“Salafismo e wahabismo” di don Curzio Nitoglia
È noto a tutti, fin dai banchi di scuola, che non si può «parlare male di Garibaldi»: il suo “coraggio” e il “purissimo idealismo” ne fanno un eroe dell’apologetica risorgimentalista. Ma analizzando con maggiore accuratezza la vita del presunto eroe, si possono mettere in luce molti aspetti oscuri o poco noti del suo passato. Di certo il nizzardo non brillava per coerenza di idee se Mazzini lo definì «una vera canna al vento» e Denis Mack Smith lo valutò «rozzo e incolto».
Indagando meglio si scopre, ad esempio, che la sua lotta contro l’oppressore non comprende la tappa in Uruguay dove preferì combattere dalla parte degli inglesi, per garantirne il monopolio commerciale sul Rio della Plata e contrastare così l’egemonia spagnola, nazione troppo cattolica per il proverbiale antipapismo garibaldino e soprattutto per il suo iniziale avvicinamento alla massoneria d’oltreoceano. O ancora che fu artefice di un meschino traffico di schiavi al suo ritorno dal Perù nel 1852. Garibaldi «m’ha sempre portato i Chinesi nel numero imbarcati e tutti grassi e in buona salute, perché li trattava come uomini e non come bestie», scriveva con ammirazione e una punta di ironia l’armatore torinese Pietro Denegri.
Nel 1835 a Rio de Janeiro (Brasile), Garibaldi strinse amicizia con Livio Zambeccari, esponente di spicco della massoneria e segretario del presidente del Rio Grande. Ma fu a Montevideo (Uruguay) nel 1844 che indossò il primo “grembiulino” ed “ebbe la luce” massonica. Aveva trentasette anni e la loggia era “L’Asil de la Vertud”, una loggia irregolare, emanazione della massoneria brasiliana, non riconosciuta dalle principali obbedienze massoniche internazionali, quali erano la Gran Loggia d’Inghilterra e il Grande Oriente di Francia. Sempre nel corso del 1844 regolarizzò la sua posizione presso la loggia “Les Amis de la Patrie” di Montevideo posta all’obbedienza del Grande Oriente di Francia. La sua affiliazione comparve successivamente anche nella loggia “Tomp Kins”, a Stapleton nello stato di New York. La carriera massonica di Garibaldi culminò nel 33° grado del rito Scozzese ricevuto a Torino il 17 marzo 1862, nella elezione a Gran Maestro del 21 maggio 1864 e nella suprema carica di Gran Ierofante del Rito Egiziano di Memphis-Misraim nel 1881 [1]. Garibaldi, inoltre si interessò anche di spiritismo e occultismo.
Ma prima di passare a descrivere più nel dettaglio l’influenza della massoneria sul nizzardo è opportuno ricordare che tutti i riti massonici, sebbene divisi al loro interno, fin dalla Rivoluzione francese perseguivano un disegno finale metapolitico, che aveva come fine ultimo la distruzione del cristianesimo e il ritorno dell’umanità ad un’età precristiana, pagana, gnostica. Il potere della massoneria si rafforzò con Napoleone, con cui l’attacco alla Chiesa di Roma divenne sempre più palese fino all’annessione del 10 giugno 1808 dello Stato pontificio all’Impero francese. Il convegno massonico di Strasburgo del 1847 organizzò i moti rivoluzionari dell’anno successivo che si propagarono contemporaneamente a Parigi, Vienna, Berlino, Milano, Roma e Napoli.
