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mercoledì 24 luglio 2013

2 - LA VITA DI GESU' di don ricciotti

PROSEGUIAMO CON L'INSERIMENTO DEL TESTO "VITA DI GESU' CRISTO"

NARRATA DALL'ABATE DOM RICCIOTTI, UN TESTO IMPERDIBILE E RACCOMANDABILE,

DI MEDITAZIONE E GARANZIA DOTTRINALE CATTOLICA.....


QUI LA PRIMA PARTE: SCARICA QUI LA VITA DI GESU' CRISTO DI DOM RICCIOTTI (1)

L'elezione dei quattro
§ 302. A questo punto Luca (5, 1-11) narra la vocazione dei quattro principali discepoli, Simeone Pietro con suo fratello Andrea, e Giovanni con suo fratello Giacomo; al contrario gli altri due Sinottici (Matteo, 4, 18-22; Marco, 1, 16-20) collocano questa narrazione, molto più breve, proprio al principio dell'operosità di Gesù in Gali­lea, subito dopo la notizia dell'imprigionamento di Giovanni il Bat­tista. La serie seguita da Luca appare più verosimile cronologica­mente. E’ infatti da notare che nè Matteo nè Marco hanno parlato in precedenza di relazioni fra Gesù e i quattro, ma esse sono state già accennate da Luca e spiegate ampiamente da Giovanni (§ 278 segg.); d'altra parte questa vocazione presuppone che l'operosità di Gesù sia già iniziata da qualche tempo, perché attorno a lui si ac­calca molta folla desiderosa di vederlo e udirlo, e ciò non si spie­gherebbe agevolmente se si riferisse ai primi giorni del ritorno di Gesù in Galilea, subito dopo l'imprigionamento di Giovanni il Bat­tista: essa dunque avvenne quando il ministero esercitato da Gesù già da qualche tempo gli aveva procurato larghi consensi nella Ga­lilea.

Ma specialmente le notizie date da Giovanni importano un'altra e più seria questione: se i quattro erano già stati al seguito di Gesù in Giudea, e poi in Galilea a Cana ed a Cafarnao, come mai qui Gesù sembra chiamarli a sé per la prima volta? Che questa sia la prima volta, è certo l'impressione che si ha da Matteo e Marco; tuttavia essa va corretta e integrata con quanto dicono gli altri due evangeli­sti. Quanto alle notizie di Giovanni, che è l'evangelista integratore per eccellenza, esse ci permettono di concludere che Gesù anche nella scelta dei discepoli, come nella sua manifestazione messianica, procedette gradualmente. Dapprima egli accettò i quattro che spontaneamente in Giudea erano passati a lui dalla sequela di Giovanni il Battista: ma anche così accettati essi non rimasero costantemente uniti a lui né lo seguirono in tutte le sue peregrinazioni attraverso la Galilea, da lui fatte in massima parte da solo (§ 301); più tardi invece, allorché i quattro furono sufficientemente edotti del genere di vita che richiedeva da essi Gesù e si mostrarono disposti ad accet­tarla, egli li legò definitivamente a sé con una formale elezione. La quale avvenne in questa maniera, secondo la narrazione di Luca ch'è la più ampia e particolareggiata delle tre.
§ 303. Una mattina Gesù, trovandosi lungo la sponda occidentale del lago di Tiberiade, fu circondato da numerosa folla che deside­rava udirlo parlare; ma la folla era tanta che, per trattenerla e in­sieme per farsi udire più comodamente, egli ricorse a un mezzo as­sai pratico. Quando quel lago è calmo, è quasi immobile né pro­duce alcun frastuono che impedisca di udire chi parli a voce alta: perciò, allontanandosi di qualche metro dalla spiaggia su una barca, si poteva di là parlare benissimo alla folla che sarebbe rimasta schie­rata sulla spiaggia ad ascoltare. Così fece Gesù. Li presso c'erano due barchette, i cui padroni erano scesi a terra e stavano riattando le reti; uno di essi era appunto Si­mone Pietro. Questo particolare suggerisce due conclusioni proba­bili: che l'episodio avvenisse nei pressi di Cafarnao (§ 300), e che Simone Pietro avesse sospeso in quel tempo la sua saltuaria sequela appresso a Gesù per ritornare frattanto al proprio mestiere insieme col fratello Andrea, onde provvedere ai bisogni della propria famiglia. Quando Gesù ebbe terminato di parlare da quella tribuna dondolante, provvide anche a ricompensare chi gliel'aveva fornita, e voltandosi a Simone gli disse di prendere il largo per gettare le reti. Senonché l'invito di Gesù dovette sembrare al destinatario un'invo­lontaria ironia: proprio la notte testé scorsa era stata una nottatac­cia, e Simone aveva faticato assai con i suoi compagni senza pren­der nulla. Tuttavia, giacché aveva parlato il maestro, egli non si sa­rebbe rifiutato: ma avrebbe accondisceso giusto per deferenza verso di lui e senza alcuna fiducia nel nuovo tentativo; la luce del giorno in­fatti era un nuovo ostacolo, e se di notte era andata male di gior­no sarebbe andata anche peggio. E così le reti furono gettate. Subito però si cominciò a imbarcare tanto pesce, che gli attrezzi non reg­gevano a tutto quel peso e le maglie delle reti si disfacevano. Si gettò allora una voce ai compagni dell'altra barca, rimasta inoperosa, affinché corressero a dare una mano; la barca venne, ma si continuò ancora a lungo a caricare, tanto che tutte e due le barche rimasero colme di pesce quasi da affondare. Il lago di Tiberiade era nell'antichità, ed è ancora oggi, assai ricco di pesce. Nell'antichità ne parla già Flavio Giuseppe (Guerra giud.,III, 508, 520), e della pesca viveva gran parte dei rivieraschi occiden­tali: poco a nord di Tiberiade, la borgata di Magdala (« Torre ») era chiamata dai rabbini « Torre dei pesci » (Migdal Nunaja) e da­gli ellenisti Tarichea, cioè « Salamoie di pesce) », con chiara allusione all'industria principale dei paesani. Oggi, chi ha visitato i luoghi può aver visto pescatori del lago fare buona pe­sca all'amo in pochi minuti, come può aver sentito parlare di colpi di paranza o di sciabica particolarmente fortunati, tanto da portare a terra parecchi quintali di pesce.
Ma non è detto che sia, o sia sta­to, sempre così: anche i pescatori di Tiberiade hanno avuto in ogni tempo giornate e nottate di cattiva fortuna, in cui sembra che tutti i pesci siano emigrati dal lago. Quella pesca di Simone fu fortunata per caso? Simone, che se ne intendeva, non era di questa opinione e aveva previsto un risultato ben diverso; e non fu il solo, perché anche i pescatori dell'altra barca, che erano Giacomo e Giovanni, rimasero sbalorditi del risultato effettivo. Il focoso Simone si gettò allora ai piedi di Gesù esclamando: Allontànati da me, perché sono un indegno peccatore! - Ma Gesù replicò: Non ti spaventare! D'ora in poi sarai pescatore d'uomini. - Dunque, ciò ch'era avvenuto aveva, oltre il resto, anche il valore d'un simbolo per il futuro. Scesi infine tutti a terra, lo stesso invito fu rivolto a Giacomo e Giovanni che col loro padre Zebedeo erano «soci» di pesca con Simone e suo fratello Andrea, e le due coppie di fratelli, lasciato barche e tutto, seguirono da quel giorno costantemente il maestro.



[Modificato da Caterina63 06/08/2012 17:48]
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06/08/2012 17:52

[SM=g27998] [SM=g27998] [SM=g27998] I dodici Apostoli

§ 310. Sull'orizzonte della vita di Gesù si era profilata oramai netta­mente una nuvola, ancora abbastanza lontana, ma annunziatrice si­cura di tempesta: la nuvola dei Farisei. Nè c'era da dubitare sui suoi effetti, giacché il recente caso di Giovanni il Battista dimostrava quale fosse la sorte di chi finiva ravvolto in quella nuvola. Gesù quin­di provvide ai ripari, non già per la sua propria persona, bensì per la sua opera. Dall'inizio della sua vita pubblica erano già passati vari mesi, forse un sei o sette, e la sua operosità nella Galilea gli aveva procurato molti e cordiali seguaci. Da costoro egli avrebbe tratto le pietre fon­damentali del suo edificio morale, e collocandole in opera avrebbe cominciato a tirar su quella casa che doveva resistere allo scaricarsi della nuvola. Più tardi l'evangelista teologo rifletterà: Nella (casa) propria (egli) venne, e i propri (familiari) non lo accolsero! (Giov., 1, 11).

Eppure le antiche Scritture avevano predetto che il Messia sarebbe comparso nella casa d'israele, per far sì che proprio essa divenisse la casa co­mune di Dio e degli uomini, e tutti gli uomini indistintamente potes­sero affermare “ (Dio) s'attendò fra noi!” (Giov., 1, 14); ma poiché la sua casa naturale non lo accoglieva, il Messia cominciava a segre­garsi da essa e gettava i fondamenti della casa umano-divina ch'era lo scopo della sua missione: il rifiuto dei familiari che si rinnovasse la vecchia costruzione fatiscente costringeva il rinnovatore a predi­sporre una costruzione tutta nuova.

A rigore un vero scisma ancora non era: erano tuttavia provvedimenti in vista d'uno scisma. Fra i seguaci ordinari di Gesù alcuni già erano in condizioni di par­ticolare aderenza e comunanza col maestro: tali Simone Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni figli di Zebedeo (§ 302), poi anche Levi cioè Matteo (§ 306), Filippo e Nathanael ossia Bartolomeo § 279-280). A questi sette furono aggiunti altri cinque, che certa­mente seguivano già da qualche tempo Gesù senza però che a noi risulti quando fossero entrati in relazione con lui. La scelta di questi dodici è posta da Marco (3,13-19) e da Luca (6, 12-16) prima del Discorso della montagna, e questa collocazione è senza dubbio giu­sta cronologicamente; Matteo (10, 1-4) enumera i dodici dopo il Discorso della montagna, in occasione della loro missione temporanea nelle città d'Israele, ma non dice che la loro scelta avvenisse allora, ché anzi dalla narrazione risulta ch'era avvenuta in precedenza.

§ 311. Prima di questo singolare atto della sua missione, come già prima d'iniziare la sua vita pubblica, Gesù si appartò nella montagna a pregare, e stava pernottando nella preghiera d'iddio. Quando poi si fece giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e si prescelse da essi dodici, che nominò pure apostoli (Luca, 6, 12-13). La parola apostolo significava in greco “inviato”, e corrispondeva etimologicamente all'ebraico shaluah. o shaliah e all'a­ramaico shaluha; era quindi un “apostolo” nella vita civile chi era inviato a trattare d'un matrimonio o di un divorzio, sia a comuni­care una decisione giudiziaria, come erano stati “apostoli” nella vita religiosa i profeti e gli altri inviati di Dio. Anche il Sinedrio di Ge­rusalemme aveva suoi “apostoli”, ed erano quei messi di cui esso si serviva per far pervenire le sue notificazioni alle varie comunità (§ 58) specialmente della Diaspora (cfr. Atti, 9, 1-2; 28, 21); sembra anzi che questi “apostoli” continuassero a funzionare anche dopo la distruzione di Gerusalemme, quando le supreme autorità giudai­che si erano stabilite a Jamnia. Ma fra gli “apostoli” ordinari del giudaismo (astraendo cioè dai profeti e da altre antiche manifestazioni carismatiche) e gli Apostoli istituiti da Gesù non c'era niente di comune, fuori del nome. I primi erano dei semplici incaricati e rappresentavano una data persona in un ben determinato affare (tal senso anche in Giovanni, 13, 16), co­me anche potevano essere umilissimi portatori materiali di messaggi ossia portalettere: tutti quindi rispondevano bene al titolo di “inviati”, senza però essere inclusi in una vera istituzione giuridica. I secondi invece costituivano una precisa istituzione permanente, mentre in un senso altrettanto vero ma ben più nobile erano “inviati” perché dovevano essere i portatori materiali e spirituali della “buona novella” (§105 segg.).
Il loro numero di dodici aveva un'evidente analogia con i dodici figli d'Israele e con le dodici tribù che ne erano discese per formare la nazione già prediletta dal Dio Jahvè: poiché la casa d'Israele minacciava ora di non accogliere il Messia di Jahvè che ad essa ve­niva, la nuova casa impiantata dal Messia a sostituzione di quella avrebbe avuto a sua direzione egualmente dodici capitribù spiri­tuali. Ciò sarebbe stato un memoriale dell'èra passata e una testi­monianza per l'èra futura; e questo numero di dodici fissato da Gesù fu tenuto in tanto onore nella prima generazione cristiana, che non solo essa v'incluse immancabilmente anche il nome del traditore Giuda, ma quando costui mori la prima cura del capo dei dodici, Pietro, fu di sostituire il morto con un nuovo dodicesimo apostolo e cosi reintegrare il numero solenne (Atti, 1, 15-26). Assai più spesso infatti che col nome di “apostoli” essi sono designati nel Nuovo Testamento con quello di “dodici” (34 volte contro 8).

§ 312. L'elenco dei dodici è dato quattro volte, cioè dai tre Sinottici Matteo, 10, 2-4; Marco, 3, 16-19; Luca, 6, 14-16) e dagli Atti (1, 13). Nessuno dei quattro elenchi concorda in tutto con un altro ri­guardo alle serie con cui sono nominati i dodici, neppure gli elenchi di Luca e degli Atti che sono dello stesso autore; tuttavia vi si riscon­trano le seguenti disposizioni costanti. Simone (Pietro) è sempre no­minato per primo, e Giuda il traditore sempre per ultimo (salvo che II Atti, essendo già morto); inoltre i dodici sono sempre elencati in tre gruppi formati da quattro nomi, e costantemente in cima al primo gruppo è nominato Simone, in cima al secondo Filippo, in ci­ma al terzo Giacomo figlio d'Alfeo. Ecco l'elenco com'è dato da Matteo: Simone detto Pietro, Andrea suo fratello, Giacomo (figlio) di Zebedeo, Giovanni suo fratello; Filippo, Bartolomeo, Tommaso, Matteo il pubblicano; Giacomo (figlio) d'Alfeo, Taddeo, Simone il Cananeo, Giuda Iscariota il traditore. Soltanto il terzo gruppo mostra al confronto con gli altri elenchi variazioni di nomi, trattandosi certamente del caso allora frequente fra i Giudei di avere due nomi. Invece di Taddeo, che in qualche manoscritto riceve la forma di Lebbeo, appare in altri elenchi un Giuda (figlio) di Giacomo, che è però la stessa persona di Taddeo. Come l'aggiunta patronimica di Giacomo serviva a distinguere que­sto Giuda dall'omonimo traditore, cosi l'aggiunta il Cananeo serviva a distinguere il secondo Simone dall'omonimo Pietro. Questo appel­lativo Cananeo è una semplice trascrizione dall'aramaico, ma in al­tri elenchi esso appare tradotto con zelota, come già rilevammo (§ 43); ad ogni rnodo l'appellativo ha qui il suo senso etimologico originale e non quello storico più tardivo, né implica che questo Si­mone appartenesse al partito degli Zeloti, i quali del resto intensifi­carono la loro operosità solo più tardi.

§ 313. Se Bartolomeo è effettivamente la stessa persona che Natha­nael (§ 280), i primi sei di questo elenco ci sono già noti: cosi pure l'ottavo, cioè Matteo. Degli altri non abbiamo precise notizie circa il tempo e l'occasione in cui si misero al seguito di Gesù: soltanto sappiamo che Giacomo figlio d'Alfeo, ossia Giacomo il Minore (men­tre “il Maggiore” è Giacomo figlio di Zebedeo), aveva per madre una Maria e per fratelli un Giuseppe, un Simone, e un Giuda (cfr. Marco, 15, 40; Matteo, 13, 55; 27, 56) e che era chiamato “fratello del Signore” (§ 264); probabilmente per quest'ultima ragione gli è serbato sempre il primo posto nel gruppo degli ultimi quattro. Il nome Tommaso è grecizzato dall'aramaico toma, che significa “gemello”; perciò al nome è aggiunta la sua traduzione greca, da Giovanni (11, 16; 20, 24). Il traditore Giuda è distinto con l'appellativo Iscariota, ma da Giovanni (6, 71, greco) apprendiamo che Iscariota era chiamato anche Simo­ne padre di Giuda; era dunque una designazione trasmessa di padre in figlio.
Quasi certamente l'appellativo è una trascrizione dell'e­braico 'ish Qerijjoth, “uomo di Qerijjoth”, ed è perciò un ap­pellativo geografico riferentesi alla città della Giudea chiamata Qe­rijjoth (cfr. Giosue', 15, 25) da cui provenivano gli antenati di Giu­da. Nell'elenco di Marco (3, 17) si legge che ai due fratelli Giacomo e Giovanni fu imposto da Gesù il nome di Boanerge's cioe' figli del tuono. L'appellativo non è etimologicamente chiaro, e oggi è difficile riportarlo ad una forma semitica. La meno improba­bile sembra essere bene-rigsha, “figli del fragore”. Il solo Marco ri­ferisce questo appellativo, in occasione dell'elenco degli Apostoli: certamente però esso non fu attribuito in questa elezione, ma solo più tardi quando in varie circostanze dovette apparire il carattere impetuoso e ardente dei due giovani che lo provocò; una di tali occasioni fu verosimilmente quando Giacomo e Giovanni volevano invocare fuoco dal cielo per incenerire i Samaritani che rifiutavano ospitalità a Gesù (Luca, 9, 54).

§ 314. Quanto alla condizione sociale e al grado culturale dei dc­dici possiamo concludere, da qualche vago accenno della loro condotta successiva, che essi in genere appartenevano a quel ceto socia­le del giudaismo che stava un poco sotto alla classe media dei piccoli possidenti e parecchio sopra alla classe infima dei veri poveri. Era un ceto che non ha un esatto riscontro nelle nostre condizioni so­ciali odierne, ma che all'ingrosso si potrebbe riavvicinare al piccolo commerciante o al basso impiegato. Il lavoro manuale, di pesca o altro, era abituale, come del resto era comune anche fra i rabbini dedicati allo studio della Legge (§167), ma la sua necessità economica non era così imperiosa come presso di noi; le condizioni generiche della vita permettevano d'astenersi dal lavoro anche per molti giorni di seguito, e simili astensioni tanto più erano permesse a coloro che avevano una base economica mi­gliore, per esempio ai membri della famiglia di Zebedeo che eserci­tavano una industria peschereccia piuttosto ampia. Non è arrischiato supporre che, sotto l'aspetto economico, la famiglia di Gesù fosse in condizioni meno agiate che le famiglie di tutti o quasi tutti gli Apostoli. Del resto le esigenze materiali erano poche, e con poco si viveva senza desideri e rimpianti.
In compenso, molti di questo ceto così modesto s'interessavano vi­vamente di problemi spirituali, specialmente se avevano attinenza con argomenti religiosi e nazionali. Si lasciavano volentieri gli agi della propria casetta per prender parte ad una discussione, per ascol­tare un celebre maestro, per andare addietro anche vari giorni di se­guito ad un potente dominatore di turbe. Ciò che s'imparava in que­sti incontri era custodito amorosamente nell'archivio preferito dai Semiti, quello della memoria (§ 150), e forniva argomento a con­tinue riflessioni personali e a frequenti dispute collettive, e così si formava il principale patrimonio culturale di questo ceto. Il quale leggeva e scriveva poco, senza però che tutti vi fossero analfabeti: l'analfabetismo in Palestina dovette imperversare molto più dopo la catastrofe del 70 che prima di essa; alle singole sinagoghe, prima della catastrofe, era per lo più annessa una scoletta elementare (§ 63) e bene o male molti imparavano le lettere, sebbene in seguito se ne servissero poco.

Di questa condizione sociale e levatura culturale erano, in genere, i dodici scelti da Gesù, pur ammettendo che taluno di essi emergesse alquanto fra gli altri. Già rilevammo, ad esempio, che l'antico pub­blicano Matteo fu scelto a mettere in iscritto la catechesi aposto­lica probabilmente appunto per la sua maggiore perizia nello scri­vere (§ 117); inoltre, se i Greci che volevano conoscere personal­mente Gesù si rivolsero per tale scopo a Filippo (Giovanni, 12, 20-21, greco) l'apostolo dal nome greco, si può congetturare che questo apostolo si segnalasse fra i suoi colleghi per cultura o condizione so­ciale (§ 508). I caratteri personali dei dodici variavano naturalmente da individuo a individuo: all'impetuoso Simone Pietro pare che somigliasse ben poco suo fratello Andrea, che doveva esser d'indole calma e serena, né i due figli del tuono avevano molte analogie con Tommaso lo sfiduciato e il diffidente (Giovanni, 11, 16; 14, 5; 20, 25). Quando si dettero a seguire Gesù erano certamente accesi da vivo affetto e da entusiasmo per lui, ma nelle loro intime personalità erano rimasti uomini come tutti gli altri, e presi in complesso rappresentavano più o meno l'umanità intera. Anche per questo non poteva mancare il traditore.
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Il Discorso della montagna

§ 315. L'elezione dei dodici fu una scelta materiale, che sarebbe valsa a ben poco se non fosse stata seguita da una spirituale, ossia da una informazione dottrinale. Nonostante il loro affetto per il maestro i dodici dovevano essere informati assai scarsamente circa il pensiero di lui, e si sarebbero trovati certamente in un serio impac­cio se qualche dotto Fariseo li avesse invitati a fare un'esposizione precisa e compiuta delle dottrine di Gesù. Lo avevano visto operar miracoli per far del bene agli afflitti; lo avevano udito predicare come avente autorità (§ 299) ed affermare principii di giustizia e di bontà; essi stessi si erano sentiti dominati da lui e attratti a lui, e lo amavano cordialmente: ecco tutto, altro non avrebbero potuto dire. Ma ciò evidentemente diventava troppo poco in quel giorno che essi pure erano stati eletti suoi cooperatori, né Gesù aveva fatto loro alcuna comunicazione a parte circa i suoi insegnamenti e inten­dimenti. Inoltre, anche per il popolo era necessaria un'esposizione fondamen­tale della dottrina di Gesù, perché i popolani, che fino allora lo avevano udito predicare occasionalmente, dovevano averne un'idea an­che più imprecisa e vaga di quella che ne avevano i dodici. Le ostilità sempre crescenti degli Scribi e dei Farisei rendevano, anch'esse, op­portuna una dichiarazione di programma, affinché le rispettive po­sizioni fossero nettamente definite: il popolo, si, aveva subito notato che Gesù insegnava loro... non come gli Scribi (§ 299), ma se anche quei popolani avessero dovuto scendere al particolare elencando i punti di consenso e quelli di dissenso fra Gesù e i Farisei, sarebbero rimasti certamente anche più impacciati dei dodici. A queste varie esigenze corrispose il Discorso della montagna.

§ 316. Gesù oramai era ben noto non soltanto nella Galilea ma an­che fuori; con quella sorprendente rapidità ed ampiezza con cui si diffondevano oralmente le notizie nel mondo semitico, sempre avaro di documenti epistolari, la fama di lui si era sparsa sia a mezzogior­no nella Giudea e nell'Idumea ambedue giudaiche, sia nella ellenizzata Decapoli a oriente (§ 4), sia nei grandi centri mediterranei del­la pagana Fenicia ad occidente. Gruppi di gente salivano su da questi paesi verso il profeta galileo per vederlo e udirlo, ma insieme e anche più per esser guariti dalle loro malattie (Luca, 6, 18); molti infatti eghi curò, tanto da gettarsi addosso a lui per toccarlo quanti avevano malori (Marco, 3, 10). Le ondate di gente dovettero susse­guirsi e crescere per qualche tempo, finché un giorno Gesù giudicò opportuno tenere alla numerosa folla e ai dodici il discorso espositivo del suo programma. Tutti e tre i Sinottici indicano come luogo del Discorso la monta­gna, con l'articolo ma senza una precisa determinazione dunque, una delle colline della Galilea. La tradizione che riconosce questa collina nell'odierno « Monte delle beatitudini » ha ragioni non spre­gevoli in suo favore: è attestata esplicitamente solo nel secolo XII, ma se si considera in sostanza tutt'una con la tradizione riguardante Tabgha (§ 375 nota) essa risale al secolo IV. La montagna sarebbe la collina alta circa 150 metri posta sulla sponda occidentale del lago di Tiberiade sopra a Tabgha, e distante un 13 chilometri da Ti­beriade e circa 3 da Cafarnao; il preciso luogo del Discorso non sa­rebbe sulla cima della collina, ove oggi sorge l'ospizio dell'Asso­ciazione Nazionale per i Missionari Italiani, ma alquanto più in basso su una spianata a sud-ovest della collina. Era un posto preferito da Gesù per trattenersi con le turbe, come vuole l'antica tradizione, e non lontano da Cafarnao, come esige la narrazione sinottica.

