l “NEO-DONATISMO”, UN PERICOLO SEMPRE ATTUALE
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IL “NEO-DONATISMO”UN PERICOLO SEMPRE ATTUALE
Il Donatismo classico
Il “DONATISMO CLASSICO”[1] è un’Eresia (seguita da uno Scisma) nata da DONATO IL GRANDE († 330 circa) del quale purtroppo sono andati persi gli scritti, ma dei quali ci parlano S. GIROLAMO (De viribus illustris, 93) e SANT’AGOSTINO (De haer, 69; Epist., 185; De corrept. Donatist., I, 1). Secondo i due Dottori della Chiesa, Donato avrebbe scritto un libro arianeggiante intitolato “De Spiritu Sancto”, in cui sosteneva che lo Spirito Santo è inferiore al Figlio e Questi al Padre.
Dottrinalmente, il Donatismo si ricollega all’errore dei “Ribattezzanti” di TERTULLIANO († 240 circa), che sosteneva essere invalido il Battesimo conferito dai Vescovi e Sacerdoti eretici, i quali – essendo privi di Grazia santificante – non potevano trasmetterla ai fedeli.
TERTULLIANO[2] (nato verso il 160) era un avvocato di grido, che si era convertito al Cristianesimo verso il 195. Tuttavia nel 213 divenne Montanista e preparò, così, il Donatismo. Egli, “come accade spesso ai neoconvertiti, era fornito di un carattere fortemente rigorista e questa tendenza lo portò ad aderire al Montanismo. Di carattere tenace, intransigente e fiero, proteso sempre verso la verità assoluta e senza sfumature, sia teoretica sia morale. […]. Gran polemista, ma nel desiderio di polemizzare si faceva trascinare dalla voglia di stravincere e da un ardore polemico fine a se stesso e ciò lo spingeva verso posizioni dottrinali singolari e pericolose.”[3] Infatti divenne Montanista, morì tale e precorse il Donatismo.
Il MONTANISMO era un’Eresia d’indole etica ed ascetica sorta verso il 170 nella Frigia (Asia Minore). Infatti più che una pura dottrina dogmatica esso era una Prassi moralistica e spiritualmente rigoristica con una forte tendenza millenaristica. MONTANO IL GRANDE († 190-200 circa) asseriva di essere ispirato dallo Spirito Santo per dar via ad un ‘nuovo Cristianesimo’ moralmente più rigido ed asceticamente più spirituale di quello petrino o romano.
Il Montanismo fu chiamato, perciò, anche “Nuova Profezia” come il Gioachimismo (XIII sec.) venne poi definito “Nuovissima Alleanza”. Montano – dal punto di vista della Morale – era assai rigorista e proibiva, sotto pena di peccato grave, ai vedovi di risposarsi, spingeva a digiuni prolungati come fossero di Precetto e non di Consiglio, obbligava a dure penitenze e mortificazioni. Dall’Asia il Montanismo giunse sino a Roma e, come abbiamo visto, guadagnò Tertulliano, che morì Montanista e quindi fuori della Chiesa cattolica romana (spesso “l’ottimo è nemico del buono” e “chi vuol far l’Angelo finisce per diventare una bestia”).
Papa ZEFIRINO († 217) condannò definitivamente il Montanismo, che non dette ulteriori gravi fastidi alla Chiesa[4]. Il Montanismo – dogmaticamente ed asceticamente – precorreva l’eresia millenarista di GIOACCHINO DA FIORE († 1202 circa) poiché Montano proclamava di essere lo strumento privilegiato del Paraclito, che si sarebbe manifestato pienamente su di lui, in maniera ancora più copiosa che nel giorno della prima Pentecoste quando discese sui Dodici Apostoli riuniti nel Cenacolo assieme alla Madonna. Solo la seconda discesa dello Spirito Santo o “la Nuova Pentecoste” su Montano avrebbe introdotto la Chiesa in tutta la Verità, che nella Nuova Alleanza era ancora manchevole ed imperfetta.Essa avrebbe conosciuto una specie di trasformazione in meglio rispetto alla Chiesa della Nuova Alleanza fondata su Pietro. Infatti nella nuova Chiesa non più gli Apostoli ed i loro successori (Papa e Vescovi), ma i “Nuovi Profeti” e i “veri spirituali” avrebbero governato i fedeli, non gerarchicamente e giuridicamente, ma spiritualmente o “pneumaticamente” (v. TERTULLIANO, De pudicitia, 21; PL 2, 1080). Un errore simile è riscontrabile anche nel neo-modernismo di Helder Camara e Leo Suenens, i due prelati che durante il Concilio Vaticano II parlavano frequentemente di Carismatismo, Pentecostalismo e Nuova Pentecoste.
TERTULLIANO portò il Montanismo dalla Frigia asiatica all’Africa mediterranea e si oppose alle decisioni di Roma, convinto di possedere solo lui la pienezza del Paraclito e quindi di essere superiore alla Gerarchia istituita da Cristo, ma priva dell’abbondanza dello Spirito Santo. Così attorno al 207-213 ruppe formalmente con la Chiesa romana, designandola come “Chiesa degli psichici” (ossia dei Vescovi e fedeli forniti della semplice ‘anima razionale’ o ‘psiche’); mentre la sua era la “Chiesa dei pneumatici” (cioè delle anime riempite totalmente di ‘Spirito Santo’ o ‘Pneuma’). La Chiesa montanista avrebbe segnato la terza ed ultima fase (una sorta di “Nuovissima Alleanza”) dell’economia della salvezza dopo l’Antica e la Nuova Alleanza (cfr. De virginibus velandis, I; PL 2, 938).
Il suo moralismo rigido ed esagerato portò Tertulliano a bollare come irrimediabilmente caduti i ‘traditori’, ossia i ‘consegnatori’ (dal latino “tràdere” = consegnare) dei Libri Sacri ai persecutori Romani per evitare il Martirio. Il Montanismo precorre non solo il Gioachimismo (XIII sec.), ma il Protestantesimo e persino il Carismatismo odierno[5], in quanto la sua dottrina pullula di soggettivismo, individualismo, rifiuto della Gerarchia, profetismo esasperato, esperienza sentimentalistica religiosa e possesso esclusivo (da parte di pochi esaltati o “eletti”) dei Carismi del Paraclito[6].
MONTANO, che si era convertito al Cattolicesimo, iniziò ad avere degli strani fenomeni “mistici” straordinari, che in realtà erano preternaturali (estasi, ispirazioni, rivelazioni …). Due false mistiche, Massimilla e Priscilla, lo seguirono ed iniziarono ad avere manifestazioni simili. Ben presto si fece di Montano un Profeta e si formò un movimento di sequela del Santone e delle due false mistiche.
Il Vescovo SAN CIPRIANO DA CARTAGINE († 258) fu l’oppositore strenuo del DONATISMO e si appellò al Supremo Magistero di papa STEFANO I († 257), il quale, appoggiandosi alla Tradizione apostolica, ripose con il celebre rescritto: “nihil innovetur, nisi quod traditum est; nessuna innovazione, solo Tradizione”. San Cipriano, terminata la persecuzione di Decio (250), si trovò ad affrontare la spinosa questione dei “lapsi” o “caduti” nel peccato di apostasia per evitare di essere martirizzati. Egli condannò fermamente l’apostasia, ma nello stesso tempo insegnò che di fronte all’apostata pentito si doveva usare misericordia e perdonare il peccato pur infliggendo la dovuta penitenza; mentre i Montanisti e i Donatisti volevano escludere l’apostata, anche se pentito e penitente, per sempre dalla Chiesa mediante una scomunica irremissibile.
Tuttavia anche San Cipriano, nel 255, insegnò pro tempore la dottrina erronea secondo cui i Sacramenti amministrati dai “lapsi” erano da considerarsi invalidi, come si riteneva allora nella Chiesa dell’Africa mediterranea. La questione venne portata davanti al Supremo Magistero di Roma, donde papa Stefano I (nel 256) ribadì la dottrina fondata sulla Tradizione apostolica sulla validità dei Sacramenti, che traggono la loro efficacia oggettiva (“ex opere operato”) dall’Istituzione divina e non dalle disposizioni soggettive (“ex opere operantis”) dei Ministri. Purtroppo Cipriano in un primo momento rifiutò l’insegnamento della Prima Sede fondato sulla Tradizione apostolica. Papa Stefano I minacciò, allora, di scomunicarlo ed il Vescovo Dionigi di Alessandria riuscì a comporre il dissidio. Nel 258 Cipriano, che aveva oramai accettato il Magistero papale sulla validità dei Sacramenti ex opere operato, venne catturato durante la nuova persecuzione scoppiata sotto l’imperatore Valeriano e venne condannato a morte per decapitazione. Il suo corpo fu seppellito dai Cristiani presso Cartagine. Egli, nonostante lo sbandamento temporaneo del 256, si è poi mantenuto sempre fedele alla dottrina sulla Tradizione e la S. Scrittura come fonti della Rivelazione divina, che vanno, però, interpretate non soggettivamente, come vorrebbero i Protestanti (quanto alla S. Scrittura), gli scismatici “Ortodossi” ed alcuni “tradizionalisti” odierni (quanto alla Tradizione), ma dal Magistero ecclesiastico (De lapsis, cap. 2; capp. 15-16; cap. 29; Epist. LXIII, 10, 2; Ib., 71, 1, 3; De Catholicae Ecclesiae unitate, cap. 5). Cipriano nell’Epistola LXIII De traditione calicis invita a “non discostarsi da quanto Cristo ha rivelato ed ha fatto” (Ibidem LXIII, 2, 1), a “non allontanarsi dal Magistero divino continuato nella Chiesa” (Ib., 10, 2) e a “custodire la verità della Tradizione” (Ib., 19, 1). In lui sono chiare le nozioni di S. Scrittura e Tradizione come fonti della Rivelazione e di Decisioni della Chiesa o Magistero (anche se quest’ultima parola non appare ancora, ma il concetto sì) come organo o strumento interpretativo del vero significato delle due fonti del Dato Rivelato. Tale dottrina è stata perfezionata da Sant’Agostino (C. ep. fundamenti 5) che asserisce: “Io non crederei al Vangelo, se non me lo presentasse l’Autorità o l’Insegnamento [Magistero] della Chiesa cattolica”[7].
