense, la superfluità delle spese, la licenza dei costumi, la curiosità mille cose sante e le altre moltissime sregolatezze della vita sono giunte ad eccessi inauditi.

«Quale corruzione d'animo nei giudizi! quale profanazione e quale prostituzione di ciò che vi è di più santo e di più augusto nell'esercizio della religione! Tutti i principii della vera pietà sono talmente rovesciati che oggidì nel commercio si preferisce un gentile scellerato che sa vivere ad un uomo dabbene che non sa; e commettere il delitto prudentemente, senza cozzar contro nessuno, chiamasi probità.... Chi non sa che in questi ultimi tempi il libertinaggio (431) si ha in conto di forza di mente fra i letterati? e quasi per la sola corruzione e per le sregolatezze uomo sale in alto e si distingue ....

«Nulla dico di quei neri ed atroci misfatti che traboccarono in questo sciagurato fine dei tempi, la cui sola idea basta a riempire l'animo d'orrore. Passo sotto silenzio tutte le abominazioni sconosciute sino al presente alla nostra nazione .... Finalmente, per esprimere in una parola il carattere di questo secolo, non si è mai tanto parlato di morale, e non vi ebbe mai meno di buoni costumi: non si è mai parlato tanto di riformazione, né mai ebbevi meno di riforma; non mai tanto di sapienza, e meno di pietà; non mai migliori predicatori, e meno di conversioni; non mai più comunioni, e meno di mutamenti di vita; non mai maggiore spirito e ragione nel gran mondo (432), e meno d'applicazione alle cose solide e gravi.

«Ecco propriamente l'immagine e la pittura dei nostri costumi e dello stato in cui è in oggi fra noi la religione. È vero che si può dire sussisterne, ancora l'esterno per l'esercizio, regolato che si fa delle cerimonie onde essa è composta; ma la religione nostra consiste forse nell'esterno, e al modo che viviamo, non siamo veri pagani in ogni cosa»? (433).

Se noi avessimo osato di fare una simile pittura del gran secolo, non si sarebbe mancato di gridare contro l'esagerazione e la calunnia. Per buona sorte noi non siamo che relatori. Non già noi, ma il P. Rapino della Compagnia di Gesù, uno degli uomini celebri del suo tempo, uno dei maestri più insigni della gioventù, il quale chiama pagane, e pagane, in ogni cosa, le generazioni aristocratiche del secolo di Luigi XIV; generazioni uscite dalle sue mani, dalle mani dei suoi confratelli e degli ordini religiosi insegnanti!

Pel secolo XVIII, ecco il P. Grou, membro esso pure distinto della Compagnia di Gesù (434): Egli, non più del P. Rapino, non è interessato a denigrare le generazioni educate esclusivamente da lui, dai suoi con fratelli, o dal clero secolare e regolare. Ora, nel suo trattato della Morale di Sant’Agostino, pubblicato nel 1780, commenta così il seguente passo del gran dottore: Questa turpitudine non aiuta ad imparare queste parole, ma queste parole fanno commettere questa turpitudine con maggiore ardimento (435).

«Sant'Agostino fa questa riflessione in proposito d'un luogo di Terenzio in cui un giovane giustifica il proprio libertinaggio coll'esempio di Giove: ed in tale occasione biasima fortemente coloro che spiegano alla gioventù gli autori profani, come Terenzio, senza veruna precauzione: allegando per motivo che vi si apprendeva a ben parlare e a divenire eloquente. Con grande ragione lo zelo di questo santo dottore si infiamma contro l'abuso di mettere nelle mani dei giovani queste opere pericolose, come se non potessero attingere ad altre fonti il linguaggio puro e l'eloquenza.

«È da stupire che lo stesso abuso sussista ancora ai nostri giorni nel cristianesimo; non già che da circa un secolo non siasi preso qualche provvedimento, per ovviarvi, ma a questo riguardo, non si è spinta l'attenzione tanto lungi quanto merita la cosa. Il che mi determina a spiegarmi qui sopra un argomento di così grande importanza. Non farò che toccarne la sostanza, perché a trattarlo pienamente ci vorrebbe un intero volume.

«La nostra educazione è tutta pagana. Non si fanno leggere ai fanciulli nei collegi (436) e nelle case che poeti, oratori e storici profani. Se ne dà loro la più alta idea; si presentano loro come i modelli più perfetti nell'arte dello scrivere, come i più grandi ingegni, come i nostri maestri. Per agevolarne l'intelligenza si entra molto innanzi nei particolari delle genealogie e delle avventure degli dei e degli eroi della favola. Si trasferiscono ad Atene, nell'antica Roma: vengono informati dei costumi, degli usi, della religione degli antichi popoli: vengono iniziati, per così dire, a tutti i misteri, a tutti i sistemi, a tutte le assurdità del paganesimo: tutto ciò è subietto di un'infinità di commenti che gli eruditi hanno composto sopra ciascun autore ...

Questo sistema di studi indebolisce lo spirito di pietà'ì nei fanciulli. Io non so qual confuso miscuglio si formi nel loro cervello delle verità del cristianesimo e delle assurdità della favola: dei veri miracoli della nostra religione e delle meraviglie ridicole narrate dai poeti; della morale del Vangelo e della morale tutta umana e tutta sensuale dei pagani. Non riflettiamo abbastanza sulle impressioni che riceve il tenero cervello dei fanciulli. Ma non dubito che la lettura degli antichi non abbia contribuito a formare, quel gran numero d'increduli che sono apparsi dopo il Risorgimento delle lettere ..., il che non sarebbe avvenuto se la gioventù non fosse stata prevenuta d'una servile ammirazione pei grandi nomi di Platone, d'Aristotele e degli altri.

«Questa educazione avvezza ancora i fanciulli a pascersi di finzioni e di menzogne piacevoli. Di che l'ardente smania per le rappresentazioni teatrali, per le novelle, per le avventure, pei romanzi, per tutto ciò che piace ai sensi, all'immaginazione, alle passioni. Di che la leggerezza, la frivolezza, l’avversione per gli studi gravi, il difetto di giudizio e di soda filosofia .... Nei collegi parimente i fanciulli prendono gusto per le opere appassionate, oscene, pericolose per ogni titolo ai costumi. Imperocchè tali sono per la maggior parte gli antichi poeti; non eccettuato Terenzio, né Virgilio.

«E qui non è che il principio del male. Questo gusto del paganesimo, acquistato nell'educazione pubblica o privata, si spande poscia nella società; mediante le belle arti ... Passate negli appartamenti dei grandi, nelle loro gallerie, nei loro giardini, nei gabinetti dei curiosi, che rappresentano la maggior parte delle statue, dei quadri, delle stampe se non soggetti e personaggi tolti dall'antichità profana? ... Le donne stesse che vogliono leggere ... imparano sin dall'infanzia la storia poetica e i fatti principali della storia greca e romana: ciò costituisce in oggi una parte essenziale della loro educazione. Per esse sono stati tradotti gli autori antichi, anche i più pericolosi; si sono composti dizionari, compendi ed altri libri a loro uso, affinché esse potessero essere pagane come gli uomini ...

«Ora, sono i letterati che, fin pei loro scritti, fin pei loro discorsi, danno le orme al loro secolo, presiedono ai giudizi e formano i costumi pubblici (437).

Quali erano, secondo il P. Grou, i costumi pubblici del secolo decimottavo, quei costumi formati, com'egli dice, dalle generazioni di collegio? Gli stessi del secolo decimosettimo, cioè costumi pagani. Adoperando, per caratterizzarli, gli stessi termini del P. Rapino suo confratello: «Che è derivato da ciò? Dice egli: non siamo idolatri, è vero; ma non siamo cristiani che in apparenza (seppure la maggior parte dei letterati oggi lo sono), e in sostanza siamo veri pagani e per lo spirito, e per il cuore, e per la condotta » (438)

Tale è la testimonianza resa da tre celebri gesuiti ai costumi dei loro propri alunni durante gli ultimi tre secoli. Davanti a questa testimonianza perentoria, noi domandiamo che cosa diventa la prima difficoltà, cui dovevamo rispondere, cioè: Che con gli autori pagani si sono formate, nei secoli XVI e XVII, generazioni perfettamente cristiane?

Rimane la seconda che consiste in dire: «Col sistema d'insegnamento che voi condannate abbiamo formato, ai giorni nostri, cattolici ferventi, un clero. esemplare, missionari eroici».

Parliamo dapprima dei cattolici ferventi che dite formati dalla classica educazione. - Senza entrare nel midollo della discussione, ci basterebbe di pregare gli avversari a rileggere le testimonianze che abbiamo. allegato. Nei secoli XVI, XVII e XVIII, in cui le famiglie erano più cristiane, le abitudini sociali più ritenute, i cattivi libri meno sparsi; in cui i maestri della gioventù erano esclusivamente preti e religiosi rispettabili, non è riuscito di formare, per confessione dei loro stessi istitutori, che generazioni pagane. Come mai il medesimo sistema applicato in assai meno favorevoli circostanze, ha prodotto eccellenti risultamenti? L'umana natura si è forse mutata in meglio? Che vi dice lo spettacolo dell'Europa? Dove sono, principalmente nelle classi letterate, questi cattolici degni dei primi secoli? Quale ne è il numero? Avete consultato le statistiche! (439) Non scambiereste per caso le apparenze per la realtà, le eccezioni per la regola, i vostri desideri per fatti?