§ 317. Del Discorso abbiamo due recensioni, quella di Matteo e quella di Luca, ma ben differenti fra loro. La principale differenza è nella quantità e disposizione della materia, perché la recensione di Matteo è circa tre volte e mezzo più ampia che quella di Luca (107 versetti contro 30); tuttavia in compenso Luca riporta in altre cir­costanze della vita di Gesù ampie parti del Discorso come è trasmes­so da Matteo (circa 40 versetti). Questa attribuzione ad altre circostanze è molto importante; essa si ritrova non solo in Marco, che pur tralasciando l'intero Discorso ne riporta qua e là poche sentenze staccate, ma inaspettatamente anche nello stesso Matteo, che fa ripetere a Gesù sentenze del Discorso in altre circostanze (cfr. Matteo, 5, 29-30, con 18, 8-9; e 5, 32, con 19, 9). Tutti questi fatti non sorprendono chi abbia presente quanto già dicemmo sia riguardo alla dipendenza diretta degli evangelisti dalla catechesi viva della Chiesa (§110 segg.), sia riguardo agli sco­pi e ai metodi particolari a ciascun evangelista: su quest'ultimo pun­to è necessario ricordare particolarmente che Matteo è l'evangelista che scrive con ordinamento (§ 114 segg.) e Luca è quello che si è proposto di scrivere secondo consecuzione (§ 140 segg.). Si potrà quindi ammettere senza difficoltà che talvolta Luca abbia staccato dal Discorso della montagna alcuni tratti riferendoli in altre circostanze storiche, e per contrario che Matteo abbia conglobato nel Discorso sentenze pronunziate da Gesù in altre occasioni. Per citare un solo esempio del secondo caso, Matteo porta l'orazione del Pater noster in questo Discorso (6, 9-13); Luca invece la porta molto più tardi, nel secondo anno inoltrato della vita pubblica di Gesù e pochi mesi prima della sua morte, e inoltre fa che l'insegnamento di quell'orazione sia provocato dalla domanda di uno dei disce­poli che chiede a Gesù in quale maniera dovessero pregare (Luca, 11, 1-4). E’ certo possibile che Gesù abbia insegnato più d'una volta il Pater noster, tanto più che le due recensioni di esso sono abba­stanza diverse; tuttavia in favore della circostanza storica di Luca sta la domanda del discepolo che provoca la risposta, mentre nel Discorso della montagna tale provocazione manca, e il Pater noster si potrebbe anche staccare dal Discorso senza interromperne il filo logico. E, come questo, si potrebbero addurre altri esempi per un caso e per l'altro: i quali tuttavia non sarebbero né sempre sicuri, né tali da offrire la base ad una norma generale. Un'altra e maggiore possibilità è che il Discorso della montagna, quale fu pronunziato da Gesù, fosse anche più ampio di ciascuna delle due recensioni odierne. Quella di Matteo, ch'è la più estesa, si potrebbe oggi recitare ad alta voce come predica per una folla in una ventina di minuti, e aggiungendovi le poche sentenze che sono particolari a Luca si allungherebbe la predica solo di tre o quattro minuti: non era certarnente una predica troppo lunga per folle che venivano da lontano ad ascoltare Gesù. E’ dunque molto probabile che questo Discorso fondamentale fosse riportato nella primitiva ca­techesi orale in maniera molto più ampia di come noi l'abbiamo adesso e che, mentre Marco lo ha tralasciato quasi totalmente, gli altri due Sinottici ne abbiano riprodotto solo quelle parti che me­glio rispondevano ai loro scopi. Inoltre più tardi, presentandosi l'oc­casione, Gesù può esser benissimo ritornato su alcuni punti di quella sua esposizione programmatica, fors'anche ripetendo le stesse senten­ze e impiegando le stesse comparazioni, come hanno sempre fatto i maestri di qualunque età e di qualunque argomento. In conclusione, la recensione secondo Matteo sembra la più vicina alla forma che il Discorso aveva nella catechesi primitiva, e quindi la più opportuna ad esser scelta come base.

§ 318. Impiegando una terminologia musicale, il Discorso della montagna può esser rassomigliato ad una maestosa sinfonia che fin dalle prime battute, senza preparazione di sorta, e con l'attacco simultaneo di tutti gli strumenti, enunzi con precisione nettissima i suoi temi fondamentali: e sono i temi più inaspettati, più inauditi di questo mondo, totalmente diversi da qualunque altro tema for­mulato giammai da altre orchestre, eppure presenti come se fos­sero i temi più spontanei e più naturali per un orecchio bene edu­cato. E in realtà fino al Discorso della montagna tutte le orchestre dei figli dell'uomo, pur fra variazioni d'altro genere, all'unisono ave­vano annunziato che per l'uomo la beatitudine consiste nella felicità, la sazietà è data da saturità, il piacere è l'effetto di appagamento, l'onore è prodotto da stima; al contrario, e fin dalle prime battu­te del suo attacco, il Discorso annunzia che per l'uomo la beati­tudine consiste nell'infelicità, la sazietà nella famelicità, il piacere nell'inappagamento, l'onore nella disistima, in vista però del pre­mio futuro. L'ascoltatore della sinfonia rimane allibito all'enunciazione di sif­fatti temi: ma l'orchestra proseguendo impetturbata ritorna sopra i singoli enunciati, li scevera ad uno ad uno, li ribadisce, ricama va­riazioni attorno ad essi: raccoglie quindi nello squillo degli ottoni altri temi accennati timidamente dagli archi, li corregge, li trasfor­ma, li sublima lanciandoli su altissime vette: sommerge invece in un fragore di toni talune vecchie risonanze riecheggiate da lontane or­chestre, escludendole dal suo quadro sinfonico; fonde poi il tutto in un'ondata sonora che, salendo su su dall'umanità reale e dal mondo materiale, raggiunge e si riversa su un'umanità non più umana e su un mondo immateriale e divino. Gli antichi stoici avevano chiamato paradosso un enunciato che andava contro l'opinione comune in questo senso il Discorso della montagna è il più ampio e più radicale paradosso che sia stato mai enunciato.

Nessun discorso recitato sulla terra fu più sconvolgente, o meglio, più capovolgente, di questo ciò che tutti prima chiamavano bianco qui è chiamato non già bigio o scuro ma addirittura nero, mentre il nero è chiamato precisamente candido; l'antico bene è ivi assegnato alla categoria del male, e l'antico male a quella del bene; dove prima si sublimava la vetta adesso è posta la base, e dove si sprofondava la base è collocata la vetta. In con­fronto con la rivoluzione contenuta nel Discorso della montagna, le massime rivoluzioni operate dall'uomo sulla terra sembrano finte battaglie fatte per giuoco da bambini, in confronto con la battaglia di Canne o quella di Gaugamela. E questo capovolgimento è presentato, non già come conseguenza di lunghe investigazioni intellettuali, bensì con un tono decisamente imperativo che trova il suo appoggio soltanto sull'autorità dell'oratore. “Così è, perché ve lo dico io Gesù”; “altri vi hanno detto bianco, ma io Gesù vi dico nero”; “vi è stata prescritta la somma di cin­quanta, ma essa sta bene solo in parte e io Gesù vi prescrivo la somma totale di cento”.

§ 319. E quali sono le sanzioni di questo nuovo ordinamento? Non esistono sanzioni umane ma solo divine, non sanzioni terrene ma solo ultraterrene. I poveri sono beati perché di essi è il regno dei cieli, ma non un regno della terra; i dolenti sono beati perché saranno consolati, ma in un imprecisato futuro lontano; i puri di cuore sono beati perché vedranno Iddio, ma non perché la loro purità sarà pregiata ed encomiata dagli uomini; in genere poi tutti i tribolati per amor della giustizia sono beati, ma nuovamente perché di essi è il regno dei cieli e non perché spetti loro un'ampia ricompensa sulla terra. Co­sicché il nuovo ordinamento promulgato da Gesù ha una regolare base giuridica soltanto per chi accetti ed aspetti il regno dei cieli; invece un qualunque Nicodemo, che sia nato dalla carne e vedendo soltanto materia non accetti né aspetti un regno dei cieli, troverà che l'ordinamento di Gesù manca di base ed è, ben più che un para­dosso, addirittura un assurdo ma appunto la ragione di questa ripulsa era stata prevista e spiegata da Gesù quando nel suo coiloquio con Nicodemo lo aveva ammonito, se qualcuno non sia nato dall'alto, non può vedere il regno d'Iddio, perché ciò ch'é nato dalla carne, e' carne; e ciò ch'e' nato dallo Spirito, e' spirito (§ 288). Infine il Discorso della montagna non prescinde dalla realtà storica, ma in molti ed essenziali punti si ricollega con fatti reali dell'ebrai­smo passato e contemporaneo. La legge mosaica non è abolita, ma integrata e perfezionata; essa è conservata, ma come un pianterreno su cui venga sovrimposto un piano superiore.
Le costumanze e perfino le elucubrazioni casuistiche degli Scribi e dei Farisei sono tenute presenti, ma considerate come un cadavere in cui bisogna infondere un'anima: dappertutto si ricerca la moralità dello spirito, assai più che la materialità dell'azione. Non sfugge neppure la questione finanziaria ed economica, ma anche questa è inquadrata in un atto di fede, in una visione della provvidenza di Dio. Sopra ogni cosa, poi, domina l'amore, nelle sue due ramificazioni verso Dio e verso gli uomini. Dio non è un monarca dispotico che invii da lontano i suoi ordini all'umanità e ne attenda i tributi; è invece il padre di tutta l'umana famiglia, che conosce quando i suoi figli hanno fame e vuol essere onorato da essi con la richiesta insistente del pane. Gli uomini tutti, come figli tutti egualmente di questo Padre sovrumano, sono fratelli, hanno lo stesso sangue spirituale, sono altrettanti “io” davanti a cui deve scomparire l'”io” del singolo. Tanta è l'impor­tanza di questo amore per gli uomini, che perfino l'amore per Dio non può esser vero e legittimo se non è accompagnato da quello per gli uomini: chi stia per fare un'offerta all'altare con sincere disposi­zioni di spirito, ma in quel momento gli sovvenga che un altro uo­mo ha ricevuto una qualche ingiustizia da lui, prima vada a ripa­rare l'ingiustizia e poi torni a fare l'offerta, giacché Dio cede volen­tieri la precedenza cronologica all'uomo aspettando tranquillamente, mentre non gradirebbe l'offerta fatta da chi ha un rimorso di co­scienza contro il proprio fratello.

§ 320. Il Discorso della montagna si svolge conforme a uno schema abbastanza chiaro, soprattutto nella recensione secondo Matteo: ma questo evangelista, benché “ordinatore” per eccellenza (§ 114), non deve aver creato qui l'ordinamento e piuttosto lo ha ritrovato già nella catechesi primitiva, sebbene qua e là vi abbia potuto intro­durre piccole modificazioni. Il prologo, ch'entra subito nella maniera più risoluta, è rappresentato dalle beatitudini (5, 3-12): altrettanto avviene in Luca (6, 20-26), sebbene con divergenze. In Matteo la felicitazione Beati...! è ripetuta nove volte, ma le beatitudini sono in sostanza sol­tanto Otto perché l'ultima è quasi una ripetizione della penultima e come un riassunto di tutte le precedenti; in Luca la felicitazio­ne è ripetuta solo quattro volte, ma subito appresso sono aggiun­te quattro maledizioni Guai...! indirizzate agli opposti dei felicita­ti di prima. Questa forma letteraria, per cui si cominciava con affermare un'i­dea e subito appresso si negava un suo contrario, si ritrova usita­ tissinia nella poesia biblica (parallelismo antitetico) ; ma anche più importante è notare che precisamente in antiche promulgazioni della Legge mosaica era stata seguita questa alternativa di benedizioni e di maledizioni (Deuteronomio, 11, 26-28; 27, 12-13; 28, 2 segg. e 15 segg,; Giosue', 8, 33-34). Ora, poiché il Discorso della montagna indubbiamente vuole essere, sia per il contenuto sia per lo scenario, il contrapposto messianico alla Legge mosaica (§ 322), è molto pro­babile che il suo prologo nella primitiva catechesi consistesse in un elenco di beatitudini seguite o alternate da altrettante maledizioni; da questo complesso Matteo estrasse soltanto otto beatitudini, Luca invece soltanto quattro beatitudini ma rafforzate da quattro ma­ledizioni.

§ 321. Affiancando pertanto le due recensioni si ottiene questa sinossi, che ci riporta piu vicini allo schema della primitiva catechesi: Maledetto Chanaan! Schiavo degli schiavi sia per i suoi fratelli..' Benedici, o Jahvè, le tende di Sem e sia Chanaan loro schiavo! Genesi, 9, 25-26 Maledite Merozl disse l'angelo di Jahvè: Maledite, maledite i suoi abitanti!. Sia benedetta fra le donne Jael, moglie di Heber il Qenita: fra le donne della tenda sia benedetta! Giudici, 5, 23-24 Maledetto l'uomo che si confida nell'uomo, e pone carne quale braccio suo!.. Benedetto l'uomo che si confida in Jahvé, ed e' Jahve' la confidenza sua! Geremia, 17, 5-8 . Questo sbalorditivo prologo ha presentato fin qui lo spirito generico del programma di Gesù, cioè della Legge messianica; conclude poi annunziando che questo spirito dovrà essere come un sale che pre­serverà da corruzione il mondo intero e come una luce che illuminerà tutta la terra (Matteo, 5, 13-16; in altro contesto Luca, 4, 34-35, e 8, 16; 11, 33). Ma subito dopo questo sguardo al futuro il Discorso si rivolge al passato, e affronta la questione delle relazioni tra futuro e passato nei riguardi della Legge ebraica, procedendo se­condo il seguente schema.

§ 322. Gesù non è un demolitore della Legge, ma un rinnovatore che in parte abolisce e in parte conserva perfezionando (Matteo, 5, 17-20). La legge messianica perfeziona quella mosaica nei pre­cetti della concordia, della castità, del matrimonio, del giuramento, della vendetta e della carità (ivi, 21-48). - Essa supera di gran lunga le usanze dei Farisei riguardo all'elemosina, alla preghiera e al di­giuno (6, 1-18). - Essa, per chi l'accoglie, è l'unico e vero tesoro e li­bera da ogni altra preoccupazione (ivi, 19-34). - Essa richiede una ca­rità più perfetta e una preghiera più insistente (7, 1-2). - Essa è una porta angusta, ma salva dai falsi profeti e fa compiere buone ope­re (ivi, 13-23). - In conclusione, la nuova legge è una casa costruita sulla viva roccia che resisterà alle tempeste (ivi, 24-27). Già da questo rapido sommario appare evidente che il Discorso della montagna ha, fra altri scopi, quello di presentarsi come un contrap­posto non distruttivo ma perfettivo della Legge di Mosè. E questo sostanze sia per generica condizione sociale. Luca tralascia la precisazione di Matteo (poveri) in sirito (§ 145), per la quale la beatitudine è riserbata a quei poveri che accettino questa loro condizione e ne siano paghi nel loro spirito, mentre i forzati e i riluttanti non sono poveri in ispirito. Invece del piu' generico dolenti di Matteo, Luca ha il più specifico pian­genti; cfr. Isaia, 61, 2. - I miti non sono i dolci di ca­rattere, ma gl'infimi della società, i giusti abietti ed umiliati; tutta l’espressione è presa dal Salmo 37, li (ebr.) ove si dice che questi “miti” possederanno la terra. - I puri di cuore sono, non soltanto i casti di pensiero e d'affetto, ma più generalmente i mondi da macchia spiri­tuale, gli innocenti davanti a Dio; la frase dipende dal Salmo 24, 4 (ehr.), ov'è detto che il puro di cuore può presentarsi al santuario di Jahvè. - Gli operanti pace sono i pacifici nel senso non sol­tanto passivo, che godono della pace, ma anche attivo, che producono e ap­portano la pace. - Le beatitudini ottava e nona di Matteo (vers. 10-11) si riferiscono allo stesso soggetto: ad ambedue in comune si riporta la sanzione del vers. 12. scopo è conferrnato anche dalla sceneggiatura materiale: come in­fatti la Legge antica era stata promulgata sul monte Sinai, da Mosè, assistito dagli anziani della nazione ed alla presenza del popolo; così la legge nuova è promulgata sulla montagna della Galilea, da Gesù Messia, assistito dai dodici Apostoli ed alla presenza delle turbe. Che da questa corrispondenza di sceneggiatura si è tratta recentemente la conclusione che tutto è fittizio, e che la sceneggia­tura è ideale, e che il Discorso non fu mai tenuto: ma se la con­clusione è arbitraria, non per questo le premesse sono false. La sceneggiatura corrisponde, appunto perché si volle a bella posta mo­strare una riconnessione anche materiale fra l'antica e la nuova leg­ge, come poco prima si era ricercata una riconnessione numerica fra i dodici Apostoli e le dodici tribù d'Israele (§ 311), e come pure con l'alternativa di benedizioni e di maledizioni si volle probabil­mente seguire il metodo di altre antiche promulgazioni della Legge di Mosè (§ 320). Il Discorso della montagna ha uno stile popolare e un frasario orientale. Sottigliezze ed astrazioni mancano, spesseg­giano invece i casi pratici e immediati che il popolo ha sempre pre­diletti e da cui sa ben ricavare norme generali: numerose vi sono anche le iperboli orientali, che gli ascoltatori sapevano interpretare nel loro giusto valore ma senza le quali avrebbero trovato letteraria­mente insipido il discorso. Per un orientale davano sapore al discor­so frasi come quelle che dicevano:

Se la tua mano destra ti scan­dalizza, mozzala via e getta(la) da te, oppure chiunque ti schiafleg­gia sulla guancia destra rivoltagli pure l'altra; tuttavia i primi se­guaci di Gesù non si mozzarono mai la mano destra nè offrirono la guancia sinistra, per la semplice ragione che capivano lo stile in cui si parlava nei loro paesi e soprattutto perché avevano del buon senso. Quando invece subentrò l'idolatria del letteralismo o al buon senso si sostituì il fanatismo, allora si ebbero i casi di Origene nell'antichità e di Leone Tolstoi ai tempi nostri; ma a differenza del­l'allegorizzante alessandrino, che diviene improvvisamente letteralista, e del sognatore russo, che rimane un sensuale nelle sue utopie mistiche e predica aggressivamente la mansuetudine, Francesco di Assisi apparirà sempre il più perfetto interprete del Discorso della montagna, interprete tanto perspicace nel riconoscerne lo spirito quanto entusiasta nel praticarlo.

§ 323. Ecco il resto del Discorso: (Matteo, cap. 5) Voi siete il sale della terra: ma se il sale sia diventato insipido con che si salerà? Non serve pìu' a niente salvo che, gettato fuori, ad esser colpestato dagli uomini.' Voi siete la luce del mondo: non puo' star nascosta una città collo­cata sopra un monte, nè accendono una lucerna e la pongono sotto il moggio bensì sul lampadario e risplende a tutti quei (che sono) nella casa: così risplenda la luce vostra davanti agli uomini, af­finché vedano le vostre belle opere e glorifichino il Padre vostro, quello ch'è nei cieli. Non crediate che venni ad abolire la Legge o i Profeti: non ven­ni ad abolire, bensì a compiere. In verità infatti vi dico, finché pas­si il cielo e la terra un solo iota o un solo trattino non passerà dalla Legge, fino a che tutto avvenga. Chi pertanto abbia disciolto uno solo di questi minimi comandamenti ed abbia insegnato così agli uomini, minimo sarà chiamato nel regno dei cieli: chi invece abbia praticato ed insegnato, costui grande sarà chiamato nel regno dei cieli. Vi dico, infatti, che se non abbondi la vostra giustizia più che (quella) degli Scribi e dei Farisei, non (avverrà) che entriate nel re­gno dei cieli.

§ 324. Udiste che fu detto agli antichi « Non ucciderai », chi poi abbia ucciso sarà passibile di giudizio. Ma io vi dico che chiunque s'adira contro il suo fratello sarà passibile di giudizio; chi poi abbia detto al suo fratello « Rakà! » sarà passibile di Sinedrio; chi poi ab­bia detto « Stolto! » sarà passibile della Geenna del fuoco. Se dun­que presenti il tuo dono sull'altare e colà ti ricordi che il tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia colà il tuo dono davanti all'altare, e va' prima, riconciliati col tuo fratello, e allora vieni a presentare il tuo dono. Sii condiscendente col tuo avversario subito, fintanto che stai con lui per la strada: affinché mai non (sia che) l'avversario ti consegni al giudice e il giudice all'inserviente, e (così) sarai gettato in car­cere.. In verità ti dico, non (sarà) che (tu) esca di là fino a che (tu) abbia pagato l'ultimo quadrante.

§ 325. Udiste che fu detto « Non commetterai adulterio » Ma io vi dico che chiunque guarda una donna per desiderar(la), già commise adulterio con essa nel cuor suo. Se poi il tuo occhio de­stro ti scandalizza, càvalo e getta(lo) da te: e un vantaggio infatti per te che perisca uno dei tuoi membri, e non sia gettato l'intero corpo tuo nella Geenna. E se la tua mano destra ti scandalizza, mòzzala via e getta(la) da te: e' un vantaggio infatti per te che pe­risca uno dei tuoi membri, e non vada l'intero corpo nella Geenna. Fu poi detto “Chi rimandi la sua moglie, le dia il (documento di) ripudio”. Ma io vi dico che chiunque rimandi la sua moglie, eccettuato (il) caso di fornicazione, fa che ella sia resa adultera, e chi sposi una (donna) rimandata commette adulterio.

§ 326. Di nuovo, udiste che fu detto agli antichi « Non spergiu­rerai, ma manterrai col Signore i tuoi giuramenti ». Ma io vi dico di non giurare affatto, nè per il cielo perché e' trono d'Iddio, nè per la terra perché è sgabello dei piedi suoi, né per Gerusalemme perché è città del gran re; neppure per la tua testa non giu­rare, perché non puoi fare bianco o nero un sol capello. Sia invece il vostro discorso “Si” (se e') si, « No » (se e') no: quel che sovrabbonda da queste (parole) è dal maligno.

§ 327. Udiste che fu detto “Occhio per occhio e dente per den­te”. " Ma io vi dico di non contrastare al maligno; bensì chiun­que ti schiaffeggia sulla tua guancia destra rivoltagli pure l'altra, e a chi vuole citarti in giudizio per prenderti la tunica lasciagli pure il mantello, e chi ti requisirà per un miglio va' insieme con lui per due (miglia). A chi chiede a te da', e da chi vuole prendere in prestito da te non voltarti via. Udiste che fu detto « Amerai il prossimo tuo » e odierai il nemico tuo. Ma io vi dico, amate i vostri nemici e pregate per i persecutori vostri, affinché siate figli del Padre vostro quello ch'e' nei cieli, perché fa sorgere il suo sole sopra maligni e sopra buoni e piove sopra giusti e sopra ingiusti. Qualora infatti amiate quei che vi amano, quale mercede avete? Non fanno forse lo stesso an­che i pubblicani? E qualora salutiate i fratelli vostri soltanto, che cosa di sovrabbondante fate? Non fanno forse lo stesso anche i Pagani? Sarete dunque voi perfetti come il vostro Padre celeste è perfetto.

§ 328. Badate poi a non fare la vostra giustizia in presenza degli uomini per esser guardati da loro, se no mercede non avete presso il Padre vostro quello ch’è nei cieli. Qualora dunque (tu) faccia elemosina non sonar la tromba davanti a te, come gl’ipocriti fanno nelle sinagoghe e nelle strade affinchè siano glorificati dagli uomini: in verità vi dico, sono in possesso della loro mercede. Tu invece facendo elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, affinchè la tua elemisina sia nel segreto, e il Padre tuo che guarda nel segreto renderà a te. E quando preghiate, non sarete come gl’ipocriti; giacchè amano star ritti a pregare nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze affinchè appaiono agli uomini: in verità vi dico, sono in possesso della loro mercede. Tu invece, quando preghi, entra nella tua stanza e chiusa a chiave la porta prega il Padre tuo quello (ch’è) nel segreto, e il Padre tuo che guarda nel segreto renderà a te.

§ 329. Pregando, poi, non blaterare come i pagani: credono infatti che con il loro molto parlare saranno ascoltati; non vi rassomigliate dunque a loro, sa infatti il Padre vostro di quali cose avete bisogno prima che voi glie(le) chiediate. Così pertanto pregate voi: Padre nostro che (sei) nei cieli , sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la volontà tua come in cielo anche su(lla) terra. Il pane nostro necessario dà a noi oggi, e rimetti a noi i nostri debiti comeanche noi rimettemmo ai nostri debitori, e non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal maligno. Qualora infatti rimettiate agli uomini i falli loro, rimetterà an­che a voi il Padre vostro celeste; qualora invece non rimettiate agli uomini, neppure il Padre vostro rimetterà i falli vostri.

