● Nel 1° numero della “Rivista
Internazionale di Ricerca e di Critica teologica” Divinitas” del 2011,
fondata 54 anni fa nel 1957 da mons. Antonio Piolanti Rettore dell’Università
Lateranense, vi è un “Summarium” a cura dell’attuale Direttore
responsabile mons. prof. Brunero
Gherardini in cui si legge:
«Il primo
quaderno del 2011 s’apre con un editoriale di singolare importanza: riguarda una
questione che non avrebbe mai dovuto insorgere ed invece è ora talmente
assimilata in alto ed in basso da smarrire la sua ragione di quaestio: se si
possa, o no, pregare per la conversione degli Ebrei» (p. 2).
● La questione o domanda, che non
era neppure pensabile di porsi prima del Vaticano II tanto era ovvia la risposta
positiva, è “se sia lecito pregare per la conversione degli Ebrei”; purtroppo,
dopo Nostra aetate - nell’epoca della post-modernità, ove la
contraddizione è principio assoluto teorico e vitale della filosofia e della
“neo-teologia” – questa domanda è diventata uno slogan di senso contrario
con risposta negativa, un pregiudizio del tutto irrazionale e a-teologico:
“non è intenzione della ‘Chiesa’ pregare e far proselitismo per la
conversione degli Ebrei”.
Gesù, invece, ha inviato gli
Apostoli “prima alle pecore sperdute della Casa d’Israele” e solo dopo ai
pagani, per convertirli entrambi: “Andate e predicate nell’Universo
mondo, chi crederà sarà salvato chi non crederà sarà condannato”.
La pratica della Chiesa da Cristo e
i Dodici Apostoli sino a Pio XII è stata costantemente improntata al
proselitismo soprattutto verso il Giudaismo post-biblico, che è la “religiosità”
più contrapposta al Cristianesimo.
Ora la pratica costante e
bi-millenaria della Chiesa non può essere erronea, essa è infallibile,
altrimenti “le porte dell’inferno” avrebbero prevalso, il che è formalmente
contrario alla divina Promessa del Redentore.
La pratica della “Chiesa conciliare”
è cambiata di 360 gradi, perché è stata capovolta la dottrina dei rapporti tra
Chiesa e Sinagoga. Mons. Gherardini lo spiega mirabilmente nel suo editoriale.
● L’Editoriale in questione
s’intitola “Non è intenzione della Chiesa cattolica…”. Mons. Gherardini
commenta: «Parole perentorie. […]. Da parte di chi? Non d’una persona qualunque,
perché nessuno tra le persone qualunque può pretendere di parlare a nome della
Chiesa cattolica. […]. Una sola persona gode nella Chiesa di una tale
ufficialità e rappresentatività da legittimare una sola parola come parola della
Chiesa. […]. Non c’è bisogno che qualcuno chieda chi sia; tutti sanno che si
tratta del Papa. A livello sinodale, una sola assise raggiunge la Chiesa fin ai
suoi estremi confini […], il Concilio Ecumenico. “Tertium non datur”» (p.
3). Le parole “non è intenzione della Chiesa cattolica operare
attivamente per la conversione degli ebrei”
furono pronunciate, invece, non dal Sommo Pontefice della Chiesa romana, ma dal
card. Bagnasco, arcivescovo di
Genova e Presidente della CEI. Tuttavia esse «si ispirano ad alcuni
pronunciamenti papali e conciliari» (p. 4). Certamente il cardinale non è
il Papa né il Concilio Ecumenico, tuttavia non è neppure l’ultimo venuto, è anzi
il Presidente dell’Episcopato italiano, il cui Primate è il Papa.
Ma neppure un cardinale arcivescovo
e Presidente della CEI ha il potere di decidere, personalmente, per la Chiesa
universale. Parlava, dunque, a nome del Papa? Dai titoli dei giornali, tra cui
L’Avvenire, il quotidiano della CEI, si evince che egli parlava a nome
dell’episcopato italiano e che applicava pastoralmente i princìpi del dialogo
interreligioso giudaico-cristiano del Vaticano II ad una situazione concreta:
“non c’è nel modo più assoluto alcun cambiamento nell’atteggiamento che la
Chiesa cattolica ha sviluppato verso gli Ebrei a partire dal Concilio Vaticano
II”. Quindi col Vaticano II è cambiata la dottrina e la prassi sul
Giudaismo, ma non è cambiato nulla nel post-Concilio (Benedetto XVI incluso)
quanto alla “continuità del cambiamento” avvenuto nel 1965.