Ma ecco un uomo del secolo; un antico militare, il quale risponde direttamente all'obiezione: ci sia permesso di qui riferire la sua lettera.

«Pochi giorni fa, ci scrive egli, mi trovava in una riunione di ecclesiastici e di laici cristiani, dove con molto calore venne agitata la questione dei classici. Uno dei vostri avversari, prendendo la parola, disse: «Siamo qui in ventisette: ciascuno si tocchi il polso e dica se lo studio degli autori pagani gli ha fatto male ». Volgendosi al suo vicino a destra: «Perché hai studiato Cornelio, Virgilio, Orazio ti senti più male? - No. - Ed al suo vicino a sinistra: E tu? - Neppur io».

«Continuando il suo appello nominale, giunge ad un giovane professore, che dà la medesima risposta e che aggiunge: «Forse che i sessantamila membri della società di San Vincenzo de' Paoli, sparsi in tutta l'Europa, non hanno fatto i loro studi con gli autori classici? E sono essi meno cristiani? Forse che i cinquantamila preti che abbiamo in Francia non hanno studiato i medesimi autori? E sono essi meno buoni? Il clero fu mai più virtuoso? Vorrei sapere quello che i partigiani del Verme roditore avrebbero a rispondere, a questi fatti perentori»

«Perdinci! gli dissi io, non è difficile, il soddisfarvi. Avete letto le opere di Monsignor Gaume, e fra queste, le prefazioni ch'egli ha premesso ai suoi classici cristiani? Se le avete lette, mi stupisco che non siate soddisfatto; e se non le avete lette, stupisco assai più che proponiate con sicurezza e che ci diate come cosa nuova un'obiezione più volte e vittoriosamente confutata. Del resto, dappoichè si è suscitata la discussione, io mi sono convinto che di cento voci che hanno parlato, ben più di novanta non sono che un eco».

«Il giovane professore dichiarò che non aveva letto le vostre opere, ma che le conosceva per relazione di persone degne di tutta fede:

«Io ho fatto come voi; ho giudicato sulle altrui relazioni. Ma finalmente ho detto a me stesso: Comandante, quello che tu fai non è leale: chi non ode che una campana non sente che un suono: e merita la galera il giudice che pronunzia senza aver udito le due parti! Perciò o tacere o istruirsi. Ho letto, e ve lo confesso, ho letto con prevenzione. Ma le squame mi sono cadute dagli occhi, ed ho l'onore di dirvi che sono un convertito ; e se ben presto non lo siete voi pure, tanto peggio!

«Voi dite adunque che i classici pagani sono senza pericolo, attesochè non hanno fatto verun male a nessuno di noi: che non c'impediscono d'avere sessantamila membri della società di San Vincenzo de' Paoli e cinquantamila preti eccellenti.

«Poiché io sono ritornato, dalla campagna di Russia con le mie quattro ossa, ho forse diritto di dire che niuno vi è rimasto? E voi stesso, signor professore, che siete qui avanti il tempo ordinario delle vacanze, perché a Marsiglia vi è il colera, avete forse il diritto di dirci: Vengo da Marsiglia e sto bene: dunque il colera non vi fa morir nessuno? Siamo qui in ventisette: qual frazione formiamo noi del numero totale dei giovani educati come noi in tutti i collegi d'Europa? Perché gli autori pagani non hanno fatto nessun male a ventisette individui, abbiamo forse diritto di concludere che non ne hanno fatto a niuno? Non già dalle eccezioni, ma dai suoi generali risultamenti vuolsi giudicare un sistema.

«Se non che, mettendomi nel novero dei ventisette, ho avuto torto: Signori, voi non siete che in ventisei, perché il ventisettesimo è stato tocco. Mi ricordo che studiando prima Quinto Curzio, poscia Virgilio e Plauto, acquistai cognizioni di cui avrei fatto senza, e che non mi hanno reso migliore, ve ne assicuro. Quante allusioni e frizzi e motti occasionati dalle rimembranze mitologiche non ho udito fra compagni, in ricreazione ed anche in scuola! Debbo aggiungere ch'io era repubblicano, che adoravo Bruto: Che di notte mi accadeva di sedermi sul mio letto e di ammantarmi da Romano! che ai miei occhi Cesare, Cicerone, Milziade, sopravanzavano di cento braccia i più grandi uomini della nostra storia. A vero dire, io non sapeva proprio quel che volessi, ma sapeva benissimo quello che non volevo. I miei più intimi amici partecipavano degli stessi miei sentimenti. Ciò dipendeva certamente dalla cattiva mia indole; ma converrebbe tener conto anche della indoli cattive. Ve ne fu in ogni tempo; ed il signor professore può egli guarentire che non ve ne sia nessuna nel suo collegio o nella sua scuola?

«Voi non conoscete, o signori, queste cattive indoli anzi tempo sospinte alla curiosità, ai piaceri dei sensi, all'orgoglio, all'incredulità, all'indisciplina, e che a tutto questo trovano un alimento nello studio assiduo degli autori pagani. Durante tutto il tempo dei vostri studi classici, sugli occhi vostri è stata posta una benda, e nulla avete veduto nei passi più pericolosi; un ghiaccio era sul vostro cuore, e nulla avete sentito alla lettura dei brani più appassionati; niun sentimento repubblicano ha scosso le fibre dell'anima vostra. Onore a voi! Voi siete ritornati sani e salvi dalla Beresina; ma non concludete perciò che nessuno vi si è sommerso».

Non avevo ancor terminato che il giovane professore soggiunse: «Ne siamo però ritornati in numerosa compagnia, come possono testificare i sessantamila giovani che formano oggi la nostra ammirabile società di San Vincenzo de' Paoli».

«La risposta è la stessa, ripigliai io subito. Sessantamila sopra parecchi milioni, la è sempre una piccola frazione. E poi, sapete voi se all'uscir di collegio, la metà e forse anche più, di questi sessantamila giovani, sparsi per tutta l'Europa, non hanno dovuto, prima di giungere al cristianesimo, descrivere un'assai lunga curva? Questi sessantamila giovani vi hanno detto se in virtù dei loro studi classici sono rimasti o sono divenuti cristiani? Quello che mi sembra vero si è che gli autori pagani sono così poco idonei, non dico a disporre i membri della società di San Vincenzo de' Paoli, ma a formarci semplicemente alla vita religiosa e sociale, che entrando nel mondo siamo obbligati di dimenticare diciannove ventesimi di quello che abbiamo imparato, sotto pena, se volessimo metterlo in pratica, di essere goffissimi personaggi, tristi cittadini e cattivissimi cristiani.

«Or bene! tale è il sistema seguito da parecchi secoli Non ne addurrò che una prova, e questa posso guarentirvela, perché l'ho l’ho veduta coi miei occhi; ed è l'epoca del 1793. Date un colpo di spada alla rivoluzione francese, e ne vedrete uscir tutta viva l’antichità pagana. La Francia letterata del 1789 era gravida di Roma e di Sparta; essa partorì nel 1790; e il 1790 ha prodotto tutte le rivoluzioni che vediamo scoppiare intorno a noi. Se vi piace di vederne di nuove, e di legarne ai vostri discendenti, continuate ad insegnare come hanno insegnato i vostri padri; il loglio produrre sempre il loglio: io mi attengo a questo fatto perentorio».

In tal guisa, lo diciamo a malincuore, gli uomini del secolo, guidati dal semplice buon senso, fanno giustizia delle accuse d'esagerazioni; d'utopie temerarie, che certi membri del clero secolare e regolare; schiavi ostinati di preconcetto sistema, non arrossiscono di gettarci in viso, senza aver letto i nostri libri! Et inimici hominis domestici ejus.

Veniamo alla seconda, parte dell'obiezione relativa al clero. Noi non negheremo l'omaggio reso alla dottrina e alle virtù del corpo rispettabile, di cui facciamo parte. Se non che si tratta di sapere: 1° a chi ad a che il clero attuale è debitore delle sue virtù: se ai suoi studi classici, o alla grazia di Dio, alla sua vita povera e laboriosa, al suo allontanamento dal mondo ed alla necessità in cui è di vigilare più che mai sopra sé stesso: 2° Se sarebbe meno buono, meno dotto, meno idoneo alle opere del santo ministero: l'orazione, la predicazione, il catechismo, la confessione: se il sentimento cattolico e sacerdotale sarebbe meno sviluppato in lui, supponendo che nei preziosi anni della sua giovinezza ei fosse stato nutrito della sacra Scrittura, dei Padri della Chiesa, dei grandi dottori e scrittori del cristianesimo, degli atti dei martiri, invece di esserlo delle favole pagane, delle avventure degli dei e delle dee, delle imprese più o meno grandi dei Greci e dei Romani.