§ 330. Qualora poi digiuniate non diventate, come gli ipocriti, mesti: sfigurano infatti le loro facce, affinché appaiano digiunanti agli uomini; in verità vi dico, sono in possesso della loro mercede. Tu invece, digiunando, ungiti la testa e lavati la faccia, affin­ché (tu) non appaia digiunante agli uomini bensì al Padre tuo quel­lo (ch'è) nel segreto, e il Padre tuo che guarda nel segreto ren­derà a te. Non tesoreggiate per voi tesori sulla terra, dove verme e tignuola manda in rovina e dove ladri perforano e rubano; tesoreggiate invece per voi tesori in cielo, dove nè verme nè tignuola manda in rovina e dove ladri non perforano nè rubano: dove infatti e' il tesoro tuo, ivi sarà pure il cuore tuo. La lucerna del corpo e' l'occhio: qualora dunque l'occhio tuo sta puro, tutto il corpo tuo sarà illuminato; qualora invece l'occhio tuo sia (in) malo (stato), tutto il corpo tuo sarà ottenebrato: se dun­que la luce quella (ch'e') in te e' tenebra, la tenebra quanta (sarà mai)?

§ 331. Nessuno può servire a due padroni: o infatti (egli) l'uno odierà e l'altro amerà, oppure all'uno s'attaccherà e l'altro disprez­zerà; non potete servire a Dio e a Mammona. Perciò vi dico, non v'affannate per la vostra vita riguardo a ciò che mangerete o che berrete, nè per il vostro corpo riguardo a ciò che indosserete: non e' forse la vita dappiu' del nutrimento e il corpo dell'indumento? Riguardate i volatili del cielo, giacché non seminano nè mietono nè radunano su granai, e(p pure) il Padre vostro celeste li nutrisce: non valete voi forse piu' di loro? Chi di voi poi affannandosi può aggiungere alla propria età un solo cubito? E circa l'indumento di che v'a flannate? Riflettete sui gigli del campo come crescono: non s'affaticano nè filano: eppur vi dico che nemmeno Salomone in tutta la sua gloria fu rivestito come uno di questi; se dunque l'erba del campo che oggi esiste e domani si getta nel forno Iddio riveste così, non (rivestirà) molto piu' voi, (o) scarsi di fede? Non v'affannate dunque dicendo “Che mangeremo?” o “Che berre­mo?” o “Di che ci rivestiremo?”, Tutte queste cose, infatti, i pagani ricercano: sa invero il vostro Padre celeste che abbisognate di tutte queste cose. Cercate invece prima il regno e la sua giu­stizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non v'af­fannate dunque per il dimani, perché il dimani s'affannerà per se stesso: sufficiente a (ciascun) giorno (è ) la sua pena.

§ 332. - Non giudicate (a condanna), affinché non siate giudicati (a condanna): con quel giudizio, infatti, con cui giudi­cate sarete giudicati, e con quella misura con cui misurate si misu­rerà per voi. Perché poi vedi la pagliuzza che (e') nell'occhio del tuo fratello, mentre della trave (ch'e') nell'occhio tuo non t'accorgi? Ovvero, come dirai al tuo fratello “Permetti che (io) cavi la pa­gliuzza dall'occhio tuo”, ed ecco la trave (e') nell'occhio tuo? Ipo­crita, cava prima dall'occhio tuo la trave, e allora guarderai di cavare la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello. Non date la cosa santa ai cani, nè gettate le vostre perle davanti ai porci, affinché mai non (sia che) le calpestino con le loro zampe e rivoltatisi (contro voi) vi sbranino. Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; picchiate e vi sarà aperto. Ognuno infatti che chiede riceve, e che cerca trova, e che picchia gli sarà aperto. Ovvero qual uomo e' tra voi a cui suo figlio chiederà un pane - gli darà forse un sasso? O anche chie­derà un pesce - gli darà forse un serpente? Se dunque voi, (pur) essendo cattivi, sapete dare buoni doni ai vostri figli, quanto piu' il Padre vostro quello ch'e nei cieli darà cose buone a quei che gli chiedono? Tutte le cose, dunque, quante possiate volere che facciano a voi gli uomini, in questa maniera fate(le) anche voi a loro. Questa, in­fatti, e' la Legge e i Profeti.

§ 333. Entrate per la porta stretta, perché (e') larga la porta e spaziosa la strada che conduce alla perdizione e molti sono quei che entrano per essa: perché stretta e' la porta e angusta la strada che conduce alla vita e pochi sono quei che la trovano. Guardatevi dai falsi profeti, i quali vengono a voi in rivestimenti di pecore, al di dentro invece sono lupi rapaci. Dai loro frutti li riconoscerete. Si colgono forse dalle spine grappoli, o dai rovi fichi? Così ogni albero buono fa frutti belli, invece l'albero gua­sto fa frutti cattivi: non può un albero buono produrre frutti cattivi, né un albero guasto produrre frutti belli. Ogni albero che non fa bel frutto e' reciso via e gettato nel fuoco. Dunque dai loro frutti li riconoscerete. Non chiunque mi dica “Signore! Signore!” entrerà nel regno dei cieli, bensì chi faccia la volontà del Padre mio quello ch'e' nei cieli. Molti mi diranno in quel giorno: « Signore! Signore! Non profetammo nel tuo nome, e nel tuo nome scacciammo demonii, e nel tuo nome facemmo molti prodigi? » E allora dichiarerò ad essi:”Giammai vi conobbi: allontanatevi da me, operatori d'iniquità!”.

§ 334. Chiunque, pertanto, ascolta da me questi discorsi e li fa, si rassomiglierà a un uomo saggio il quale edificò la sua casa sopra la roccia: e scese la pioggia e vennero i fiumi e soffiarono i venti e s'abbatterono su quella casa, e(p pure) non cadde; era infatti basata sulla roccia. E chiunque ascolta da me questi discorsi e non li fa, si rassomiglierà a un uomo stolto il quale edificò la sua casa sopra l'arena: e scese la pioggia e vennero i fiumi e soffiarono i venti e irruppero addosso a quella casa, e cadde, e la rovina di essa era grande. Con questa comparazione della casa termina, in ambedue le recensioni, il Discorso della montagna. Se chi ascoltava e praticava i precetti di questo Discorso era un costruttore di casa su roccia, tale era tanto più Gesù nel fare questo Discorso per i fini del suo mi­nistero. Già vedemmo che anch'egli costruiva una casa per riparo da una nuvola annunziatrice di tempesta (§ 310); aveva già scelto e collocato in opera dodici pietre fondamentali secondo il numero delle tribù d'Israele (§ 311), e altre pietre minori impiegate erano rappresentate da molti altri Israeliti che lo seguivano; adesso egli cementava il tutto con una dottrina che in parte era l'antica dot­trina d'Israele, e in parte era dottrina personale di lui Gesù. Man­cava ancora di portare avanti la costruzione e di rifinirla in molti punti, ma le linee maestre della casa furono stabilite appunto dal Discorso della montagna.

§ 335. Che rappresenta questo Discorso nell'insegnamento generale di Gesù? E’ stato definito il “codice fondamentale” o una Summa della dottrina di lui, ma sono definizioni da prendersi in senso molto vago perché solo in parte corrispondono alla verità. Codice elaborato non è, e nemmeno Summa, perché troppe sono le affermazioni dottri­nali che Gesù farà più tardi attribuendo loro capitale importanza, e che invece nel Discorso della montagna non sono neppure adom­brate: nulla infatti dice il Discorso né della morte redentrice di Gesù, nè del battesimo, nè dell'Eucaristia, nè della Chiesa, nè del­l'escatologia, senza le quali cose non si ha l'insegnamento storico di Gesù. Neppure è propriamente una confutazione del fariseismo ovvero una rettificazione perfettiva del giudaismo, sebbene anche questi scopi siano presi di mira: ma sono scopi soltanto posteriori, quasi conseguenze di una mira più ampia e generale. In realtà il Discorso della montagna non è altro che la presentazione del “cambiamento di mente” che già era stato pre­dicato, sia da Giovanni il Battista sia da Gesù (§§ 226, 299), come condizione per l'attuazione del regno di Dio. E quale e cambiamento di mente, più sconvolgente e più capovolgente che quello di proclamare beati, in vista d'un remoto futuro, i poveri, i pian­genti, gli affamati, gli arrendevoli, e quanti altri fino allora erano stati proclamati infelici da tutti gli uomini concordemente? Il Discorso dunque, meglio che un e codice, è lo spirito che ispirerà più tardi tutto un codice: meglio che una Summa, è l'idea centrale che sarà sviluppata più tardi in un ampio commentario. Il carattere personale e singolare del Discorso della montagna, e specialmente delle sue Beatitudini iniziali, è tanto palese che non ha bisogno d'essere dimostrato: quegli studiosi moderni, scarsissimi di numero e d'autorità, che hanno negato una verità così evidente, non meritano risposta e non sono da prendersi sul serio.
Tuttavia il Discorso ha pure numerosi punti di contatto col patrimonio spi­rituale sia biblico sia rabbinico, ed è merito delle più recenti inve­stigazioni aver messo in luce quest'ultimo punto; specialmente dalla sua metà in giù, il Discorso mostra parecchie analogie con pensieri ed espressioni conservate nel Talmud e negli altri scritti giudaici. Ciò è regolare per chi parlava a gente del suo tempo abituata a certe frasi ed espressioni, e soprattutto per chi era venuto non già ad abolire, bensì a compiere. Ad ogni modo anche da queste ana­logie risulta sempre meglio la sproporzionata superiorità del Di­scorso della montagna, che riunisce a fascio in pochissime pagine ciò che si può solo stentatamente e parzialmente spigolare nell'im­menso campo degli scritti giudaici, e risulta specialmente l'inimi­tabilità del suo spirito, unico e solitario. Questo spirito fa che esso sia il più rivoluzionario discorso umano, appunto perché discorso divino.
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06/08/2012 17:58

Il centurione di Cafarnao e la vedova di Naim

§ 336. Tanto Luca quanto Matteo mettono dopo il Discorso della montagna l'episodio del centurione di Cafarnao: la circostanza cro­nologica sembra dunque assicurata, ed essa insieme con le diver­genze interne basta a distinguere questo episodio dall'altro dell'im­piegato regio (§ 298), sebbene in realtà i due episodi abbiano vari tratti somiglianti. Poco dopo il Discorso, Gesù rientrò a Cafarnao, dov'era di guarnigione un centurione: probabilmente faceva parte delle truppe mercenarie del locale tetrarca Erode Antipa, non di qualche distaccamento romano. Era pagano ma ben disposto verso il giudaismo, tanto che aveva costruito a sue spese la sinagoga di Cafarnao (§ 285); la sua bontà di cuore è confermata anche dal fatto che aveva uno schiavo al quale era affezionatissimo, trattan­dolo più da figlio che da schiavo. Ora, questo schiavo si era am­malato e stava in punto di morte; il desolato centurione, che aveva certamente tentato tutte le cure ma invano, conosceva di fama Gesù, anzi proprio in quel giorno Cafarnao si doveva esser quasi svuotata perché molti si erano recati sulla vicina montagna ove il famoso taumaturgo teneva un gran discorso. Disperando dei medici, il centurione pensò spontaneamente al taumaturgo; ma non osava di proporgli il suo caso, anche perché non era stato in relazioni per­sonali con lui. Si rivolse allora a Giudei insigni del paese, affinché parlassero a Gesu' del moribondo pregandolo di far qualcosa per lui. I Giudei fecero l'ambasciata e raccomandarono vivamente a Gesù il desiderio del centurione: E’ degno che tu gli conceda ciò: ama infatti la nostra nazione, e la sinagoga ti costruì (proprio) egli (Luca, 7, 15). Gesù, giudeo, fu accessibile a questa domanda giudaica: quel pa­gano era stato un benefattore anche di lui, perché della sinagoga di Cafarnao anche Gesù si era servito per pregare e predicare; sen­z'altro, quindi, s'avviò insieme con gli intercessori alla volta della casa del centurione. Ne era già in vista, quando fu incontrato da una seconda ambasceria inviatagli dal centurione.

Costui sentiva una certa titubanza, motivata da scrupolo e da rispetto: la sua casa era pagana, cioè tale che un Giudeo osservante non avrebbe potuto entrarvi senza stimarsi contaminato; e il famoso Gesù non avrebbe sentito interiormente ripugnanza a tale ingresso, o almeno non ne avrebbe riportato esteriormente disonore presso i suoi cor­religionari? Perciò la nuova ambasceria avvertì delicatamente Gesù da parte del centurione: Signore, non ti disturbare! Non sono in­fatti degno che entri sotto il mio tetto; perciò neppure mi stimai degno di venire da te: ma comanda a parola, e sia sanato il mio servo! Anch'io, infatti, sono uomo ch'e' messo sotto autorità, avendo sotto di me soldati, e dico a questo “Va'!” ed (egli) va, e ad un altro e Vieni! ed (egli) viene, ed al mio schiavo e Fa' ciò! ed (egli lo) fa (Luca, 7, 6-8). Il centurione voleva giustificare la pro­pria deferenza verso Gesù col suo spirito soldatesco. Egli conosceva bene ciò che i Romani d'allora chiamavano l'imperium e noi oggi chiamiamo la disciplina militare, e l'esercitava sui propri soldati essendone sempre obbedito; Gesù quindi non si abbassasse fino a venire in casa sua, ma pronunziasse una sola parola d'imperium, e il suo comando sarebbe subito riconosciuto ed eseguito dalle forze della natura che opprimevano il moribondo. Udite tali cose, Gesu' l'ammirò, e rivoltosi alla folla che lo seguiva disse: Vi dico, neppure in Israele trovai tanta fede! E subito la parola d'imperium aspet­tata dalla bocca di Gesù fu pronunziata, e il malato fu guarito all'istante. Ma nel racconto evangelico tutto ciò passa quasi in se conda linea, mentre in prima linea rimane la tanta fede.

§ 337. A questo episodio il solo Luca soggiunge quello di Naim. In greco il nome è Naim, e si è conservato in quello arabo odierno. Il villaggio è situato alle falde del Piccolo Hermon, a una dozzina di chilometri da Nazareth e a una cinquantina da Cafarnao per la strada odierna, e oggi consta di poche e miserabili case con nep­pure 200 abitanti tutti musulmani; ai tempi di Gesù era certo in condizioni migliori, ma era egualmente di poca ampiezza e sembra che avesse un' unica porta nelle mura. A questa borgatuccia Gesù un giorno giunse accompagnato dai discepoli e da molta folla. Mentre egli stava per entrare nella porta delle mura, ecco uscirne un corteo funebre, indirizzato certamente a quel cimitero ch'è ancora oggi superstite a breve distanza dalle case e contiene antiche tombe scavate nella roccia. Portavano alla tomba un giovanetto; la madre del morto, ch'era vedova ed aveva quel solo figlio, seguiva la salma. Il caso era particolarmente pie­toso, e forse ciò spiega anche perché c'era molta lolla della città insieme con essa vedova (Luca, 7, 12): certamente tutti della bor­gata avevano risaputo della disgrazia e volevano condolersi con l'infelicissima madre. Di tutto il resto che Gesù vide in quest'incontro, non dice nulla il sapiente Luca; per lo scrittore medico il triste corteo si riassume tutto nella madre piangente, e Gesù non vede che lei: e vedutala, il Signore s'inteneri su di lei, e le disse “Non piangere!”. Queste due parole erano state certamente ripetute centinaia o migliaia di volte in quella giornata alla povera donna, ma rimanevano soltanto parole. Gesù andò oltre le parole; e avvicinandosi toccò la bara - i portatori allora si fermarono - e disse: e Giovanetto, dico a te, alzati! ». E il morto si alzò a sedere, e cominciò a parlare; e (Gesu') lo dette alla sua mamma.

La descrizione, come ognun vede, è quanto di più vivo ed imme­diato si possa immaginare; ha perfino il realismo di far notare come i portatori si fermassero sorpresi da quell'inaspettato intervento, e come il morto, tornato in vita ma sbalordito ben più dei portatori, per prima cosa si mettesse a sedere sulla bara, quasi per prendere tempo ad orientarsi e rendersi conto di quanto era successo. Se dunque si trattasse della descrizione d'un corteo nuziale qualsiasi, oppure d'una scena in cui Gesù semplicemente accarezzi bambini, nessun critico avrebbe trovato alcunché da ridire e tutti sarebbero stati d'accordo nell'accettare la narrazione tale quale, senza sco­prirvi dei sottintesi. Ma qui c'è di mezzo il morto che risuscita; ed ecco perciò che il testo di Luca è stato collocato insieme con le presunte allegorie del IV vangelo e considerato come un simbolo continuato: la madre vedova sarebbe Gerusalemme, il figlio unico sarebbe Israele, il quale è strappato dalla morte e restituito alla madre mercé la potenza di Gesù (Loisy). Basta però rileggere il testo di Luca per riscontrare se interpretazioni siffatte siano dettate da critica e storica, oppure da prevenzioni e filosofiche, e se que­ste prevenzioni rispettino l'indole della narrazione oppure la deformino totalmente.

Il messaggio di Giovanni il Battista

§ 338. Frattanto nei sotterranei di Macheronte (§ 292) Giovanni fremeva come leone racchiuso. Quanto più il tempo passava e la prigionia si prolungava, tanto più il suo spirito si struggeva di vi­brante attesa: egli era nato e vissuto per essere il precursore del Messia, e non aveva sottratto un sol giorno della sua esistenza a quella missione; ma adesso che la sua esistenza da un giorno all'al­tro poteva esser troncata dalla prepotenza degli uomini, egli ancora non vedeva coronata la sua missione da una palese e solenne mani­festazione del Messia. Questa ansiosa aspettativa era grave al pri­gioniero ben più dell'estenuante inerzia a cui era condannato e ben più della spada di Erode Antipa che gli roteava sulla testa. La segregazione non era però totale: il tiranno, che nutriva per Giovanni una superstiziosa venerazione (§ 17), gli permetteva di ricevere nella prigione i suoi discepoli rimastigli attaccati anche dopo la cornparsa in pubblico di Gesù, per il quale del resto taluni di essi nutrivano una certa avversione (§§ 291, 307). Mediante le notizie che riceveva da questi visitatori, il prigioniero seguiva i pro­gressi che faceva il ministero di Gesù e i fatti straordinari che l'ac­compagnavano; ma quelle notizie, se rinsaldavano sempre più nel suo spirito l'opinione ch'egli aveva di Gesù e che aveva pure espres­sa pubblicamente, aumentavano sempre più la sua ansiosa aspetta­tiva. I visitatori gli annunziavano che il nuovo Rabbi operava mira­coli, si', ma giammai in nessuna occasione si era proclamato Messia, anzi redargniva severamente coloro che lo proclamavano tale e fug­giva ogni occasione a che le turbe facessero ciò (§ 300); è anche molto probabile che i visitatori, riferendogli questo, se ne compia­cessero nella gelosia che nutrivano per Gesù insieme con l'affetto per Giovanni.
Il prigioniero invece ne doveva essere accorato: forse si domandava se il suo ufficio di precursore era totalmente termi­nato, e se egli pur dalla prigione non dovesse ancora compiere qual­che cosa per far riconoscere Gesù come Messia. Perché dunque il figlio di Maria tardava tanto a proclamarsi Messia? Solo con questa solenne proclamazione l'ufficio di lui, Giovanni, si sarebbe concluso per sempre, mentre senza di essa egli sarebbe rimasto il precursore di uno che in realtà non compariva. Eppure oramai egli era tagliato fuori dalla vita del popolo, e da un momento all'altro poteva anche partire da questo mondo, senza aver la consolazione di vedere che il popolo accorreva compatto al Messia da lui additato, anzi ve­dendo che perfino i suoi propri discepoli sentivano una certa ripulsa per Gesù. Che poteva fare egli ancora dalla prigione? Come sospin­gere Gesù all'attesa proclamazione, e come insieme sospingere verso Gesù i suoi propri discepoli?

§ 339. Un giorno il prigioniero prese la sua risoluzione. Da Ma­cheronte egli inviò due suoi discepoli a Gesù con l'incarico di ri­volgergli questa domanda: Sei tu il Veniente, o (bisogna) che aspet­tiamo un altro? (Luca, 1,19-20). L'espressione il Veniente designava per i Giudei un “termine fisso d'eterno consiglio”, cioè quel Messia che “doveva venire” (§§ 213, 296, 374, 505), di cui gli antichi profeti erano stati lontani araldi e Giovanni il Bat­tista si era presentato quale immediato precursore. La domanda perciò costringeva ad una precisa dichiarazione sia Gesù che la riceveva, sia i discepoli di Giovanni che la rivolgevano: Gesù non poteva negare in pubblico quella sua qualità di cui Gio­vanni era assolutamente certo; i discepoli interroganti, udendo an­che dalla bocca di Gesù quella stessa affermazione che a suo riguar­do avevano udita dalla bocca del venerato Giovanni, non potevano esitare ad abbandonare la loro diffidenza verso Gesù e ad aderire a lui. D'altra parte la domanda, pur essendo così contingente, aveva un'intonazione generica: era in sostanza la medesima domanda che i maggiorenti di Gerusalemme avevano rivolta alcuni mesi prima al­lo stesso Giovanni (§ 277). La risposta di Gesù fu diversa da quella aspettata: egli non pro­nunziò il “no” ch'era impossibile, ma neppure pronunziò il chiaro ed esplicito “si” che Giovanni aveva tentato di provocare. Quando i due inviati esposero la domanda a Gesù, egli in quell'ora curò molti da malattie e infermità e spiriti maligni, e a molti ciechi fece grazia di vedere; poi rispondendo disse a quelli: Andate ad annunziare a Giovanni le cose che vedeste e udiste: “Ciechi vedono, zoppi camminano, lebbrosi sono mondati, e sordi odono, morti ri­sorgono, poveri ricevono la buona novella”: ed e' beato colui che non si scandalizzi in me (Luca, 7, 21-23). In conclusione, invece di rispondere con parole Gesù rispondeva con fatti, i quali valevano a dimostrare se egli era o no il Veniente Messia. Ma i fatti mira­colosi presenti si richiamavano a parole profetiche passate, perché già da Isaia era stato annunziato che ai tempi messianici i ciechi avrebbero visto, i sordi udito, gli zoppi camminato (Isaia, 29, 18; 35, 5-6), e i poveri avrebbero ricevuto la buona novella (Is., 61, I); se dunque Gesù avverava con le sue opere le profezie messianiche, le stesse opere lo proclamavano Messia. Tuttavia, questa esplicita proclamazione dalla bocca sua non uscì. L'inaspettata risposta fu certo riportata al prigioniero, ma non ci è riferito che impressione facesse su lui. E’ ben possibile che Gio­vanni avesse preferito sentirsi riportare come Gesù si fosse procla­mato apertamente e sonoramente Messia, e come a quella procla­mazione tutti i Giudei di Palestina e di fuori fossero accorsi osan­nanti al loro re: molto più tardi gli stessi discepoli di Gesù, edotti per lunghi mesi alla scuola di lui, s'aspetteranno ancora qualcosa di simile. Se questa fu realmente l'aspettativa di Giovanni, biso­gnerebbe applicare anche a lui l'osservazione che lo stesso Luca fa sui genitori di Gesù, i quali non capirono la parola che pronunziò loro (§ 262); Giovanni non avrebbe capito la risposta di Gesù per varie possibili ragioni, fra cui quella di non sapere che Gesù se­guiva una linea di manifestazione graduale della propria messiani­cità per motivi altamente spirituali (§ 300 segg.).