La rottura è definitiva e il
cambiamento non è stato mutato. Questa è l’unica ermeneutica della
“continuità-discontinua” che ci è dato scorgere, a parte la ‘frase storica’ del
“motu proprio Summorum Pontificum cura” (7. VII. 2007) secondo la
quale la Messa tridentina non è mai stata abrogata e non può esserlo, assieme
all’effetto positivo di molti sacerdoti che son tornati o hanno iniziato ex
novo a celebrare la Messa tradizionale, pur se la ‘storica frase’ e il
felice ritorno al Rito detto di san Pio V, sono stati accompagnati
immediatamente, e modernisticamente, dalla “duplicità” dell’infelice espressione
di “Rito ordinario e straordinario”.
Mons. Gerardini vede che al di sopra
dell’anomalia “formale” e giuridica di un cardinale e Presidente di un
Episcopato nazionale o particolare, il quale parla, a nome della Chiesa
universale anche se non consta che il Papa gli abbia dato un mandato
specifico, vi è un problema dottrinale: l’applicazione di princìpi
dati dal Vaticano II sui rapporti tra Cristianesimo e Giudaismo.
Infatti «nell’incontro del 22
settembre 2009 con i rabbini Laras e Di Segni, Sua Eminenza […] assicurò i suoi
interlocutori sulla continuità “della comprensione reciproca” e del “cammino”
che, dal Vaticano II in poi, “è stato straordinario e pieno di frutti per
tutti”» (p. 5).
E “qui casca l’asino”. Infatti mons.
Gherardini costata «lo stato d’ibernazione in cui la letteratura cattolica della
divina Rivelazione, dal Vaticano II in poi, ha posto gran parte di quei passi
neotestamentari che potrebbero risultare sgraditi al mondo ebraico; oppure ha
dato dei medesimi un’interpretazione difforme da quella
dell’irreformabile Tradizione cattolica» (p. 6). Questo è il problema
dei problemi. Mons. Gheradini ha messo il dito sulla piaga.
Tra Tradizione cattolica (Padri
ecclesiastici e Magistero sino a Pio XII) e Nostra aetate (7 dicembre 1965) vi è
difformità. Ora la Tradizione cattolica è una delle due Fonti della
Rivelazione, è l’insegnamento unanimemente comune dei Padri, infallibile
- quando parla di Fede e Costumi, Vita spirituale e Salvezza eterna
- come il Magistero ordinario costantemente ripetuto semper idem, mentre
Nostra aetate ha un valore unicamente prudenziale o “pastorale” di
applicazione di una dottrina al caso pratico. Quindi non è infallibile, né
irreformabile ed essendo in rottura o in difformità con la
Tradizione apostolica costante e irreformabile deve essere corretta e riformata.
Per fare un esempio, mons. Gheradini
scrive che il Dio degli Ebrei non è quello dei Cristiani che è la SS. Trinità di
cui Gesù Cristo è la Seconda Persona incarnata nel seno della Vergine Maria per
opera dello Spirito Santo. Questi due dogmi principali del Cristianesimo, per
l’Ebraismo attuale o post-biblico (che non è l’Antico Testamento, ma il
talmudismo rabbinico), sono una bestemmia, per la quale Cristo fu crocifisso
“poiché da uomo, si faceva Dio” (Gv., X, 33) e s. Stefano fu lapidato
(cfr. p. 6).