Del resto, per conoscere l'influenza naturale degli studi pagani sul clero, risaliamo ad un altro tempo: più agevolmente potremo esaminare la questione. «Il prete, dice Pietro di Blois, che si occupa delle frivolezze e delle menzogne che offrono gli idoli pagani, invece di essere un modello di virtù ed uno specchio d'onestà, non sarà per molti giovani che una pericolosa insidia. - Che possono essere per un araldo della verità gli amori favolosi dei falsi iddii? Quale stoltezza il cantare Ercole e Giove, e il tacere di Dio che è la via, la verità e la vita? Quale stolidezza l'occuparsi sino nella vecchiaia dei mendaci racconti dei pagani, dei sogni dei filosofi, dei nodi del diritto civile, e ritrarsi dallo studio della teologia? In tal guisa forse si restituisce con usura a Dio il talento che ci ha confidato? Il prete, che è lo sposo del Signore, debba fuggire gl'impudichi abbracciamenti della sapienza mondana; ed avvicinarsi alla casta e pacifica sapienza che discende dal cielo, ecc. » (440) Per non moltiplicare le citazioni, passiamo al secolo XVII. Nel 1699, un venerabile prete, dottore in teologia, ha trattato questo punto.

«Gli studi profani, dice egli, cagionano al clero una specie di male dal lato del gusto e dello spirito: essi gli ispirano disprezzo per lo stile semplice della Scrittura: tanto queste lettere umane sono capaci di corrompere, anzi che si possa vantarne l'utilità. Un tempo si è veduto un vescovo, Teodoro di Trica, amar meglio di lasciarsi deporre che di condannare il suo libro degli Amori di Teagene e di Cariclea. Quasi ai giorni nostri un altro vescovo, Torrent, vescovo d'Anversa, è morto dando un’ultima mano ad un lungo e laborioso commentario sopra Orazio, nella guisa stessa che i Padri morivano terminando o continuando le loro opere sulla Scrittura. Che è mai che ha ispirato loro una condotta sì bizzarra e sì piena di scandalo? La passione per le invenzioni e per l'erudizione profana.

«Lasciando stare l'ingegno, vediamo lo stesso disordine nella maggior parte degli ecclesiastici che si vantano di qualche dottrina. E sono umanisti, poeti, antiquari. Vi recitano a memoria non so quanti bei pezzi dei migliori autori pagani. Hanno fatto studio profondo della favola e della vana mitologia. Ma per quello che riguarda la Scrittura e la tradizione, parlatene loro, se volete, e vi faranno grazia ad ascoltarvi. La spiegazione d'un luogo difficile di Virgilio o di Cicerone, l’accordo di alcuni punti della storia greca, certe riflessioni sopra alcune ruine antiche ultimamente scoperte, una medaglia, un motto, una frase elegante, diletti di spiriti vani, è tutto ciò che loro piace, tutto ciò che li occupa (441)».

«Nondimeno, continua il grave dottore, questo divorzio pieno ed intero, quest’oblivione perfetta in cui vivono riguardo alle scienze sacre è senza paragone assai meglio che non quel miscuglio di alcuni altri, che con la stessa bocca soffiano la santità e la corruzione ... Non è cosa deplorabile che, sotto pretesto di mettere d'accordo la fede con la ragione, si trovino alcuni che provano la verità mediante la favola, difendono i più adorabili misteri con le sozzure dei falsi iddii; stabiliscono (orribile a pensarsi!) la possibilità dell'incarnazione mediante la discesa di Giove in pioggia d'oro nei seno di Danae? Se questo nuovo genere di educazione cristiana si fosse mostrato ai tempi di Sant'Agostino, lo si sarebbe udito tuonare con queste o simili parole, dall’Africa sino nelle Gallie: Oh cosa degna veramente delle veglie e degli studi d'un vescovo»! (442)

Dopo aver dimostrato che la filosofia naturale, curiosa, indiscreta, incredula, che suscita mille questioni sui misteri, e pretende di comporre un cristianesimo razionale è derivata, nel clero, dagli studi profani e dal Risorgimento, il dottore così parla dell’eloquenza sacra venuta dalla stessa fonte: «Il mondo è inondato da certi predicatori.., che non si saprebbe dire che cosa studino... Satiri austeri che parlano di Cupido in pulpito. Uomini che a vecchie ciarpe cuciscono alcuni buoni o cattivi brandelli morali dei libri nuovi. Predicatori per rapsodie e per fede­commessi: zingari nelle vesti in cui nulla è bene assortito .... L'uomo vorrà operar sempre umanamente nelle opere di Dio. Per qual motivo veggonsi così pochi effetti dello spirito e della virtù di Dio dopo tante predicazioni, se non perché v'ha troppa parte la sapienza e l'eloquenza umana, e troppo poca la preghiera e l'umiltà. Laonde non si dovrebbe veder nessuno in pulpito che non avesse attentamente meditato la Scrittura ed i Padri, che non vi fosse versato, che non ne fosse pieno. Soltanto agli Abrami spetta il salire sul monte pel sacrificio: essi soli possono condurvi Isacco per immolarlo, portarvi la fede e la religione per ammaestrarlo.

«Tutte queste considerazioni in ordine alle lettere umane non riguardano che l’intellelto. Se ne potrebbe far anche d'importantissime per la parte del cuore. La filosofia ispira naturalmente l'orgoglio e la presunzione. L'eloquenza fa perdere l'umiltà con la sua pompa. Difficilmente si rimane casti studiando i poeti. E per parlare anche delle virtù dipinte da questi letterati, che cosa sono esse mai, se non vive e fine immagini di cupidigia le quali, rimovendo ciò che le passioni ed i vizi hanno di più ributtante, non servono che a meglio sorprendere e a meglio corrompere con più delicate insidie? Perciò i Padri chiamano questa bella moralità dei pagani un mele che occulta il veleno (443)».

In conclusione, ignoranza ed anche nausea della sacra Scrittura, dei Padri della Chiesa e delle scienze ecclesiastiche; amor ridicolo dell'antichità pagana e delle letture frivole; pretensione di comporre in pulpito un cristianesimo razionale; cattivo gusto; oblio della vera predicazione evangelica; sterilità della parola; orgoglio della ragione e gravi pericoli pei costumi: tali sono, a giudizio del prudente teologo, i benefizi che il clero del secolo di Luigi XIV, in un gran numero dei suoi membri aveva tratto, dagli studi pagani. A sostegno della sua asserzione, il dottore cita fatti terribili e non li cita tutti.

Anche noi ammettiamo che nulla di tutto questo ha luogo ai nostri giorni; il clero attuale ha un gusto ben dichiarato per la sacra Scrittura, pei Padri della Chiesa, per la teologia, per l'ascetica; si dedica con ardore e con perseveranza allo studio di queste scienze fondamentali; i suoi catechismi, le sue omelie, i suoi sermoni, nutriti della tradizione, ricordano la nobile ed eloquente semplicità della predicazione evangelica, e presentano, al popolo cristiano alimenti sostanziali; il pulpito non diventa mai una tribuna; di là scende sempre la parola di Dio, non mai la parola dell'uomo né i ragionamenti dell'umana saggezza; perciò la predicazione è feconda di consolazioni. Sotto questi riguardi e sotto altri ancora il clero attuale è degno di ogni encomio; non lo neghiamo.

Ciò non ostante si può accettare la presentazione di cinquantamila preti francesi come un'aplologia viva degli studi classici? Non lo crediamo.

Per ragionare giustamente, vi ha molte cose essenziali di cui s'avrebbe da tener conto e che si dimenticano.

Si dimentica che il clero attuale viene arruolato in generale nelle campagne e nelle famiglie estranee al greco ed al latino; mentre le classi rese pagane dall'educazione danno appena qualcheduno dei loro figli alla tribù santa.

Si dimentica che durante i primi trent'anni di questo secolo il Clero ha studiato poco le lettere pagane, e che queste non hanno potuto esercitare su di lui la stessa influenza come sopra i suoi antecessori.

Si dimentica che il clero riceve due educazioni: quella del piccolo seminario o del collegio, e quella del gran seminario, e che questa modifica necessariamente quella.

Si dimentica che il clero pel suo stato è in obbligo di dedicarsi abitualmente a studi cristiani, i quali colmano sino ad un certo segno il vuoto degli studi classici.

Si dimentica che il clero vive separato dal mondo ed in mezzo alle cose sante, obbligato a combattere tuttodì il paganesimo intellettuale, morale, pubblico e privato: salutari condizioni che mantengano in lui, che fortificano, quasi lui insciente, il sentimento cristiano, ed a attutiscono la funesta influenza, dello spirito contrario.