I DONATISTI continuarono, però, a seguire l’erronea dottrina del loro fondatore Donato ed anzi la portarono alle estreme conseguenze, come spesso accade nei movimenti ereticali e scismatici, in cui l’eretico vuol sorpassare l’eresiarca e il discepolo sorpassa il maestro: “parvus error in principio fit magnus in fine”.
I Donatisti aggravarono l’errore di Donato asserendo che, “se gli eretici battezzano invalidamente, perché privi di Grazia abituale, anche i Ministri sacri, che sono in peccato mortale mentre confezionano tutti gli altri Sacramenti, lo fanno invalidamente”. In tal modo l’efficacia dei Sacramenti, che sono segni visibili, i quali conferiscono la Grazia che significano (per esempio, il Battesimo essendo un lavacro di acqua, simboleggia la pulizia dal peccato e conferisce realmente la Grazia santificante, che cancella realmente la colpa), diventava difficilmente discernibile. Infatti le disposizioni interne o soggettive del Ministro non si vedono, mentre si constata oggettivamente se egli pone il Rito sacramentale come la Chiesa lo ha stabilito, osservando le “rubriche o disposizioni liturgiche”. Quindi i fedeli a partire dal modo oggettivo di porre il Sacramento come Rito sacro, ne concludono la sua validità (materia, forma e intenzione di fare un Rito sacro). Invece lo stato soggettivo di Grazia o di peccato mortale in cui si trova il Ministro sfugge ai fedeli, è noto solo a Dio, e non può invalidare i Sacramenti, che sono stati istituiti da Gesù come segni oggettivi e visibili, proprio per conferire, con certezza visibile a tutti, la vita della Grazia all’umanità affinché i fedeli possano vederli (materia), sentirli (forma) e constatare la loro oggettiva validità (il modo oggettivo in cui vengono confezionati ed amministrati dal Ministro), se conforme al Rito sacro. Invece se il Rito sacro è oggettivamente difforme dalle disposizioni o rubriche liturgiche della Chiesa, allora si può dubitare della sua validità e chiedere la reiterazione sub conditione del Sacramento all’Autorità ecclesiastica, la quale stabilisce se la variazione che ha subìto il Rito sacramentale è stata sostanziale (ed allora esso è invalido) oppure solo accidentale (ed allora è illecito da parte del Ministro, ma valido)[8] .
L’occasione storica dello sviluppo del Montanismo si presentò all’inizio del IV secolo, quando l’Editto dell’imperatore DIOCLEZIANO († 305) impose ai Cristiani di consegnare i Libri sacri per essere bruciati. Coloro che assecondavano l’Editto imperiale venivano chiamati dai Donatisti “traditores seu lapsi” (oggi si direbbe “ralliées”) e venivano considerati pubblici peccatori. Sin qui nulla di strano. Però i Donatisti ne concludevano che, se un Vescovo o un Sacerdote era un “lapsus” o “caduto in peccato” avendo consegnato (“tràdere”) i Libri sacri per evitare il Martirio, i Sacramenti da lui conferiti erano da considerarsi invalidi e qui sorse il problema, che non era totalmente nuovo.
Il casus belli, che dette fuoco alle polveri, fu quando il Vescovo FELICE DI APTONGA venne accusato di essere caduto nel peccato di cedimento all’Editto di Diocleziano e quindi la consacrazione di CECILIANO, neo Vescovo di Cartagine, venne considerata dai Donatisti invalida. CECILIANO si appellò a Roma e la sua consacrazione episcopale venne riconosciuta valida. Tuttavia i Donatisti (santi e ripieni di Spirito Paraclito) si opposero alla decisione (puramente “psichica” e non “pneumatica”) di Roma ed elessero Vescovo di Cartagine prima MOGGIORINO, il quale morì nel 315, e poi DONATO IL GRANDE come suo successore sulla Diocesi di Cartagine.
DONATO a partire dall’Eresia[9] “Ribattizzantista” giunse allo Scisma[10] donatista, poiché costituì l’errore dottrinale primitivo in una salda organizzazione ecclesiale pratica e gerarchica, fondando, così, una sétta o una chiesuola scissa da Roma.
Inoltre il DONATISMO sosteneva che ogni potere politico è malvagio e non può mai collaborare, neppure in subordinazione, con la Chiesa che è fatta di soli Santi. Essi anticipavano, così, l’errore del cattolicesimo-liberale, tanto combattuto – tra il XIX e XX secolo – dai papi Gregorio XVI, Pio IX, Leone XIII, Pio XI e Pio XII. Lo stesso S. AGOSTINO aveva già confutato tale errore ben 1400 anni prima scrivendo: “I Re cristiani hanno il dovere di servire Dio. Quindi se proibiscono il male nella Società civile, lo debbono reprimere anche per difendere la vera Religione” (Contra Cresconium, II, I, cap. 9; Ibidem III, LI, cap. 56).
Il DONATISMO ebbe notevole successo in Africa poiché era fondato su princìpi apparentemente veri e facilmente comprensibili dal popolo dei fedeli, che non conosceva la teologia in profondità. Questi princìpi possono così essere riassunti: 1°) la Chiesa è la Società dei soli Santi, per cui i peccatori stanno fuori del Corpo della Chiesa; 2°) i Sacramenti confezionati e amministrati da Ministri in stato di peccato mortale, anche se non abitualmente, sono invalidi.
Esso si diffuse talmente nell’Africa bianca o mediterranea da mettere in grave pericolo la sussistenza del Cattolicesimo romano o petrino nella zona settentrionale del Continente africano. Nonostante la brillante difesa della Fede cattolica fatta da SANT’OTTATO DI MILEVI[11] († 390), l’Eresia e lo Scisma donatista continuarono a propagarsi nell’Africa romana.
Tuttavia all’inizio del secolo V il genio, l’acume teologico, la valenza pastorale e la santità del Vescovo e Dottore della Chiesa SANT’AURELIO AGOSTINO D’IPPONA († 430), riuscì a debellare definitivamente lo Scisma oramai secolare, se si pensa che Tertulliano era morto circa 200 anni prima e Donato 100 anni prima. L’Ipponate insegnò: “Il Battesimo non vale per i meriti di chi lo amministra, ma per la propria intrinseca efficacia e santità, comunicatagli da Dio che lo ha istituito” (Contra Cresconium, I, IV, cap. 19).
Sant’Agostino mise in chiara luce i due princìpi cattolici, diametralmente opposti a quelli donatisti, secondo cui: 1°) la Chiesa militante su questa terra (distinta dalla Chiesa trionfante del Cielo, di cui fanno parte i soli Santi) è una Società divina quanto al Principio (Cristo fondatore), al Fine (il Cielo e la Visione beatifica di Dio) e ai Mezzi (i Sacramenti che sono i canali della Grazia santificante), ma Essa è anche umana quanto alle membra che la compongono, ossia i battezzati (fedeli e Gerarchia), i quali possono essere Santi oppure peccatori; 2°) i Sacramenti amministrati dai peccatori o dagli eretici sono validi poiché traggono la loro efficacia da Cristo (“ex opere operato”)[12] che li ha istituiti e non dai Ministri (“ex opere operantis”), che li trasmettono soltanto, onde i Sacramenti sono “santi per se stessi e non per la virtù degli uomini”.
I Santi sono membra vive della Chiesa, ossia vivificate dalla Grazia soprannaturale; i peccatori sono membra morte, cioè senza la vita soprannaturale o la Grazia abituale. Tuttavia solo chi si separa dalla Chiesa per Eresia o Scisma non fa più parte del Corpo della Chiesa, mentre i peccatori – se battezzati – fanno parte del Corpo, ma non dell’Anima di Essa.
La Chiesa, come scriverà più tardi SAN ROBERTO BELLARMINO († 1621), è la Società fondata da Cristo su Pietro ed è formata dai battezzati, che hanno la stessa Fede, sono sottomessi ai legittimi Pastori (i Vescovi come successori degli Apostoli) e specialmente al Pontefice Romano (successore di San Pietro e Vicario su questa terra di Cristo asceso in Cielo).
Come si vede, solo lo Scisma (separarsi dalla Gerarchia e da Pietro) e l’Eresia (errore contro la Fede), non il peccato, separano dal Corpo della Chiesa, ma ciò non significa che i Sacramenti confezionati e conferiti dagli Eretici o dagli Scismatici siano invalidi. Infatti il Battesimo conferito da un pagano, un maomettano o un ebreo, che vogliono fare un Rito Sacro, pur non credendo, è validamente amministrato. A maggior ragione il Sacramento conferito da un Protestante. Certamente colui che si trova in stato di peccato mortale se amministra un Sacramento commette un altro peccato mortale che si chiama Sacrilegio, ossia tratta con irriverenza una cosa Sacra, ma il suo stato peccaminoso non invalida il Sacramento.