La più nota ma, al contempo, impenetrabile società segreta dell’Ottocento fu la Carboneria, emanazione della loggia dei Filaleti, cioè Amici della libertà, francesi. Organizzata in Vendite, operava in stretto contatto col Rito Scozzese, era diretta da un vertice chiamato Alta Vendita composta a livello internazionale da quaranta membri. Molto diffuse in Piemonte e nell’Italia settentrionale, la prima Vendita meridionale fu stabilita a Capua, nel 1809. Mazzini fu iniziato alla Carboneria fra il 1827 e il 1829. I carbonari appartenevano agli Illuminati di Baviera e vi apparteneva anche Mazzini che – tra l’altro – credeva fermamente nella reincarnazione. Conobbe Elena Blavatsky, fondatrice della Società Teosofica e fu molto amico di John Yarker, Gran Ierofante di Memphis e Misraim. Carboneria e Alta Vendita entrarono in gioco per l’unificazione dell’Italia: alla prima spettava il compito di rovesciare il Trono, alla seconda quello di assalire il papa e disgregare il clero. Il loro braccio armato era l’orda garibaldina. Ma, per portare a termine la sua missione, Garibaldi aveva bisogno di un protettore potente: la onnipresente massoneria britannica. Perfino lo storico ufficiale della massoneria italiana Aldo Mola scrive «la spedizione dei Mille si svolse dall’inizio alla fine sotto tutela britannica: o, se si preferisce, della massoneria inglese». E mentre il Pisacane – anche lui massone – falliva l’azione di Sapri, Garibaldi tramava nell’ombra in Inghilterra nell’areopago della loggia Philadelphes contro il Regno delle Due Sicilie. Nella loggia londinese si raccoglievano infatti i più importanti esponenti dell’internazionalismo democratico e socialista, tutti propensi a collocare la massoneria su posizioni fortemente antipapiste. Presi i necessari accordi con la massoneria inglese, il nizzardo partì da Liverpool alla volta del Nuovo mondo dove frequentò e batté cassa presso le logge massoniche di New York. La sconfitta dei Borbone fu comprata a peso d’oro. Oro massonico che corruppe le tasche dei generali quasi quanto la propaganda ne aveva corrotto la mente. Lo studioso De Vita ha accuratamente ricostruito la provenienza di questo tesoro attraverso una documentata ricerca negli archivi delle logge massoniche scozzesi di Edimburgo. A Garibaldi furono quindi fatti pervenire, per l’organizzazione della spedizione, tre milioni di franchi francesi, tutti convertiti in piastre d’oro turche per occultarne la provenienza e per favorirne il cambio in tutto il bacino del Mediterraneo. Non è facile valutare il valore finanziario di una somma così ingente ma si tratta senza dubbio di milioni di dollari odierni. Alla colletta contribuirono, oltre ai fratelli inglesi e americani, anche quelli canadesi. La massoneria mal sopportava quei sovrani di Napoli: troppo cattolici e ben difesi, da un lato dall’ “acqua santa” del Papa, dall’altro da quella salata e ricca di traffici del Mediterraneo; ma soprattutto bruciava loro ancora la persecuzione ordinata, tra il 1825 e il 1832, contro le logge massoniche siciliane. L’appartenenza massonica di Garibaldi contribuì quindi a finanziare la conquista del Sud. Come è dimostrato dallo stesso Garibaldi che, nel ringraziare i propri fratelli di Palermo per il conferimento dell’altissimo grado assegnatogli in seno alla massoneria, tenne a precisare, nella lettera inviata il 20 marzo 1862, che assumeva «di gran cuore il Supremo Ufficio» perché, da una parte, conferito dal libero voto di uomini liberi e dall’altra per «l’appoggio che essi diedero da Marsala al Volturno, nella grande opera dello affrancamento delle province meridionali». Ai maestri massoni dell’Italia, Garibaldi fece notare inoltre l’importanza che ogni massone cooperasse affinché Roma divenisse, oltre che italiana, la capitale di una «grande e possente Nazione». Tutti i fratelli, perciò, dovevano tenersi pronti ad accorrere «sotto quella bandiera per la quale fu sparso tanto sangue italiano». E tra i Mille che si mossero dallo scoglio di Quarto o tra i loro sostenitori più o meno ufficiali ci furono molti massoni: a iniziare da Bixio (della Trionfo ligure, tessera numero 105), a Crispi, compreso Cavour, primo ministro del governo sardo, e lord Palmerston, ministro di Sua Maestà britannica.