Si dimentica finalmente che cinquantamila sopra parecchi milioni è una piccola frazione. Ora, non dalle eccezioni, ma dai generali risultamenti vuolsi giudicare un sistema. Perciocché un soldato è ritornato sano e salvo dalla Russia o dalla Crimea, avrà diritto di dire che non vi è rimasto nessuno? Voi ritornate sano e salvo da una città devastata dal colera: avete perciò il diritto di dire: il flagello non vi fa morire nessuno?

Il vero è che il clero, ammettendo senza restrizione le lodi che di lui si fanno, è in condizioni eccezionali, e che non forma che una piccolissima frazione della gioventù letterata: il clero adunque non è un'obbiezione.

Per avere un soggetto vero di esperimento, è d’uopo prendere i giovani posti nelle condizioni ordinarie della vita, e che altra educazione non hanno ricevuto che la classica.

Se da tre secoli queste generazioni laiche sono state nel loro complesso, se sono ancora generazioni veramente cristiane di costumi o di credenze, avrete provato vittoriosamente che gli studi pagani sono innocui, o almeno che l'influenza disastrosa che ad essi s'imputa non è da calcolarsi; se, oltre a ciò, voi dimostrate che queste generazioni furono e sono cristiane, non già sebbene, ma perché hanno fatto gli studi classici, cioè che in tutto o in parte debbono al loro commercio coi pagani la purezza dei loro costumi, l'integrità della fede, la solidità del giudizio, l'elevatezza della ragione, la fermezza del senno, lo spirito nazionale, il rispetto dell'autorità, l'amor dell'ordine, la loro intelligenza della vita reale, avrete per sempre confuso l'autore ed i fautori del verme roditore; se no, no.



FINE DELLA PARTE SETTIMA E DEL VOLUME QUINTO





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Note



1 Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, lib. I. Edizione di Milano 1850, vol. I, pag. 320.

2 Disc. Lib II, pref.

3 Id. ibid.

4 Id., lib. I, cap. I.

5 Id., ibid., cap. IV.

6 Prov 16, 14; Is 60, 12

7 Disc., lib. II, cap. III.

8 Il capitolo in cui Machiavelli esibisce il primo suo mezzo d'ingrandimento reca quest'epigrafe, che rivela tutto il pensiero del maestro:

Crescit interea Roma Albae ruinis.

9 Disc., lib. I, cap. XIII.

10 Disc., lib. III, cap. III.

11 Disc., lib. III, cap. III.

12 Id., ibid., cap. IV.

13 Il Principe, cap. VIII.

14 Id cap. V

15 Disc. lib. I, cap. XII.

16 Id., ibid. cap. XIV.

17 Id. ibid., cap. XII.

18 Id., ibid.

19 Ciò prova che Machiavelli ha onninamente perduto il sentimento cristiano. Ecco quello che si guadagna a studiar politica alla scuola della bella antichità!

20 Disc., lib. I, cap. XII.

21 Il Principe, cap. XXVI.

22 Se il sedicesimo secolo era già propizio per la liberazione dell'Italia, come volete che Mazzini non trovi il secolo diciannovesimo ancor più favorevole?

23 Sono queste, come ognuno può ben ricordare, le proprie parole di Carlo Alberto: L’Italia farà da sé.

24 Esame, p. 1

25 Il Principe, cap. XIV.

26 In altre nostre opere ne abbiamo citato alcuni; altri ancora ne nomineremo negli ultimi volumi di quest'opera.

27 Esame, c. III.

28 Trad. Di Tacito, Disc. Prelim., p. 135 e seg.

29 Del Principe, cap. XVIII.

30 Id., ibid., p. 285.,

31 «Io non mi voleva partire dagli esempi italiani e freschi; pure non voglio lasciare, indietro Jerome siracusano ... Costui ... fatto dai Siracusani capo degli eserciti, conobbe subito quella milizia mercenaria non essere utile, per essere i condottieri fatti come i nostri italiani, e parendogli non li poter tenere né lasciare, li fece tutti tagliare a pezzi». Il Principe, cap, XIII.

32 Esame, p. 19.

33 L'epistolario di Machiavelli coll'ambasciadore fiorentino Vettori rivela a questo proposito singolari ma tristi particolarità. Si possono vedere in Matter, p. 104, e nel Machiavelli del signor Artaud, t. I, p. 245.

34 Doctr. cur. Del P. Garasse, p. 50.

35 Ristampata nelle edizioni di Ginevra, 1583, e di Leida, 1643.

36. P. 2, 14. - E la santa scrittura e i Padri della Chiesa?

37 P. 22.

38 Id., ibid. - In ciò consiste tutto il sistema moderno delle maggioranze che, troppo spesso, non è altro che quello della forza numerica.

39 Veggasi nel primo volume il capitolo del Regicidio.

40 P. 64

41 Id. ibid.

42 Dopo quel che precede, ciò è veramente gustoso!

43 Id. p. 64.

44 Nazione belga, 15-9-1852

45 Veggansi tutti i giornali dal 3 al 14 novembre 1852.

46 Al momento, in cui scriviamo queste parole, un uomo ragguardevole ci fa, accanto al fuoco, la seguente rivelazione: «Le mie opere poetiche si riducono a quattro versi. Li composi quand'ero in collegio in onore di .... LOUVEL! Né crediate ch'io fossi più democratico d'un altro: No, tutti i miei compagni pensavano come me: ammiratori di Bruto, eravamo persuasi fosse cosa gloriosa l'imitarlo».

47 Veggansi la Memorie di Nicéron, art. Bodino.

48 De abditis rerum arcanis colloquium heptaplomeron libris sex digestum. Dal solo titolo sentesi l’odore del Risorgimento.

49 L'intimità di Bodino con gli ebrei può spiegarsi pel suo amore della cabala e delle scienze occulte. Il suo Trattato dei sortilegi è un libro singolare che mostra viepiù che un gran numero di celebri Risorgenti hanno finito col cadere nella demonolatria.

50 De Repub., p. 3.

51 Lib. I, c. XVIII.

52 Id., ibid.

53 Id. p. 17.

54 Terrasson, Storia della giurisprudenza, ecc., p. 493.

55 Id., p. 444.

56 Nel concetto di questi naturalisti il diritto cristiano è come non avvenuto, la sociale autorità della Chiesa non conta nulla. Così Grozio (il cui libro De jure belli et pacis, è dannato dalla Chiesa) dopo aver detto che i re sono i pastori del gregge del Signore, ed anche i pastori supremi, cioè papi, riguarda come strano il rimprovero falto all'Inghilterra d'aver rimesso nelle mani dei suoi re e delle sue regine il sovrano potere religioso e sociale: « Nihil causae fuit cur Anglis quibusdam scriptoribus acerbe exprobrantur quod spiritualem quamdam potestatem regi tribuissent». De imperio summ. potestat. circa sacra, c. II, p. 38. E questo medesimo Grozio nega alla Chiesa cattolica l'infallibilità ed ogni potere coattivo! Id., ibid., p. 117.

Puffendorfio, formato alla scuola di Grozio, riduce la religione ad alcune grandi verità, l'unità di Dio, la Provvidenza, e dice che i principi possono punire i bestemmiatori, gl'idolatri e i demonolatri; ma riguardo a tutto il resto, i principi debbono essere indifferenti. «Le potestà civili, dice egli, non hanno interesse ad impedire che si usino cerimonie diverse nella religione (si intende bene quello ch'egli vuol dire); similmente poco importare che coloro i quali vivono sotto il loro dominio siano divisi in contrarie opinioni in ordine alle materie fisiche ». Trattato della religione cristiana riguardo alla vita civile, art. VII.

57 Vit., p. 104.

58 Vit., p. 33.

59 Vit., pag. 45.

60 Id., pag. 62.

61 Reges omnes de genere esse bestiarum rapacium ...

62 Homo homini lupus. Prefazione, p. 1, edizione in-4, 1668.

63 De inv., 1.

64 Peccato! Orazio certamente li avrebbe celebrati coi suoi versi che noi avremmo imparato a memoria.

65 Serm., lib. I; Sat., lib. III.)

66 Il protestantesimo comparato, ecc. t. III, p. 395, Balmès avrebbe potuto aggiungere anche Voltaire, il quale discorre così: «Che la natura umana per una lunga serie di secoli sia stata sepolta in quello stato che tanto si avvicina a quello degli animali bruti, e che sotto molti rispetti gli è inferiore, questo non è che troppo vero». Saggio sui costumi, t. I, p. 255,

67 Lib. I, n. 8, p. 57.

68 De Cive, c. XII, n. 8, p. 86.

69 De Cive, c. XIII, p. 91.

70 Id., lib. XII.

71 Lib. XII, n. 7, p. 86;

lib. VIII, art. 5; lib. XII, n. 8, p. 86.