Il Concilio di Trento (1545-1563), basandosi sulla Tradizione (SANT’EFREM † 373, Adversus scrutatores, sermone 40; S. CIRILLO DI GERUSALEMME † 387, Cathech. Mystag., II, 4; S. AGOSTINO † 430, Contra Cresconium, I, IV, cap. 19[13]) e sulla S. Scrittura (Rom., VI, 3-11; 1 Cor., X, 17; Tit., III, 5; II Tim., I, 6; Atti, VIII, 17), ha definito infallibilmente, contro l’Eresia protestante, l’efficacia causale dei Sacramenti ex opere operato (DB, 844-856), ossia i Sacramenti sono strumenti nelle mani di Dio, che producono il loro effetto, che è la Grazia, immediatamente, ossia per la semplice posizione del Rito, indipendentemente dai meriti o demeriti del Ministro. Le due fonti della Rivelazione (Tradizione apostolica e S. Scrittura) interpretate dal supremo ed infallibile Magistero (Conc. Trid.) insegnano inequivocabilmente che i Sacramenti sono dotati di un’efficacia vera e reale (non simbolica o semplicemente rappresentativa) ed immediata (senza la mediazione dei meriti soggettivi del Ministro). Per fare un esempio, i genitori che concepiscono il figlio, lo producono realmente (il neonato è un ente realmente ed oggettivamente esistente e non un simbolo, un’apparenza, una rappresentazione o un significato) ed immediatamente (indipendentemente dal loro stato e dai loro meriti), cioè senza la mediazione dello stato di Grazia (anche il peccatore genera un figlio). Parimenti l’efficienza oggettiva dei Sacramenti (produzione della Grazia) non dipende dai meriti del Ministro, ma solo dalla loro Istituzione divina e dal porre in atto il Rito sacro da parte del Ministro come Dio comanda.
Più specificatamente il Tridentino (canone 8, sessione VII) ha definito di Fede divina e cattolica: “se qualcuno dirà che i Sacramenti della Nuova Alleanza non conferiscono la Grazia ex opere operato, sia scomunicato” (DB, 851).
La pratica costante della Chiesa ha sempre riconosciuto validi i Sacramenti amministrati dai peccatori e dagli Eretici. Tuttavia affinché il Sacramento sia ricevuto con frutto soprannaturale, bisogna che il Soggetto vi si accosti in Grazia di Dio (se è un Sacramento dei vivi), altrimenti lo riceve realmente e validamente, ma sacrilegamente o peccaminosamente, come il Ministro che lo conferisce in stato di peccato grave (Conc. Trid., BD 799, 849, 951)[14].
SAN PIO X condannò gli errori del Modernismo sui Sacramenti, che riprendevano le teorie protestantiche (Enciclica, Pascendi Dominici gregis, 1907, DB 2089)[15], le quali si rifacevano al Montanismo e al Donatismo (“nihil sub sole novi!”).
Il Neo-Donatismo
Una sorta di “Neo-Montanismo/Donatismo” sta nascendo ai giorni nostri, riguardo ad una questione disputata tra “Neo & Vetero Tradizionalisti” quanto al problema dell’assistenza alla Messa tradizionale.
Infatti vi sono coloro che, come in Corinto, ai tempi di san Paolo (I Cor., I, 12), alcuni cristiani dicevano: “io sono di Cefa, io di Apollo ed io di Paolo”, così ora dicono: “io vado alla Messa di don Cajo, io di don Tizio ed io di don Petronio”, oppure: “io vado alla Messa di tale Istituto, io a quella di tal altro ed io di un altro ancora”.
Ma San Paolo corresse già un errore simile a questo (attorno al 55) scrivendo: “pertanto vi esorto a pensare tutti allo stesso modo, perché non vi siano in mezzo a voi scissioni” (I, 10). Anzi l’Apostolo di fronte ai partiti creatisi a Corinto (I, 12) affermò sdegnato: “ ed io sono di Cristo! Cristo è stato forse diviso? Forse Paolo è stato crocifisso per voi? O siete stati battezzati nel nome di Paolo?” (I, 12-13).
SAN TOMMASO D’AQUINO nel Commento alla Prima Lettera ai Corinzi (cap. 1, lez. II, n. 24, 25, 28, 29 e 34) scrive: «(n. 24) Il motivo della contesa riguarda il fatto che ciascun fedele si denomina non da Cristo che ha istituito il Battesimo, ma dal Ministro dal quale è stato battezzato (Paolo, Apollo, Cefa) […]. (n. 25) Essi dicono così perché credono che dal miglior Ministro sia conferito il miglior Battesimo, come se i meriti del Ministro operino efficacemente sui battezzati. […]. (n. 28) Quando San Paolo dice: “ed io sono di Cristo” solamente costui dice bene, perché solo la virtù di Cristo opera nel Battesimo di Cristo (Gv., I, 33). Ecco perché solo i battezzati nel Sacramento istituito da Cristo sono chiamati Cristiani, invece coloro che son battezzati da Paolo non son detti “Paolini”. […]. (n. 29) Non è il Ministro che dà l’efficacia al Battesimo, ma si è battezzati in Cristo. Voi dividete Cristo poiché credete che sia migliore il Battesimo che viene conferito dal miglior Ministro. Invece è Cristo che conferisce l’efficacia al Battesimo ed è il Ministro principale del Sacramento, mentre il Sacerdote è il Ministro secondario. Così facendo dividete la potenza o l’efficacia di Cristo dall’effetto del Battesimo, secondo la differenza dei Ministri. Mentre l’efficacia del Battesimo non dipende dai meriti del Ministro secondario, ma solo dall’efficacia oggettiva conferitagli dalla divina Istituzione. […]. (n. 34) Perciò chi attribuisce la Grazia al Ministro secondario divide Cristo in tante persone quanti sono i Ministri secondari».
Il problema, sollevato attualmente, dell’assistenza alla Messa tradizionale celebrata da tale o tal’altro Ministro, da questo o da quell’Istituto è analogo (“simile e dissimile”), non identico alla questione montanista/donatista dei Sacramenti conferiti dai Ministri buoni o cattivi moralmente (qui c’è una dissomiglianza tra i due problemi).
Mentre nella questione disputata attualmente tra “Neo & Vetero Tradizionalisti” si tratta di Ministri certi o incerti dottrinalmente (e qui c’è una certa somiglianza tra i due problemi, soprattuttoquanto al giudicare – come aventi Autorità – chi ha la pienezza della dottrina cattolica e quanto all’obbligare quale Rito debba essere seguito)[16].
Infatti non è il Ministro o l’Istituto al quale appartiene il Ministro, che conferisce efficacia al Sacrificio della Messa o ai Sacramenti in genere, ma la divina Istituzione che rende il Rito oggettivamente confezionato soprannaturalmente efficace o conferente la Grazia santificante (qui c’è la somiglianza, non l’identità, tra i due problemi).
Quanto alla dottrina dogmatica solo il giudizio canonico e giuridico della Gerarchia sulla eterodossia grave del Ministro o del suo Istituto può stabilire quale Ministro o Istituto debba essere “vitando”. Non è il singolo sacerdote o un singolo Ordine che può portare una tale decisione vincolante. Al massimo si può consigliare o sconsigliare, facendo attenzione a non commettere un abuso di autorità, cadendo nel soggettivismo democraticista, secondo cui l’Autorità viene al singolo individuo dal basso.
Inoltre bisogna fare attenzione a non privare i fedeli della Messa tradizionale là ove ve ne è solo una dei due schieramenti (solo “vetero” o solo “neo Tradizionalisti”). Siamo Sacerdoti e non negozianti: se Cajo va a fare le compere al negozio di Cesare arreca danno al negozio di Tizio; invece se Sempronio va a Messa da don Antonio non arreca danno a don Petronio. Perciò il negoziante Tizio può desiderare che si vada a far spesa da lui e non da Cesare, ma don Petronio non ha nulla da perdere se un fedele si salva l’anima andando a Messa da don Antonio. Così i Domenicani non si turbano più di tanto se un fedele va a Messa dai Gesuiti, pur seguendo una scuola teologica assi diversa dalla loro.
In tempi catastrofici come questi (dal punto di vista dogmatico, morale, politico ed economico), bisogna fare il possibile per aiutare i fedeli ad avere i Sacramenti ed il Rito tradizionale, per vivere in grazia di Dio e salvarsi l’anima, e non impedire loro di frequentarli. È facile per il Sacerdote tradizionalista dire: “fate così o colà, andate qui e non là”, perché lui ha la Messa tradizionale quotidianamente assicurata. Ma quanto ad un fedele che vive in una metropoli, in cui vi è una sola Messa tradizionale celebrata da un solo Istituto, sarebbe gravemente imprudente proibirgli di frequentarlo, poiché si ritiene, soggettivisticamente e dal basso, che l’unico Istituto totalmente buono sia il nostro.
Attualmente, grosso modo, ci sono tre partiti: 1°) i “Neo-Tradizionalisti” che, rivendicando la piena regolarità del loro stato canonico, dicono: “si può assistere solo alla Messa celebrata in piena comunione con il Vescovo del luogo”. Ma, in questo caso, sorge – praticamente e conseguentemente – il problema dogmatico dell’accettazione della continuità del Concilio Vaticano II con la Tradizione apostolica ed il Magistero tradizionale e costante della Chiesa ed inoltre il problema della piena ortodossia del Novus Ordo Missae. Però tali problemi dogmatici (la cui soluzione positiva o accettazione è richiesta dai Vescovi e dall’attuale Pontefice per concedere ed ottenere l’incardinazione) sono superiori e più importanti di quello canonico (che pur ha il suo peso e non va disprezzato) della piena comunione con il Vescovo del luogo (“sine Episcopo nihil faciatis”, diceva SANT’IGNAZIO D’ANTIOCHIA, Philadeph., VII, 1)[17]. Infatti, se per essere in accordo con il Vescovo, debbo favorire l’errore nella Fede, allora “bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli Uomini” (Atti, V, 29).