§ 340. L'onorevole provocazione di Giovanni, sebbene non assecon­data, fu gradita da Gesù. Per mostrare che il precursore non era certamente uno di coloro che si sarebbero scandalizzati di lui, Gesù dopo la partenza dei due invitati fece il più alto elogio di Giovanni proclamandolo piu' che profeta, a nessuno inferiore fra i nati di donna, e infine precursore del Messia conforme alla profezia di Ma­lachia, 3, 1. Senonché, mentre la povera gente e i pubblicani avevano accolto la predicazione di Giovanni ed accettato il suo batte­simo, la massima parte degli Scribi e dei Farisei era rimasta retriva rendendo vano il consiglio d'Iddio a loro riguardo (Luca, 7, 30). Perciò Gesù soggiunse una similitudine: A chi dunque rassomiglierò gli uomini di questa generazione, e a chi sono somiglianti? Sono somiglianti a quei ragazzetti che stanno nella piazza, e si apostro fano tra di loro dicendo: ”Il flauto vi sonammo e non ballaste! - Lamentele facemmo e non piangeste!”. La similitudine è presa dagli usi di quei tempi sociali, perciò anche i cortei nuziali e quelli funebri: nel primo caso, alcuni sonavano o fingevano sonate flauti, mentre gli altri dovevano ballare come se fossero gli “amici dello sposo” (§ 281); nel secondo caso, gli uni imitavano le manifestazioni di cordoglio fatte dalle lamentatrici di professione ch'erano chiamate ai funerali, e gli altri dovevano piangere come se fossero i parenti del defunto. Tuttavia spesso il giuoco non riusciva bene, perché il gruppo di ragazzi che doveva o ballare o piangere non faceva con diligenza la sua parte, e allora sorgevano recriminazioni e apostrofi interminabili.
L'applicazione della similitudine fu fatta da Gesù stesso, che pro­seguì: E’ venuto infatti Giovanni il Battista non mangiando pane né bevendo vino, e dite: “Ha un demonio”; è venuto il figlio dell'uomo mangiando e bevendo, e dite: “Ecco un uomo mangiatore e bevitor di vino, amico di pubblicani e peccatori” (Luca, 7, 33-34). I Farisei non avevano accettato la predicazione di Giovanni per­ché, oltre il resto, egli era troppo rigoroso e austero, tanto da sem­brare un fanatico spiritato (anche oggi gli Arabi chiamerebbero un uomo siffatto un magnun, ossia posseduto dal ginn,”spirito fol­letto”; ma ecco che, comparso Gesù, anche la sua predicazione era respinta col pretesto ch'egli mangiava come tutti gli uomini, lasciava mangiare i suoi discepoli quando avevano fame (§§ 307-308), e trattava con pubblicani e peccatori. Cosicché, o si sonasse il flauto o si alzassero lamenti funebri, il giuoco non riusciva mai bene con i Farisei, ma perché essi appunto non volevano farlo riuscir bene. Eppure sarebbe riuscito egualmente, perché la Sapienza (di­vina) fu riconosciuta giusta da tutti i suoi figli (in Matteo, 11, 19, greco: dalle sue opere).
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06/08/2012 18:00

[SM=g27998] La peccatrice innominata

§ 341. A questo punto il solo Luca, lo scriba mansuetudinis Chriti secondo la definizione dell'Alighieri (§ 138), narra un episodio che dimostra quella mansuetudine. I Farisei continuano a sorvegliare Gesù; ma non è necessario che la sorveglianza abbia sempre un aspetto aggressivo, anzi talvolta è maniera più astuta darle un sembiante amichevole. Per questa ragione un Fariseo, dal nome comunissimo di Simone, invita Gesù a pranzo: il luogo non è nominato, ma doveva essere una borgata della Galilea. Il pranzo, secondo l'uso del tempo, è tenuto in una stanza con nel mezzo una tavola a semicerchio: nell'interno del se­micerchio s'aggirano i servi con le vivande, e i convitati stanno in piccoli divani che sono disposti radialmente all'esterno del semicer­chio; quindi ogni convitato è sdraiato sul suo divano in modo da appoggiarsi su un gomito e da avere il busto vicino alla tavola, mentre i suoi piedi rimangono un po' fuori del divano e lontani dalla tavola.
Il pranzo offerto da Simone ha vari convitati, e probabilmente non è stato imbandito apposta per Gesù: tuttavia Simone ha colto l'oc­casione per invitare anche l'indomito predicatore e studiarselo comodamente da vicino nella sincerità che suscitano i fumi d'un con­vito; ad ogni modo a Gesù, convocato più a un esame che a un convito, sono negati i complimenti riserbati ordinariamente a un invitato insigne, quali la lavanda dei piedi appena entrato, l'ab­braccio e il bacio da parte del padrone di casa, lo spruzzo di pro­fumi sulla testa prima di mettersi a tavola. Gesù nota queste negate attenzioni, ma non dice nulla e si mette a tavola con gli altri. Ma ecco che, nel colmo del convito, entra nella stanza una donna: confusa tra i familiari che servono, ella non parla a nessuno, va difilata al divano di Gesù, s'inginocchia all'esterno nella parte più lontana dalla tavola, e lì scoppia in pianto. Le sue lacrime sono così abbondanti che rigano i piedi di Gesù: ella però non vuole che quei piedi rimangano rigati dai segni del dolore, ma trovandosi nell'im­previsto e non avendo con sé un panno per asciugarli, per maggior deferenza scioglie i suoi capelli e cosi asciuga quei piedi; poi li ba­cia e ribacia, poi ancora li spruzza col profumo d'un vasetto d'a­labastro che ha portato con sé per ungere la testa della persona venerata (§ 501).

Tutto avviene senza una parola da parte della donna o di Gesù. Solo un sottile sorriso illumina la faccia di Si­mone: l'esaminatore ha già giudicato l'esaminando e l'ha riprovato. Simone infatti a quella vista ragiona dentro di sé: Costui, se fosse profeta, saprebbe chi e che razza di donna e' colei che lo tocca: e infatti una peccatrice! (Luca, 7, 39). Per i Farisei peccatrice aveva un significato vario: po­teva designare tanto una donna di perversi costumi, quanto una donna che non osservava le prescrizioni farisaiche; nel Talmud è equiparata a una peccatrice anche la moglie che dia a mangiare a suo marito cibi di cui non sia stata pagata la decima. Seguendo una via di mezzo, si potrà supporre che la donna introdottasi nel convito di Simone fosse una persona di riputazione dubbia, giacché se fosse stata una vera meretrice ben difficilmente i familiari del Fariseo l'avrebbero lasciata penetrare dentro la casa: lo scandalo, davanti ai convitati, sarebbe stato troppo grave. L'ignota donna certamente già conosceva Gesù almeno di vista: l'aveva udito par­lare in pubblico, aveva ascoltato dalla sua bocca quelle parole che richiamavano inesorabilmente tutti a “cambiamento di mente” (§ 335) ma nello stesso tempo sonavano così benigne e conforte­voli ai più traviati ed abietti; ella ne era stata dapprima sconvolta e atterrata nell'abiettezza della sua vita, poi sentendosi risollevata e sorretta dalla misericordiosa speranza diffusa nel suo cuore in virtù di quelle stesse parole, aveva fermamente creduto in una vita nuova, e al momento d'iniziarla si era presentata al suo rigenera­tore per esprimergli i propri sentimenti in maniera squisitamente femminea.

§ 342. Il sottile sorriso beffardo di Simone forse fu notato da Gesù, il suo occulto pensiero di riprovazione certamente fu letto dal ri­provato, che perciò gli rivolse pacatamente la parola: Simone, ho qualche cosa da dirti! - E l'altro, condiscendente: Maestro, dì pu­re! - Gesù allora: Ci fu una volta un creditore che doveva riscuo­tere da un debitore la somma di 500 denari e da un altro una som­ma dieci volte minore, cioè soltanto 50 denari; ma poiché nessuno dei due debitori era in grado di pagare e il creditore era un uomo di buon cuore, rimise ad ambedue i loro debiti rispettivi. Di questi debitori condonati chi credi tu, Simone, che sarà più grato e più affezionato al generoso creditore? - Simone rispose: M'immagino che sarà colui al quale è stato condonato di più. - La risposta era tanto elementare quanto giusta. Gesù allora replicò: Vedi questa donna? Entrai in casa tua, acqua ai miei piedi non desti: costei invece mi bagnò con le lacrime i piedi ed asciugò con i suoi capelli. Bacio non mi desti: costei invece, da quando entrai, non cessava di baciarmi i piedi. Con olio la mia testa non ungesti: costei invece con unguento mi unse i piedi. In grazia di che, ti dico, sono rimessi i peccati di lei i quali (sono) molti perché amò molto; a chi invece poco si rimette, poco ama (Luca, 7, 44-47). Non sono mancati i mestieranti della logica che hanno scoperto una conclusione illogica nel ragionamento di Gesù: la conclusione legittima, in armonia con la parabola dei due debitori, sarebbe stata che la peccatrice doveva amare di più perché di più le era stato condonato. Senonché l'obiezione suppone che Gesù avesse voglia d'insegnare la maniera di fare i compassati sillogismi “in forma”, sostituendosi nel mestiere ad Aristotile: ma Gesù aveva altro da fare, e ragionava seguendo la logica pratica di tutti gli uomini, che spessissimo saltano alla conclusione tralasciando talune premesse facilmente comprensibili. Nel caso nostro, la peccatrice conseguì la molta remissione perché amò molto, ma se amò molto la ragione a sua volta è che ella ricercò e quasi prevenne la molta remissione: l'amore fu unico, e dapprima spinse la peccatrice a cercar la remissione e ne fu causa, poi la confermò nella remissione e ne fu effetto, come fu effetto della remissione nel debitore della para­bola.
Le due conseguenze si richiamano a vicenda, e Gesù senza limitarsi alla conseguenza che sarebbe scaturita a rigore dalla para­bola insiste piuttosto sull'altra, giacché parlava a Simone il quale da buon Fariseo aveva poco di esteriore da farsi perdonare ma aveva anche poco amore interiore. Ora, per Gesù, ostacolo ad en­trare nel regno di Dio erano certamente i peccati, ma questi pote­vano esser sempre perdonati: ostacolo insuperabile era invece la mancanza di spinta ad entrare, la mancanza d'amore. Un Fariseo, posto anche sulla soglia del regno, difficilmente vi sarebbe entrato perché era soddisfatto di se stesso e gli mancava la spinta a fare i due o tre passi per entrare; una meretrice invece, quando si fosse accorta di ciò che era, avrebbe avuto ribrezzo di se stessa e avrebbe corso le mille miglia per entrare nel regno, sospinta nella sua corsa dall'amore. Amore pondus e amore pra'mium, come rifletterà più tardi l'esperto Agostino. Del resto Gesù, recandosi in casa di Simone, aveva veramente do­nato molto, pur essendone contraccambiato male dal Fariseo; la donna invece aveva ricercato ella stessa Gesù offrendogli ogni prova di devozione, e con ciò aveva donato molto, pur non essendo stata prevenuta apparentemente da Gesù. Di qui la sua ampia retribu­zione; la quale, inoltre, servirà a confermarla sempre più nel suo amore.
Terminato il ragionamento a Simone, Gesù si rivolse alla donna e le disse: Ti sono rimessi i peccati. Come rimanesse Simone non sappiamo; ci è riferito soltanto che gli altri convitati, della tempra di Simone, cominciarono a dire dentro di sé: Chi e costui che ri­mette pure i peccati? La stessa riflessione era stata fatta dai Farisei presenti alla scena del paralitico calato dal soffitto (§ 305), e allora Gesù aveva chiuso loro la bocca con un miracolo; questa volta il miracolo non fu compiuto, perché Gesù non aveva alcun motivo di compierne uno ogni qual volta delle oche messesi a far da guardiane ad un presunto campidoglio d'ortodossia avessero cominciato a gracchiare. Preferì invece confermare la donna nella sua nuova via, e le disse: La fede tua ti ha salvata: va' in pace! Pace e amore erano la stessa cosa.

Ministero spicciolo

§ 343. Subito dopo il racconto del convito di Simone, Luca soggiunge: E avvenne in seguito, ed egli viaggiava per città e borgate predicando e annunziando la buona novella del regno d'Iddio, e i dodici con lui (Luca, 8, 1). Queste parole possono valere come un generico riassunto dell'operosità spiegata da Gesù in Galilea nel restante di questo tempo, fino alla se­conda Pasqua del suo ministero pubblico. Quell'operosità dovette essere intensa, benché forse non molto varia, e probabilmente la primitiva catechesi della Chiesa ne raccontava episodi più numerosi dei pochi trasmessi fino a noi. Fu una vita da missionario ambu­lante, per cui Gesù si trasferiva da regione a regione e da borgata a borgata, predicando in pubblico ed in privato, nelle sinagoghe e nelle case, e confermando le sue predicazioni con miracoli; natu­ralmente le turbe accorrevano a lui attratte, non soltanto dall'effi­cacia dei suoi insegnamenti, ma anche più dall'utilità immediata dei miracoli. Gesù non era solo: aveva con sé un gruppetto di persone a lui devote, e anche un codazzo mutevole di gente animata da altri sentimenti. Fra le persone a lui devote erano in primo luogo i dodici Apostoli da lui scelti, che erano suoi abituali cooperatori nel ministero e for­se solo saltuariamente e per poco tempo si allontanavano da lui; vi erano certamente anche altri discepoli, sebbene non Apostoli, le­gati da particolare affetto al maestro.
Ma in quella vita di conti­nua peregrinazione il gruppetto di Gesù e dei suoi cooperatori ave­va bisogno di qualche assistenza materiale per le esigenze imperiose della vita, tanto più che l'incessante ministero non doveva lasciar loro il tempo di provvedersi da essi stessi, né si poteva pre­tendere che una ventina e forse più di persone trovasse vitto e al­loggio, sempre gratuiti e pronti, in qualunque misero villaggio della Galilea. Per questa ragione, subito dopo la precedente notizia, l'ac­corto Luca ci comunica che insieme a Gesù e i dodici erano anche talune donne ch'erano state curate da spiriti maligni e infermità, Maria quella chiamata Magdalena dalla quale erano usciti sette demonii, e Giovanna moglie di Chuza sovrintendente di Erode, e Susanna e molte altre, le quali ministravano ad essi dalle loro pro­prie sostanze. Già osservammo che queste donne dovettero essere, più tardi, fonti di notizie per l'evangelista (§ 142); qui egli ci dice ch'esse erano anche le solerti massaie del gruppetto di Gesù, e la cosa appare naturalissima: non è però necessario credere che tutte sempre seguissero Gesù nelle sue continue peregrinazioni, ma basterà supporre che fra di esse fosse in uso una specie di organizzato avvi­cendamento per provvedere ai bisogni dei missionari, assistendoli a proprie spese e spesso anche servendoli di persona. Queste donne erano state curate da spiriti maligni e infermità per opera di Gesù: dunque la gratitudine le aveva spinte ad incaricarsi di un'opera particolarmente appropriata a donne, quale il governo materiale di una specie di famiglia. I mezzi per fronteggiare le spese - che del resto certamente non erano gravi - non dovevano difettare: Giovanna, come moglie di un sovrintendente di Erode (Antipa), era senza dubbio facoltosa, e forse anche altre erano ben provviste: le meno fornite di beni materiali avranno supplito specialmente con l'opera personale.
Delle donne qui mentovate, Giovanna e Susanna sono ricordate dal solo Luca, Maria la Magdalena anche dagli altri evangelisti. Il suo appellativo di Magdalena la designa come originaria di Magdala, cioè Tarichea (§ 303), sulla riva occidentale del lago, e quindi nativa della Galilea e non della Giudea; se poi è detto che da essa erano usciti sette demonii, ciò significa soltanto ch'era stata liberata per opera di Gesù da qualche potente ossessione diabolica, mentre non avrebbe il minimo fondamento nelle narrazioni evangeliche supporre che ella fosse stata in precedenza una donna di mala vita e tanto meno l'innominata peccatrice del convito di Simone (§ 341).

§ 344. Ma, oltre a questo gruppo di gente fedele, ronzava attorno a Gesù anche un codazzo di persone in parte nettamente ostili, quali i Farisei, in parte diffidenti o almeno dubbiose e incerte. Su queste ultime ci informa incidentalmente una breve notizia di Marco (3, 20-21). Durante una peregrinazione avvenuta in questo tempo, pro­babilmente in qualche borgata della zona tra Cafarnao e Nazareth, Gesù viene ad una casa, e di nuovo si raduna folla, tanto che essi (Gesù e i discepoli) non potevano neppure prender cibo; era dunque una delle solite affluenze di popolo, ma questa volta anche più in­comoda per la ristrettezza di spazio. Ora, tali abituali affluenze, e anche l'operosità infaticabile di Gesu', avevano richiamato l'atten­zione pure delle persone neutrali e indifferenti, che non sentivano né l'affetto dei discepoli né l'astio dei Farisei; tali persone avevano anche espresso il loro giudizio su Gesù, e dicevano “E’ fuori di sé” Questa espressione, pur non escludendo un senso dispregiativo, non lo include per necessità affatto: poteva essere fuori di sé tanto un uomo, psichicamente anormale, quanto un uomo normalissimo ma tutto preso da un entusiasmo sapiente e santo (cfr. Il Cor., 5, 13). Cotesti neutrali e indifferenti si erano cavati d'impaccio giudicando Gesù in maniera ambigua e riferendosi solo a ciò che appariva pa­lesemente al di fuori, cioè alla sua incessante operosità missionaria che presupponeva uno stato d'animo fuor dell'ordinario: ma sulla vera indole di quello stato d'animo essi non avevano dato alcun giu­dizio. L'ambigua sentenza era giunta alle orecchie dei parenti di Gesù, e saputo che proprio allora egli si trovava come assediato in quella casa, i suoi uscirono per impadronirsi di lui, poiché dicevano “E’ fuori di sé”.
L'espressione i suoi designa cer­tamente la parentela di Gesù, di cui già sappiamo che taluni erano sfavorevoli a lui (§ 264); ma ciò non basta per riferire necessaria­mente a costoro la sentenza “È fuori di sé”, perché il verbo reg­gente dicevano può benissimo valere per un impersonale (si diceva, la gente diceva) come si ritrova altre volte in Marco (3, 30; ecc.). Inoltre, da chiunque fosse stato espresso quel giudizio, la venuta dei parenti aveva secondo ogni verosimiglianza uno scopo amichevole e benigno: essi accorrevano, non già per legare e portar via Gesù come pazzo, bensì per indurlo a moderarsi nel suo entusiasmo missionario, a prendersi cura della sua persona, a fare insom­ma una vita comoda e normale tra i suoi al riparo dalle minacce dei Farisei. Ma, anche sotto tale luce benigna, quei parenti di Gesù figuravano egualmente come eroi della mediocrità, i quali non sapevano capa­citarsi che quel loro singolare congiunto, ignaro di scuole e d'accademie, si fosse messo in testa di prender di petto i Farisei e di scon­volgere la Galilea, invece di starsene tranquillo e pacifico a casa sua.

§ 345. Gesù, giudicato fuori di sé, risponde precisamente come era stato giudicato, cioè da persona totalmente dedicata a un'altissima idea morale. Alla precedente notizia Marco fa seguire la discussione con i Farisei su Beelzebul scacciator di demonii (§ 444), ma subito appresso riporta nuovamente in scena i parenti di Gesù insieme con sua madre Maria: tutto induce a credere che le due comparse dei parenti si riferiscano a due momenti successivi dello stesso fatto storico. Gesù, pertanto, è tuttora assediato dalla folla nella casa, quando gli si annunzia che sua madre con i suoi “fratelli” stanno fuori desiderosi di parlargli e senza poter entrare. Dunque gli eroi della mediocrità, per meglio riuscire e per far più colpo, avevano contato anche sull'autorità di Maria, dimostratasi cosi efficace fin dalle nozze di Cana (§ 283). Il che non significa però che Maria assentisse ai loro propositi: se ella venne con loro, fu in parte perché una donna in Palestina ben difficilmente poteva sottrarsi alle decisioni prese da capi di parentela che presumessero agire per il decoro del casato o in favore di un consanguineo, e in parte perché poteva aver molte ragioni personali per rivedere il peregrinante suo figlio, e anche per esser presente come moderatrice quando i parenti lo avessero incon­trato. All'annunzio della visita, Gesù rispese che sua madre e i suoi fratelli erano tutti coloro che ascoltavano e praticavano la volontà di Dio, e con un gesto accennò agli uditori che gli si assiepavano attorno. Probabilmente, a questa risposta, gli eroi della mediocrità compresero subito che non c'era niente da fare, e ripeterono anch'es­si: È fuori di sé. Maria, a sua volta, dovette ritrovare gran somi­glianza fra questa risposta e quella già avuta dal dodicenne suo figlio nel Tempio (§ 262), e perciò ella depose anche la nuova risposta nel forziere del suo cuore per esservi custodita insieme con altre (§ 142).
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06/08/2012 18:03

[SM=g28004] La tempesta sedata e l'energumeno di Gerasa

§ 346. Di questa uniforrne operosità nella Galilea ci sono traman­dati soltanto pochi fatti particolari. In questo periodo certamente cadde la giornata dedicata da Gesù all'insegnamento per mezzo di parabole, della quale tuttavia è più opportuno trattare a parte, stac­candola dal suo inquadramento cronologico (§ 360). Altri episodi tramandati sono i seguenti. Forse la sera stessa della giornata delle parabole (cfr. Marco 4, 35) Gesù, che aveva parlato alle turbe sulla riva occidentale del lago di Tiberiade, salì in barca con i discepoli e comandò loro di passare alla riva opposta. La partenza, a quanto sembra, fu improvvisa ed affrettata: forse, ancora una volta, Gesù voleva sottrarsi alle fervo­rose dimostrazioni della folla che l'aveva ascoltato. La traversata è di pochi chilometri (§ 376) ma può esser pericolosa, specialmente se compiuta sul far della notte come quella volta, a causa dei venti freddi che si scaricano giù improvvisamente dal sovrastante nevoso Hermon e suscitano tempeste violentissime per quel lago e per le fragili imbarcazioni che lo percorrono. Così avvenne in quella serata. Gesù, stanco della faticosa giornata, si distese a poppa della barca e s'addorrnentò: Marco (4, 38), che più volte avrà udito il racconto dalla bocca di Pietro, menziona anche il cuscino su cui Gesù ap­poggiò la sua testa, il piccolo cuscino di cui erano provviste le più umili barche; inoltre, il solo Marco ricorda che altre barche accom­pagnavano quella di Gesù. Ad un tratto un turbine violento s'ab­batte sul lago, e ben presto la barca di Gesù è in pericolo e fa ac­qua; i barcaioli tentano manovrare, ma tutto è inutile e da un momento all'altro può esser la fine. Frattanto Gesù continua a dormire a poppa della squassata navicella. Dante, alla prima visione sovrumana che ebbe nel Purgatorio, scorse un vasello snelletto e leggiero guidato da un angelo; da poppa stava il celestial nocchiero, ma stava eretto e vigile con l'ale sue... dritte verso il cielo.
Al contrario, a poppa di quella barchetta del lago, Gesù era disteso e dormiva, sembrava estraneo a quanto accadeva all'intorno, e nell'oscurità della notte lo si sarebbe scambiato per un ammasso di cordami o per una vela deposta e ripiegata. I discepoli non si spiegano quel sonno tra tutta quella furia degli elementi, e stanno ansiosi fra il desiderio di non disturbarlo e lo spavento della catastrofe imminente, fra il rispetto per il maestro e l'abitudine di ricorrere fiduciosi a lui. Ma, passato ancora del tempo, si convincono che oramai non si può più titubare: bisogna senz'altro svegliare ed avvisare il maestro, affinché pure egli provveda in qualche maniera alla propria salvezza. Gli si fanno perciò dappresso gridando: Mae­stro, siamo perduti! Sàlvaci! Gesù si sveglia: insieme col turbamento degli elementi egli nota il turbamento dei cuori. Voltatosi allora al turbine, comanda impe­rioso: Taci! Fa' silenzio! - Voltatosi quindi ai cuori esclama misericordioso: Che paura avete? Gente di poca fede! - Il turbamento degli elementi cessa ad un tratto, e si fa gran bonaccia. Il turba­mento dei cuori è sostituito da un altro d'altro genere, ché i presenti si dànno a riflettere: E chi è dunque costui, che perfino il vento e il mare gli obbediscono? Per i razionalisti il miracolo, naturalmente, è fittizio. I seguaci del­l’antico Paulus (§ 198) lo spiegheranno forse immaginando che sulla barca di Gesù stessero deposti molti otri d'olio, e l'esperto maestro ad un certo punto li facesse svuotare nel lago in modo da calmarne le onde; i moderni mitologi, invece, penseranno che si tratti di una pura allegoria. Una volta tanto con i mitologi concordano in parte gli studiosi spiritualisti, in quanto anche costoro trovano nella nar­razione un significato allegorico ma insieme con quello storico.
Ambedue reali furono la tempesta e la bonaccia che avvennero attonno a quella barca: ma compiendo quel miracolo Gesù venne a prealombrare altre tempeste e altre bonacce che da secoli si avvicendano attorno a un'altra barca, non di legno ma non meno reale e storica, e i cui protagonisti sono gli stessi di quella notte là sul lago di Tiberiade. Da poppa stava il celestial nocchiero. Questa volta l'interpretazione allegorica non è un postulato filosofico, come abitualmente presso i mitologi, ma è fondata su fatti storici che ognu­no può riscontrare e che uno storico non deve fingere d'ignorare.

§ 347. Con quella bonaccia presto si toccò terra e si sbarcò. La riva raggiunta fu certamente quella orientale del lago, circa dirim­petto a Cafarnao o a Magdala, ma il suo nome varia presso i Sinot­tici; Matteo la chiama regione dei Gada reni, Marco dei Geraseni, Luca dei Gergeseni o piu' probabilmente dei Geraseni. I Gli appel­lativi da prendersi in considerazione, dei Gadareni e dei Geraseni, si riferiscono rispettivamente alle due città di Gadara e di Gerasa, che appartenevano ambedue alla Decapoli di là dal Giordano (§ 4); tuttavia ambedue erano situate a sud del lago e, specialmente Gerasa, assai lontane da esso, cosicché è difficile che i rispettivi terri­tori s'estendessero fin sulla sponda del lago dandole il proprio nome. Limitandosi pertanto agli appellativi derivati da Gadara e da Gera­sa, non è impossibile che i rivieraschi a occidente del lago designas­sero le opposte rive col nome delle città piu' celebri nella cui direzione essi guardavano: questi appellativi geografici di direzione non sono rari negli usi paesani. Tuttavia la spiegazione dell'apparente incongruenza può forse esser suggerita dal terzo appellativo dei Ger­geseni, meno autorevole sotto l'aspetto documentario ma più racco­mandato dai riscontri archeologici (§ 348). Giunto pertanto Gesù col suo seguito a oriente del lago, uno dei giorni seguenti alla notte dell'approdo, avvenne un fatto che è nar­rato da tutti e tre i Sinottici, nella maniera più breve da Matteo, nella più ampia da Marco: tuttavia il riassunto di Matteo fornisce una particolarità non trasmessa dagli altri due Sinottici, cioè che del fatto furono attori due indemoniati, e non già uno solo come nsul­terebbe da Marco e da Luca.