72 De cive, c. VI, n. 11, p. 43.

73 De cive, c. VI, n. 11, p. 43.

74 Id., c. XV, n. 16, p. 120.

75 De cive, c. XVII, p. 145; Id., c. XIIII, n. 13, p. 172.

76 Idem, ibi.

77 De cive, c. XV p. 121; c. XVII, p. 159-161.

78 Vit., p. 112.

79 Vit. Grav., .auct. Gotfrid., Mascov., p. XIX; Biblioteca antica e moderna, di Leclerc, t. IX, art. 6.

80 De ortu et progressu juris civilis, c. XV. Fra breve faremo l'analisi di quest'opera di Gravina.

81 Vit., p. XIX.

82 Id., ubi supra.

83 Memorie per servire alla vita di Voltaire, p. 107.

84 Pro legibus Arcadum, t. I, p. 129.

85 Pro legibus Arcadum, t. I, p. 129.

86 De restauratione studiorum. Id. ibi, p. 132 - Ciò prova ancor più che nel medio evo non si studiarono o assai poco gli autori pagani.

87 De restauratione studiorum, p. 149.

88 De restauratione studiorum, p. 179.

89 Vit., p. XX.

90 De ortu et progressu juris civilis.

91 Id., c. CIV, p. 60 e seg.

92 De ortu et progressu juris civilis, c. CXLI, p. 78.

93 Epist. lib. II. - Nel tempo stesso il diritto romano si stabilì in una parte della Germania, presso al diritto sassone. L'Ungheria resistette. - Terrasson, p. 443.

94 De imperio Romano liber singularis.

95 Biblioteca antica e moderna, t. IX, art. V; Giornale letterario, t. I, p. 102.

96 Societatem omnium gentium aequa juris ac civitatis communione contractam, c. II, p. 4.

97 C. II, p. 4.

98 Annot. in c. II.

99 Contra donationis, quae Constantini dicitur, privilegium, ut falso creditum est et emenitum declamatio.

100 C. XXXIX, p. 44.

101 Idem., p. 54.

102 Orat. de jurisprud. ad suos juris civilis auditores, id., op. t. II, p. 85 e 86; id., De repetundis fontibus doctrinar., p. 108.

103 Pater insignem ad deformitatem puerum cito necato. - Leg. XII Tab.

104 Orat. ad Magn. moschorum reg. - Id., p. 82

105 Id., ibid.

106 Indeque te Trajano meliorem et feliciorem Augusto praedicaremus. - Id., p. 85.

107 La vista di tante ruine strappa ad uno scrittore moderno le parole seguenti: «Confesserò, dice il signor di Rémusat, che la società moderna, e principalmente la società francese, è penetrata dallo spirito dell'antichità; il fondamento di queste idee le è stato dato dalla letteratura classica». (De Rémusat, Rivista dei due mondi, 1855). - «Le nostre idee moderne, soggiunge un altro, sono il riflesso delle idee della Grecia e di Roma». (Renan, id. ibid.)

108 Storia della giurisprudenza romana, p. 444.

109 Id. ibid.

110 Studi sulla riforma, p. 90.

111«Alla morte d'Elisabetta, l'Inghilterra fu in grande pericolo di perdere la propria costituzione. Lo studio generale degli autori greci e latini, aveva introdotto un nuovo sistema di diritto politico, e la diffusione delle cognizioni classiche aveva preparato le classi superiori della società a nuovi metodi d'amministrazione - Lord Giovanni Russel, Saggio sulla Costituzione inglese, 1821.

«Se l'Inghilterra non è oggidì il paese più dispoticamente governato, ne va debitrice ad un'avventurata incongruenza. Quanto essa ha di franchigie, lo riconosce dal medio evo; quanto ha di assolutismo le viene dal Risorgimento pagano. Ecco l'idea che i giuristi pagani di quel paese danno del regio potere. In un'opera di Blackstone; Commentarii sopra le leggi dell'Inghilterra, si legge: «Il re non può mal fare. The King can do no wring ... La legge attribuisce al re nella sua capacità politica una perfezione assoluta .... Il re non solo è incapace di mal fare, ma anche di mal pensare. Non può mai far nulla d'improprio, e in lui non vi ha né difetto né debolezza .... In giustizia non è mai obbligato a veruna cosa. ... I giuristi lo chiamano il vicario di Dio sulla terra, vicarius Dei in terra; Bacone, Deaster qui dalm, una specie di piccol dio, Pope, rivolgendosi alla regina della Gran Bretagna, le dice: «Tu, dea, in cui l'isola di Bretagna adora». Anche oggidì vedesi la regina d'Inghilterra farsi rappresentare sulle sue monete come la dea dei mari, tenendo un tridente pagano in mano. - Il. Cattolicismo travestito dai suoi nemici, del dottor Newman,

112 Discorso, ecc., contro Machiavelli, p. 8.

113 Veggasi l'Ordinanza del re, ecc., anno 1629; e Mably, Osservazioni sulla storia di Francia, t. VIII, p, 192.

114 Esame del Principe, c. IV.

115 Osservazioni sulla storia di Francia, Id., ibid.

116 Economie regie, t. I, c. XIV.

117 Storia dell’Accademia francese, articolo Dismarets, ecc.

118 Annali politici, t. I, p. 61-63. Edizione 1757.

119 Id., p. 59

120 Lo faremo vedere in uno dei prossimi volumi.

121 Annali politici, t. I, p. 69.

122 Prefazione, p. II.

123 Savaron, Della sovranità del re, p. 1, edizione in-12, 1620.

124 Politica sacra, lib. IV, art. 1 e 2.

125 Mem. ed istruz. pel Delfino, t. II, p. 336, edizione 1816; t. I, p. 174; t. II, p. 420; t. I, p. 18.

126 Veggasi il testo di questo ordine nel Boll. archeol., ecc., t. II, p. 319.

127 Annali politici, ecc., p. 427.

128 Del libero allodio, c. VII.

129 Mem. ed istruz. pel Delfino, t. II, p. 95 e 121, edizione dell'anno 1806.

130 De jure, n. VII.

131 Storia universale della Chiesa, t. II, c. XXIV; e Interessi del Cattolicismo, del conte di Montalembert.

132 Veggasi Lemontey, Monarchia di Luigi XIV, documenti giustificativi, p. 210; e Storia della Chiesa, t. XXV, p. 356, prima edizione.

133 Lettere di Sobieski, p. 23.

134 Degl'interessi cattolici; ecc.

135 Storia della Chiesa, t. XXV, p. 543.

136 Istruzioni pel Delfino, t. I, p. 66-68.

137 Id., t. II, p. 203.

138 Istruzioni, ecc., p. 5, in-12, Aja, 1700.

139 Storia delle dottrine, ecc., pag. 10 e 109.

140 Chi ha veduto?

141 Memorie del clero, ecc., t. I, p. 236, edizione in-4.

142 Memorie del clero, t. I, p. 578.

143 Pag. 26 e seg.

144 Annali politici, p. 21.

145 Anche quelli di Bossuet!

146 Decreti dei parlamenti, 1682, 1633; 1514, 1558, 1545, 1557, 1595, 1614, 1496, 1531, 1542, 1547, 1548, 1559, 1556, 1590, 1603, 1611, 1668, ecc. Veggansi anche Tournet, Louet, Papon, Augeard, ecc. ecc. E poiché il Cesarismo è sempre il medesimo, il Piemonte rinnova ora la stessa giurisprudenza. - Veggasi la circolare ministeriale del 9 giugno 1856.

147 Veggasi Memorie del clero, e Storia della Chiesa, t. XXV, p. 212

148 Un sentimento pagano entrava a far parte dell’idea che la Francia si faceva dell'autorità regia di Luigi XIV: Non è più la monarchia cristiana protettrice del diritto, e sottomessavi essa medesima, ma è la monarchia divenuta superiore a tutto, e regolatrice di tutto per la sovrana sua volontà. Ci sembra di assai cattivo gusto il vedere Luigi XIV rappresentato da imperatore romano: ora l'anacronismo non è forse che apparente. I nostri re si fondano sulla dottrina pagana: i giuristi fabbricano loro titoli. È impossibile il qualificare in altro modo le alterazioni a cui contorsero i precedenti storici all'uopo della loro tesi. Nulla non è meno provato dell'usurpazione dei signori sull’autorilà reale: la quale usurpatione, a della dei difensori del regio potere, avrebbe trasformato tutto il medio evo in una lunga anarchia. Oimè! la monarchia della casa di Borbone non ha vissuto che 150 anni! Sembra dunque che la pompa esteriore e la regolarità apparente della monarchia assoluta nascondano più di debolezza reale della monarchia feudale.