Poi ci sono 2°) i “Vetero-Tradizionalisti” che, rivendicando la “primogenitura” dottrinale sulla critica alla Nuova Messa ed al Concilio Vaticano II, dicono: “solo il tale Istituto, che sin dall’inizio ha denunciato le novità del Concilio Vaticano II, possiede la pienezza della dottrina cattolica. Quindi si deve andare solo alla Messa celebrata dai suoi Ministri”. Ora, come recita il proverbio, «ogni Sacerdote nell’omelia può dire almeno tre “eresie” materiali». Inoltre ogni Ordine o Istituto ha i suoi lati d’ombra o sfumature dottrinali. Per esempio i Domenicani, i Francescani e i Gesuiti seguono tre dottrine teologiche assai diverse tra di loro (Tomismo, Scotismo, Suarezismo). Ma sarebbe un abuso di potere, oltre che una mancanza di buon senso, se i Gesuiti (o i Domenicani o i Francescani) dicessero: “si può andare solo alla Messa celebrata dalla ‘Compagnia di Gesù’ (o dall’ ‘Ordine dei Predicatori’ o dai ‘Frati Minori’)”.
Solo la Chiesa gerarchica può emettere una sentenza che vieti l’assistenza alla Messa celebrata da un Ministro o da un Ordine religioso (perché oggettivamente e gravemente eterodossi)[18]. Non dimentichiamo mai che l’ultimo giudizio vincolante spetta alla ‘Prima Sede’, la quale per volontà di Cristo si trova in Roma e specificatamente sul Colle Vaticano dove venne martirizzato e sepolto San Pietro sul quale soltanto poggia la Chiesa (volenti o nolenti, piacenti o spiacenti), alla quale sola è stata promessa l’indefettibilità, la perennità sino alla fine del mondo, l’infallibilità a certe determinate condizioni. Nessun Istituto può arrogarsi tali prerogative, neppure nella situazione di crisi nella Chiesa a partire dal Concilio Vaticano II. Se lo facesse si trasformerebbe in una setta prendendo la parte (l’Istituto) per il tutto (la Chiesa).
La confusione dottrinale nella quale si naviga oggi non ha risparmiato nessuno e non si può veder chiaro a mezzanotte; umanamente parlando non si vede nessun “Francesco che ripari la Chiesa di Cristo”. Il Pastore è stato colpito ed il gregge è stato disperso. Nessun Istituto o Ordine può presumere di possedere la piena ed integra Verità dogmatica, morale e liturgica a scapito di tutti gli altri, che ne sarebbero totalmente o abbondantemente privi. Purtroppo anche nel Vertice della Chiesa si è “infiltrato il fumo di Satana”, come ha riconosciuto lo stesso Paolo VI. Quindi non ci si deve meravigliare dei nei di questo o quell’Istituto “vetero” o “neo-Tradizionale”. Non facciamo come il fariseo che salì a pregare al Tempio assieme al pubblicano ed iniziò a condannare tutti tranne se stesso, ma fu disapprovato da Dio. (Lc., XVIII, 9-14).
Qualcuno, infine, 3°) solleva il problema della validità della consacrazione nel Novus Ordo Missae. Ma tale problema non sussiste, poiché la sostanza della forma del Sacramento è rimasta e quindi se il Ministro, che celebra la Messa tradizionale, prende le ostie consacrate nel rito del Novus Ordo Missae per distribuire la Comunione ai fedeli, prende delle particole validamente consacrate, che hanno subìto quanto alla forma della Consacrazione una mutazione integrante, ma non essenziale.
Certamente il nuovo Rito della Messa – oggettivamente - favorisce l’errore e l’eresia, ma non invalida in sé la presenza reale di Gesù nell’Ostia consacrata (cfr. S. TOMMASO D’AQUINO, S. Th., III, q. 78, a. 3)[19].
Sempre seguendo questa “terza pista” si arriva a considerare invalide le nuove Ordinazioni sacerdotali, le nuove Consacrazioni episcopali, i nuovi Sacramenti, lasciando i fedeli in balìa del “mondo, del demonio e della carne”. Si arriva a dire che le confessioni dei nuovi Sacerdoti sono invalide e si costringono i fedeli a restare senza assoluzione anche per lungo tempo … e così via. Si rischia, perciò, di fare come “i Farisei, che impongono agli altri dei pesi gravi e difficili da portare, ma loro non li spostano neppure con un dito” (Mt., XXIII, 4; Lc., XI, 46).
Non è quindi corretto e neppure lecito arrogarsi, dal basso e soggettivisticamente, l’Autorità (che viene da Dio) di dire, obbligando, che non si può assistere alla Messa tradizionale di tale Ministro o di tale Istituto, poiché solo i Ministri di un solo Istituto sarebbero atti a celebrare in maniera perfetta, in quanto porgono oltre alla Messa anche l’integra dottrina tradizionale. Lutero ha introdotto il soggettivismo nel Cristianesimo, ha eliminato la Gerarchia, presumendo che il suo fosse l’unico vero Cristianesimo, ma ha prodotto un cataclisma. “Da piccoli fiocchi di neve nasce una valanga”, dice il proverbio. Seguendo questa via si sa da dove si comincia e non si sa dove si arriva.
Prima di emettere sentenze definitive con conseguenze talmente devastanti per le anime dei fedeli, e per di più senza averne l’autorità, si rifletta che la “suprema lex Ecclesiae” è la “salus animarum” e non il nostro interesse di campanile. Parafrasando il Vangelo si può dire: “cosa giova al Sacerdote se conquista tutti i fedeli del mondo e poi perde le loro anime?” (cfr. Mt., XVI, 26).
Non siamo così disumani da togliere agli uomini la suprema possibilità di salvarsi l’anima; non emettiamo leggi contrarie al bene supremo, ma aiutiamo le anime a salvarsi anche presso altri Sacerdoti o altri Istituti.
d. Curzio Nitoglia
21 settembre 2012
http://doncurzionitoglia.wordpress.com/2012/09/22/l-neo-donatismo-un-pericolo-sempre-attuale/
[1] Cfr. A. PINCHERLE, voce Donatismo, in “Enciclopedia Cattolica”, Città del Vaticano, 1950, vol. IV, coll.1851-1857; G. RICCIOTTI, L’era dei Martiri, Roma, 1955; A. PIOLANTI, voce Donatismo, in “Dizionario di Teologia dommatica”, Roma, Studium, IV ed., 1957, pp. 129-130.
[2] Cfr. A. VELLICO, La Rivelazione e le sue fonti nel “De praescriptione haereticorum” di Tertulliano, in “Lateranum” n. 4, Roma, 1935; A. D’ALÈS, La théologie de Tertullien, Parigi, 1905.
[3] B. MONDIN, Storia della Teologia, Bologna, ESD, 1996, I vol., pp. 144-146.
[4] Cfr. A. MAYER, voce Montanismo, in “Enciclopedia Cattolica”, Città del Vaticano, 1952, vol. VIII, coll. 1343-1347; P. PARENTE, voce Montanismo, in “Dizionario di Teologia dommatica”, Roma, Studium, IV ed., 1957, p. 281.
[5] Cfr. F. SPADAFORA, Pentecostali e Testimoni di Geova, Rovigo, Istituto di Arti Grafiche, V ed., 1980.
[6] Cfr. A. FAGGIOTTO, L’eresia dei Frigi, Roma, 1923.
[7]ROBERTO DE MATTEI nel suo libro Apologia della Tradizione (Torino, Lindau, 2012) scrive: «L’assenza del Magistero dai luoghi teologici. Tra i luoghi teologici enunciati da Melchior Cano manca il “Magistero”, termine che ha iniziato a diffondersi nel linguaggio teologico solo nel secolo XIX» (p. 93). Inoltre: «Non c’è formula più equivoca di quella secondo cui il Magistero interpreta la Tradizione» (Ibidem, p. 111).
È vero che la parola Magistero, nel significato attuale ed in senso stretto, è stata introdotta dai canonisti tedeschi del XIX secolo e che occorre attendere il Concilio Vaticano I (1870) per avere una dottrina definita sul Magistero ecclesiastico (cfr. Y. CONGAR, Pour une histoire sémantique du terme Magisterium, in “Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques”, n. 60, pp. 85-98, 1976). Ma sin dai primi tempi del Cristianesimo si parla del “potere di sottomettere all’insegnamento” conferito da Gesù a Pietro e agli Apostoli (Mt., XVI, 16-19; Lc., X, 16; Gv., XXI, 15 ss.). Quindi la realtà del Magisterium è coeva a Cristo. Lo stesso si può dire quanto al termine “Transustanziazione”, nato soltanto nella controversia contro Berengario di Tours († 1088) e canonizzato dal Conc. Trid. (DB 884), che ha rimpiazzato definitivamente i termini “Transmutatio”e“Transformatio”. La realtà della Transustanziazione la si ritrova nei Vangeli quando Gesù parla dell’Istituzione dell’Eucarestia (Lc., XXII, 19; Mt., XXVI, 28). Quindi anch’essa è coeva a Cristo.
Inoltre il Magistero stesso e i teologi più rinomati insegnano comunemente il contrario di quanto scrive Roberto De Mattei. Vediamoli.