Lo studioso che più di ogni altro ha sottolineato l’importanza di questa «setta» nella dissoluzione del Regno della Due Sicilie è stato Giacinto de’ Sivo: la «setta che da ottant’anni va minando i troni e gli altari, guadagnava a’ nostri tempi un re, nato re, nato cristiano e cattolico» e ne ha fatto sua «vittima e strumento», inducendolo a spargere la corruzione nel Regno delle Sicilie, a fornire oro e legittimazione all’orda garibaldina, a colpire egli stesso alle spalle il monarca delle Sicilie, quando questi era ormai sul punto di fermare l’invasione [2]. Continua de’ Sivo «il Piemonte co’ suoi ambasciatori sparse tra noi il veleno delle sette; corruppe con oro e promesse i duci e i ministri napoletani; metteva in armi sulle genovesi terre un capitano di ventura, al quale con bugiarde mistificazioni aveva preparato immeritata rinomanza, gli dava oro, navi e bandiere, gli dava seguaci d’ogni nazione e d’ogni linguaggio, e il lanciava famelico e sitibondo sulle nostre terre felici» [3]. Questo dunque, il complotto che ha corrotto il Regno: inglesi e piemontesi corruppero e comprarono con oro massonico gran parte del governo di Francesco II, compreso il primo ministro Liborio Romano e con lui, larga parte degli stati maggiori militari e della burocrazia. De’ Sivo avverte e mette in guardia contro la minaccia dei settari, svelandone il disegno ultimo di attacco alla Chiesa «la guerra che oggi si fa, non è al papa come Re di Roma solamente, non si limita solo al potere temporale, non è contro la dominazione pontificia che si scaglia la bava velenosa dei settari: è anche direttamente contro i principi della religione, che vorrebbe farsi sostituire dal vantato razionalismo» [4]. A distanza di più di un secolo, non possiamo che riconoscere la perspicacia dello storico di Maddaloni che nutriva la consapevolezza del carattere intrinsecamente rivoluzionario e anticristiano dell’aggressione al Regno delle Due Sicilie. Un episodio del ben più ampio scontro fra religione e ateismo. La setta iniziò dalla soppressione degli ordini religiosi per passare all’incameramento dei beni ecclesiastici, sempre in nome della libertà e della costituzione. Poi la massoneria scatenò in Italia una vera e propria guerra alla Chiesa cattolica, utilizzando i Savoia e i liberali, come avanguardia della rivoluzione. Si dichiararono soppresse «tutte le corporazioni e gli stabilimenti di qualsivoglia genere degli Ordini monastici e delle corporazioni regolari o secolari esistenti» e si impose a tutti i religiosi di lasciare i conventi. A distanza di un mese, seguì la soppressione degli ordini religiosi e la confisca dei beni. La persecuzione anticattolica fece intascare all’élite illuminata e liberale circa un milione di ettari di terra e migliaia di edifici, tra conventi e romitori. La popolazione perse gli usi civici per secoli garantiti dalla Chiesa e insorse ovunque guadagnandosi l’appellativo di briganti. I decreti del 18 ottobre 1860, sulla abolizione dei privilegi del clero [5], e quelli del 17 febbraio 1861, che abrogarono il concordato del 1818 fra il Regno delle Due Sicilie e la Santa Sede, comportarono la laicizzazione delle opere ecclesiastiche, la soppressione di numerosi ordini religiosi oltre all’impedimento di celebrare messe e alla chiusura di alcuni luoghi di culto [6] e spinsero all’opposizione anche quella parte del clero ancora indecisa nei confronti della rivoluzione. Numerosi frati e sacerdoti, militarono nelle fila della reazione, i vescovi incoraggiavano gli insorti con le loro pastorali e rinnovavano le scomuniche della Santa Sede che definiva sacrilego il Governo italiano. Si fronteggiarono dunque, come già era stato nel 1799 e durante le invasioni napoleoniche, due idee del mondo, l’una che trovava nei simboli sacri della religione e della chiesa la sua bandiera, l’altra che riecheggiava e diffondeva le idee propugnate dalla massoneria, quella “setta” che, per dirla ancora una volta con il de’ Sivo, tanto ha inciso nelle vicende del Risorgimento italiano.
D’altra parte la stessa massoneria non nasconde, anzi rivendica orgogliosamente l’apporto al Risorgimento. Il Gran Maestro Armando Corona, in un Convegno del 1988 sul tema “La liberazione d’Italia nell’opera della massoneria”, così conclude «la liberazione d’Italia – opera eminentemente massonica – fu sorretta, in ogni suo passaggio fondamentale, dalle iniziative delle comunioni massoniche d’oltralpe». La massoneria «fu il vero ispiratore e motore del Risorgimento» [7]. Scopo della sua missione era quello di distruggere la Chiesa cattolica e sostituirla con quella massonica guidata da Londra. Suo artefice era Garibaldi, che aveva speso la sua vita a scristianizzare i popoli, in particolare quello italiano. Definiva il papa Pio IX «un metro cubo di letame» [8], lo riteneva «acerrimo nemico dell’Italia e dell’unità», lo considerava «la più nociva di tutte le creature, perché egli, più di nessun altro, è un ostacolo al progresso umano, alla fratellanza degli uomini e dei popoli».