149 Memorie del clero, t. IV; p. 455; in-4.

150 Collez. dei processi verbali, ecc., t. V, p. 562.

151 Bossuet, t. VII, p. 199, 208, edizione di Versaglia.

152 Storia universale della Chiesa, t. XXVI, p. 216.

153 Della Chiesa gallicana, p. 294.

154 Storia di Bossuet, lib. IV, p. 203.

155 Nuovi opuscoli, p. 171, 173, 182.

156 Lettera di Bossuet, 1702; Opere; t. VII, p. 416-419.

157 Eccetto nel paganesimo

158 Storia della rivoluzione francese, p. 252.

159 Monitore, 3 dicembre 1792.

160 Difesa della storia delle variazioni, n. 35.

161 Id., t. XXII, p. 586.

162 «Il potere intermedio subordinato più naturale, dice Montesquieu, è quello della nobiltà. Essa fa parte in certo modo dell'essenza della monarchia, la cui massima fondamentale è: Non monarca, non nobiltà; non nobiltà, non monarca, ma si ha un despota. Abolite in una monarchia le prerogative dei signori, del clero, della nobiltà, delle città, avrete ben presto uno stato popolare, oppure uno stato dispotico». - Spirito delle leggi, lib. II, c. IV.

163«In tutte le memorie dettate, scritte o rivedute da Luigi XIV, non gli accade mai di citare alcune autorità del passato, di qualunque natura esso sia. Tutto nella nuova monarchia testifica che il re era stato un novatore, ed avrei detto più giustamente un rivoluzionario, senza la significazione troppo speciale che ha ricevuto questa parola nei tempi in cui viviamo. Questa monarchia fu pura ed assoluta; essa posò tutta nell'autorità regia, e questa nel re. Il re si confuse con la Divinità, ed ebbe diritto com'essa ad una cieca obbedienza». Monarchia di Luigi XIV, pag. 11 e 12. - Opporre l'antico reggimento alla rivoluzione è un equivoco. Il reggimento nato dal Risorgimento e svolto da Luigi XIV e Luigi XIV non è l'antico, ma il moderno.

164 Fabry, Genio della rivoluzione, ecc. t. I, p. 305.

165 Veggasi Danjou, Del paganesimo nella società, p. 52.

166 Giovanni Nicola di Honthéim, vescovo di Miriofite in partibus, suffraganeo dell'arcivescovo di Treveri, e conosciuto sotto il pseudonimo di Febronio, il cui libro è ancora il manuale dei giuseppisti di Alemagna.

167 Veggasi fra le altre, le Opere di d’Aguesseau, di Dumoulin, ecc. ecc.

168 Di Broglio nella Rivista dei due mondi.

169 Del parlamentarismo, p. 10.

170 Veggasi fra gli altri l’Armonia, 5 novembre.

171 Nel 1856 il governo prussiano si esprime così:

Un certo numero di traduzioni teatrali frivole, oscene, d’origine francese, sono state trapiantate sui teatri tedeschi, mediante un’imitazione più o meno fedele. Queste produzioni in cui si mette in scena il dissolvimento dei principii della vita coniugale e della famiglia, quei costumi leggeri, quelle pericolose descrizioni non possono che rendere ottuso il senso morale e pervertirlo, ecc. ». – Rescritto del 23 ottobre 1856.

172 Matter, Storia delle dottrine morali e politiche degli ultimi tre secoli, t. I.

173 Id. ibid.

174 Opp. Luth., t. II; Coll. mens., p. 81.

175 Gustavo Pfizer, Vita di Lutero.

176 Melanchton, Vit. Luth., Opp. Luth., t. II, praefat.

177 Melanchthon, ubi supra. 178 Mss. bib. Jenae, 17 dic., Spalatino, et Seckendorf, l. c., p. 121.

179 Storia della Chiesa, t. XXIII, p. 13.

180 Walch., t. I, p. 79; Cuchlaeus, In act. Luth., fol. 2; Melanchthon, Vit. Luth., p. 6, ecc.

181 Tisch-Reden, p. 352.

182 Veggasi Audino, Vita di Lutero, t. I, p. 57.

183 Erasm., Epist., ep. XCIX, lib. 31, ecc.

184 Veggasi Tisch-Reden, p. 159.

185 Pfizer, Vita di Lutero.

186 Audin, Id., t. I, p. 32

187 Ranke, Storia del papato nel secolo XVI.

188 Audin, Vita di Lutero, t. I, p. 33

189 Pfizer, Vita di Lutero.

190 Walch., t. I, p. 4-5; Lutero, Ep., t. I, p. 10.

191 Walch., t. I, p. 15

192 Il complimento è lusinghiero per la Germania; se non che è più che irrepugnabile.

193 Audin ne omette e dei migliori.

194 Audin, Vita di Lutero, introduzione, p. XXIII e seg.

195 Dopo quanto procede, ciò è troppo assoluto; i papi non abbracciarono mai la filosofia di Platone in ciò che essa ha di erroneo.

196 Audin, Vita di Lutero, introduzione, p. XXI.

197 Id. ibid., p. XXIII.

198 Hist, phil. Period. III, pars 1, lib. III, c. 1, p. 79, in-4.

199 Hist. phil., pars I, lib.III, c. I, p. 70.

200 Hist. phil., pars I, lib. III, c. I, p. 87.

201 Brucker, p. 81.

202 Credevo che fosse il cristianesimo quello che libera le anime! Veritas liberavit vos.

203 Audin, Vita di Lutero, introduzione, p. XXVII.

204 Id., ibid., p. XXIX.

205 Ecco il giudizio che un autore protestante reca di questo fatto strano: «Precedentemente, dice Ranke, la religione contribuiva quanto l'arte ad ispirare le opere dei pittori e degli statuarii: Ma subito che l'arte è stata toccata dal soffio nell’antichità, essa si è liberata dai vincoli della religione … Non era forse un sintomo significantissimo il vedere persino un papa, Giulio II, intraprendere la demolizione dell'antica basilica di San Pietro, la metropoli della cristianità, le cui parti tutte erano santificate, in cui erano riuniti i monumenti della venerazione di tanti secoli, e voler sostituirvi un tempio nello stile dell'antichità? … Molti cardinali protestarono: sembra anche che si fosse manifestata una disapprovazione ancor più generale. Ma Giulio II non era avvezzo ad arretrarsi al cospetto dell'opposizione. Procedendo avanti, fece demolire l'antica chiesa, e pose egli stesso la pietra fondamentale della nuova». - Storia del papato, t. I, p. 77, ediz. in-8, 1848.

206 Id., pag. 97.

207 Id., ibid.

208 Ep. ad Jodoc., ap. Brucker, pag. 95. Edizione in-4.

209 Brucker, p. 98; Seckendorf, Storia di Lutero, p. 103.

210 Id., ibid., Teissier, Elogi dei dotti, t. I, p. 7. ­ Brucher, p. 92-93.

211 Ap. Emser.,. Lipsiae 1520.

212 Tisch-Reden, p. 352.

213 Id., p. 370.

214 Id., p. 557-559

215 Veggasi Audin, Vita di Lutero; t. I, pref. II e III.

216 An. 1023. In Vit. Adrian. VI, p. 490, in-4.

217 Eobano Hesso ep. 29 marzo 1525.

218 Alberti Pii, Carporum comitis, ad Erasm. Responsio, p. 70, in-4. Roma 1526.

219 Nicol. Gerbellin, 1-11-1521

220 Menzel, t. I, p. 425.

221 Pfizer, Vita di Lutero, p. 156.

222 Ap. Grelser, Lutero acad. In cap. IX, Isaiae, t. IV, et in X Genes.

223 Studi sui Riformatori, p. 233.

224 Id., p. 234-236

225 Osvaldo Miconio, Biografia di Zuinglio. - Veggasi anche, Chauffour, pag. 239.

226 Id. ibid.

227 Leo Juda, prefazione alle note di Zuinglio sul nuovo Testamento.

228 Zuinglio, Opere, t. III, p. 450.

229 E il Vangelo non l'aveva dunque fornito!

230 Opere, p. 244 e seg.

231 Prefazione alle opere di Pindaro, Opere, t. IV, p.160 e seg. - La Vita di Pindaro e l'analisi delle sue opere ci diranno quello che si deve pensare del giudizio di Zuinglio.

232 Opere, t. I, p. 198.

233 Id., p. 254.

234 Storia della Chiesa, ecc. – A detta del protestante Melchiorre Adam, Zuinglio, divenuto re e papa di Zurigo, non ostante le sue cure, non abbandonò mai lo studio appassionato degli autori pagani. – Vit. erudit., due volumi in foglio, p. 15, Vit. Zuingli.

235 Opere, p. 268-69.

236 Lettera del 1590.

237 De Providentia, IV, pag. 86, 90; In Genesim, V, pag. 40.

238 Chauffour, t. II, p. 122.

239 Bullinger, t. I, p. 177.

240 Fidei clara expos. 1556, opp., t. II, p. 559. Tiguri, edizione in foglio, 1581.

241 Pref. Bullinger, id.

242 Storia delle variazioni, lib. II, p. 31. Ediz. In-4, 1846.

243 Epist. lib. V, p. 779. Edizione in foglio.

244 Prav. confess, Luth. Hospin., p. 187.

245 T. II, p. 238.

246 Id. p. 260-261

247 Tesi, n. 56. - Supplicatio quorandam evangelistarum ad episcop. Constantinum, t. I, p. 122. - Sono in numero di dieci e Zuinglio forma l’undecimo.