Certamente il fatto è il medesimo, e questa differente maniera di narrarlo è un bell'esempio della man­canza di servilismo letterario presso gli evangelisti (§ 122) e della loro particolare maniera di trattare gli argomenti: Marco e Luca si accentrano sull'attore principale e neppure ricordano quello se­condario; Matteo, sebbene più ristretto, li ricorda ambedue. Lo stesso avverrà nuovamente nel caso dei ciechi di Gerico (§ 497). A Gesù, dunque, si fece incontro un indemoniato. Era un essere sel­vaggio e imbestialito, che aveva scelto la sua dimora abituale fra im­pure tombe e s'aggirava in quella zona tutto nudo; dotato di forza mostruosa, aveva sempre spezzato funi e catene con cui avevano tentato più volte di legarlo, tratto tratto gridava furiosamente o si percoteva con sassi, e ispirava tanto terrore che nella zona ove egli si aggirava nessuno più voleva passare. Quando costui ebbe scorto Gesù da lontano, gli corse incontro, ma invece di aggredirlo si pro­strò davanti a lui urlando: Che c'e' fra me e te; (cfr. § 283), Gesu' figlio d'iddio altissimo? Ti scongiuro per iddio, non mi tormentare! (Marco, 5, 7). Aveva pariato l'uomo imbestialito, ma la risposta di Gesù s'indirizzò a colui che stava dentro l'uomo ad imbestialirlo. Disse infatti Gesù: Esci, spirito impuro, dall'uomo! Più che un comando, le parole furono un annunzio; Gesù infatti interrogò, subito appresso, l'imbestialente: Che nome hai? E quello: il nome mio e' “Legione”, perché siamo molti. La parola non risonava allora in Palestina e fuori senza suscitare un ar­cano sbigottimento; quella moltitudine d'armati fusi in compattezza mirabile a formare un travolgente congegno guerresco sembrava un'istituzione sovrumana, e più tardi Vegezio, ripetendo certamente idee anteriori a lui, parlerà di istituzione divina: non tantum huma­no consilio, sed etiam divinitatis instinctu legiones a Romanis arbi­tror constitutas (Vegezio, lì, 21). Ai tempi di Gesù la romana legione variava dai 5000 ai 6000 uomini: ma qui l'interpellato impiega cer­tamente la parola per alludere in maniera generica a una moltitu­dine grande e compatta.

§ 348. Fatta questa confessione, la moltitudine degli interpellati si raccomandava molto a lui, a Gesù, affinché non li inviasse fuori della regione, intendendo certamente la circostante regione: ma questo punto di partenza è sostituito presso Luca (8, 31) col punto d'arrivo, perché ivi si dice che la raccomandazione era di non in­viarli nell'abisso. La raccomandazione fu rincalzata da una propo­sta concreta: era la' verso il monte un grosso branco di porci che pascolava; e (quelli) si raccomandavano a lui dicendo: Màndaci nei porci, affinché entriamo in essi! Ed (egli lo) permise loro. E usciti, gli spiriti impuri entrarono nei porci, e il branco si slanciò giu' per il precipizio nel mare - circa duemila - e affogarono nel mare. La presenza di un branco di porci conferma che si era fuori del terri­torio giudaico, perché nella vera Palestina per le note prescrizioni della Legge non si allevavano quegli animali impuri: i quali perciò qui appaiono come asilo ricercato dagli spiriti impuri, costretti ad uscire dall'uomo. Visto ciò ch'era successo, i pastori dei porci se la dettero a gambe, corsero nella città vicina a narrare il fatto e a giustificarsi del danno subito presso i padroni del branco. Dalla città si venne a riscontrare la realtà degli avvenimenti: si trovò che quel notissimò energumeno, già cosi feroce e imbestialito, stava adesso vicino a Gesù ma tranquillo, seduto, vestito e sano di mente; inter­rogati poi i testimoni si riseppe per filo e per segno com'erano andate le cose. Quegli Ellenisti accorsi non dubitarono minimamente del portento, anzi appunto perché lo credettero pienamente miracoloso s'impensierirono per il futuro: da uomini pratici ed economici quali erano, pensarono che con un taumaturgo di quella forza in giro per i loro territori non si sapeva mai quel che potesse succedere; perciò, rivoltisi a Gesù, cominciarono a raccomandargli di partir­sene dai loro confini.

Gesù acconsentì e si avviò verso la barca; l'in­demoniato guarito voleva che l'accogliesse al suo seguito, ma Gesù gli prescrisse di tornare in seno alla propria famiglia e di far cono­scere il beneficio ricevuto da Dio. Il beneficato obbedì, e se n'andò e cominciò ad annunziare nella Deca poli quanto Gesu' gli fece, e tutti ammiravano. Il riconoscimento del luogo ove avvenne il fatto è oggi seriamente probabile. Sulla riva orientale del lago, quasi dirimpetto a Magdala, si estende la zona dell'antica città di Hippos, ove in realtà le colline digradano a qualche distanza dalle acque del lago; tuttavia, a set­tentrione di questa zona, sbocca il wadi es-Samak che è chiuso a sud da un piccolo promontorio alto qualche centinaio di metri e cosi dirupato sull'acqua che ai suoi piedi resta una spiaggia di poche decine di passi; varie caverne, aperte nei fianchi del promontorio, hanno tutto l'aspetto di essere state in antico tombe. Geologicamente dunque lo scenario corrisponde, giacché il promontorio sarebbe il precipizio da cui si gettarono i porci andando per il loro impeto a finire nell'acqua, e le tombe sarebbero l'abituale dimora dell'indemoniato. Ma forse c'è anche una corrispondenza onomastica: presso lo sbocco del wadi es-Samak è situato un villaggio chiamato oggi dagli Arabi Korsi, ma che ha ricevuto il suo nome da un abitato più antico che ai tempi dei Bizantini era chiamato Kopa e situato circa un chilo­metro più ad oriente. Ora, se si hanno presenti le facili oscillazioni di pronunzia di un dato nome lungo i secoli - oscillazioni tanto abi­tuali che, oggi stesso, Korsi è pronunziato da quei del luogo anche Kersa o Ghersa - si comprende come Origene riavvicinasse il Kersa o il Ghersa da lui uditi pronunziare, al Gergesa e ai Gergeseni del­l'Antico Testamento (§ 347, nota) e li sostituisse con questi nomi cre­dendo di appoggiarsi su una tradizione locale; senonché mentre la tradizione era buona come quella odierna, la sostituzione era arbi­traria. Si avrebbe così non solo la corrispondenza geologica, ma an­che quella toponomastica, giacché l'antica Korsi sarebbe la città donde uscirono gli abitanti per pregare Gesù d'allontanarsi; essendo però un nome poco o punto noto, sarebbe stato sottoposto dai copisti o dai traduttori dei testi evangelici a quelle variazioni con cui e giunto fino a noi.

[SM=g27998] La figlia di Jairo. La donna con profluvio di sangue. I due ciechi

§ 349. Ripassato il lago, Gesù tornò a Cafarnao ove l'accolse la folla perché tutti l'aspettavano (Luca, 8, 40). Più ansiosamente forse di tutti l'aspettava un Giudeo di riguardo, archisinagogo (§ 64), di nome Jairo; costui, saputo che Gesù è arrivato, corre e cade ai piedi di lui e si raccomanda molto a lui dicendo: La figliolina mia è agli estremi! Vieni dunque, imponi le mani su lei, affinché sia salva e viva! (Marco, 5, 22-23.) Il racconto di Luca non è altrettan­to vivido, ma aggiunge il particolare che la moribonda fanciulla era unigenita e di circa dodici anni. Gesù senz'altro s'avvia insieme con l'angosciatissimo padre, ed è seguito naturalmente da molta folla che si accalca attorno al tau­maturgo: chi lo sospinge, chi l'acclama, chi lo supplica, chi gli ba­cia le vesti, chi tenta d'aprirgli un varco. Nell'avanzarsi in questa maniera, a un tratto Gesù si ferma, si rivolge, e guardando attorno domanda: Chi mi ha toccato? - A quella inaspettata domanda tutti rimangono perplessi, non sapendo che cosa veramente intenda egli dire. Pietro e i discepoli che sono presenti esprimono a parole la ragione della perplessità: Maestro, le folle ti costringono ed oppri­mono! (Luca, 9, 45). Ma la spiegazione di Pietro non spiega nulla; il maestro replica ch'egli ha sentito uscir da sé potenza al toccamento speciale di qualcuno. Ecco infatti che una povera donnetta, tutta tremante, viene a prostrarsi davanti a Gesù e narra alla folla quant'è avvenuto. La donna soffriva di perdite di sangue da dodici anni e molto aveva sofferto da parte di molti medici, e dopo aver consumato tutte le sue sostanze non aveva tratto alcun giovamento, ma piuttosto era andata peggio; questa franca informazione di Marco è pudicamente accorciata dal medico Luca, e noi già sappiamo perché (§137). Veramente i rimedi contro questo incomodo erano molti, e i rab­bini che spesso facevano anche da medici ci hanno conservato una buona lista di opportune ricette (ar. Shabbath, 110 a).
Ad esempio, un rimedio molto efficace era quello di far sedere la donna malata alla biforcazione d'una strada facendole tenere in mano un bicchie­re di vino; qualcuno, a un tratto, venendole di soppiatto alle spal­le, doveva gridarle che cessasse il profluvio di sangue. Un rimedio poi assolutamente decisivo era quello di prendere un granello d'orzo trovato nello stabbio di un mulo bianco: prendendolo per un giorno il profluvio sarebbe cessato per due giorni, prendendolo per due gior­ni sarebbe céssato per tre giorni, e prendendolo per tre giorni si sarebbe ottenuta la guarigione completa e per sempre. Altre ricette richiedevano impiego di droghe rare e costose, e quindi grandi spese da parte della malata. La donna ricorsa a Gesù le aveva forse sperimentate tutte, giacché aveva consumato tutte le sue sostanze, ma rimanendole egualmente il suo incomodo. Perduta ogni fede nelle medicine, la malata trovò la sua medicina nella fede. Quel Gesù di cui tanto si parlava in quei luoghi era certamente in grado di guarirla; ella concepì di ciò tanta fede, che andava ripetendo a se stessa Se (io) tocchi an­che sol le vesti di lui sarò salva; non pretendeva la fiduciosa di toc­care proprio la persona del taumaturgo, ma solo la sua veste, o an­che solo quell'orlatura o frangia (ebr. sisith, plurale s.isùjoth; gr. Vulgata, fimbria: Matteo, 9, 20) che ogni Israelita os­servante doveva portare ai quattro angoli del suo mantello conforme alle prescrizioni della Legge (Numeri, 15, 38 segg.; Deuteron., 22, 12). Sorretta da tale fede, la donna aveva toccato nascostamente quell'orlatura della veste di Gesù e all'istante si era sentita guarita. Il medico, a guarigione ottenuta, approvò la medicina scelta dalla malata, perché voltatosi a lei le disse: Figlia, la tua fede ti ha sal­vata. Va' in pace, e sii guarita dal tuo male!

§ 350. L'incidente della donna era chiuso e Gesù avrebbe potuto riprendere il cammino verso la casa di Jairo, ma ecco che appunto da quella casa si viene ad annunziare al povero padre Tua figlia è morta; non disturbare piu' il maestro! Gesù ode l'annunzio, e quasi proseguendo il discorso sulla fede fatto alla donna, soggiunge al padre: Non temere! Soltanto credi, e sara' salva! La casa della morta è presto raggiunta, ma Gesù non permette di entrare se non ai di­scepoli prediletti, Pietro, Giacomo e Giovanni, e ai genitori della morta; si sono già adunati flautisti e lamentatrici, di prammatica nelle adunanze funebri, ma Gesù dice che la loro presenza è inutile: Che strepitate e piangete? La fanciullina non morì ma dorme. Gli accorsi trovano che lo scherzo è di cattivo gusto vicino a un cada­vere, e rispondono con scherni. I genitori stanno come trasognati fra la realtà dei fatti e le ferme parole dell'invocato taumaturgo; Gesù li spinge insieme con i tre discepoli dentro la camera della morta, dopo che ne sono usciti tutti gli estranei. Là dentro stanno cinque uomini imbambolati; oltre ad essi c'è uno che non è più uomo, e uno che è più che uomo. Dal di fuori giunge il brusìo con­fuso della folla. Il più che uomo si avvicina a chi non è più uomo, gli prende la mano già fredda e pronunzia due sole parole; il disce­polo del testimonio Pietro ci ha conservato nel suo suono origina­rio queste due parole, ch'egli avrà udite ripetute tante volte dal suo maestro: Telita qumi, cioè Ragazza sorgi! – E’ L'effetto di queste due parole è descritto così dall'evangelista medico: E ritornò lo spirito di lei, e si levò all'istante, e (Gesu') ordinò che le fosse dato da man­giare. E rimasero fuor di sé i genitori di lei; ma egli prescrisse loro di non dire a nessuno l'accaduto. Questa prescrizione era conforme alla norma seguita da Gesù, che già rilevammo (§ 300); ma quei rasserenati genitori, con tutta la loro buona volontà, avranno potuto osservarla solo in minima parte, giacché troppo eloquentemente par­lava la stessa presenza in casa di quella figliuola, che tutti avevano vista partire per l'oltretomba e poi a un tratto ne era ritornata: tanto è vero che il pratico Matteo conclude il racconto dicendo che uscì la fama di questo (avvenimento) in tutta quella regione.
Che fine avrà fatto la fanciulla risuscitata? Avendo dodici anni, era in età da marito (§ 231); forse poco dopo si sarà maritata, avrà poi avuto figli e nepoti, ma alla fine ritornò stabilmente in quell'ol­tretomba già da lei visitato per poco tempo. Su questo bel caso scritti apocrifi e leggende tardive pare che non abbiano fantasticato, mentre invece si ricamò attorno alla donna dal profluvio di sangue. Negli apocrifi Atti di Pilato, VII, la donna è chiamata Veronica (§ 193). Secondo una voce riportata da Eusebio (Hist. eccì., vii, 18) era una pagana nativa di Panion, ossia Cesarea di Fi­lippo (§ 395 segg.), e tornata in patria fece erigere alla porta di casa sua un monumento di bronzo raffigurante lei stessa inginocchia­ta davanti a Gesù: ai piedi di Gesù spuntava una pianta esotica, che guariva ogni sorta di malattie; Eusebio vide sul posto il gruppo e afferma soltanto: Dicono che questa statua riproduca l'immagine di Gesu'. E’ molto probabile che il gruppo originariamente rappresentasse qualche divinità pagana curatrice di morbi, e che più tardi la leggenda cristiana la interpretasse come dice Eusebio; secondo una notizia di Sozomeno, il gruppo sarebbe poi stato abbattuto da Giuliano l'Apostata.

§ 351. Con la donna guarita e la fanciulla risuscitata gli insegna­menti taumaturgici della fede non erano finiti. A Gesù uscito dalla casa di Jairo tennero dietro due ciechi, due di quegli infelici di cui doveva abbondare la Palestina antica non meno dell'odierna: an­cora oggi, del resto, in Palestina i ciechi spesso s'uniscono a coppia per aiutarsi bene o male fra loro, e mostrano come tutti gli altri mendicanti quella tenacia nel chiedere mostrata da questi due. Al sentir raccontare i recentissimi miracoli, nei due brillò un lume di speranza e fattisi accompagnare presso Gesù si dettero. a seguirlo gridando con immutabile costanza: Abbi pieta di noi' figlio di David! Data la norma prudenziale seguita da Gesù (§ 300), quell'appellativo non poteva tornargli per allora gradito, perché era un appellativo messianico che designava usualmente il grande Atteso, e perciò era anche più pericoloso in quell'effervescenza suscitata fra il popolo dai miracoli. Gesù non si ferma né si rivolge a quell'in­cessante grido, ma non per questo il grido cessa; Gesù infine entra nella casa ove dimora, certamente a Cafarnao, e i due lo seguono anche dentro casa. Tutto sommato, la tenacia dei due ciechi era fede, precisamente quella fede poco prima lodata e raccomandata da Gesù alla donna malata e a Jairo; inoltre, nell'interno d'una casa l'appellativo mes­sianico non era più pericoloso, cosicché Gesù entrò in discussione con i due imploranti. Ma la prima e forse l'unica domanda fu sulla fede: Avete fede che posso far ciò? I due ciechi naturalmente ti­spondono: Si, Signore! Allora Gesù toccò loro gli occhi, dicendo: Secondo la vostra fede avvenga a voi. E i due videro. Allora Gesù comandò con somma energia - l'evangelista usa la parola fremette, (Matteo, 9, 30) - di non parlare con nessuno del fatto; ma quelli, usciti di là con la luce negh occhi e nel cuore, ne par­larono in tutta la regione. Fu una vera disobbedienza? Vari studiosi protestanti l'hanno stimata tale; antichi Padri l'hanno giudicata un incoercibile moto di gratitudine. Forse gli antichi conoscevano il cuore umano meglio dei moderni.
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06/08/2012 18:06

[SM=g27998] Invio dei dodici Apostoli

§ 352. Fra questi episodi staccati continuava la generica operosità di Gesù in tutta la Galilea, quale è già stata riassunta da Luca (§ 343). Ma nel frattempo l'affluenza della gente era cresciuta, e nonostante la cooperazione dei dodici le cure crescevano a dismi­sura; e Gesù vedendo le folle s'impietosì per essi, perché erano di­sfatti e abbattuti come pecore non aventi pastore (cfr. Numeri, 27, 17). Allora dice ai suoi discepoli: “La messe (è) bensì molta, ma gli operai pochi; pregate dunque il signore della messe, affinché invii operai nella sua messe”. E chiamati dappresso i dodici discepoli suoi, dette ad essi autorita sugli spiriti impuri, si da scacciarli via e da curare ogni malattia e ogni languore (Matteo, 9, 36; 10, 1). Investiti perciò di tale autorità, i dodici furono inviati da soli senza maestro, come squadra volante, per una missione particolare e con norme ben precise. La missione consisteva nell'annunziare che si era avvicinato il regno di Dio, come già aveva fatto Giovanni il Battista e fino allora anche Gesù; ma la squadra volante era inviata in zone ancora non rag­giunte.
Tuttavia fu prescritto che queste zone appartenessero al territorio d'Israele, perché ad Israele prima di tutte le altre genti era stata promessa la “buona novella” della salvezza dagli antichi Profeti; i dodici quindi non s'incamminassero verso i paesi dei Gen­tili né dei Samaritani, ma piuttosto si rivolgessero alle pecore sban­date del casato d'Israele. A dimostrare poi la verità del loro an­nunzio, e in forza dell'autorità testé ricevuta, essi dovevano curare infermi, mondare lebbrosi, scacciare demonii, e perfino risuscitare morti. Era insomma la missione di Gesù la quale passava da uno solo a dodici, ma per lo stesso scopo e con gli stessi metodi. Anche le norme pratiche erano le stesse seguite fino allora da Gesù, e si possono riassumere in una totale noncuranza degli argomenti po­litici, dei mezzi finanziari, delle preoccupazioni economiche. L'annunzio del regno di Dio doveva ignorare affatto i regni umani, non avendo alcuna connessione con essi. Le finanze spirituali da cui era accreditato il regno di Dio erano i mezzi dimostrativi della sua solvibilità, cioè curare infermi, mondare lebbrosi, scacciare demonii, risuscitare morti; ma siccome i banchieri a cui era stato affidato questo credito lo avevano ricevuto senza pagamento, così dovevano comunicarlo senza pagamento: gra­tuitamente riceveste, gratuitamente date (Matteo, 10, 8).
Le preoccupazioni economiche erano egualmente proibite agli an­nunziatori del regno di Dio, salvo per quello che era rigorosamente indispensabile. Infine, gli annunziatori dovevano mettersi in giro a due a due, come già usavano fare i messi del Sinedrio, sia per assistenza sia per sor­veglianza reciproca, e nelle loro peregrinazioni si dovevano distin­guere dagli altri viandanti per varie ragioni.

§ 353. I soliti viandanti, in primo luogo, si servivano possibilmente dell'asino, classico mezzo di trasporto in Oriente; ad ogni modo all'atto della partenza si provvedevano di cibarie, di monete d'oro e d'argento riposte nella cintura o nel turbante, di una seconda tu­nica per proteggersi meglio dal freddo o cambiarsi dopo un acquaz­zone, di accurati e solidi calzari per reggere bene sulle strade sca­brose, di un nodoso bastone in forma di mazza per difendersi in pericolosi incontri, di una bisaccia da viaggio ove si mettevano altre minute provviste o anche ciò che per caso si veniva acquistando lungo il cammino. Questa bisaccia era importante soprattutto per coloro che viaggiavano a scopo di questue religiose, perché tali questue fruttavano bene in Oriente anche presso i pagani: un'iscri­zione greca trovata nella zona orientale dell'Hermon (§ 1) ricorda come un certo Lucio di Aqraba, che andava in giro questuando a nome della dea sira Atargate, riportasse a casa da ogni suo viaggio settanta bisacce ricolme.
Ebbene, appunto la mancanza di tutti questi amminicoli doveva distinguere da tutti gli altri viandanti i dodici inviati da Gesù: Non vi procurate oro né argento né (spic­cioli di) rame nelle vostre cinture, non bisaccia da viaggio né due tuniche né calzari né bastone (Matteo, 10, 9-10). A queste prescri­zioni Marco (6, 8-9) aggiunge quella di non provvedersi di cibarie (pane), ma in cambio permette di portare sandali e anche di recare il bastone soltanto. Neppure dell'alloggio dovevano preoccuparsi i dodici. Giunti che fossero ad un gruppo di case, si dovevano informare di qualche capo di famiglia degno e di buona fama, e poi rimanere in casa sua senza più cambiare. Il caravanserraglio (§ 242) col suo andirivieni era luogo inadatto per quegli araldi del regno di Dio, i quali si dove­vano occupare soltanto di affari spirituali, e in nessun modo di negozi politici o commerciali. Il loro prezioso tempo doveva esser impiegato tutto nella loro missione; quasi certamente anche a questi dodici, come più tardi ai settantadue discepoli (§ 437), fu proibito di perdere il loro tempo per “salutare” quanti incontrassero nel cammino (Luca, 10, 4). In Oriente il “saluto” fra viandanti, specialmente se s'incontra­vano in luoghi solitari, poteva prolungarsi per ore ed ore parlandosi di tutto un po' in segno di confidenza e quasi per obbligo di buona creanza: anche oggi, del resto, il beduino che si presenta per la prima volta allo sportello d'una stazione ferroviaria si crede spesso obbligato a chieder dapprima al bigliettaio se sta bene di salute, se i figli crescono floridi, se il gregge o il raccolto sono sod­disfacenti, e solo dopo questi e altri segni di buona educazione do­manda il biglietto per il treno. Gli inviati del regno di Dio dove­vano fare a meno di siffatti convenevoli, valendo per loro la norma Maiora premunt. Se qualche borgata non avesse accolto gli inviati del regno o avesse prestato loro scarsa attenzione, essi dovevano allontanarsi senza ri­mostranze, ma nello stesso tempo attestare che la responsabilità del­l'allontanamento ricadeva su quella gente. A tale scopo dovevano compiere il gesto simbolico, appena usciti dalla borgata, di scuo­tere dai propri piedi la polvere raccolta in quel luogo: era co­me polvere di terra pagana, da non riportarsi sul sacro territorio d'Israele.

§ 354. Ricevute queste istruzioni, i dodici partirono per la missio­ne; è probabile che, nello stesso tempo ma separatamente da essi, partisse anche Gesù (cfr. Matteo, 11, 1). La missione non poté durare che poche settimane, sugli inizi dell'anno 29 (§ 355). Anche il suo risultato non ci viene comunicato; è detto solo in genere che i missionari predicando il “cambiamento di mente”, scacciavano via molti demonii e ungevano con olio molti malati e (li) guarivano (Marco, 6, 13). La loro predicazione del regno di Dio è dunque accompagnata, come presso Gesù, da segni miracolosi; come tali indubbiamente sono presentate le guarigioni qui accennate, pur es­sendo riconnesse con l'unzione d'olio. L'unzione d'olio aveva allora notevole importanza come medicamento usuale (§ 439); ma qui il contesto mostra chiaramente che il suo impiego non era quello fattone dalla terapia comune, bensì da una più alta e spirituale, che tutt'alpiù si serviva di quell'unzione come di simbolo materiale: analogamente l'usuale lavanda corporale era già stata impiegata da Giovanni, e anche dai discepoli di Gesù, per simboleggiare la mon­dezza spirituale del “cambiamento di mente” (§ 291). Più tardi, nel cristianesimo pienamente istituito, questa unzione d'olio sarà un rito particolare e stabile (Giacomo, 5, 14-15).