Nella Enciclica Humani generis (12 agosto 1950) papa Pacelli insegna che «il Magistero deve essere per qualsiasi teologo, in materia di Fede e di Costumi, regola prossima di verità (“proxima norma esse debet”), in quanto Cristo ha affidato al Magistero il Deposito della Fede – cioè la Tradizione divina e la S. Scrittura – […] per essere interpretato (“interpretandum”). Per gli insegnamenti del Magistero non solo solenne ma anche ordinario valgono le parole: “Chi ascolta voi, ascolta Me” (Lc. X, 16). […]. È vero che i teologi devono sempre tornare alle fonti della Rivelazione divina […]. Ma Dio assieme a queste due sacre Fonti della Rivelazione ha dato alla sua Chiesa il Magistero (“Deus suae Ecclesiae Magisterium vivum dedit”). […]. Il Redentore ha affidato il Deposito della Rivelazione per la sua retta interpretazione non ai singoli fedeli, né ai teologi, ma solo al Magistero ecclesiastico (“concredidit authentice interpretandum soli Ecclesiae Magisterio”)» (DS 3384, 3386). In breve Pio XII ribadisce che Cristo ha dato alla Chiesa la Tradizione, la Scrittura ed anche il Magistero, che è regola prossima di verità per la retta interpretazione della divina Tradizione e della S. Scrittura.
I ‘Luoghi Teologici’ sono «la sede di tutti gli argomenti della ‘Scienza Sacra’ a partire dai quali i teologi traggono le loro argomentazioni sia per dimostrare una verità sia per confutare un errore» (M. CANO, De Locis tehologicis, Roma, ed. T. Cucchi, 1900, Lib. 1, cap. 3). Melchior CANO († 1560) ha stabilito 10 “Luoghi teologici” (M. Cano, De Locis tehologicis, Roma, ed. T. Cucchi, 1900):
a) “Luoghi propri e apodittici”: Tradizione e Scrittura (Fonti della Rivelazione), le Decisioni della Chiesa, dei Concili e dei Papi, che equivalgono al Magistero ecclesiastico pontificio/universale, ordinario/straordinario (Cfr. R. Garrigou-Lagrange, De Revelatione, Roma, Ferrari, II ed., 1921, I vol., p. 36);
b) “Luoghi intrinseci e probabili”: l’insegnamento dei Padri, dei teologi scolastici;
c) “Luoghi estrinseci”: la ragione umana, la retta filosofia e la storia. Questi ultimi tre sono “Luoghi alieni” o fonti ausiliarie per il lavoro teologico. I primi due sono “Luoghi fondamentali” o fonte della Rivelazione e quindi della Teologia, che deriva dal Dato Rivelato. Gli altri cinque contribuiscono intrinsecamente alla retta interpretazione della Rivelazione.
Monsignor Antonio Piolanti scrive: «La Teologia è fondata su Verità rivelate, le quali sono contenute nella Scrittura e nella Tradizione, la cui interpretazione è affidata al vivo Magistero della Chiesa, il quale a sua volta si manifesta attraverso le definizioni dei Concili, le decisioni dei Papi, l’insegnamento comune dei Padri e dei Teologi scolastici» (Dizionario di Teologia dommatica, Roma, Studium, IV ed., 1957, p. 246).
Il cardinal Pietro Parente scrive che il Magistero è perciò “il potere conferito da Cristo alla sua Chiesa, in virtù del quale la Chiesa docente è costituita unica depositaria e autenticainterprete della Rivelazione divina. […]. Secondo la dottrina cattolica la S. Scrittura e la Tradizione non sono che la fonte e la ‘regola remota’ della Fede, mentre la ‘regola prossima’ è il Magistero vivo della Chiesa” (Dizionario di Teologia dommatica, cit., pp. 249-250).
Il teologo tedesco professor ALBERT LANG scrive: «Il Magistero ecclesiastico è proprio quel ‘Luogo teologico’, nel quale per disposizione divina i fedeli ed i teologi trovano in primo luogo e nel modo più immediato le Verità di Fede, perché nella Parola o Magistero della Chiesa la Rivelazione continua a vivere, ad agire e perviene immediatamente ai singoli. La Dottrina sacra o della Fede viene annunziata dalla Chiesa poiché è divinamente rivelata e non è rivelata poiché annunziata dal Magistero della Chiesa. Il Magistero non è la causa del carattere della divina Rivelazione annunziata dalla Chiesa, ma è solo uno strumento o un mezzo stabilito da Dio, per il quale il Rivelato viene interpretato e quindi da noi conosciuto con certezza» (A. Lang, Die Loci teologici des Melchior Cano und die dogmatischen Beweises, Monaco, 1925, p. 82).
Il Procedimento del Lavoro teologico secondo p. REGINALDO Garrigou-Lagrange si fa «raccogliendo le Verità rivelate, contenute nel Depositum Fidei, che sono la Tradizione e la Scrittura, alla luce del Magistero della Chiesa, che definisce e ci propone a credere queste medesime Verità […]». (La Sintesi tomistica, Brescia, Queriniana, 1953, p. 72). La Teologia è la scienza che mediante la ragione illuminata dalla Fede (“sine Fide non remanet Theologia”), fondandosi sulle ‘due fonti della Rivelazione’ (Tradizione e S. Scrittura), sotto la direzione interpretativa del Magistero ecclesiastico, tratta di Dio e delle creature in rapporto a Dio. La ragione filosofica ne sviluppa tutta la fecondità, giungendo a delle “Conclusioni teologiche” (Cfr. S. Tommaso, S. Th., I, q. 1; G. M. Roschini, Introductio in Sacram Theologiam, Roma, 1947; P. Parente, Teologia, Roma, 1953; A. Gardeil, Le donne revélé et la théologie, Juvisy, 1932; A. Stolz, Introductio in sacram Theologiam, Friburgo, 1941).
Sia nella Scrittura che nei Padri il concetto di vera Tradizione è sempre collegato:
1°) all’Assistenza di Dio, poiché senza l’aiuto dello Spirito di Verità, la purezza dell’insegnamento orale non potrebbe conservarsi senza mescolanza di errori;
2°)al Magistero che, pur non essendo la Tradizione stessa, è l’organo tramite il quale essa viene tramandata; il senso pieno di Tradizione lo si può avere solo a condizione di tenere uniti i due suoi aspetti (passivo e attivo), di cui il secondo è assai importante di modo che una “tradizione” del I secolo, ma non attestata dal Magistero della Chiesa, non costituirebbe ‘vera’ Tradizione divino-apostolica, al massimo avrebbe un valore di documentazione storica, ma non di Fede divina. Tra Magistero e Tradizione vi è una certa distinzione ma non separazione, ossia la Chiesa è come un Maestro (Magistero) che contiene e trasmette la Scrittura (Bibbia) e la Tradizione (Denzinger), ha un Libro di testo ufficiale (Bibbia più Denzinger) e ne spiega il vero significato ai discenti; se un allievo non capisce bene il significato del Libro, può chiedere spiegazione al Maestro ed egli lo illuminerà. Da tutto ciò risulta la parte essenziale e non minima o addirittura contingente, che svolge il Magistero per sua natura nel dare, “tutti i giorni sino alla fine del mondo”, la retta interpretazione attiva o soggettivo/formale del contenuto dommatico-morale della Tradizione, avendone garantito ieri la veridicità del contenuto passivo o oggettivo/materiale (Cfr. J. B. Franzelin, De divina traditione et Scriptura., Roma, 1870; L. Billot, De immutabilitate traditionis, Roma, 1904; S. G. Van Noort, Tractatus de fontibus Revelationis necnon de fide divina, 3a ed., Bussum, 1920; S. Cipriani, Le fonti della Rivelazione, Firenze, 1953; A. Michel, voce “Tradition”, in DThC, XV, coll., 1252-1350; G. Filograssi, La Tradizione divino-apostolica e il magistero ecclesiastico, in “La Civiltà Cattolica”, 1951, III, pp. 137-501; G. Proulx, Tradition et Protestantisme, Parigi, 1924; S. Tommaso d’Aquino, S. Th., III, q. 64, a. 2, ad 2; B. Gherardini, Divinitas 1, 2, 3/ 2010, Città del Vaticano, S. Cartechini, Dall’opinione al domma, Roma, Civiltà Cattolica, 1953, M. Schmaus, tr. it., La Chiesa, Casale Monferrato, Marietti, 1973).
La Tradizione assieme alla Bibbia è una delle due “fonti” della divina Rivelazione (Tradizione passiva e oggettiva). Essa è anche la “trasmissione” (dal latino tradere, trasmettere) orale di tutte le verità rivelate da Cristo agli Apostoli o suggerite loro dallo Spirito Santo, e giunte a noi mediante il Magistero sempre vivo della Chiesa, assistita da Dio sino alla fine del mondo. La Tradizione assieme alla S. Scrittura è il “canale contenitore (Tradizione passiva) e veicolo trasmettitore (Tradizione attiva)” della Parola divinamente rivelata. Il Magistero ecclesiastico è “l’organo” della Tradizione, mentre i “documenti” in cui si è conservata sono i Simboli di fede, gli scritti dei Padri, la liturgia, la pratica della Chiesa, gli Atti dei martiri e i monumenti archeologici. Quanto ai rapporti tra Magistero e Tradizione, il Magistero custodisce, spiega e interpreta la Parola di Dio scritta o orale (“Verbum Dei scriptum vel traditum”). Quindi non sono identici: il Magistero non è fonte di Rivelazione, la Scrittura e Tradizione sì. Perciò il Magistero presuppone le due fonti della Rivelazione, le custodisce e le spiega, onde in senso stretto non coincide con la Tradizione. Tuttavia, se si considera il Magistero nei suoi documenti o oggettivamente, allora si può dire che in essi si ritrova la fonte o luogo in cui vi è la Rivelazione (Cfr. J. Salaverri, De Ecclesia Christi, Madrid, BAC, 1958, n. 805 ss.).