248 Exp. Fid. Ad imperat. Carol., 1530.

249 Audin, Vita di Calvino, t. I, p. 11.

250 Beza, ,Id,.p. 15.

251 Id.; ibid., p. 8, ediz. in-12. Ginevra 1567.

252 Bibliot. franc., p. 861.

253 Vita di Calvino, t. I, p. 15

254 Praef. in Senec. ad sanctiss. et sapientis. praesulem Claud. Hangestium, abbatem Divi Eligii, p. I, ediz. in-12, 1552.

255 Praef, p. 2-3.

256 Vit. Calvin.

257 Calv. Praef. ad Psal.

258 Vita di Calvino, p. 9

259 Id., d. 12.

260 Fr. Balduin, Apol. sec. contr. Calv.

261 Storia della giurisprudenza, p. 419.

262 Vita di Calvino, p. 20.

263 Audin, p. 39.

264 Id., p. 39-41.

265 Florimondo di Roemond, Storia del nascimento dell'eresia di questo secolo, p. 882.

266 Epist. Lib. VI, p. 637.

267 Prefazione dei Salmi

268 Audin, p. 139.

269 Istit., p. 1196.

270 Galiffe, Lettera a un protestante.

271 Audin, Vita di Lutero, t. I, p. 196.

272 Id., Vita di Calvino, t. I, p. 350.

273 Praedicans Lutheranus est vir uxore magis necessario instructus quam pane quotidiano. Lorenzo Forer, citato da Weislinger, p. 288.

274 Promptuar. Cathol. pars 32, p. 133.

275 Trattato per convertire, ecc., di Richelieu, lib. II, cap. X, p. 291, in-fol.

276 Schlusselburg, In theol. Calv., lib. II, p. 72. Ediz. 1692.

277 Joann. Harran, apud

Petr. Cutzenum.

278 Galiffe, Notizie generali, t. III; p. 15.

279 Commentarii sulla seconda epistola di S. Pietro, cap. II, v. 2; lib. Su gli scandali, p. 128.

280 Picol, Storia di Ginevra, t. I, p. 266.

281 T. I, p. 274.

282 Audin, t. I, p. 15; poi Processi di Servet, di Gruet, ecc. ecc.

283 Prima dunque non se ne dava.

284 Fino a quel tempo dunque non s'insegnava.

285 De Philipp. Melanchthonis ortu, totiusque vitae curriculo et morte, narratio diligens et accurata Joach. Camerarii - Lipsiae, 1562. In-12, p. 7.

286 Camer., De Philipp. Melanchthonis ortu, ecc., p. 9-10.

287 Camer. id. p. 15.

288 Bruchero, Stor. Filos. p. 269.

289 Id., ibid.

290 Bruchero, Stor. Filos. p. 23.

291 De corrig. adolescent. studiis. Opp., t. XI, p. 18. Ediz. In-4., 1843.

292 Id., ibi.

293 De corrig. adolescent. studiis. Opp., t. XI, p. 18.

294 Id., ibid.

295 La Riforma di Doellinger, t. I, p. 470.

296 Cod. Manh., 357; col. Camer. VII, mss. Bibl. monac., n. 175 .

297 Spicker, Bescher der Marienkirche, p. 471. Salig. h. d. a. c. III, p. 31, mss. De Wolfenbuttel; Pfister, Herzog Christoph., c. II, p. 149-150; cod. Manh., 357; col. Camer. VII, mss. Bibl. monac., n. 175

298 Duren, Causae cur scholae philosophica praefecti in academia Rostoch in disciplina resarcienda laboraverint. Wittembergae, 1556, b. 2 a.

299 Melantone, t. I, Declam. P. 506.

300 Audin; Vita di Lutero, t. II, p. 442.

301 Declam. In Laud. Navae scholae, Nuremberg 1526, Opp. T. XI.

302 Buhle, Storia della filos., t. II, p. 420.

303 Id., ibid., p. 423.

304 De odio sophistices.

305 Hist. phil., p. 103.

306 Hist. phil., p. 104.

307 Natalis Bedae annotat. in Fabr. Stapul. Et in Desid. Erasm, Ediz. in-4, 1526, pref. p. 1-2.

308 Instrum. copulat. Philipp., landgravii, et Margarit. de Saal. - Bossuet, Storia delle variazioni, t. I, p. 306.

309 Si citano di lui quattordici sentimenti diversi sulla giustificazione.

310 Miconio, nato a Lucerna nel 1484, fu educato a Basilea da Erasmo e Glareano, prese amore per gli studi pagani, si fece protestante e divenne pastore di Basilea, ove fu sepolto. Morì nel 1542. - Melch. Adam. P. 108.

311 Apol. alter. ad Claud. Sant. (a Claudio di Sante), versus finem.

312 De vita et obitu Theod. Bezae, in-4. Ginevra, 1561, p. 8.

313 Calvino, Theolog., lib. I, p. 92-93.

314 Id. p. 9.

315 Theodori Beza Vezelii poemata, 1548. Presso Roberto Stefano.

316 Theodorus Beza, De sua in Candidam et Audebertum benevolentia.

317 Registri del parlamento, Launay. Veggasi Audin, Vita di Calvino, t.. II, p. 328.

318 Fayus, pag. 15.

319 Veggasi Audin, Vita di Calvino, p. 330.

320 Opusc., pag. 799.

321 Dilucid. exposit. opusc. p. 839.

322 Id., p. 858.

323 In Theolog. Calvini,

lib. 1, p. 92.

324 Diz. Art. Beza, n. F

325 Fayus, p. 52.

326 Buble, Storia della filosofia moderna, t. II, p. 423. Edizione in-8.

327 Id., ibid., p. 3.

328 Id., p. 4.

329 Id., ibid., pag. 5.

330 Veggasi sopra questo risorgente, Fabricio, Bibliot., e Nicéron, Memorie, ecc, ecc.

331 Weiss, p. 51.

332 Vita di Zuinglio, t. II, p. 13.

333 Risposta a Valentino Compar, I. C., p. 20, 27, 29.

334 Vita di Zuinglio, t. II, p.15. - Fidei ratio ad Carol. Imperat. Opp., t. IV, p. 15.

335 In quest'opera Camerario lascia intendere che anche ai suoi tempi gli scolari non avevano altri libri che le scolastiche tabelle usate nel medio evo. Praecepta vitae puerilis, p. 29, n. VI. Edizione in-4.

336 P. 104.

337 Eclogae Lipsia 1568.

338 Fabricio, Biblioth., ecc.

339 Niceron, Memorie, ecc.

340 Id. Ibid.

341 Memorie di Niceron, art. Bartio.

342 Direbbesi meglio: fanatico.

343 Novelle della repubblica delle lettere, giugno 1684, p. 355.

344 Baldass. Bonifacio, Stor. Lud., 1656, in-4, lib. IV.

345 p. 202, edizione di Leida.

346 Bull. regim. Apostol.

347 Opere, t. V, p. 50.

348 Artaud. Machiavelli, t. I, p. 245.

349 Matter, Storia delle dottrine morali, t. I, p. 114.

350 Melch. Adam., Vit. erudit., t. I, p. 227.

351 Joan. Ang., Odonus epist., 29-10-1535, Argentorat. Nicéron, Memorie art., Dolet

352 Leggete la Chiesa

353 Storia della filosofia moderna, 6 vol. in-8. Introduzione, p. 2.

354 idem. p. 4.

355 idem.

356 Storia della filosofia moderna, t. II, p. 403-405.

357 Idem, p. 416.

358 Storia della filosofia moderna, t. II, p. 423.

359 In librum Supplicat Erasmi, in-4, p. 71.

360 Op. cit., p. 71.

361 Op. cit.

362 Loc. cit.

363 Alberti Pii Carporum comitis illustriss., ad Erasm. responsio. In-4, Romae, 1526, p. 38. - Erasmo stesso ne conveniva: Fons rei malus est, odium bonarum litterarurn et affectatio tyrannidis - Opp. Luther., Jenae, t. I, pag. 314.

364 Op. cit.

365 Op. cit. p. 29.

366 Loc. cit.

367 Op. cit. p. 138.

368 Loc. cit.

369 Op. cit. pag. 139.

370 Loc. cit. - A complemento della dimostrazione della sua tesi il conte riduce a nulla l'asserzione di Erasmo che attribuiva il Protestantesimo agli scandali del clero ed all'orgoglio dei teologi.

371 «Modo Robinos, modo erassos, barooros appellitant». Loc. cit. - Beda in Erasm., praef., p. 1.