[SM=g27998] Morte di Giovanni il Battista

§ 355. Verso il tempo della missione dei dodici avvenne l'uccisione di Giovanni, forse tra il febbraio e il marzo dell'anno 29. Se egli era stato chiuso in prigione verso il maggio del 28 (§ 292), erano già passati una decina di mesi; ma ne sarebbero passati molti di più, se non fosse avvenuto un caso imprevisto. Antipa, infatti, s'intrat­teneva volentieri col venerato prigioniero e non voleva in realtà la morte di lui (Marco, 6, 20, greco); la voleva invece Erodiade, l'uno e l'altra per i motivi che già sappiamo (§ 17). Nel contrasto fra i due, prevalse l'astuzia e il rancore femminile. Erodiade, che stava in agguato, colse per agire l'occasione in cui Antipa festeggiava il suo giorno genetliaco. La festa era solenne, e vi erano stati invitati i maggiorenti della corte e dell'intera tetrar­chia: tutta gente autorevole e denarosa, ma provinciale e ansiosis­sima di tenersi al corrente nel conoscere ed ammirare le ultime fi­nezze dell'alta società metropolitana. L'occasione era opportunissima per Erodiade, giacché aveva sotto mano il mezzo per far rima­nere sbalorditi quei provincialoni e nello stesso tempo ottenere ciò che agognava: aveva presso di sé Salome, figlia del suo vero marito di Roma, la quale nell'alta società dell'Urbe aveva imparato a ballare stupendamente, ad eseguire danze tali di cui quella gente grossa non aveva neppur l'idea.
La madre risvegliò l'amor proprio del­la ragazzetta, e la ragazzetta messa sul punto si comportò egre­giamente. Introdotta che fu nella sala del gran banchetto al momento buono, quando i fumi del vino e della lussuria avevano già annebbiato i cervelli, la ballerina con le sue gambe piroettanti e lanciate in aria in tutti i sensi suscitò fra quegli imbambolati un delirio. Antipa ne fu addirittura intenerito. Con simili spettacoli la sua corte dimo­strava di essere veramente up to date, aggiornata, e superiore alle altre corti orientali; soltanto in essa si davano esibizioni che appena nella corte del Palatino e in qualcuna delle più aristocratiche domus di Roma era possibile ammirare. L'infrollimento del monarca fu tanto, che fattasi venir dappresso la ballerina tuttora ansante e sudata le disse: Chiedimi quello che vuoi e te lo darò! E per mag­gior solennità aggiunse alla promessa un giuramento: Qualunque cosa (tu) mi chieda te la darò, fin la meta' del mio regno! (Marco, 6, 23). Tra gli applausi frenetici dei convitati e le mirabolanti offerte del monarca la ballerina tornò ad essere inesperta fanciulletta, e si sa­rebbe forse smarrita: ma appunto questo momento delicato era già stato previsto dalla navigata madre, che le aveva dato consigli in proposito. Di quei saggi consigli materni si ricordò ella nel suo smar­rimento, e subito riavutasi attraversò di corsa la sala per andare a consultarsi da sua madre, che teneva banchetto nella sala riservata alle dame: Mamma, il re è disposto a darmi fin la metà del suo re­gno, e l'ha giurato pubblicamente.
Che cosa chiederò? (Marco, 6, 24). La navigata femmina capi che il suo uomo era caduto in trap­pola, e quindi ch'ella aveva vinto. Rivolta allora alla ballerina, fra una carezza e l'altra, le disse recisamente: Lascia tutto il resto, che non conta, e chiedi una cosa sola: la testa di Giovanni il Battista (ivi). - L'adultera, per esser sicura nel suo adulterio, aveva bisogno dei servigi di una prosseneta e di un carnefice, ed affidava queste nuove incombenze all'inconscia sua figlia. Ancbe questa volta la ragazzetta si comportò egregiamente. Ed entrata subito in fretta dal re, chiese dicendo: « Voglio che all'istante (tu) mi dia sopra un vassoio la testa di Giovanni il Battista!”. E, (pur) divenuto afflittissimo il re per i giuramenti fatti e (per) i commensali, non volle dare a lei un rifiuto. E subito, inviato il re un boia, ordinò di portare la testa di lui.
E (il boia) partitosi, lo decapitò nella prigione, e portò la testa di lui su un vassoio e la dette alla ragazzetta e la ragazzetta la dette a sua madre (Marco, 6, 25-28). L'afflizione del tetrarca, che si ritenne im­pegnato dal giuramento fatto in presenza dei convitati, non impedì che tutto si svolgesse con la massima naturalezza, come se si fosse trattato di accontentare il capriccio di una bambina che desidera un frutto maturo pendente da un albero: si manda un servo a staccare il frutto per porgerlo alla bambina, come allora si mandò il boia a tagliar la testa a Giovanni per porgerla alla ballerina. Dalle mani della ballerina, a cui non interessava affatto, quella testa ancora cal­da e grondante sangue passò nelle mani della madre, a cui interes­sava moltissimo: secondo una tardiva notizia data da S. Girolamo, l'adultera avrebbe sfogato il suo odio forando con uno stiletto la lingua di quella testa, come già aveva fatto Fulvia con la testa di Cicerone (Adv. Rufinum, in, 42). Più tardi i discepoli del martire riuscirono a ricuperare la salma, e le dettero sepoltura.

§ 356. Il luogo del martirio non è nominato dagli evangelisti, ma se­condo Flavio Giuseppe (Antichità giud., XVIII, 119) prigionia e mar­tirio avvennero a Macheronte. Ivi, dunque, si svolse anche l'infame banchetto: dalla narrazione evangelica, infatti, risulta chiaramente che il prigioniero stava a pochi passi dai banchettanti, cosicché la do­manda della ballerina poté essere appagata immediatamente. La cir­costanza non deve meravigliare: Macheronte era bensì una fortezza che faceva da baluardo contro gli Arabi Nabatei - anzi Plinio (Na­tur. hist., v, 16, 72) la chiamava la fortezza più agguerrita della Giu­dea, dopo Gerusalemme - ma era una di quelle costruzioni nello stesso tempo ben salde e ben comode che Erode il Grande aveva innalzato un po' dappertutto nei suoi dominii; Giuseppe Flavio che la descrive a lungo (Guerra giud.,VIII, 165 segg.) dice, fra le altre cose, che Erode costrui nel mezzo del recinto fortificato una reggia suntuosa per grandezza e bellezza di appartamenti, fornendola anche di molte cisterne e di magazzini d'ogni genere. Vi si stava dunque benissimo, e proprio in quel tempo Antipa vi doveva rimaner volen­tieri per sorvegliare più da vicino gli Arabi Nabatei, con i quali era in rotta per il divorzio della sua legittima moglie (§17). Oggi il fortunato viaggiatore che riesce a spingersi fino al luogo di Macheronte non vi trova che desolazione e squallore.
Dell'antica costruzione, circondata da una larghissima zona totalmente deserta, non resta che un cono mozzato alla cima e interrato; sulla vetta af­fiorano basamenti d'antiche torri; alla sua base si aprono ampie ca­verne, che sono forse le antiche cisterne della fortezza e oggi servono a ricoverare d'inverno greggi di beduini nomadi. In qualcuna di quelle caverne, o li dappresso, Giovanni il Battista stette rinchiuso per molti mesi aspettando. Improvvisamente una sera in quel sotterraneo, dopo che vi era giunto il prolungato frastuono d'un lontano tripudio, giunse anche un boia con una spada in mano. Il prigioniero capì, denudò e protese il collo; un lampeggio, un tonfo, e il figlio di Zacharia e di Elisabetta non era più. Oggi il solitario beduino a cui il viaggiatore si rivolge in quel deserto per essere indirizzato, addita da lontano il cono mozzato di Macheronte, e ne pronunzia con ribrezzo il nome arabo: al-Mashnaqa («luogo d'impiccagione », “patibolo“). Sembra che da quel cono, come da un vulcano, parta una vampa esiziale che faccia desolazio­ne all'intorno; la sagoma del cono si presenta proiettata all'ingiù, verso occidente, e le fa da sfondo il Mar Morto e la regione di Sodoma.

[SM=g27998] Gesù espulso da Nazareth

§ 357. Qualche tempo dopo giunsero ad Antipa notizie di Gesù, co­me di predicatore straordinario che commoveva i suoi sudditi della Galilea. Il ricordo di Giovanni il Battista era recente, come pure l'indole morale e l'attività del profeta testé morto erano somiglian­tissime a quelle del profeta nuovamente comparso: perciò il super­stizioso Antipa ne trasse la conclusione che Giovanni era risuscitato e riapparendo in forma di Gesù operava miracoli. Anche altri, del resto, erano di questa opinione scambiando l'annunziatore con l'an­nunziato; taluni invece preferivano riconoscere in Gesù o Elia o qual­cuno degli antichi profeti (Luca, 9, 7-8). Da quel giorno Antipa sentì la curiosità di vedere personalmente Gesù, per riscontrare forse quali precise fattezze avesse assunto il Giovanni risuscitato (ivi, 9). Gesù invece non aveva alcun desiderio d'incontrarsi con l'adultero assassino di Giovanni. Era circa il tempo dell'invio dei dodici, e men­tre i discepoli dovevano svolgere la loro missione in zona più am­pia Gesù si riserbò una zona più ristretta ma più ardua. Partito da Cafarnao dopo aver risuscitato la figlia di Jairo (cfr. Marco, 6, 1), Gesù volle fare un tentativo speciale e personale riguardo a Naza­reth, perché sapeva che nel villaggio dov'egli era cresciuto covavano forti risentimenti contro di lui. Da principio non era stato così, e a Gesù appena tornato dalla Giudea erano state fatte festose acco­glienze certamente anche a Nazareth (§ 299); ma poi l'umore di quei compaesani si era mutato. Vi doveva avere buona parte l'altezzosità di quei parenti che già vedemmo essere avversi a Gesù (§ 344); ma ciò che più profondamente aveva ferito l'amor proprio dei Nazaretani era la preferenza data da Gesù a Cafarnao, divenuta a un certo tempo sua dimora abituale (§ 285). Le rivalità paesane e la fierezza dei villaggi più meschini erano abi­tuali nell'antichità non meno di oggi; l'esclamazione dispregiativa di Nathanael appunto nei riguardi di Nazareth ne è una riprova (§ 279). I Nazaretani perciò non perdonavano a Gesù il pratico abban­dono del suo villaggio, tanto più che nella preferita Cafarnao egli aveva operato quei fatti straordinari di cui parlava tutta la Galilea. Mancavano forse a Nazareth malati da guarire, storpi da raddrizzare, ciechi da illuminare? Perché dunque privare la propria patria di tanti benefizi, che sarebbero insieme ridondati a maggior lustro del tanto disprezzato villaggio? Quest'acredine paesana doveva aver innalzato una barriera morale anche contro la predicazione di Gesù: giacché egli faceva a meno del suo paese, il paese faceva a meno della sua dottrina.
Di qui il tentativo personale di Gesù riguardo a Nazareth. La sua dimora ivi dovette protrarsi alcuni giorni, in attesa dell'occasione propizia per ottenere buoni effetti; avrà egli alloggiato da sua madre, nella casetta da cui era uscito più d'un anno prima (§§ 270, 282). Ma l'atteggiamento dei compaesani si mostrò subito tale da dare po­co affidamento: se taluni lo accolsero cordialmente, se tutti indistintamente riparlarono dei miracoli da lui fatti poco prima nei paesi all'intorno e riconoscevano ch'egli predicava in maniera straordinaria, molti al contrario si domandavano che motivo c'era di preti­dere per oro colato la sua dottrina. Non era egli forse il figlio di Giuseppe il carpentiere? Sua madre non era quella Maria che tutti conoscevano? E i suoi fratelli non era­no Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sorelle non erano no­tissime in paese? (§ 264). Tutta gente comune, che non s'alzava d'un palmo sopra il livello comune.
Donde aveva egli attinto, dunque, la sua dottrina? Non poteva essere tutto effetto dell'impressionabilità di chi non lo conosceva e non lo aveva visto, come essi di Nazareth, prima bambino e poi fanciullo e poi ragazzo e poi giovane come tutti gli altri? Restavano i miracoli; ma anche su questi c'era da discutere. Chi sa far miracoli, li fa dappertutto, in patria e fuori, fra amici e fra sco­nosciuti: anzi, se è ammissibile una preferenza, questa sarà riser­vata alla patria e agli amici. E invece quello strano Nazaretano pro­prio a Nazareth non operava miracoli; faceva davvero la figura di un medico che sa curare gli estranei, ma non è capace di curare nè i suoi familiari né se stesso.

§ 358. Il paragone trovò fortuna in paese, e passò di bocca in bocca con la petulanza dei piccoli villaggi. I più focosi trovarono anche maniera di spiattellarlo apertamente a Gesù: Medico! Cura te stesso! Quante cose udimmo avvenute a Cafarnao, fa' anche qui nella patria tua! (Luca, 4, 23). Gesù rispondeva cercando d'illuminare e di convincere, e insieme ammoniva che nessun profeta è accetto in pa­tria sua. Fece egli anche miracoli curando infermi, ma pochi di numero, non già perché il paese si chiamava Nazareth invece di Cafarnao, ma per l'incredulità loro (Matteo, 13, 58): mancava infatti ciò che poco prima, nella giornata della fede, aveva trionfato con la figlia di Jairo, con la donna dal profluvio di sangue e con i due ciechi (§ 349 segg.). L'urto finale avvenne quando Gesù tentò la prova solenne e. quasi ufficiale per scuotere i suoi compaesani, e fu nell'adunanza sinagogale del sabbato, forse l'unico sabbato di quel soggiorno. All'adunanza abituale gli oppositori di Gesù si dovettero recare con intenzioni di sfida; c'era vento di battaglia, Gesù non sarebbe mancato all'adu­nanza e quella era una buona congiuntura per venire ad una totale spiegazione con lui e metterlo alle strette. Gesù infatti intervenne, e l'adunanza si svolse regolarmente secondo le norme che già esaminammo (§ 66 segg.). Quella volta il discorso istruttivo, che si teneva dopo la lettura dei « Profeti », fu fatto da Gesù: non è arrischiato supporre che l'archisinagogo, dirigente la funzione, invitasse a tenere discorso appunto il tanto discusso com­paesano per dargli agio di esporre il suo pensiero. Recatosi pertanto Gesù sul pulpito destinato all'oratore, gli fu porto il libro del pro­feta Isaia, e aperto il libro trovò il luogo dove stava scritto: “Lo spirito del Signore su me: perciò mi unse per dar la buona novella ai poveri, mi ha inviato ad annunziare a prigionieri liberazione ed a ciechi vista, a rinviare in liberazione piagati, ad annunziare annata accetta al Signore”.
E ripiegato il libro, resolo al ministro, sedette; e gli occhi di tutti, nella sinagoga, erano intenti a lui. Co­minciò pertanto col dire ad essi: Oggi si e' adempiuta questa scrit­tura (ch'e' risonata) nelle vostre orecchie (Luca, 4, 17-21). Questo fu l'inizio del discorso di Gesù, ma purtroppo il restante non ci è con­servato. Certamente l'oratore applicò ampiamente a se stesso il passo letto, dimostrando con appelli alle sue opere come egli avverasse in pieno l'antica profezia mediante l'annunzio della « buona novella ». La dimostrazione fu efficace e l'oratore anche quella volta apparve come avente autorità (§ 209), cosicché tutti rimasero ammirati; senonché alla radice stessa dell'ammirazione stava il fomite dello scan­dalo. Non era costui l'umile figlio del carpentiere? Se aveva opera­to altrove tanti miracoli, da lui stesso citati nel discorso, perché non li operava anche li fra i suoi compaesani? Le domande, solo ripensate dentro la sinagoga, furono ripetute ad alta voce al di fuori dopo la funzione. Si discusse pro e contro, fra gli uditori; si abbordò di­rettamente l'oratore; lo si invitò ancora una volta a rispondere alle cruciali domande, ricordandosi sopràttutto di essere Nazaretano. Vo­leva egli guadagnare veramente i compaesani alle sue dottrine? Eb­bene operasse, lì, sulla pubblica piazza, miracoli dimostrativi, e allora si che tutti si sarebbero dati anima e corpo a lui Medico! Cura te stesso!
La risposta di Gesù fu la stessa dei giorni precedenti: badassero a non render vero anche per Nazareth il principio che nessun profeta è accetto in patria sua; per lui, Gesù, Nazareth valeva quanto Cafar­nao e quanto ogni altra borgata israelita, ma qualora egli fosse stato respinto da una di esse aveva ben maniera di rivolgersi altrove; ai tempi del profeta Elia vivevano molte vedove in Israele, eppure il profeta fu inviato da Dio ad una vedova non israelita; e al tempo del profeta Eliseo vivevano molti lebbrosi in Israele, eppure il profeta fu inviato da Dio al lebbroso Naaman ch'era siro (Luca, 4, 25-27).
§ 359. La risposta di Gesù era un ammonimento, ma dai suoi maldisposti interlocutori fu interpretata come una provocazione dispregiativa. Dunque, egli dichiarava esplicitamente di non aver bisogno di Nazareth e d'esser pronto a preferirle qualunque altro paese, anche fuori d'israele! Donde tanta albagia nel figlio del carpentiere? Im­parasse una buona volta la gratitudine per il luogo che l'aveva alle­vato! Se egli aveva ripudiato Nazareth, Nazareth doveva ripudiare lui! Allontanarlo immediatamente da Nazareth bisognava, e allonta­narlo in maniera tale che gli togliesse per sempre la voglia di ri­tornare.'

Il furore divampò a un tratto, come avviene sempre fra turbe ec­citate. Si stava ancora discutendo là nei pressi della sinagoga, quando si saranno levate grida contro l'indegno Nazaretano: Fuori di qui il tracotante! A morte il traditore! - I pochi favorevoli a Gesù si saranno pavidamente allontanati; gli altri lo scacciarono fuori della città e lo condussero fino a un ciglio del monte su cui stava costruita la loro città, in modo da precipitarlo giù. Ma egli, passando attraverso in mezzo ad essi, se ne andava (Luca, 4, 29-30). Perché il progetto non fu condotto a termine? Non ci vien detto. Forse all'ultimo momento i paesani favorevoli a Gesù, ripreso un po' di coraggio, saranno intervenuti ad impedire in qualche maniera l'odioso delitto; forse gli stessi facinorosi, quando fu l'istante decisivo, saranno rientrati in sé, contentandosi della minaccia già avanzata; non è escluso, tuttavia, che la superiorità dominatrice mostrata in quella circostanza da Gesù soggiogasse i tumultuanti, sì che al mo­mento critico egli poté sottrarsi a loro. Neppure del preciso luogo, ove avvenne la minaccia, siamo informati. Si mostra oggi un picco chia­mato Gebel el-Qafse, che domina da più che 300 metri la sottostante vallata di Esdrelon e già nel Medioevo aveva ricevuto il nome di Saltus Domini, mentre oggi è designato di solito come il “Colle del precipizio”; ma il luogo ha il grave inconveniente di esser situato a circa 3 chilometri dall'antica Nazareth, distanza veramente eccessiva per una folla eccitata che si decida ad un'esecuzione sommaria. Nel­l'àmbito del villaggio non potevano mancare scoscendimenti di ter­reno, che si prestavano benissimo al violento progetto: si è quindi pensato, non senza verosimiglianza, a uno sbalzo di una decina di metri situato presso l'odierna chiesa dei Greci cattolici, la quale sa­rebbe sorta appunto presso il luogo già occupato dall'antica sinagoga. La pia riflessione cristiana ripensò più tardi anche a ciò che dovette provare Maria in questa occasione, e una cappella situata in direzione del Saltus Domini ricevette nel Medioevo il nome di Santa Maria del Tremore a ricordo del timore sofferto da Maria quando vide suo figlio in pericolo.
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06/08/2012 18:11

[IMG]http://im1.freeforumzone.it/up/17/71/816421599.gif[/IMG] LA GIORNATA DELLE PARABOLE

La parabola


§ 360. Durante questo periodo dell'operosità in Galilea, probabil­mente nel giorno stesso che precedette la tempesta sedata (§ 346), avvenne l'ampio insegnamento in parabole, che si può praticamente designare come la giornata delle parabole. Certamente anche prima Gesù aveva impiegato taluni elementi pa­rabolici nei suoi discorsi (cfr. Marco, 2, 17.19.21.22; ecc.), compreso il Discorso della montagna (Matteo, 5, 13-16; 6, 22 segg.; ecc.); ma quella fu una giornata dedicata particolarmente alla vera parabola, come risulta dalle brevi introduzioni premessevi da tutti e tre i Si­nottici (Matteo, 13, 1-3; Marco, 4, 1-2; Luca, 8, 4; cfr. Marco, 4, 35). E’ parimente quasi certo che anche qui gli evangelisti si siano comportati come per il Discorso della montagna, cioè che in occa­sione di questa giornata abbiano riferito parabole pronunziate da Gesù in altre occasioni (Matteo) o viceversa abbiano trasferito altrove parabole di questa giornata (Luca) (§ 317); tuttavia un nucleo sto­rico di parabole pronunziate in quella precisa giornata ci fu indubbiamente, e il suo materiale fu ripartito con una certa larghezza dai singoli evangelisti. La parabola è quel genere letterario che consiste nel servirsi di un fatto immaginario, ma assolutamente possibile e verosimile, per il­lustrare una data verità morale e religiosa. E’ dunque molto simile alla favola; ma ne differisce in quanto la favola fa agire o parlare esseri inanimati o irragionevoli, ed è quindi storicamente impossibile, e inoltre non si propone uno scopo edificativo. Ambedue i generi, presso tutti i popoli ove sono fioriti, sono stati sempre d'indole popolare: la plebe ha sempre trovato un mezzo facile e perspicuo, per ricevere e trasmettere la sapienza spicciola, in quel riavvicinamento di teoretiche situazioni morali alle reali situazioni umane di tutti i giorni, illuminando cosi l'astratto impalpabile col concreto tangi­bile.
E, sebbene prediletto dalla plebe, questo metodo è più filosofico di quanto sembri a prima vista: è noto che Socrate, appunto per opporsi ai Sofisti, ricorreva volentieri alla parabola e al paragone; anzi fin da principio, per definire il suo ufficio di maestro, egli si serviva di una specie di parabola, giacché affermava di continuare nel campo morale la professione che nel campo fisiologico aveva esercitata sua madre, la levatrice Fenarete: egli era il maieutico dello spirito. In sostanza, dunque, la parabola è un paragone. E’ naturale però che, a seconda della finezza concettuale dei vari autori e ascoltatori di tali paragoni, la parabola potrà essere più o meno sviluppata, e tal­volta potrà anche prendere alcuni aspetti dell'allegoria.

Ad esempio, l'ufficio d'un maestro di scuola potrà esser semplicemente paragonato a quello d'un giardiniere, e allora si avrà una parabola; ma se il paragone verrà spinto fino a particolarità minute, e nelle piccole piante del giardino si vedranno simboleggiati gli alunni del maestro, nei fiori e nei frutti le promozioni e i premi, nella fatica della van­ga le cure dell'insegnamento, nelle forbici potatrici le punizioni e così di seguito, il paragone diventa anche simbolico, ossia diventa una parabola allegorica; se infine, non nominando mai la scuola ma in­tendendo soltanto essa, si parlerà unicamente di piante, di fiori, di vanga, di forbici, si avrà una pura allegoria, ossia una metafora con­tinuata. E’ chiaro pertanto che, com'è difficile e raro mantenersi a lungo nella pura allegoria (un celebre esempio è l'ode O navis di Orazio, che tratta della Repubblica simboleggiata in una nave), così dalla semplice parabola si sconfina volentieri e facilmente nel cam­po allegorico impiegando taluni elementi simbolici. Le parabole di Gesù obbediscono a queste norme generiche.

§ 361. L'antica letteratura ebraica aveva coltivato il genere parabo­lico designandolo col nome di mashal, il quale termine, tuttavia, comprendeva anche altre forme oltre alla vera parabola. Com'era da aspettarsi, i rabbini anteriori e contemporanei a Gesù impiegavano la forma parabolica più o meno mescolata con le altre forme ana­loghe; in seguito s'impiegarono sempre più tali forme, ma dalla metà del secolo II dopo Cr. in poi il loro uso fu abbandonato. In questo tempo morì Rabbi Meir, e con lui morì - si disse - la parabola; gli si attribuivano infatti tremila favole, che avevano per protagonista sempre la volpe. Del resto a questo tempo la forma parabolica era diventata presso i rabbini stereotipata, convenzionale, priva d'energia e di vivezza. Presso Gesù la parabola è tutt'altra cosa: semplice e precisa, è ri­calcata di sulle realtà più umili ma rispecchia con nettezza i con­cetti più alti, e nello stesso tempo è comprensibile dall'ignorante e meditabile dal dotto. Letterariamente è priva d'ogni artifizio, eppure supera per potenza affettiva i più elaborati artifizi letterari. Non sba­lordisce, ma persuade; non solo vince, ma convince. Noi Italiani dal­la voce parabola abbiamo derivato la voce parola: vorrebbe forse questa derivazione indicare che la parabola di Gesù è la parola più alta salita dall'uomo e insieme la più bassa discesa da Dio?