Nel 1862 si tenne la prima costituente massonica italiana: 26 le logge i cui delegati nominarono Garibaldi, insignito da Crispi dei gradi scozzesi dal 4° al 33°, Primo Massone d’Italia. Il Grande Oriente Italiano, dunque, inizialmente dominato da esponenti vicini a Cavour, preferì affidare la carica di Gran maestro a Costantino Nigra e conferire a Garibaldi soltanto un titolo onorifico, come quello di Primo Massone d’Italia, gratificandolo di una medaglia commemorativa di oro massiccio. Nel cuore massonico del Risorgimento si facevano quindi strada due sentimenti: quello cavouriano, decisamente elitario e dinastico e quello democratico, più popolare. Iniziava una dura lotta per assicurarsi la guida della famiglia massonica. Garibaldi divenne immediatamente il candidato sostenuto dai democratici, ma quando Costantino Nigra rassegnò le dimissioni da Gran maestro e un’assemblea straordinaria fu chiamata a eleggere il suo successore, il prescelto risultò Filippo Cordova, già ministro di Cavour, che prevalse su Garibaldi con 15 voti contro 13. Per l’anno successivo, il ’63, i “figli della vedova” [9] fissarono l’appuntamento «a Roma liberata» ma non riuscirono a portarsi oltre Firenze. Dopo la nomina a sovrano Gran Commendatore del Gran Consiglio, conferita nel 1863, l’assemblea dei liberi muratori italiani riunitasi a Firenze nel maggio del 1864 e comprendente ben 72 logge, elesse Garibaldi al primo scrutinio con 45 voti (fave) su 50, Gran Maestro dei liberi muratori comprendenti i due riti, scozzese ed italiano. La speranza era quella di organizzare tutte le frange della massoneria italiana in una obbedienza universale, con una aggregazione, come lui stesso scrisse, «in una sola, di tutte le società esistenti, che tendono al miglioramento morale e materiale della famiglia italiana». La nomina a Gran Maestro rappresentò un momento fondamentale nella storia della massoneria italiana, nelle logge infatti, iniziò a scatenarsi sempre più intensamente la bufera dell’anticlericalismo radicale di cui Garibaldi era il principale e insuperato esponente. Bisognava conquistare Roma: chi voleva farlo era amico dei massoni, chi temporeggiava, nemico. Il papato era l’arcinemico da combattere ed abbattere. Con un linguaggio che fondeva insieme misticismo messianico e positivismo razionalistico, Garibaldi intendeva condurre i massoni ad una «religione del vero». Così farneticava da Torino fin dal ‘61 «incombe ai veri sacerdoti di Cristo una missione sublime»: liberare i popoli e finalmente un giorno la patria riconoscente «inciderà i loro nomi tra gli eroici figli che la redensero» [10]. Il 18 marzo del ‘67 da Firenze, Garibaldi attaccava «non abbiamo ancora Patria, perché non abbiamo Roma, chi in massoneria potrà contenderci una Patria, una Roma morale, una Roma massonica? Io sono del parere che l’unità massonica trarrà a sé l’unità politica d’Italia». L’obiettivo era chiaro: l’iniziativa militare che doveva condurre a Roma, necessitava l’armonia interna e l’abbandono di beghe e dispute su rituali e tra obbedienze. Tutti uniti in vista di un obiettivo preciso: la breccia di Porta Pia. L’antiteismo garibaldino lo spinse al punto di affermare «Se sorgesse una società del demonio, che combattesse dispotismo e preti, mi arruolerei nelle sue file». Garibaldi, nel giugno 1867, pur conservando la carica di Gran maestro del Consiglio scozzesista palermitano, accettò anche la nomina a Gran maestro onorario a vita del Grande Oriente d’Italia che gli venne conferita dalla Costituente massonica di Napoli. Il legame con l’istituzione liberomuratoria era ormai saldissimo. Non valsero a incrinarlo neppure le divergenze emerse in occasione dell’Anticoncilio di Napoli del 1869, a cui Garibaldi aderì e dal quale invece la massoneria, rimase sostanzialmente estranea. Nell’autunno del ‘67 il vessillo della Vedova sventolò sull’orda garibaldina diretta a Roma. L’azione dei volontari avrebbe dovuto avere man