372 Historia de vita, moribus, rebus, gestis, studiis, etc. Lutheri; 1622. Edizione in-12, p. 13-14

373 Hamelmann, p. 261.

374 Loc. cit.

375 De Wette t. I, p. 134.

376 Op. cit., p. 141-197.

377 T. I, p. 28.

378 Bayle, art. Budeo.

379 Ludov, Regius in vita Bud.

380 Ad Nieol. Ebrard, ep. 24 dicembre 1525.

381 Notate l'effetto del Risorgimento in Francesco I.

382 Storia del Calvinismo, t. I, p. 3, ediz. In-4, 1686. - Ecco alcune frasi singolari di Audin sulla propagazione del Risorgimento in Francia e sopra Francesco I. «Dall'Italia uscì la scintilla che doveva illuminare il mondo. Lutero, Melantone, Erasmo, Reuclino hanno camminato a questa luce, l'hanno diretta, talvolta ingrandita, ma non l'hanno creata .... Francesco I era un alunno del collegio di Navarra. Egli è re: non temete che dimentichi le lezioni dei suoi maestri. Vedrete su quali persone cadranno i favori del monarca. Porcher, vescovo di Parigi, è un'anima poetica cui Erasmo riguarda come un angelo disceso dal cielo per rianimare il culto delle lettere. A Porcher verrà conferito un arcivescovado.- Guglielmo Pélissier vescovo di Magellona, ha dedicato all’antichità uno di quei culti che non lasciano all’anima invasata né pace né sonno: a Pélissier verrà data l'ambasceria di Venezia; a Giacomo Colin, l'ufficio di limosiniere e di lettore del re; a Colin il quale dice versi all'improvviso in latino ed in francese, ecc. - Vita di Calvino, t. I, pag. 83-85, ediz. in-8. 383 Dizionario, art. Takiddin. Veggasi anche Jurieu: Apologia pei riform., pag. 66.

384 Danjou, Del Paganesimo nella società, p 51.

385 Corso di storia della filosofia, tom. I, pago 303 e seg., .

386 Matter, Storia della Chiesa cristiana.

387 Storia della filosofia moderna, tom. II.

388 Lettera al vescovo di Sion.

389 Cioè: della lotta incessante del bene e del male.

390 Michiels, nella Rivista contemporanea, gennaio 1853, p. 632.

391 Giornale dei Dibattimenti, 25 aprile 1852.

392 Memorie pel Seminario protestante di Strasburgo, p. 41, 1855.

393«I nostri antichi padri, dice San Francesco di Sales, hanno chiamato le virtù pagane virtù e non virtù ad un tempo: virtù perché ne hanno il bagliore e l'apparenza; non virtù, perché non solamente esse non hanno avuto quel calore vitale dell'amor di Dio che solo potevale perfezionare, ma non ne erano suscettive, perché erano in soggetti infedeli. Le virtù dei pagani furono così imperfette che in verità si possono paragonare a quelle lucciole che non risplendono che di notte, e, venuto il giorno, perdono ogni loro splendore; poiché cotali virtù pagane non sono virtù che in confronto dei vizi: ma l'n confronto delle virtù dei veri cristiani non meritano punto il nome di virtù». - Trattato dell'amor di Dio, lib. XI, cap. X.

394 Tempora hujus ignurantiae despiciens Deus. - Act. Apost. XVII.

395 Veggasi non solo la decisione di Lutero e di Melantone, che autorizza la bigamia del langravio d'Assia, ma anche i dialoghi d'Ochino, De polygamia, dial. XXI; poscia il sermone di Lutero, De Matrimonio; ed il suo libro De statu conjugali. - Ulemberg, p. 163; e finalmente la supplica di Zuinglio al vescovo di Costanza, ecc.

396 È vero che il paganesimo antico ammetteva più divinità, mentre il Protestantesimo riconosce l'unità di Dio, la Trinità, la Divinità di Gesù Cristo. In questo fatto non deesi vedere un'obbiezione ma una diversa applicazione del principio medesimo. In virtù del libero pensare gli antichi pagani ammettevano la pluralità degli Dei; e similmente in virtù del libero pensare i protestanti non ne riconoscono che uno solo; in ciò essi non obbediscono logicamente né alla Chiesa né alla tradizione, né alla Biblia, ma alla loro ragione. La prova è che essi hanno negato molte altre verità insegnate dalla Chiesa, dalla tradizione e dalla Biblia.

397 Hospin, 2° parte, p. 25; Bossuet, Storia delle variazioni, lib. II, p. 35, ediz. in-4.

398 Conferenze di Lutero col diavolo narrate da lui stesso, edizione del 1684, in-12. Vedi Audin, Vita di Lutero, tom. I, pag. 558; Ulenberg, p. 466.

399 Audin, op. cit., p. 372.

400 Michelet, Memorie di Lutero, tomo II. p. 186; Rohrbacher, tom. XXIII, Ulemberg, p. 126-136; Cocleo, Tilman, ecc.

401 Michelet, op. cit.. tom. XXII, p. 9.

402 Audin, Vita di Calvino, tomo II, p. 128.

403 Vit. Luther, p. 143, 484.

404 Abbiamo veduto che quest'asserzione non è esatta.

405 Giornale dei dibattimenti, 25 aprile 1832.

406 Id. ibid.

407 Ne parleremo in modo particolareggiato in uno dei volumi seguenti.

408 Brantòme, Dame galanti, discorso I, p. 26-28.

409 Id., ibid., p. 35.

410 id. discorso VII, p. 341.

411 Id., discorso II, p. 163.

412 Flechier, Memorie sui grandi giorni di Clermont.

413 Storia dello stato di Francia, sì della repubblica, come della religione, sotto il regno di Francesco II, p. 7. Edizione in-8, 1586.

414 Brantòme, Dame galanti, discorso VII, p. 36.

415 Biografia, art. Regnard.

416 Della repubblica, t. I, pref.

417 La duchessa di Valentinois.

418 Storia di Francia, anno 1559.

419 Quello cioè di Caterina de’ Medici, regina del Risorgimento.

420 Mézeray. Storia di Francia.

421 Id., p. 62.

422 Tuan, Hist., lib. XXII, anno 1559.

423 id., p. 62.

424 Id., p. 110.

425 Secolo di Luigi XIV, t. II, p. 162.

426 Si possono, fra l'altre, consultare le Memorie di Saint-Simon e la Corrispondenza della principessa Palatina.

427 Storia di Francia, p, 156.

428 Discorso sui mezzi di ben governare, p. 205, Ediz. del 1576.

429 Ragionamento del modo di conservare lo Stato e la libertà, p. 21.

430 Ragionamento, ecc,. p. 29.

431 Il libero pensare.

432 I letterati.

433 P. 102-413.

434 Nato a Boulogue nel 1731, morto a Parigi nel 1803: professore di belle lettere; traduttore di parecchie opere di Platone, ed autore esso pure di opere stimate.

435 Confessioni, lib. I, cap. XVI.

436 Senza eccettuare quelli dei gesuiti, come abbiamo veduto dal loro programma officiale. - E ci si rimprovera come una temerità d'aver detto il primo che la educazione classica rendeva pagana la gioventù!

437 Grou, Morale di Sant'Agostino.

438 Id., ibid, t. I, ediz. 1786. - Il dire che tutto fu pagano nei tre ultimi secoli, sarebbe ingiusto; ma si noti che fra le donne, e principalmente nel popolo di quelle età, si trovano le credenze e i costumi cristiani, cioè in quelle parti della società che soggiacquero meno alle influenze dell'educazione classica.

439 Veggansi nel primo volume di quest’opera.

440 Estratto d'una lettera di Pietro di Blois, citata da Hurter. – Quadro dei costumi della Chiesa nel medio evo, t. I, p. 436.

441 La scienza ecclesiastica sufficiente a sé stessa senza il soccorso delle scienze profane, di Carrel, prete, dottore in teologia, pag. 31-33. - Lione, 1700, Edizione in-12.

442 O rem dignam vigiliis et lucubrationibus episcoporum! Epist. ad Diòs. Id., pag. 35-38.

443 Lact., lib. VI, c. I

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Mons. gaume: la Rivoluzione
Descrizione:
La rivoluzione: ricerche storiche sopra l'origine e la propagazione del male in Europa
L'opera, tradotta per la prima volta in italiano nel 1856, non è soltanto una storia della Rivoluzione, e tantomeno una storia della sola Rivoluzione Francese, ma piuttosto una storia della genesi della plurisecolare secolarizzazione d'Europa.
L'autore infatti, osservando gli accadimenti dei suoi giorni, dedicò anni a studiarne le cause e, camminando per una via nuova e diversa da quella di quanti si occuparono del processo di scristianizzazione, giunse a proporre una radice primaria e unica del male che ancora oggi ci colpisce.
Recuperata e offerta grazie alla collaborazione del Dott. MdG e alla disponibilità dell'Università di Pavia, vengono qui proposti i primi 3 volumi in formato PDF fotografico, mentre gli ultimi tre sono frutto della consueta laboriosità dei cooperatori di totustuus.it
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