Un altro esempio ci è porto sempre
da mons. Gherardini a pagina 7 del suo Editoriale. Secondo la dottrina
conciliare (Nostra aetate: “i doni di Dio sono irrevocabili”) e
postconciliare (cfr. Giovanni Paolo II a Magonza nel 1980: “L’Antica Alleanza
mai revocata”)
e l’Ebraismo attuale è ancora titolare dell’Alleanza con Dio. Invece la
Tradizione cattolica (S. Scrittura interpretata unanimemente dai Padri e
Magistero ecclesiastico costante e uniforme) insegna che «c’è una prima e
c’è una seconda Alleanza: irrevocabile è ciò che dalla prima passa
alla seconda, subentrata all’altra, quando questa “antiquata e soggetta
ad invecchiamento ulteriore, sta ormai per scomparire” (Ebr., VIII,
8-13). Se non che la grazia promessa ai titolari dalla prima Alleanza non
muore con essa, ma viene elargita ai titolari della seconda: questo,
infatti, si verificò, quando quasi tutti i titolari della prima,
rifiutando Cristo, […], non riconobbero il tempo in cui Dio li aveva
visitati (Lc., XIX, 44). “A quelli, però, che l’accolsero” il Visitatore
“fece il dono della figliolanza divina” (Gv., I, 12), strinse con essi
[la “piccola reliquia” del popolo ebraico che accettò Cristo] la seconda
Alleanza e l’aprì a quanti [i pagani] sarebbero sopraggiunti “dall’oriente e
dall’occidente” da settentrione e da mezzogiorno (Lc., XIII, 29),
trasferendo alla seconda tutti i doni già in possesso della prima»
(p. 7).
Quindi molti membri del popolo
eletto rifiutarono Cristo, ma “un piccolo resto” (Apostoli e Discepoli) Lo
accolsero (Rm., XI, 1-10). Inoltre prima della fine del mondo s. Paolo
prevede e rivela, divinamente ispirato, la conversione finale, in massa, di
molti altri (Rm., XI, 26: “Et sic omnis Israel salvus fieret”).
Questa parola “conversione”,
“salvezza” non piace agli ebrei attuali, e purtroppo dispiace anche ai prelati
conciliari e post-conciliari e addirittura è messa in sordina da quei
“tradizionalisti”, che, nella smania di sentirsi “uguali”, finiscono per
diventare “diversi” dalla Tradizione cattolica.
San Paolo avverte profeticamente i
cristiani giudaizzanti (di tutti i tempi): “Se volete farvi circoncidere
[pensando che l’Antico Patto è ancora valido], Cristo non vi gioverà a
nulla. […]. Coloro che vi perturbano [i giudaizzanti] si taglino
pure tutto!” (Gal. V, 2 e 12). L’Apostolo ha anticipato di 2000 anni
la «Teologia della “circon[venzione]cisione” di … “incapaci”», che
oggi va di gran moda, specialmente tra certo clero “cattolico”.
Tuttavia mons. Gherardini ci
ammonisce che questa parola (“conversione” si badi bene, e, non “circoncisione”)
«piace alla Rivelazione cristiana (Rm., XI, 26). Invece l’affrettarne
l’evento con la carità della preghiera […] piace ancor meno ai nemici [del dato
Rivelato].
Tuttavia perché gli Ebrei si
convertano e vivano non mancherà, pertanto e nonostante tutto, il contributo
della nostra preghiera e della nostra cooperazione» (p. 8). Tutto ciò lo scrive
un monsignore e lo pubblica una Rivista della Città del Vaticano, non i
“tradizionalisti”, i quali su questo tema dal 2009 purtroppo tacciono o parlano
a mezza bocca.
Attenzione: il Vangelo ci ammonisce,
come ammonì i “tradizionalisti” di 2000 anni fa: “il Regno di Dio vi sarà tolto
e sarà dato ad altri”. l’Alleanza con Dio è definitiva solo per quanto riguarda
la Chiesa romana, quanto riguarda gli altri presuppone una corrispondenza al
piano divino. Da qui nasce il problema della vera Dottrina e Carità, che occorre
professare e vivere per essere “veramente figli di Dio”.
VERA E FALSA
CARITÀ
● Non c’è vera Carità senza Verità. Dalla
vera unità di Fede e di dottrina, nasce la Carità soprannaturale, che ci fa
amare Dio e il prossimo propter Deum. La sola Fede senza le “opere
buone”, ossia la Carità, è morta, cioè non ha la grazia santificante.
Come evitare, quindi, di mancare
gravemente alla Carità soprannaturale contro il prossimo e quindi indirettamente
anche contro Dio Creatore dei nostri simili?