[IMG]http://im1.freeforumzone.it/up/17/71/816421599.gif[/IMG]Scopo delle parabole

§ 362. Le parabole di Gesù mirano a presentare il regno di Dio, ossia dei cieli. Nel Discorso della montagna Gesù aveva parlato dei requisiti morali necessari per entrare in quel regno; ma adesso, es­sendo trascorso altro tempo, era necessario fare un ulteriore passo in avanti e parlare di quel regno in sé, della sua indole e natura, dei membri che lo costituivano, del modo come si sarebbe attuato e sta­bilito. Anche sotto questo riguardo, infatti, la predicazione di Gesù seguì un metodo essenzialmente graduale. La ragione di questa gradualità è nella importantissima circostanza storica che già accennammo (§§ 300-301), vera chiave di volta del contegno di Gesù nei confronti della sua vita sociale, cioè nell'an­siosissima aspettativa da parte dei Giudei di un regno messianico-po­litico. Parlare a quelle turbe di un regno di Dio senza schiarimenti e spiegazioni, significava far balenare alle loro fantasie la visione di un celestiale re onnipotente, circondato da falangi di uomini armati e meglio ancora da legioni di angeli combattenti, il quale avrebbe portato Israele di vittoria in vittoria fino alla signoria di tutta la terra, rendendo “maestro e donno” delle nazioni pagane quel po­polo fino allora calpestato da tutti i pagani, e riducendo invece co­storo a sgabello dei piedi di lui (§ 83). Eppure, precisamente a quelle turbe così deliranti Gesù doveva parlare dell'oggetto del loro delirio, e parlare in maniera tale da attirarle e insieme da disingannarle: il regno di Dio indubbiamente doveva venire, si, anzi già aveva co­minciato ad attuarsi, ma non era il “regno” loro, bensì quello di Gesù, totalmente diverso. Perciò la predicazione di Gesù doveva in­sieme mostrare e non mostrare, aprire gli occhi alla verità e chiuderli ai sogni fantastici; era dunque necessaria una prudenza estrema, perché Gesù a questo punto s'inoltrava su un terreno vulcanico che poteva scoppiare da un momento all'altro.

Questa amorevole pru­denza fece sì che Gesù si servisse della parabola. La parabola, infatti, è chiara ma anche oscura, è eloquente ma anche reticente. Per chi la contempli con animo sereno e non preoccupato, è chiara ed eloquente; a chi la scruti con occhio torbidoso e con ani­mo prevenuto essa non dice nulla, seppur non dice il contrario di ciò che in realtà vuol dire. E’ dunque, non già tenebra, ma luce, e luce misericordiosamente adatta per occhi che si trovino in condizioni speciali; tuttavia quegli occhi devono esser puri, non già malati, men­tre - come più tardi Agostino esperimenterà in se stesso. Ma anche nel caso che la parabola non fosse subito compresa, ri­maneva ancora un rimedio. Le parabole di Gesù' erano recitate in pubblico, davanti a gente ben disposta e a gente mal disposta, affin­ché per tutti fosse aperta la porta del regno. Il velame della para­bola era imperiosamente richiesto da misericordia e prudenza; ma rimaneva sempre la possibilità di squarciare quel velame, sottraen­dosi dal dominio pubblico e rivolgendosi in privato all'autore delle parabole. Gesù, se voleva veramente diffondere il suo regno, non avrebbe rifiutato di parlare fuori parabola, qualora fosse stato con­sultato in privato: in privato le ragioni prudenziali che moderavano la predicazione pubblica non esistevano, e quindi il velame poteva essere abolito.

§ 363. Così in realtà avvenne. Un giorno imprecisato i discepoli gli si avvicinarono e gli chiesero: Perché parli ad essi in parabole? (Matteo, 13, 10). Questa domanda, e la risposta datale da Gesù, sono importantissime; ma per ben valutarle bisogna aver presente che domanda e risposta avvennero certamente non già nella giornata delle parabole, ma ben più tardi, quando cioè Gesù aveva recitato numerose parabole e i discepoli avevano riscontrato ch'esse produce­vano scarso effetto sulle turbe; inoltre, già prima di quella doman­da, i discepoli si erano rivolti in privato a Gesù per chiedere spiega­zioni di parabole udite in pubblico (Matteo, 13, 36; 15, 15) o anche spontaneamente Gesù le aveva spiegate in privato ad essi (Marco, 4, 34). Alla domanda pertanto dei discepoli Gesù rispose: “Perché a voi e' stato dato conoscere i misteri del regno dei cieli, a quelli in­vece non e' stato dato. Chiunque infatti ha, gli sarà dato e sovrabbonderà: chiunque invece non ha, anche ciò che ha gli sarà tolto.
Per questo in parabole parlo loro, perché vedendo non vedono, e udendo non odono nè comprendono; e si compie per essi la profezia di Isaia la quale dice: « udendo udrete, e non comprenderete: ve­dendo vedrete, ma non scorgerete. Divenne infatti crasso il cuore di questo popolo, e con le orecchie difficilmente udirono, e rinserra­rono i loro occhi affinché non mai scorgano con gli occhi, e con le orecchie odano, e col cuore comprendano e si convertano, e io li guarisca!”. Beati invece i vostri occhi perché vedono, e le vostre orecchie perché odono; ecc. (Matteo, 13, 11-16). Questa risposta è rivolta non soltanto agli Apostoli, ma anche ad altri volonterosi ch'erano insieme con essi (Marco, 4, 10, greco) e avevano fatto uni­tamente la domanda. La differenza tra i volonterosi e gli altri uditori consisteva in ciò, che ai primi era concesso di conoscere il regno in maniera perspicua (i suoi misteri) agli altri invece soltanto sotto il velame della parabola; ma questa differenza non era che la conse­guenza della volenterosità dei primi, i quali interrogando privata­mente Gesù ottenevano l'abolizione del velame parabolico, mentre gli altri rimanevano avviluppati in quel velame perché non aveva­no avuto il desiderio di uscirne tuttavia la porta del regno era aperta agli uni e agli altri, e la sua soglia era rappresentata dalla parabola.

Si poteva anche chiedere perché mai soltanto i volenterosi varcavano quella soglia in virtù della loro volenterosità; ma con ciò si sarebbe entrati in una questione ben differente e di sfera assai più alta, per­ché si sarebbe chiamato in causa il principio già enunciato a Nicodemo secondo cui chi non sia nato da... Spirito, non può entrare nel regno d'iddio (§ 288).

§ 364. Tutto ciò è abbastanza chiaro nel testo del dialogo secondo Matteo, salvo un punto che si vedrà subito. Invece il testo degli altri Sinottici, ambedue più brevi, offre una particolare difficoltà, special­mente quello di Marco che suona cosi: A voi e' stato dato (di cono­scere) il mistero del regno d'iddio; per quelli invece (che stanno) fuori (di voi volenterosi) il tutto avviene senza parabole, affinché « ve­dendo vedano e non scorgano, e udendo odano e non com prendano, affinché non mai si convertano e sia rimesso (il peccato) ad essi »(Marco, 4, 11-12). Si è discusso infinitamente su quel primo affinché, che introduce l'anonima citazione di Isaia, per definire se abbia o no un valore finale e intenzionale; la questione deve esser risolta mediante il confronto degli altri due Sinottici, e specialmente di Matteo più ampio di tutti. Gesù nella sua risposta, dopo aver distinto fra i volenterosi e gli altri, si appella a ciò che già era avvenuto al ministero del profeta Isaia citandone le parole. Ma la citazione, nel testo odierno di Matteo, è fatta secondo la versione dei Settanta (certamente dal traduttore greco di Matteo), mentre Gesù citò senza dubbio l'originale ebraico che suona cosi: “E (Dio mi) disse: Va' e dirai a questo popolo udendo udite ma non (sia) che comprendiate, e vedendo vedete ma non (sia) che conosciate!”. Rendi crasso il cuor di questo popolo, e indura le sue orecchie e inungi i suoi occhi affinché non (avvenga che) veda con i suoi occhi e oda con le sue orecchie e comprenda col suo cuore, e (cosi) si converta e (il suo medico) lo guarisca (Isaia, 6, 9-10). Riguardo al vero senso di queste parole non vi può essere alcun ragionevole dubbio.
Dio parla qui come tradizionale e amore­vole medico d'Israele, e tenta ancora una volta la guarigione del malato inviando Isaia a curarlo: ma il medico è sdegnato perché il malato si mostra, come sempre, caparbio e di dura cervice, e quindi per scuoterlo e impaurirlo il medico qui parla sarcasticamente e im­piega 1’ammonizione in forma di minaccia. In sostanza egli dice “Giammai una volta che tu ascoltassi e ti lasciassi persuadere! Ebbene, respingendo la mia medicina, resta pure con i tuoi mali af­finché io non ti guarisca in eterno!” ora; chi non vede che il medico vuole seriamente ed effettivamente guarire, e che l'affinché è un sarcasmo amorevole ed una salutare minaccia, la cui responsabilità cade esclusivamente sul malato? Tanto è vero che, nel caso storico, Dio inviava Isaia per tentare effettivamente la guarigione spirituale d' Israele. Come, dunque, nel dialogo secondo Matteo l'intero tratto va inter­pretato conforme all'originale ebraico di Isaia nominatamente citato, così gli altri due Sinottici vanno interpretati conforme a Matteo e al testo ebraico di Isaia. Questo testo poi, in Luca e Marco, è citato non solo in maniera anonima, ma anche in forma accorciata e in­compiuta: tuttavia siffatta maniera di citare non deve trarre in erro­re, quasi invitasse a limitarsi alle sole parole allegate. Si citava per summa verba affinché si riconoscesse esattamente il passo alluso, ma fermo restando che il suo vero senso doveva estrarsi dall'originale dell'intero passo alluso: il quale, come facilmente si poteva presup­porre, era un passo classico nella polemica antigiudaica e variamente impiegato dalla primitiva catechesi cristiana (Giovanni, 12. 40; Atti, 28, 26-27; Romani, 11, 8).
In conclusione, il disputato affinché con-serva nella citazione di tutti e tre i Sinottici il valore che ha nel­l'originale ebraico di Isaia, e questo valore non è affatto di finalità e di intenzione; bensì d'accorata ammonizione in forma di minaccia salutare.
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[IMG]http://im1.freeforumzone.it/up/17/71/816421599.gif[/IMG] Le parabole del Regno

§ 365. La giornata delle parabole si svolse nei pressi di Cafarnao e sulla riva del lago. Essendo raccolta molta folla, Gesù ricorse al­l’espediente già usato in precedenza (§ 303) di salire in barca, e sco­standosi alquanto parlare di là alla gente allineata sulla riva. La prima parabola riferita di questa giornata è quella del seminatore. Nella Galilea, collinosa e accidentata, si adibivano a semina piccoli appezzamenti di terreno che meglio si prestavano qua e là sulle ripe e negli avvallamenti; alle prime piogge, verso novembre, dopo una superficiale preparazione del terreno, il contadino passava man mano sugli appezzamenti da lui curati, e vi spargeva la sementa di grano e d'orzo. Ora, le vicende del regno dei cieli somigliano a quelle del seminatore della Galilea. Il seminatore esce di casa stringendosi al fianco il sacchetto di se­menta ben colmo, e giunto su un appezzamento preparato si dà a seminare. Ma in Palestina i campi sono luogo di transito per tutti, e anche nei tratti da poco lavorati si formano presto sentierucoli, là ove i passanti attraversando accorciano il loro cammino; perciò una parte della sementa sparsa va a finire su questi sentierucoli, ove però ben presto gli uccelli la beccano o i passanti la schiacciano. Altra parte della sementa cade sul suolo pietroso, ricoperto appena da leg­giero strato di terriccio; là per il calore sottostante germoglia presto, ma non essendovi terreno sufficiente non mette radici profonde e ba­sta qualche giornata di pieno sole per far disseccar tutto.

Altra se­menta cade su terreno profondo, ma non ben preparato; e allora insieme con i buoni germogli crescono i cardi e le spine, che li soffocano. Finalmente il resto del sacchetto è vuotato sul buon ter­reno, e là la sementa rende dove il trenta, dove il sessanta, dove anche il cento per uno. Gesù restrinse ad un solo caso questo fatto abituale, narrandolo come avvenuto ad un singolo seminatore, e così compose la sua parabola. Terminò poi dicendo: Chi ha orecchie da udire, oda! Più tardi, tuttavia, egli stesso fornì la spiegazione della parabola ai discepoli che l'avevano interrogato in privato (§ 363). La sementa era la parola di Dio, cioè l'annunzio del regno dei cieli. La sementa ca­duta sui sentierucoli e rapita dagli uccelli era l'annunzio del regno ricevuto dagli uditori non disposti, i quali lo accoglievano a mala pena con le orecchie ma non col cuore, perché veniva subito Satana che lo rapiva via. La sementa finita sul suolo pietroso rappresentava gli uditori superficiali che accoglievano l'annunzio con gioia mo­mentanea, ma alla prima contrarietà abbandonavano tutto. La se­menta caduta fra cardi e spine rappresentava gli uditori avviluppati da passioni e da cure di mondo, i quali custodivano per qualche tempo nei loro cuori la buona novella ma poi la lasciavano soffocare coi loro desideri materialeschi. Finalmente la sementa gettata sul buon terreno era costituita da coloro che con cuore ben disposto ac­coglievano la buona novella, si da renderne frutto più o meno ab­bondante. Un comune Giudeo, di quelli che aspettavano il regno messianico­politico, avrebbe compreso poco o nulla del vero significato di questa parabola, salvo che si fosse rivolto per la spiegazione a Gesù come i discepoli. Il comune Giudeo aspettava il fulgente re conquistatore, e qui in­vece l'autore del regno non era neppur nominato e restava nell'om­bra; aspettava che l'istituzione del reame calasse bell'e pronta dalle nubi del cielo tra portenti fragorosi, e qui invece il reame spuntava umile e silenzioso dalla terra in mezzo a ostacoli d'ogni genere; aspet­tava la rivendicazione nazionale e la vittoria sui pagani, e qui invece si accennava a un segreto lavorio dello spirito e alla vittoria sulle passioni e sugli interessi mondani. Il comune Giudeo, dunque, vedeva e non vedeva attraverso la parabola; e qualora fosse rimasto tenacemente attaccato alle sue vecchie concezioni, avrebbe reso sem­pre più crasso il suo cuore e sempre più dure le sue orecchie rifiutan­do il totale “cambiamento di mente” (§ 335) a cui la parabola prudentemente l'invitava.

§ 366. Ma il regno dei cieli trova ostacoli alla sua attuazione anche là dove è stato ben accolto; e questo è il principio adombrato nella seconda parabola. Un uomo seminò buona sementa nel suo campo; avendo egli preparato bene il terreno e sparso la sementa a stagione e misura opportune, poteva star tranquillo e aspettar fiduciosamente la messe. Senonché un suo vicino, che aveva vecchi rancori contro di lui, venne nottetempo mentre i garzoni dormivano, e sopra il terreno testé se­minato sparse a piene mani i semi della zizania, ossia del loglio (Lolium temulentum Linn.) Era un dispetto classico fra agricoltori, contemplato anche dalla legge romana; la zizania infatti, anche quando è germogliata, non si distingue praticamente dalle pianticelle del grano, perché la differenza appare chiara solo dopo la spigatura, quando però è trop­po tardi per svellere le male piante e il grano ha già sofferto. Anche quella volta il dispetto non fu scoperto se non al tempo della spiga­tura; e allora i garzoni andarono dal padrone a dirgli: Ma non hai tu seminato buona sementa nel campo? E come mai c'è la zizania? - Il padrone capì subito donde proveniva la zizania, ed esclamò: E’ stato quel mio nemico! I garzoni allora gli proposero: Vuoi che andiamo a raccoglierla per liberare il frumento?
Ma il padrone replicò: No, perché raccogliendo la zizania potreste sradicare anche il frumento; piuttosto lasciate che tutti e due crescano insieme fino alla mietitura, e allora dirò ai miei mietitori di raccogliere la zizania a fascetti e gettarla nel fuoco, e di riporre invece il grano nel mio granaio. Anche di questa parabola ci è stata trasmessa la spiegazione data in privato da Gesù ai discepoli (Matteo, 13, 36-43). Chi sparge il buon seme è il figlio dell'uomo; il campo su cui lo sparge è il mondo; il buon seme sono i figli del regno; e la zizania i figli del Maligno; il nemico che la sparge a dispetto è il diavolo; la mietitura è la fine del “secolo”, o mondo, presente (§ 84); i mietitori sono gli angeli. Alla fine del mondo il figlio dell'uomo invierà i suoi angeli i quali, come fanno i mietitori con la zizania, toglieranno via dal regno di tutti gli scandalosi e gli operatori d'iniquità gettandoli nella fornace del fuoco; e allora i giusti risplenderanno come il sole nel regno del Padre.

La seconda parabola, dunque, insegnava che il regno predicato da Gesù avrebbe contenuto del buono e del cattivo, il buono proveniente dal figlio dell'uomo e il cattivo dal diavolo; inoltre, che questa me­scolanza di bene e di male sarebbe stata tollerata in vista del pieno trionfo del bene, il quale sarebbe avvenuto soltanto al passaggio dal “secolo” presente a quello futuro. Perciò il regno era come un pon­te che congiungeva i due “secoli”; era una specie di scala di Gia­cobbe che poggiava in basso sulla terra e finiva in alto nei cieli.

§ 367. Alla precedente parabola rassomiglia in parte quella riportata dal solo Marco (4, 26-29). Il regno d'Iddio è come un uomo che ah­bia seminato il suo campo; dorma egli o sia desto, di giorno e di notte, ripensi egli o no alla sementa gittata, essa germoglia e poi cre­sce e infine spiga e matura, perché è dotata di una forza intima: la quale tuttavia deve sprigionarsi lentamente e percorrere l'intero suo ciclo regolare. Dunque la buona novella predicata da Gesù avrebbe fatto anch'essa il suo corso regolare, sviluppandosi in estensione e profondità fra gli spiriti umani, senza i subitanei sconvolgimenti apocalittici ansiosa­mente aspettati dalle turbe, bensì in virtù di quella forza intima che le era stata immessa dall'alto.

§ 368. Che gl'inizi del regno di Dio manchino di esteriorità clamorosa, è affermato nuovamente nella parabola del chicco di senapa. La senapa è assai comune in Palestina, e sebbene pianta erbacea annuale può diventare in condizioni favorevoli anche un arbusto alto 3 o 4 metri; eppure i suoi semi sono chicchi piccolissimi, tanto che servono proverbialmente ancora oggi in Palestina come termine di paragone per cose quasi impercettibili: “Piccolo come un chicco di senapa”. Ora, questa curiosa sproporzione fra il seme piccolissi­mo e, la pianta ch'è massima fra tutte le erbacee, offre a Gesù un'im­magine della sproporzione storica fra gli inizi del regno di Dio, umili e silenziosi, e la sua successiva espansione, che supererà ogni altra. Anche qui ritroviamo il rinnegamento in pieno, anzi il preciso ca­povolgimento (§ 318), delle idee diffuse nel giudaismo d'allora. Po­chi anni prima Orazio, trattando del vero poeta, aveva scritto che non fumum ex fulgore sed ex fumo dare lucem - cogitat (A rs. poet., 144-145). Le due parti di questo binomio, trasferito nel campo re­ligioso, venivano allora scelte in Palestina rispettivamente dalla mas­sa del popolo e da Gesù. Il popolo esaltava il fulgore dell'imminente regno messianico-politico: e invece, dopo un quarantennio, ebbe il fumo dell'incendio di Gerusalemme, con quelle tristi conseguenze che durano ancora dopo venti secoli.. Gesù cominciava col Discorso della montagna, nubecola di fumo che sembrava doversi dileguare al primo soffio di vento: e invece, da quella nubecola, si sprigionò un fulgore tale che dopo venti secoli è più vivo che mai. Questi riscontri non sono certamente una delle sottili teorie critiche basate su parti­colari filosofie e miranti a dimostrare che Gesù era un allucinato (§ 210) o qualcosa di simile: sono invece elementari considerazioni provocate dalla chiara parabola di Gesù, ma a differenza di quelle teorie hanno per base fatti storici di notorietà universale e di consi­stenza granitica.

§ 369. Analoga è la parabola del lievito. La sera la donna di casa, dopo aver riempito l'ampia madia con tre grosse misure di farina, ri­pone in fondo alla farina impastata un pugno di lievito; la mattina appresso, riaprendo la madia, la donna trova che quella piccola man­ciata di fermento durante una notte d'operosità recondita ha conquistato, pervaso, trasformato, tutta la massa cento volte più grande. Anche qui è posta in rilievo la sproporzione storica tra gli inizi del regno dei cieli, rappresentato dal lievito, e il suo pieno sviluppo, rappresentato dalla massa della farina fermentata: ma per di più è adombrata la natura intima, silenziosa, spirituale del regno, che si diffonderà non in forza d'armi, di denaro o di altri argomenti politici, ma conquistando segretamente menti e soprattutto cuori, co­me misterioso fermento divino.

§ 370. Altre parabole, recitate probabilmente ai soli discepoli dentro casa (cfr. Matteo, 13, 36), sono trasmesse in forma brevissima. Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo. C'era l'uso infatti, nei torbidi politici, di sotterrare oggetti preziosi in luo­ghi opportuni di campagna per preservarli da rapine di gente arma­ta: un quarantennio dopo, durante l'assedio di Gerusalemme, essen­do sbarrate le uscite della città, si nascosero i tesori ivi nelle fogne e nelle gallerie sotterranee (cfr. Guerra giud., VI, 431-432; vii, 114-115). Senonché talvolta avveniva che il padrone del tesoro sotterrato morisse prima di averlo ricuperato, e più tardi lo scoprisse per caso o il contadino che lavorava in quel terreno o qualche passante; na­turalmente la prima cura del fortunato scopritore era di comprare quel campo, tacendo del ritrovamento, per divenire in tal modo le­gittimo proprietario del tesoro. Nella parabola di Gesù lo scopritore, appena assicuratosi che si tratta di un tesoro, lo ricopre e nasconde di nuovo, affinché nessun altro abbia a ritrovarlo; quindi, ripieno di segreta gioia, vende tutto ciò che ha per raggranellare la somma necessaria alla compera del campo, e cosi diventa padrone del tesoro. Giuoca insomma tutto per tutto, perché è sicuro che il tutto che lascia è molto meno del tutto che acquista.
Dimitte omnia et invenies omnza. Cosi avviene a chi ha conosciuto e valutato il regno dei cieli: co­stui abbandonerà ogni altro suo bene, pur di acquistare quel som­mo bene (Matteo, 13, 44).
§ 371. Lo stesso insegnamento scaturisce dalla brevissima parabola della perla. Un mercante di perle va lungamente in cerca di qual­cuna di gran pregio, una di quelle perle rimaste famose nell'antichità per il loro valore, come le due grandissime di Cleopatra di cui parla Plinio (Natur. hist., Ix, 35, 58). Trovatane finalmente una rarissima, vende ogni suo avere per acquistarla (Matteo, 13, 45-46). Si avvicinava invece alla parabola della zizania quella breve della rete, presa dagli usi del lago di Tiberiade. Il regno dei cieli è simile a una gran rete gettata in acqua e poi ritirata piena di pesci di vario genere; della preda catturata i pescatori fanno una scelta, mettendo i pesci buoni in serbo nei vasi e gettando via i cattivi. Parimente, alla fine del “secolo”, gli angeli separeranno d'in mezzo ai giusti i malvagi e li metteranno nella fornace del fuoco (Matteo, 13, 47-50).