forte da una insurrezione preparata dai cosiddetti patrioti romani. Ma la partecipazione popolare fu scarsa e il 3 novembre 1867, le truppe francesi – da poco sbarcate a Civitavecchia – attaccarono e sconfissero i garibaldini nella gloriosa battaglia di Mentana. Fermato a Sinalunga, per paura che potesse realizzare un colpo di mano sulla frontiera pontificia, Garibaldi si ritirò a Caprera dove si diede alla scrittura. Nel romanzo autobiografico Clelia ovvero il governo dei preti, il Primo Massone divenuto ormai il Solitario di Caprera, come si autodefinì, descrisse giovani patrioti fanatici, preti demoniaci e licenziosi in pagine trasudanti anticlericalismo e antiteismo. Dall’isola, nel luglio del 1868, inviò al Supremo Consiglio della massoneria una missiva per comunicare la sua rinuncia a qualunque titolo o grado a lui attribuito, rimanendo però legato alla fratellanza laica, considerata fattore trainante della massoneria. I componenti del Supremo Organo decisero di trasmettere a Garibaldi un messaggio per dissuaderlo dalla rinuncia ma lui si chiuse nel silenzio e non diede neanche una risposta alla missiva del Supremo Consiglio che, in sua vece, elevò alla carica di Gran Maestro del rito scozzese antico ed accettato il fratello Federico Campanella. In una lettera del 1869 alla loggia “Il vero progresso sociale” di Genova, Garibaldi – nonostante la rinuncia a cariche massoniche – continuò comunque a sostenere che «la massoneria che porta l’impronta dell’Alleanza Democratica Universale e della Fratellanza umana ha per missione di combattere il dispotismo ed il prete, entrambi rappresentanti dell’oscurantismo, del servaggio e della miseria». Era ormai però lontano dalle dispute interne alla fratellanza. Per questo non partecipò neppure all’Assemblea costituente massonica riunita nella capitale Firenze il 31 maggio 1869 per ratificare la fusione del Gran Consiglio simbolico di Milano con il Grande Oriente d’Italia. Unione sancita con la firma di un documento sottoscritto nel maggio del precedente anno. Accettò, invece, nel 1872 la carica di Gran Maestro onorario a vita del grande Oriente d’Italia. Secondo Marcel Valmy, autore dell’ opera “I Massoni” edita da Contini nel 1991, Garibaldi fu anche il primo Gran Maestro della loggia “Odre du rite Mamphis Misrain”, un sistema a 90 gradi gerarchici legato a tradizioni dell’antico Egitto.
Sul versante del razionalismo positivistico di stampo massonico, Garibaldi iniziò anche una battaglia volta a diffondere in Italia l’idea e la pratica della cremazione. Tutto il movimento pro-cremazione fu infatti direttamente promosso dalle logge massoniche e ebbe fra i suoi maggiori dirigenti molte figure di primo piano della massoneria. Senza l’appoggio dei vertici della massoneria la cremazione non avrebbe avuto lo sviluppo che invece ebbe nel ventennio tra il 1875 e il 1895. La nascita della cremazione in Italia non fu solo determinata da un impegno individuale di alcuni singoli massoni, ma fu la conseguenza di un intervento ufficiale, tanto dal punto di vista economico che organizzativo, delle logge. Lo stretto vincolo cremazione-massoneria fu ben chiaro alla Chiesa che infatti si oppose strenuamente allo sviluppo di questa pratica. Tre erano gli intenti massonici in questa battaglia: il primo era quello di laicizzare – o meglio scristianizzare – oltre la società civile anche la scienza, cercando di privare la realtà naturale di ogni riferimento metafisico. Il secondo intento riguardava l’aspetto medico-igienico della cremazione. A questo proposito è interessante notare la massiccia presenza di medici nelle logge e il ruolo di primo piano svolto nella Società di Cremazione da medici-massoni. Il terzo e più importante intento era, come sempre, portare un attacco alla Chiesa cattolica che vedeva questa pratica come contraria alla fede nella resurrezione dei corpi. Inutile sottolineare che Garibaldi stesso scelse di farsi cremare dopo la morte.