Per il Protestantesimo l’unica fonte della Rivelazione è la S. Scrittura, onde la sola nozione di Tradizione orale e di Magistero quale canale trasmettitore di essa è inconcepibile. Invece la Chiesa ha definito infallibilmente nel Concilio di Trento (sessione IV del 6 aprile 1546; DB, 783) e nel Concilio Vaticano I (DB, 1787):
1°) che esistono insegnamenti o Tradizioni divino-apostoliche aventi relazione con la Fede e la Morale;
2°) trasmesse ininterrottamente tramite il Magistero della Chiesa;
3°) assistita da Dio. Se manca una sola di queste tre condizioni la “tradizione” è solo umana e quindi fallibile.
Quindi le due frasi citate del libro di R. DE MATTEI: «L’assenza del Magistero dai luoghi teologici. Tra i luoghi teologici enunciati da Melchior Cano manca il “Magistero”, termine che ha iniziato a diffondersi nel linguaggio teologico solo nel secolo XIX» (p. 93); «Non c’è formula più equivoca di quella secondo cui il Magistero interpreta la Tradizione» (p. 111),sono – oggettivamente – contrarie all’insegnamento del Magistero, a quello comune dei teologi e perciò – almeno materialmente – gravemente erronee.
Inoltre questa è – oggettivamente – la dottrina neomodernista di p. YVES CONGAR, che è stato uno dei campioni della nouvelle théologie, il quale ha cercato, nel periodo “conciliare” e “postconciliare”, di distruggere la nozione e la funzione del Magistero dal quale era stato condannato il 12 agosto del 1950 con l’Enciclica Humani generis di Pio XII.
È vero che la parola Magistero, nel significato attuale ed in senso stretto, è stata introdotta dai canonisti tedeschi del XIX secolo e che occorre attendere il Concilio Vaticano I (1870) per avere una dottrina definita sul Magistero ecclesiastico (cfr. Y. CONGAR, Pour une histoire sémantique du terme Magisterium, in “Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques”, n. 60, pp. 85-98, 1976). Ma sin dai primi tempi del Cristianesimo si parla del “potere di sottomettere all’insegnamento” conferito da Gesù a Pietro e agli Apostoli (Mt., XVI, 16-19; Lc., X, 16; Gv., XXI, 15 ss.). Quindi la realtà del Magisterium è coeva a Cristo. Lo stesso si può dire quanto al termine “Transustanziazione”, nato soltanto nella controversia contro Berengario di Tours († 1088) e canonizzato dal Conc. Trid. (DB 884), che ha rimpiazzato definitivamente i termini “Transmutatio”e“Transformatio”. La realtà della Transustanziazione la si ritrova nei Vangeli quando Gesù parla dell’Istituzione dell’Eucarestia (Lc., XXII, 19; Mt., XXVI, 28). Quindi anch’essa è coeva a Cristo.
Inoltre il Magistero stesso e i teologi più rinomati insegnano comunemente il contrario di quanto scrive Roberto De Mattei. Vediamoli.
Nella Enciclica Humani generis (12 agosto 1950) papa Pacelli insegna che «il Magistero deve essere per qualsiasi teologo, in materia di Fede e di Costumi, regola prossima di verità (“proxima norma esse debet”), in quanto Cristo ha affidato al Magistero il Deposito della Fede – cioè la Tradizione divina e la S. Scrittura – […] per essere interpretato (“interpretandum”). Per gli insegnamenti del Magistero non solo solenne ma anche ordinario valgono le parole: “Chi ascolta voi, ascolta Me” (Lc. X, 16). […]. È vero che i teologi devono sempre tornare alle fonti della Rivelazione divina […]. Ma Dio assieme a queste due sacre Fonti della Rivelazione ha dato alla sua Chiesa il Magistero (“Deus suae Ecclesiae Magisterium vivum dedit”). […]. Il Redentore ha affidato il Deposito della Rivelazione per la sua retta interpretazione non ai singoli fedeli, né ai teologi, ma solo al Magistero ecclesiastico (“concredidit authentice interpretandum soli Ecclesiae Magisterio”)» (DS 3384, 3386). In breve Pio XII ribadisce che Cristo ha dato alla Chiesa la Tradizione, la Scrittura ed anche il Magistero, che è regola prossima di verità per la retta interpretazione della divina Tradizione e della S. Scrittura.
I ‘Luoghi Teologici’ sono «la sede di tutti gli argomenti della ‘Scienza Sacra’ a partire dai quali i teologi traggono le loro argomentazioni sia per dimostrare una verità sia per confutare un errore» (M. CANO, De Locis tehologicis, Roma, ed. T. Cucchi, 1900, Lib. 1, cap. 3). Melchior CANO († 1560) ha stabilito 10 “Luoghi teologici” (M. Cano, De Locis tehologicis, Roma, ed. T. Cucchi, 1900):
a) “Luoghi propri e apodittici”: Tradizione e Scrittura (Fonti della Rivelazione), le Decisioni della Chiesa, dei Concili e dei Papi, che equivalgono al Magistero ecclesiastico pontificio/universale, ordinario/straordinario (Cfr. R. Garrigou-Lagrange, De Revelatione, Roma, Ferrari, II ed., 1921, I vol., p. 36);
b) “Luoghi intrinseci e probabili”: l’insegnamento dei Padri, dei teologi scolastici;
c) “Luoghi estrinseci”: la ragione umana, la retta filosofia e la storia. Questi ultimi tre sono “Luoghi alieni” o fonti ausiliarie per il lavoro teologico. I primi due sono “Luoghi fondamentali” o fonte della Rivelazione e quindi della Teologia, che deriva dal Dato Rivelato. Gli altri cinque contribuiscono intrinsecamente alla retta interpretazione della Rivelazione.
Monsignor Antonio Piolanti scrive: «La Teologia è fondata su Verità rivelate, le quali sono contenute nella Scrittura e nella Tradizione, la cui interpretazione è affidata al vivo Magistero della Chiesa, il quale a sua volta si manifesta attraverso le definizioni dei Concili, le decisioni dei Papi, l’insegnamento comune dei Padri e dei Teologi scolastici» (Dizionario di Teologia dommatica, Roma, Studium, IV ed., 1957, p. 246).
Il cardinal Pietro Parente scrive che il Magistero è perciò “il potere conferito da Cristo alla sua Chiesa, in virtù del quale la Chiesa docente è costituita unica depositaria e autenticainterprete della Rivelazione divina. […]. Secondo la dottrina cattolica la S. Scrittura e la Tradizione non sono che la fonte e la ‘regola remota’ della Fede, mentre la ‘regola prossima’ è il Magistero vivo della Chiesa” (Dizionario di Teologia dommatica, cit., pp. 249-250).
Il teologo tedesco professor ALBERT LANG scrive: «Il Magistero ecclesiastico è proprio quel ‘Luogo teologico’, nel quale per disposizione divina i fedeli ed i teologi trovano in primo luogo e nel modo più immediato le Verità di Fede, perché nella Parola o Magistero della Chiesa la Rivelazione continua a vivere, ad agire e perviene immediatamente ai singoli. La Dottrina sacra o della Fede viene annunziata dalla Chiesa poiché è divinamente rivelata e non è rivelata poiché annunziata dal Magistero della Chiesa. Il Magistero non è la causa del carattere della divina Rivelazione annunziata dalla Chiesa, ma è solo uno strumento o un mezzo stabilito da Dio, per il quale il Rivelato viene interpretato e quindi da noi conosciuto con certezza» (A. Lang, Die Loci teologici des Melchior Cano und die dogmatischen Beweises, Monaco, 1925, p. 82).
Il Procedimento del Lavoro teologico secondo p. REGINALDO Garrigou-Lagrange si fa «raccogliendo le Verità rivelate, contenute nel Depositum Fidei, che sono la Tradizione e la Scrittura, alla luce del Magistero della Chiesa, che definisce e ci propone a credere queste medesime Verità […]». (La Sintesi tomistica, Brescia, Queriniana, 1953, p. 72). La Teologia è la scienza che mediante la ragione illuminata dalla Fede (“sine Fide non remanet Theologia”), fondandosi sulle ‘due fonti della Rivelazione’ (Tradizione e S. Scrittura), sotto la direzione interpretativa del Magistero ecclesiastico, tratta di Dio e delle creature in rapporto a Dio. La ragione filosofica ne sviluppa tutta la fecondità, giungendo a delle “Conclusioni teologiche” (Cfr. S. Tommaso, S. Th., I, q. 1; G. M. Roschini, Introductio in Sacram Theologiam, Roma, 1947; P. Parente, Teologia, Roma, 1953; A. Gardeil, Le donne revélé et la théologie, Juvisy, 1932; A. Stolz, Introductio in sacram Theologiam, Friburgo, 1941).