Innanzitutto bisogna avere la stessa
Fede, la stessa dottrina. Una mancanza di unità di Fede e di dottrina, porta –
immancabilmente – alla mancanza di unione di volontà o amore naturale (“idem
velle idem nolle, haec est vera amicitia”, Cicerone) e soprannaturale.
Poi bisogna cercare di evitare certi
difetti, come i pettegolezzi, le mormorazioni, le calunnie, le ingiustizie e le
falsità. Purtroppo esse possono sussistere anche tra persone che hanno la stessa
Fede, ma non vivificata dalla Carità “non ficta” (come la chiamava San
Paolo) e soprannaturale.
Padre Alfonso Rodriguez nel suo Esercizio
di perfezione e di virtù cristiane (Roma, Paoline, 1968) insegna: «Quale
vita religiosa può esistere senza l’unione e la concordia? Neppure congregazione
e comunità religiosa può sussistere senza una certa unione di spiriti e di idee.
[…]. San Girolamo dice che la Carità fa in modo che i religiosi siano veramente
religiosi, i monaci veri monaci; senza di essa i monasteri non sono tali ma sono
un inferno (non monasteria sed tartara) e i loro abitanti sono i demòni»
(p. 193-194) “et hos devìta” (San Paolo). “Figlioli miei, non amiamo a
parole e con la lingua soltanto, ma a fatti e in verità” (I Gv. III,
18) e ancora san Giovanni rivela: “Se uno vede il suo fratello nel bisogno, e
gli chiude il proprio cuore, come può essere in lui l’Amore di Dio?” (I
Gv. III, 17).
Padre Rodriguez prosegue scrivendo
che quando giudichiamo esteriormente e sfavorevolmente il prossimo «distruggiamo
la stima e il buon concetto che si ha di esso. Nel medesimo tempo distruggiamo
l’amore di Carità soprannaturale» (p. 240).
Quanto alla mormorazione, che
consiste nel riferire i difetti o vizi reali del prossimo senza necessità (non
lo sarebbe se lo si dicesse solo al superiore per la correzione del difettoso),
padre Rodriguez insegna: «è evidente che se io dicessi di un religioso che è un
bugiardo, perderebbe dinanzi agli altri più stima di quanta non ne perderebbe un
secolare di vita peccaminosa, di cui si dicesse che non digiuna tutta la
Quaresima. […] La gravità del peccato di mormorazione non va misurata su ciò che
si dice del tale, ma sulla reputazione di cui lo si priva. […]. Ora se di un
religioso dico che è imprudente e di poco giudizio, quel religioso perde in tal
modo più reputazione di quanta non ne perde un secolare se di lui si dice che ha
commesso questo e quel peccato mortale» (p. 711-712).
Sant’Alfonso De Liguori nel suo libro
La vera sposa di Cristo (Roma, Redentoristi, tomo I, 1934) riprende gli
stessi temi ed aggiunge un esempio riguardo al peccato di mormorazione (molto
meno grave di quello di calunnia, ove si dice del prossimo il male che non ha
commesso): «un certo sacerdote mormoratore morì smaniando da furioso,
lacerandosi la lingua con i denti. Un altro mormoratore in porsi a dir male di
san Malachia, nello stesso punto gli si gonfiò la lingua e gli si riempì di
vermi, e così dopo sette giorni di torture infelicemente se ne morì» (p. 443).
CONCLUSIONE
Occorre farsi un serio esame di
coscienza: la nostra dottrina e la nostra vita pratica corrispondono alla vera
Tradizione e Carità soprannaturale della Chiesa cattolica?
Oppure stiamo cercando di annacquare
la prima - diluendo la verità assieme con la condanna dell’errore - e di perdere
la seconda mediante la maldicenza, la calunnia, la lapidazione morale se non
fisica del prossimo, che si trova in difficoltà, poiché non piace al mondo?
Attenzione! ne va della nostra
salvezza eterna.
“Ero in prigione e non siete venuti
a trovarmi, ero malato e non siete venuti a visitarmi”.
Come possiamo rispondere a queste
domande?
Se trovassimo qualche lacuna in noi,
basta la buona volontà di correggerci e tutto tornerà a posto.
In Caritate non ficta.
d. CURZIO NITOGLIA
21 febbraio 2011
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