La propaganda massonica contribuì a creare e diffondere il mito di Garibaldi negli anni a venire. Il radicale antiteismo massonico si espresse in una blasfema quanto indicativa giaculatoria che adorava Garibaldi come «Padre della nazione, Figlio del popolo e Spirito della libertà». Appare chiaro il tentativo di sostituire con nuovi santi e nuovi eroi quelli della tradizione cattolica, come già era avvenuto durante la rivoluzione francese. Specialmente negli anni di Crispi, intorno alla figura di Garibaldi si cercò di costruire una religione civile imperniata sul mito laico del Risorgimento e la massoneria, all’epoca sotto la guida di Adriano Lemmi, ebbe un ruolo centrale nell’orchestrazione e nella riuscita dell’operazione. Garibaldi fu il nome più diffuso fra quelli dati alle logge della penisola o alle logge italiane d’oltremare. Altre denominazioni a lui riferibili – come Caprera, Luce di Caprera, Leone di Caprera – risultavano chiaramente ispirate dall’intento di rendere omaggio al nizzardo. La massoneria inoltre si fece promotrice di innumerevoli cerimonie, commemorazioni, inaugurazioni di lapidi e monumenti, intitolazioni di strade e piazze alla memoria di Garibaldi. La più importante di queste iniziative fu l’inaugurazione a Roma del monumento sul Gianicolo, che si tenne emblematicamente il 20 settembre 1895, nel venticinquesimo anniversario di Porta Pia. Nella cerimonia il massone e capo del governo Francesco Crispi sproloquiò in un enfatico discorso sul contributo fornito dalle forze laiche all’unità.
Il Risorgimento appare così chiaramente come una tappa di quel processo rivoluzionario e anticristiano che mira a scardinare «ogni vincolo più sacro, – come si legge in un articolo della Civiltà Cattolica del 1852 – che lega uomo con uomo, nella Chiesa, nella società, nella famiglia, per ricostruire l’umanità sotto una nuova forma di totale servaggio in cui lo Stato sia tutto e i capi della setta sieno lo Stato». Tra questi capi Garibaldi, né eroe né puro idealista ma avido calcolatore e cinico esecutore degli interessi di un solo padrone, la massoneria e la sua visione anticristiana del mondo.
1 Per le notizie inerenti alle cariche massoniche ricoperte da Giuseppe Garibaldi cfr. Aldo Mola, Storia della massoneria italiana, Bompiani, Milano 2001, pp. 66 ss.; cfr. anche Aldo Mola, Garibaldi vivo, Antologia degli scritti con documenti inediti, Mazzotta, Milano 1982; Aldo Mola e L. Polo Friz, I primi vent’anni di Giuseppe Garibaldi in Massoneria, estratto dalla Nuova Antologia, f. 2143, luglio-settembre 1982, Le Monnier, Firenze. Per parte cattolica cfr. invece Epiphanius, Massoneria e sette segrete: la faccia occulta della storia, Editrice Ichthys, Roma.
2 Introduzione di Silvio Vitale a Giacinto de’ Sivo, L’Italia e il suo dramma politico nel 1861, Editoriale Il Giglio, Napoli 2002, p. XII.
3 Giacinto de’ Sivo, op. cit., p.70.
4 Giacinto de’ Sivo, op. cit.,p. 21.
5 La Chiesa risponde con le Istruzioni del 16 novembre e del 18 dicembre 1860 che sanciscono l’assoluta incompatibilità delle leggi sabaude con il magistero cattolico.
6 Le manifestazioni di odio religioso durante il Risorgimento furono molteplici: veri e propri assalti a convegni cattolici, processioni disperse dai militari, giovani francescani incarcerati per renitenza alla leva, santuari e luoghi di culto incendiati. Cfr. Marco Invernizzi, I cattolici contro l’Unità d’Italia?, Ed. Piemme, Alessandria 2002.
7 In Angela Pellicciari, L’altro Risorgimento, Piemme, Casale Monferrato (Al) 2000, pp. 264-265.
8 Per le citazioni di Garibaldi cfr. G. Garibaldi, Scritti politici e militari. Ricordi e pensieri inediti, Voghera 1907.
9 Tale definizione risalirebbe alla costruzione del Tempio di Gerusalemme ai tempi del re Salomone. Hiram, figlio di una vedova edi un fabbro fu ucciso perché si riteneva che fosse in possesso della Parola Sacra. La massoneria rappresenterebbe quindi la vedova, madre di Hiram. [Credo che i massoni si definiscano "figli della vedova" perchè si considerano fratelli di Hiram che riconoscono come il primo massone.]
10 Aldo Mola, Storia della massoneria italiana, cit., p. 69
Fonte: http://www.editorialeilgiglio.it/articles.php?lng=it&pg=760
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