Sia nella Scrittura che nei Padri il concetto di vera Tradizione è sempre collegato:
1°) all’Assistenza di Dio, poiché senza l’aiuto dello Spirito di Verità, la purezza dell’insegnamento orale non potrebbe conservarsi senza mescolanza di errori;
2°)al Magistero che, pur non essendo la Tradizione stessa, è l’organo tramite il quale essa viene tramandata; il senso pieno di Tradizione lo si può avere solo a condizione di tenere uniti i due suoi aspetti (passivo e attivo), di cui il secondo è assai importante di modo che una “tradizione” del I secolo, ma non attestata dal Magistero della Chiesa, non costituirebbe ‘vera’ Tradizione divino-apostolica, al massimo avrebbe un valore di documentazione storica, ma non di Fede divina. Tra Magistero e Tradizione vi è una certa distinzione ma non separazione, ossia la Chiesa è come un Maestro (Magistero) che contiene e trasmette la Scrittura (Bibbia) e la Tradizione (Denzinger), ha un Libro di testo ufficiale (Bibbia più Denzinger) e ne spiega il vero significato ai discenti; se un allievo non capisce bene il significato del Libro, può chiedere spiegazione al Maestro ed egli lo illuminerà. Da tutto ciò risulta la parte essenziale e non minima o addirittura contingente, che svolge il Magistero per sua natura nel dare, “tutti i giorni sino alla fine del mondo”, la retta interpretazione attiva o soggettivo/formale del contenuto dommatico-morale della Tradizione, avendone garantito ieri la veridicità del contenuto passivo o oggettivo/materiale (Cfr. J. B. Franzelin, De divina traditione et Scriptura., Roma, 1870; L. Billot, De immutabilitate traditionis, Roma, 1904; S. G. Van Noort, Tractatus de fontibus Revelationis necnon de fide divina, 3a ed., Bussum, 1920; S. Cipriani, Le fonti della Rivelazione, Firenze, 1953; A. Michel, voce “Tradition”, in DThC, XV, coll., 1252-1350; G. Filograssi, La Tradizione divino-apostolica e il magistero ecclesiastico, in “La Civiltà Cattolica”, 1951, III, pp. 137-501; G. Proulx, Tradition et Protestantisme, Parigi, 1924; S. Tommaso d’Aquino, S. Th., III, q. 64, a. 2, ad 2; B. Gherardini, Divinitas 1, 2, 3/ 2010, Città del Vaticano, S. Cartechini, Dall’opinione al domma, Roma, Civiltà Cattolica, 1953, M. Schmaus, tr. it., La Chiesa, Casale Monferrato, Marietti, 1973).
La Tradizione assieme alla Bibbia è una delle due “fonti” della divina Rivelazione (Tradizione passiva e oggettiva). Essa è anche la “trasmissione” (dal latino tradere, trasmettere) orale di tutte le verità rivelate da Cristo agli Apostoli o suggerite loro dallo Spirito Santo, e giunte a noi mediante il Magistero sempre vivo della Chiesa, assistita da Dio sino alla fine del mondo. La Tradizione assieme alla S. Scrittura è il “canale contenitore (Tradizione passiva) e veicolo trasmettitore (Tradizione attiva)” della Parola divinamente rivelata. Il Magistero ecclesiastico è “l’organo” della Tradizione, mentre i “documenti” in cui si è conservata sono i Simboli di fede, gli scritti dei Padri, la liturgia, la pratica della Chiesa, gli Atti dei martiri e i monumenti archeologici. Quanto ai rapporti tra Magistero e Tradizione, il Magistero custodisce, spiega e interpreta la Parola di Dio scritta o orale (“Verbum Dei scriptum vel traditum”). Quindi non sono identici: il Magistero non è fonte di Rivelazione, la Scrittura e Tradizione sì. Perciò il Magistero presuppone le due fonti della Rivelazione, le custodisce e le spiega, onde in senso stretto non coincide con la Tradizione. Tuttavia, se si considera il Magistero nei suoi documenti o oggettivamente, allora si può dire che in essi si ritrova la fonte o luogo in cui vi è la Rivelazione (Cfr. J. Salaverri, De Ecclesia Christi, Madrid, BAC, 1958, n. 805 ss.).
Per il Protestantesimo l’unica fonte della Rivelazione è la S. Scrittura, onde la sola nozione di Tradizione orale e di Magistero quale canale trasmettitore di essa è inconcepibile. Invece la Chiesa ha definito infallibilmente nel Concilio di Trento (sessione IV del 6 aprile 1546; DB, 783) e nel Concilio Vaticano I (DB, 1787):
1°) che esistono insegnamenti o Tradizioni divino-apostoliche aventi relazione con la Fede e la Morale;
2°) trasmesse ininterrottamente tramite il Magistero della Chiesa;
3°) assistita da Dio. Se manca una sola di queste tre condizioni la “tradizione” è solo umana e quindi fallibile.
Quindi le due frasi citate del libro di R. DE MATTEI: «L’assenza del Magistero dai luoghi teologici. Tra i luoghi teologici enunciati da Melchior Cano manca il “Magistero”, termine che ha iniziato a diffondersi nel linguaggio teologico solo nel secolo XIX» (p. 93); «Non c’è formula più equivoca di quella secondo cui il Magistero interpreta la Tradizione» (p. 111),sono – oggettivamente – contrarie all’insegnamento del Magistero, a quello comune dei teologi e perciò – almeno materialmente – gravemente erronee.
Inoltre questa è – oggettivamente – la dottrina neomodernista di p. YVES CONGAR, che è stato uno dei campioni della nouvelle théologie, il quale ha cercato, nel periodo “conciliare” e “postconciliare”, di distruggere la nozione e la funzione del Magistero dal quale era stato condannato il 12 agosto del 1950 con l’Enciclica Humani generis di Pio XII.
[8] La mutazione è sostanziale se si tratta di un Rito essenzialmente diverso quanto alla materia o alla forma (per esempio se il Sacerdote battezza con il vino, impiega una materia sostanzialmente diversa da quella istituita da Gesù, che è l’acqua; oppure impiega una forma diversa: “io ti battezzo nel nome mio”). Invece la mutazione è accidentale se il Rito ha subìto solo un’alterazione (per esempio il Sacerdote ha aggiunto alla forma del Battesimo: “Io ti battezzo nel Nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo” le parole: “e di Maria Vergine”; oppure l’acqua è stata scaldata, ma è sempre acqua, cioè è la stessa sostanza che ha avuto soltanto l’aggiunta di una qualità accidentale, il calore). In questo caso il Sacerdote ha lasciato intatta la sostanza della forma e vi ha aggiunto qualcosa che la modifica soltanto accidentalmente o l’altera non invalidandola, pur compiendo personalmente un peccato grave. L’intenzione del Ministro nella confezione del Sacramento è oggettiva (voler fare un Rito sacro) e la si constata se egli segue oggettivamente e realmente le Rubriche della Chiesa; se invece inventa un Rito nuovo, allora l’intenzione oggettivamente constatabile è diversa da quella della Chiesa e si arguisce l’invalidità probabile del Sacramento. L’intenzione soggettiva (se il Ministro crede o meno alla Presenza reale) non è constatabile, è sconosciuta ai fedeli e non è essa che rende valido o meno il Sacramento (infatti, molti miracoli eucaristici sono avvenuti proprio a dei Sacerdoti che non credevano alla Presenza reale). Gesù, perciò, ha voluto escludere dalla validità dei sacramenti, che sono i canali principali della Grazia, ogni elemento soggettivistico. Quindi il Montanismo, il Donatismo come il Luteranesimo sono radicalmente fuori dall’ottica di Gesù e della Chiesa, che tolgono i fedeli da quello stato patologico che è il “dubbio metodico”, il quale nasce in maniera scientifica con il Soggettivismo religioso (di Lutero), filosofico (di Cartesio) e porta allo “scrupolo abituale”, che toglie la pace dell’anima, la quale è essenziale alla sana vita religiosa. Il Montanismo e il Donatismo hanno precorso – senza sfondare la resistenza della Cristianità – il Luteranesimo e il Cartesianismo, con che si vede come “ogni errore nuovo è vecchio quanto il diavolo” (p. MATTEO LIBERATORE), l’unica differenza è quantitativa (con Lutero e Cartesio l’errore è diventato quasi universale, mentre prima di loro era rifiutato dalla maggior parte della Società civile con l’aiuto della Chiesa gerarchica) e non qualitativa (tra Montanismo/Donatismo e Luteranesimo/Cartesianismo, non vi sono distinzioni sostanziali, ma solo accidentali).
[9] L’Eresia è una dottrina che contraddice direttamente una Verità rivelata da Dio e proposta a credere come tale dalla Chiesa ai fedeli. Perché vi sia Eresia occorrono, quindi, due elementi essenziali: 1°) l’opposizione ad una Verità divinamente rivelata; 2°) l’opposizione alla definizione del Magistero ecclesiastico con obbligo di adesione ad essa. Ora una Verità che è solamente rivelata si chiama di Fede divina, mentre se è anche definita come tale e proposta a credere dal Magistero si chiama Verità di Fede divino-cattolica. L’Eresia perfetta si oppone alla Verità di Fede divino-cattolica, ossia rivelata da Dio e definita dalla Chiesa con obbligo di credervi sotto pena di dannazione. Chi nega una Verità solamente Rivelata è prossimo all’eresia, ma non è eretico, strettamente parlando (cfr. S. Th., II-II, q. 11; G. VAN NOORT, De fonti bus Revelationis, Amsterdam, 1911, n. 259 ss.; A. PIOLANTI, voce Eresia, in “Dizionario di Teologia dommatica, Roma, Studium, IV ed., 1957, p. 139).
[10] Lo Scisma è il delitto di chi si separa dalla Chiesa Cattolica per formare una chiesa particolare. Mentre l’Eresia erra contro la Fede o il Dogma rivelato e definito, lo Scisma rompe il vincolo sociale con la Chiesa docente e discente, ricusando di far parte della Società divina istituita da Cristo, che è la Chiesa romana e separandosi da Essa. Gli Scismatici, se sono in cattiva fede, non si possono salvare, poiché scriveva SANT’AGOSTINO (Epist. 173 ad Donatum): “Sarai punito con il supplizio eterno, anche se fossi bruciato vivo per il nome di Cristo, se ti poni fuori della Chiesa e ti separi dalla compagine dell’Unità e dal vincolo della Carità” (cfr. S. Th., II-II, q. 39; M. JUGIE, Theologia dogmatica Christianorum orientalium, Parigi, 1927, t. I; ID., Le Scisme Byzantin, Parigi, 1942).
[11] Le sue opere più famose sono: De schismate donatistarum seu contra Parmenianum, tr. it., La vera Chiesa, Roma, Città Nuova, 1988.
[12] “Ex opere operato” è un termine teologico usato per la prima volta da PIETRO DI POITIERS († 1205) e significa esattamente “l’atto oggettivo considerato in se stesso (‘opus in se operatum’), indipendentemente dalle qualità o meriti di colui che agisce”. Mentre “ex opere operantis” significa “l’atto soggettivamente considerato (‘opus personae operantis’), in quanto ha un valore morale e meritorio, che gli proviene dai meriti o dalle qualità del soggetto operante”. Ora questi termini applicati ai Sacramenti stanno a significare che “l’opus operatum è il segno sensibile in sé validamente posto, ossia il Rito sacro costituito di materia e forma, amministrato come Rito sacro”, mentre l’opus operantis è “l’atto del ministro dipendentemente dai suoi meriti, cioè in quanto ha un valore morale o meritorio”. Ma la causalità oggettiva dei Sacramenti (“ex opere operato”) è opposta a quella soggettiva (“ex opere operantis”). Quindi affermare la prima, significa negare la seconda. Perciò quando s’insegna che i Sacramenti producono il loro effetto (la Grazia) ‘ex opere operato’ o oggettivamente, significa che il Rito validamente posto produce in sé la Grazia, indipendentemente dai meriti del Ministro o persona operante (‘ex opere operantis’). Queste due formule hanno permesso al Concilio di Trento di confutare il falso principio luterano e prima ancora donatista, il quale asseriva che la fede fiduciale (Lutero) o i meriti (Donato) causano soggettivamente la Grazia ‘ex opere operantis’ e non è oggettivamente il Sacramento in sé o ‘ex opere operato’ a produrla. Cfr. J. B. FRANZELIN, Tractatus de Sacramentis, Roma, 1911, thesis 7.
[13] “Il Battesimo non vale per i meriti di chi lo amministra, ma per la propria intrinseca efficacia e santità, comunicatagli da Dio che lo ha istituito” (Contra Cresconium, I, IV, cap. 19).
[14] G. MATTIUSSI, De Sacramentis, Roma, 1925; E. HUGON, La causalité in strumentale dans l’ordre surnaturel, Parigi, 1924; D. ITUORRIOZ, La definiciòn del Concilio de Trento sobre la causalidad de los Sacramentos, Madrid, 1951.
[15] Cfr. S. Th., III, qq. 60-65; R. BELLARMINO, De Sacramentis, Venezia, 1599; J. B. FRANZELIN, De Sacramentis in genere, Roma, 1911; A. PIOLANTI, De Sacramentis, Roma, 1947;ID., I Sacramenti, Firenze, 1956.
[16] L’analogia dice “somiglianza dissomigliante”, ove la dissomiglianza è superiore alla somiglianza. Per esempio tra l’Essere di Dio, dell’angelo, dell’uomo, dell’animale, della pianta e del sasso vi è una certa lieve somiglianza (quanto al fatto di esistere), ma anche una maggiore dissomiglianza poiché l’Essere di Dio è infinitamente superiore a quello delle creature e quello dell’angelo è diverso essenzialmente da quello dell’uomo, dell’animale, della piante e del minerale e così scalando.
Ora tra il problema della Messa celebrata da un Ministro in peccato grave o in Grazia di Dio e il problema della Messa celebrata da un Ministro che possiede la dottrina cattolica integralmente o manchevolmente, vi è una “somiglianza dissomigliante”.
Infatti per il Montanismo/Donatismo si trattava di una questione morale (stato di peccato o di Grazia), che avrebbe invalidato l’efficacia del Sacramento; mentre per il “Tradizionalismo” odierno si tratta di una questione di dottrina (integra o deficiente) del Ministro o del suo Istituto, che renderebbe lecito o illecito frequentare la sua Messa o quella del suo Istituto.
In questa disputa la diversità (questione dottrinale oggettiva) è maggiore della somiglianza (questione morale soggettiva), tuttavia vi è una certa somiglianza quando si giudica come aventi Autorità chi ha la pienezza della dottrina cattolica e chi no e si decide quale Rito debba essere seguito e quale no.
Ciò desta stupore soprattutto in questi ultimi giorni, quando, anche i “vetero Tradizionalisti” – oggettivamente – sbandano dottrinalmente. Kyrie, eleison!
Ora tra il problema della Messa celebrata da un Ministro in peccato grave o in Grazia di Dio e il problema della Messa celebrata da un Ministro che possiede la dottrina cattolica integralmente o manchevolmente, vi è una “somiglianza dissomigliante”.
Infatti per il Montanismo/Donatismo si trattava di una questione morale (stato di peccato o di Grazia), che avrebbe invalidato l’efficacia del Sacramento; mentre per il “Tradizionalismo” odierno si tratta di una questione di dottrina (integra o deficiente) del Ministro o del suo Istituto, che renderebbe lecito o illecito frequentare la sua Messa o quella del suo Istituto.
In questa disputa la diversità (questione dottrinale oggettiva) è maggiore della somiglianza (questione morale soggettiva), tuttavia vi è una certa somiglianza quando si giudica come aventi Autorità chi ha la pienezza della dottrina cattolica e chi no e si decide quale Rito debba essere seguito e quale no.
Ciò desta stupore soprattutto in questi ultimi giorni, quando, anche i “vetero Tradizionalisti” – oggettivamente – sbandano dottrinalmente. Kyrie, eleison!
[17] Cfr. SANT’IGNAZIO D’ANTIOCHIA MARTIRE, Eph., II, 2; V, 3; VI, 1; Rom., 9; Philadelphi, III, 2; IV, 1; Magn., IV, 1; VI, 1; Trall., II, 1; II, 2; VII, 2; XII, 2; Smyrn. VII, 1; VIII, 1; IX, 1; Polyc., IV, 1; S. IRENEO DA LIONE, Adv. Haeres., III, 142; S. CORNELIO PAPA, Ep., XLIX, 2; S. CIPRIANO, De unitate Ecclesiae, VIII; cfr. E. RUFFINI, La Gerarchia della Chiesa Cattolica negli Atti degli Apostoli e nelle Lettere di San Paolo, Roma, 1921.
[18] Si pensi alla disputa sulla Predestinazione e la Grazia efficace sorta nel Cinquecento tra Domenicani con DOMINGO BAÑEZ (Commentarium in Iam partem Summae Theologiae Sancti Thoamae, Salamanca, 1584) e Gesuiti con LUIS DE MOLINA (De Concordia, Lisbona, 1588), con reciproche accuse di Eresia. Infatti i Domenicani accusavano i Gesuiti di essere Pelagiani ed i Gesuiti accusavano i Domenicani di essere Calvinisti. La Chiesa – sotto i pontificati di Clemente VIII e Paolo V – istituì la Congregatio de Auxiliis o Congregazione sugli aiuti della Grazia (1597-1607), che dopo oltre 120 riunioni non arrivò ad una conciliazione delle due sentenze, né emise un’approvazione o una condanna, ma il 5 settembre 1607 sotto Paolo V proibì agli uni e agli altri di emettere giudizi di Eresia (DS, 1997). Inoltre papa Urbano VIII nei ‘Decreti del S. Uffizio del 22 maggio 1625 e del 1° agosto 1641’ confermò il Decreto di Paolo V del 1607 e minacciò la scomunica riservata al Papa a chi avesse accusato l’altra parte di Eresia. La questione è rimasta aperta ed è ancora vivamente disputata (famosa è quella tra p. REGINALDO GARRIGOU-LAGRANGE o. p. †1964 ed il card. LOUIS BILLOT s. j. †1931 e più recentemente tra J. H. NICOLAS e J. MARITAIN nel 1960-1963), ma si può seguire la dottrina tomista o quella molinista sulla Grazia ed andare a Messa dai Domenicani o dai Gesuiti, senza essere giudicati come eretici. Anzi chi emettesse questo giudizio incorrerebbe, lui e non altri, nella censura ecclesiastica di Scomunica riservata alla S. Sede.
[19] Cfr. i migliori Commentatori della Summa Theologiae (III, qq. 73-83) di SAN TOMMASO D’AQUINO: CAJETANUS; GIOVANNI DA SAN TOMMASO; BILLUART; inoltre J. B. FRANZELIN, De SS. Eucharestiae Sacramento, Roma, 1868; G. MATTIUSSI, De SS. Eucherestia, Roma, 1925; L. BILLOT, De Ecclesiae Sacramentis, Roma, VII ed., 1931; R. GARRIGOU-LAGRANGE, De Eucharestia, Torino-Roma, 1943; A. PIOLANTI, De Sacramentis, Torino-Roma, II ed., 1947; A. PIOLANTI, voce Eucarestia, in “Enciclopedia Cattolica”, Città del Vaticano, 1950, vol. V, col. 772.
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