Il colloquio appartato con i discepoli, che conchiuse la giornata del­le parabole, riceve il sigillo finale da un'altra breve parabola. Ter­minato che ebbe di parlare, Gesù chiese ai discepoli Avete capito tutto ciò? - Si, gli risposero. - Ebbene, soggiunse egli, ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose vecchie. - Quei discepoli ch'erano destinati a continuare l'opera di quel maestro dovevano dunque continuare nella norma da lui stesso annunziata nel Discorso della montagna (§ 323), di non esser venuto ad abolire la Legge antica, bensì a compierla e perfezionarla. Cose antiche, inte­grate e perfezionate da cose nuove.
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[SM=g27998] DALLA SECONDA PASQUA FINO ALL'ULTIMA FESTA DEI TABERNACOLI

La prima moltiplicazione dei pani


§ 372. Durante gli avvenimenti fin qui visti era passato del ternpo, e si doveva stare allora a circa la metà di marzo; perciò era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei (Giovanni, 6, 4), cioè quella dell'anno 29, seconda Pasqua del ministero pubblico di Gesù (§ 177). A questo punto, quasi contemporaneamente, giungono a Gesù gli Apostoli di ritorno dalla loro missione (§ 354) e la notizia della morte di Giovanni il Battista (§ 355). I primi, oltre ad essere spos­sati dalle fatiche sostenute, erano così assillati da folle accorrenti a loro che neppur di mangiare avevano tempo (Marco, 6, 31). D'al­tra parte la tragica fine di Giovanni aveva profondamente attristato Gesù. In conseguenza quindi d'ambedue i fatti, egli prese con sé i reduci dalla missione e si allontanò con loro da Cafarnao in cerca di riposo per essi e di solitudine per sé, e partirono in barca per un luogo deserto in disparte (Marco, 6, 32) che stava nei pressi di una città chiamata Bethsaida (Luca, 9, 10, greco). Era la città che poco prima il tetrarca Filippo aveva ricostruita interamente chia­mandola Giulia (Bethsaida-Giulia) in omaggio alla famigerata figlia di Augusto (§ 19); era anche la patria delle due coppie di fratelli, Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni (§ 279). Il luogo sembrava adatto. Non apparteneva alla giurisdizione di Antipa ma a quella di Filippo, e quindi Antipa non avrebbe potuto agire contro di Gesù del quale già era sospettoso come di un Gio­vanni risuscitato (§ 357); inoltre la città, situata di là dal Giordano poco sopra il suo sbocco nel lago, aveva più ad oriente una vasta estensione quasi disabitata che poteva offrire solitudine e riposo; infine dai pressi di Cafarnao, attraversando il lago obliquamente, si sarebbe raggiunto dopo breve navigazione il posto designato.

Ma la partenza di Gesù con il suo gruppo fu notata dalle folle di Cafarnao, le quali dalla direzione presa dalla barca capirono facil­mente qual era la mèta; allora molti presero la via di terra, risa­lendo lungo la curva settentrionale del lago e attraversando il Giordano nel punto dove il fiume entra nel lago, e così riuscirono a prevenire la barca di Gesù. Quando egli scese a terra nella solitudine d'oltre Bethsaida-Giulia trovò le turbe che già l'attendevano. Probabilmente, durante il viaggio a piedi, i volenterosi partiti da Ca­farnao erano cresciuti di numero; nell'imminenza infatti della Pa­squa tutta la regione era già percorsa da carovane dirette a Geru­salemme e composte di Galilei orientali, i quali colsero quell'occa­sione per ascoltare di nuovo Gesù che non vedevano da qualche tempo. L'incontro con tanta folla fece subito svanire il progetto di solitu­dine e di riposo; tanto più che Gesù, appena vide i volenterosi ac­corsi, si impietosi su di essi e si dette a guarire miracolosamente gli infermi e parlare a tutti del regno di Dio. Frattanto le ore passa­vano; il gruppo di Gesù doveva esser partito da Cafarnao di buon mattino e nella stessa mattinata aveva approdato alla sponda opposta: ma l'incontro con le turbe, le implorazioni dei malati e degli infelici, le loro guarigioni, i discorsi sul regno, avevano consumato l'intera giornata e già si era fatta molta ora (Marco, 6, 35).
Le turbe, dimentiche di tutto, non si stancavano né si staccavano da Gesù; però i pratici Apostoli s'avvicinarono a Gesù e gli fecero osservare che il posto era solitario, l'ora tarda, e quindi sarebbe stato opportuno licenziare le turbe affinché si sparpagliassero nelle borgate più vicine per trovarsi un po' di vitto e di alloggio. Gesù rispose: Date voi (stessi) da mangiare a loro! La risposta appariva molto strana: prima di tutto non c'era pane, e poi forse non c'era neppure denaro sufficiente per comprarlo; Fi­lippo, fatto un calcolo sommario, fece osservare un po' ironicamente che neppure se ci fosse stato pane per la rilevante somma di due­cento denari d'argento (più di duecento lire oro) sarebbe bastato per darne appena un boccone a ciascuno. Gesù non rispose ai calcoli di Filippo, ma cambiando tono chiese: Quanti pani avete? Rispose Andrea fratello di Pietro: C'e' qui un ragazzetto che ha cinque pani d'orzo e due pesci; anch'egli però volle aggiungere all'informazione un serio richiamo alla realtà: ma che è ciò per tanti? Ma neanche ai calcoli di Andrea replicò Gesù.

§ 373. Tutt'attorno si stendeva a perdita d'occhio la prateria, in pieno rigoglìo alla stagione pasquale d'allora: sembrava un mare di verde ondeggiante, da cui affioravano qua e là a guisa di Cicladi i raggruppamenti della folla. A un tratto Gesù ordinò agli Apostoli che facessero adagiare la folla sull'erba; quando tutti furono ada­giati in tanti circoli, ciascuno di una cinquantina o di un centinaio di persone, l'aspetto della scena si delineò più nitidamente: il testi­mone Pietro, che l'avrà descritta con predilezione nella sua catechesi orale, la rassomiglia a uno sterminato giardino in cui gli ada­giati formavano aiuole (ed) aiuole e l'interprete di Pietro ripete a parola la sua comparazione (Marco, 6, 40). Ma ancora non si vedeva a che mirasse quell'ordine: adagiarsi sui di­vani avveniva nei conviti di lusso (§ 341), ma lì fra quell'erba quali vivande si potevano imbandire? Gesù però, presi i cinque pani e due pesci, avendo guardato su nel cielo, benedisse e spezzò i pani, e (li) dava ai discepoli affinchè apprestassero a quelli: anche i due pesci sparti a tutti.
E mangiarono tutti e furono satollati. Il carat­tere tradizionale del convito giudaico era stato osservato sia nell'a­dagiarsi, sia nella preghiera premessa e nello spezzamento del pane che spettavano al padre di famiglia; ma fu osservato anche al ter­mine con la raccolta degli avanzi, la quale si praticava ad ogni desinare giudaico: e raccolse i pezzi con cui si riempirono dodici sporte, e (gli avanzi) dei pesci. Con la comodità del ripartimento in “aiuole” fu facile fare un calcolo della folla: ed erano coloro che mangiarono i pani cinquemila uomini (Marco, 6, 41-44); Matteo conferma ch'erano cinquemila, ma da antico gabelliere ama precisare: senza (contare) donne e bambini (Matteo, 14, 21). Nel Discorso della montagna Gesù aveva ammonito Non v'aflan­nate dicendo “Che mangeremo?” o “Che berremo?” o “Di che ci revestiremo?”... sa tnvero il vostro Padre celeste che abbisognate di tutte queste cose. Cercate invece prima il regno e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta (§ 331).
Questa am­monizione si dimostrò esattissima in quella prateria di Bethsaida. Tutta quella gente nella intera giornata aveva cercato il regno e la sua giustizia ossia il pane dello spirito, ma senza pensarvi ritrovò anche il pane del corpo; tuttavia questo pane del corpo fu un soprappiù secondarissimo, un episodio accessorio della scena, mentre il fatto eccezionale di quella giornata fu la ricerca generosa del regno e la sua trionfale espansione. Giustamente fu messo in rilievo - e proprio da un razionalista (Loisy) - che tutta questa narrazione nel IV vangelo è dominata dall'idea del Cristo considerato come pane di vita spirituale; è appunto questo dovevamo aspettarci dal “vangelo spirituale” (§ 160), il quale molto più che agli episo­di vistosi e sonori bada ai sottili insegnamenti profondi, e mette particolarmente in luce le analogie tra fatti materiali e principii spirituali.

§ 374. Egualmente però dovevamo aspettarci che le folle rimasero colpite molto più dal fatto materiale che dal resto. Avevano esse inteso parlare la giornata intera del “regno” e ne erano state commosse, infine avevano visto moltiplicarsi fra le mani di quel banditore del “regno” il cibo dei loro corpi. La conclusione fu immediata, in conformità con le loro aspettative messianiche (§ 362): chi operava prodigi siffatti, poteva altrettanto facilmente sterminare eserciti nemici come Isaia, poteva ricoprir di tenebre un'intera re­gione come Mosè, attraversare fiumi all'asciutto come Giosuè, cor­rere vittorioso su tutta la terra come il pagano Ciro chiamato “mes­sia” dallo stesso Dio d'Israele (Iaia, 45, 1), poteva insomma at­tuare in pochissimo tempo il tanto sospirato “regno del Messia” a maggior gloria d'Israele. Dunque, egli era l'atteso Messia: la sua potenza lo rivelava indubbiamente tale. Davanti ad una conclu­sione così chiara e stringente, quegli ardenti Galilei passarono subito all'azione: Gli uomini pertanto, veduto il miracolo che aveva fatto dicevano: “Questo e' veramente il profeta veniente (§ 339) nel mon­do!”. Gesu' dunque, conosciuto che stavano sul punto di venire a rapirlo affin di farlo re, si appartò di nuovo nella montagna egli solo (Giovanni, 6, 14-15). Questa notizia, preziosa per il suo bel colorito storico, è anche più preziosa perché trasmessa dal solo evangelista che oggi si vorrebbe far passare per un incessante ideatore di astratte allegorie; qui in­vece abbiamo la realtà storica più cruda, proprio quella realtà che Gesù aveva prevista da lungo tempo e che si era proposto di evitare con la sua condotta prudenziale (§ 301).

§ 375. Anche quella sera Gesù si era premunito contro il pericolo. Appena terminata la refezione, prima ancora che i focosi elettori avessero deciso la proclamazione regale, Gesu' subito costrinse i di­scepoli suoi ad entrare nella barca e a preceder(lo) al di là alla volta di Bethsaida, finché egli licenzia la turba (Marco, 6, 45). In altre parole Gesù, avendo notato l'eccitazione della folla e ricono­sciutine gl'intendimenti, volle in primo luogo preservarne i suoi di­scepoli rinviandoli avanti a sé a Cafarnao, e inoltre rimaner solo per esser più spedito nel suo contegno con gli eccitati messianisti politici. Il suo contegno da solo, come ci ha detto l'altro evangelista, fu quello già seguito altre volte (§ 301), cioè di sottrarsi nascosta­mente; buona parte della notte fu poi passata da lui sulla mon­ tagna a pregare (Matteo, 14, 23). Frattanto i discepoli navigavano verso Cafarnao.

[IMG]http://im1.freeforumzone.it/up/17/20/595326240.gif[/IMG] Gesù cammina sull'acqua. Discorso sul pane vivo

§ 376. Quando la barca si staccò da terra era notte fatta; prima d'imbarcarsi i discepoli probabilmente attesero, nella speranza che Gesù liberatosi dalle folle li raggiungesse, ma non vedendo alcuno ed essendo già tardi presero il largo. L'aveva comandato il màestro, e perciò obbedivano; ma pienamen­te soddisfatti non si sentivano, sia perché il maestro si era staccato da loro, sia perché quel viaggio notturno non era né piacevole né sicuro. Spesso sul lago di Tiberiade, in primavera avanzata, dopo una giornata calda e tranquilla verso il tramontar del sole si sca­rica dalle montagne sovrastanti un vento freddo e violento in direzione meridionale, che continua e cresce sempre più fino al mattino rendendo la navigazione assai difficile.
Così avvenne quella notte; sorpresi di fianco dal vento e spinti verso mezzogiorno invece che verso ponente, i navigatori ammainarono la vela, ormai nociva e pe­ricolosa, e fecero forza sui remi. Ma tra lo sballottamento delle onde la barca avanzava male, e alla quarta vigilia della notte, ossia dopo le 3 del mattino, s'erano fatti soltanto 25 o 30 stadi di tragitto, ossia dai 4,5 chilometri ai 5,5: mancava forse ancora un buon terzo del tragitto prima di raggiungere l'approdo. La stanchezza veniva ad accrescere il malumore dei naviganti. Ad un tratto, d'in mezzo alla foschia mattinale e agli spruzzi delle onde, essi vedono a pochi passi dalla barca un uomo che cammina sull'acqua. Un rematore dà un grido, e addita. Tutti guardano. Indubbiamente è una figura umana: sembra camminare di conserva con la barca e volerla oltrepassare. No: piega invece verso la barca per raggiungerla. Tutti allora si turbarono dicendo: “E un fanta­sma!”, e dalla paura gridarono. Subito però Gesù parlò ad essi dicendo: “Coraggio! Sono io! Non abbiate paura!” (Matteo, 14, 26-27). Se era veramente lui, non c'era da meravigliarsi: chi poche ore prima aveva moltiplicato i pani, poteva ben camminare sulle onde. Ma era veramente lui? Pietro volle esserne sicuro: Signore, se sei tu, comanda che io venga a te sulle acque! Gesù rispose: Vieni! Pietro scese dalla barca, camminò sull'acqua e raggiunse Ge­sù. L'esperto pescatore di Cafarnao non si era mai inoltrato sul­l'acqua in quella maniera; ma appunto la sua esperienza lo tradì, e quando si trovò tutto solo avvolto tra i flutti turbinanti si spense in lui l'ardore di fede che lo aveva fatto scendere dalla barca e rimase soltanto l'esperto pescatore, il quale perciò ebbe paura. La paura lo portava a fondo; il pauroso gridò: “Signore, salvami!”. E subito Gesù, stese la mano, lo prese e gli dice: “Scarso di fede, di che cosa dubitasti?”. Ambedue salgono in barca, il vento dà subito giù, e ben presto l'approdo è raggiunto.

§ 377. Nel breve tragitto tranquillo ci fu nella barca un inconsa­pevole stordimento. I naviganti si gettarono ai piedi del nuovo imbarcato esclamando: Veramente di Dio sei figlio!. Non dicevano che era il “figlio di Dio” per eccellenza, il Messia; ma certo lo proclamavano un uomo straordinario, a cui Dio aveva elargito i più ampi favori. Appunto qui però rimaneva una mac­chia oscura: a voler inquadrare questo nuovo prodigio insieme con gli altri dentro una grande visione riassuntiva, quei naviganti, che avevano tuttora lo stomaco ripieno del pane miracoloso e gli occhi ripieni del presunto fantasma, non riuscivano a dare un giudizio complessivo sull'intera visione. Ripetevano essi dentro di sé l'iden­ tico ragionamento fatto poche ore prima dalle folle, che avevano mangiato il pane moltiplicato: Se costui sa operare miracoli così potenti, perché non si decide ad agire come potente e re messia­nico » d'israele? (§ 374). Chi mai lo trattiene? E molto di piu' stu­pivano in se stessi; non avevano infatti capito riguardo a(ll'avveni­mento dei) pani, bensì il loro cuore era indurito (Marco, 6, 51-52). Lo sbarco avvenne a Gennesareth, la regione chiamata oggi el-Ghu­weir e descritta come ubertosissima da Flavio Giuseppe (Guerra giud., III, 516 segg.): stava, come Tabgha (§ 375, nota), circa 3 chilometri più a sud di Cafarnao.
Probabilmente Cafarnao fu evi­tata per non provocare le solite manifestazioni clamorose e perico­lose. Tuttavia l'arrivo di Gesù fu subito segnalato, e tosto cominciò l'affluenza di malati e d'imploranti dai luoghi vicini, e quanti lo toccavano erano salvati (Marco, 6, 56). Molti della zona di Cafarnao erano intanto rimasti a llethsaida sul posto della moltiplicazione dei pani. Sopraggiunta la notte, Gesù era scomparso e i discepoli senza di lui erano salpati sull'unica barca che stava sulla riva: non restava dunque niente da fare sul posto. Passata la notte alla meglio, la mattina seguente alcuni di quei ri­tardatari approfittarono di alcune barche venute là a pescare da Tiberiade (Giovanni, 6, 23) e si fecero trasportare a Cafarnao; altri presero altre direzioni. Giunti a Cafarnao, si dettero a cercare Gesù con la speranza forse di riprendere il fallito progetto di proclamarlo re, e d'indurlo o ad una piena accettazione ovvero ad un aperto rifiuto. Lo ritrovarono infatti come avevano previsto, ma probabilmente dopo due o tre giorni, durante i quali Gesù s'era trattenuto nella zona di Gennesareth; allora, tanto per attaccar discorso, gli dissero: Rabbi, quando sei venuto qua? (Giovanni, 6, 25).

§ 378. Con questa domanda ha inizio il celebre discorso sul pane vivo, riportato dal solo Giovanni (6, 25-71): noi già sappiamo che questo metodo integrativo è proprio al IV vangelo nei confronti con i Sinottici (§ 164). Nel discorso ricompaiono tratti caratteristici a Giovanni, già rilevati nei due dialoghi di Gesù con Nicodemo e con la Samaritana: specialmente col dialogo della Samaritana (§ 294) il discorso sul pane vivo mostra varie affinità, anche di svi­luppo logico. Tuttavia, analizzando minutamente la compagine del discorso stesso, appaiono qua e là delle saldature o riconnessioni che attestano un lavoro redazionale: se il Discorso della Montagna offrì ai due Sinottici che lo riportano, e specialmente a Matteo, occasione di esercitare la loro operosità redazionale (§ 317), un'e­guale occasione fu colta e impiegata da Giovanni per il discorso sul pane vivo.
In esso infatti si distinguono chiaramente tre parti: nella prima (6, 25-40) Gesù ha per interlocutori gli abitanti della regione di Cafarnao che avevano assistito alla moltiplicazione dei pani; nella seconda parte (6, 41-59) intervengono come interlocu­tori i Giudei, e in fondo una nota redazionale avverte che le pre­cedenti parole di Gesù furono pronunziate nella sinagoga di Ca­farnao; infine la terza parte (6, 60-71) riporta insieme con poche parole di Gesù vari fatti che furono conseguenze dei precedenti ra­gionamenti, le quali conseguenze non avvennero immediatamente ma richiesero senza dubbio un tempo più o meno lungo per svi­lupparsi. Dunque il discorso, quale oggi l'abbiamo, è una “com­posizione”, la quale ha unito con un nucleo cronologicamente com­patto altre sentenze di Gesù cronologicamente staccate ma riconnes­se con quel nucleo dall'analogia dell'argomento: questa maniera di « composizione », in parte cronologica è in parte logica, era usuale alla <”atechesi” di Giovanni non meno che a quella degli altri Apostoli, e gli antichi Padri o espositori l'hanno riconosciuta ed ammessa ben prima degli studiosi recentissimi (§ § 317, nota; 360, nota prima; 415, nota).

§ 379. La prima parte del discorso avviene a Cafarnao, ma fuori della sinagoga. Coloro che ricercano Gesù l'incontrano, forse per istrada, e gli rivolgono la suddetta domanda: Quando sei venuto qua? - La mira segreta è ben altra. Gesù, riferendosi alla mira se­greta e avvicinandosi alla sostanza della questione, risponde: in verità, in verità vi dico, mi cercate non già perché vedeste segni, bensì' perché mangiaste dai pani e foste satollati. I segni erano i miracoli fatti da Gesù a comprova della sua missione, e in tanto sarebbero stati efficaci come segni in quanto avessero indotto gli spettatori ad accettare quella missione: e invece quegli abitanti di Cafarnao che parlavano con Gesù erano stati spettatori di molti miracoli ma non li avevano accettati come segni, avevano goduto del beneficio materiale ma non avevano accolto il beneficio spiri­tuale; ultimamente avevano mangiato il pane miracoloso ma subito appresso si erano infervorati per il regno politico del Messia. Perciò Gesù prosegue: Producetevi non già il nutrimento che perisce, bensì il nutrimento permanente in vita eterna il quale vi darà il figlio dell'uomo: costui infatti il Padre, Iddio, segnò del suo sigillo. Il sigillo era lo strumento più importante nella cancelleria d'un re. Quegli ascoltatori di Gesù avevano tentato, poco prima, di eleggere Gesù “re”; ma qual re sarebbe stato egli dopo siffatta elezione? Donde la sua autorità regale? La sua autorità egli l'aveva ricevuta, non da uomini, ma dal Padre, Iddio.
Gl'interlocutori replicano: Che dobbiamo fare per produrre le opere d'iddio? e con questa doman­da si riferiscono chiaramente all'esortazione di Gesù di produrre... il nutrimento permanente in vita eterna. Gesù risponde Questa è l'opera di Dio, che crediate in chi egli inviò; che crediate cioè in lui anche quando la sua parola delude le vostre speranze e fa sva­nire i vostri sogni, che crediate nel suo regno anche se è la nega­zione totale del vostro regno. Insistettero gli altri: Qual segno fai dunque tu, affinché vediamo e crediamo in te? Che produci? I pa­dri nostri mangiarono la manna nel deserto, conforme a ciò che sta scritto:”Pane del cielo dette loro da mangiare” (Esodo, 16, 4; Salmo, 78, 24). L'allusione mirava a due termini e li contrapponeva fra loro: da una parte l'opera di Mosè e il suo “segno”, quello d'aver fatto scendere la manna dal cielo; dall'altra parte, l'opera di Gesù e il suo recentissimo “segno”, quello d'aver moltiplicato i pani a Bethsaida. Fra i due termini del confronto, gl'interlocu­tori mostrano di preferire l'opera e il “segno” di Mosè all'opera e al “segno” di Gesù; gli altri “segni” di Gesù non sono neppur chiamati in causa, quasicché non avessero alcuna efficacia dimostra­tiva riguardo alla fede e quasi per dar ragione alle prime parole di Gesù, mi cercate non già perché vedeste segni, bensì perché man­giaste dai pani e foste satollati. Gesù ad ogni modo è riprovato e posposto a Mosè: se egli vuole ottenere fede nel suo invisibile e impalpabile “regno”, faccia dei “segni” almeno eguali a quelli di Mosè.

§ 380. La discussione è giunta ad un bivio, e bisogna decidersi fra i due termini del confronto: da una parte Mosè e la sua opera, dal­l'altra parte Gesù e il suo “regno”. Quale di questi due termini è superiore? Qui sta il nodo della questione, e Gesù l'affronta in pieno: In verità, in verita vi dico, non già Mose' vi ha dato il pane dal cielo, bensi il Padre mio vi dà il pane dal cielo, quello vero; il pane d'iddio infatti e' colui che discende dal cielo e dà vita al mon­do. Il giudizio dato dagli interlocutori è capovolto: dei due termini del confronto Gesù è tanto superiore a Mosè quanto il cielo è superiore alla terra; Gesù, non già Mosè, discende dal cielo e dà vita al mondo, egli è veramente il pane dal cielo. L'esposizione è inter­rotta un istante da un'esclamazione degl'interlocutori: Signore, dacci sempre questo pane!; la quale esclamazione è gemella di quella del­la Samaritana riguardo all'acqua, e dimostra che in un caso e nel­l'altro si pensava ad oggetti materiali. Replicò Gesù: lo sono il pane della vita; chi viene a me non sentirà fame, e chi crede in me non sentirà sete giammai. Ma io vi dissi che e mi avete veduto e non credete. Con altre affermazioni di Gesù (Giov., 6, 37-40) si chiu­se questo primo incontro.

§ 381. Dell'incontro e delle affermazioni di Gesù si dovette parlar molto in paese, anche con desiderio di avere spiegazioni in propo­sito e di offrire a Gesù opportunità di darle. Probabilmente i fatti si svolsero come a Nazareth (§ 358), e fu offerta a Gesù occasione di spiegarsi nella prima riunione sinagogale che si tenne in paese, per­ché le nuove dichiarazioni furono fatte da lui insegnando nella sina­goga in Cafarnao (6, 59). Se però è detto, a principio di questa nuova parte del discorso, che i Giudei mormoravano di lui, non è necessario supporre che un gruppo di accaniti Farisei fossero giunti apposta dalla Giudea per dar battaglia a Gesù i Giudei, nello stile di Giovanni, sono in genere i connazionali di Gesù che hanno re­spinto l'insegnamento di lui. Questi Giudei pertanto mormoravano di Gesù perché disse: « Io sono il pane disceso dal cielo »; e dicevano: « Non e' costui Gesu' il figlio di Giuseppe, di cui conosciamo il padre e la madre? Come adesso dice: “Dal cielo sono disceso”?. Gesù, dopo alcune consi­derazioni più ampie, torna sulla precedente questione del pane: Io sono il pane della vita. I vostri padri mangiarono nel deserto la man­na e morirono; (invece) questo e' il pane discendente dal cielo, affinché taluno mangi di esso e non muoia. Io sono il pane vivente, il disceso dal cielo: se alcuno mangi di questo pane, vivrà in eterno; e il pane poi che io darò, é la mia carne per la vita del mondo.
Al suono di tali parole i Giudei, mal disposti quali erano, avevano da strabiliare ben più che Nicodemo e la Samaritana. Se a questi due antichi interlocutori Gesù aveva parlato di “rinascita dallo Spirito” e di “acqua zampillante in vita eterna”, siffatte espres­sioni potevano a prima vista intendersi in senso simbolico: come in senso simbolico poteva intendersi adesso l'espressione “pane di vi­ta” la prima volta che Gesù l'aveva impiegata ed applicata a se stesso. Ma Gesù non si era limitato a quella prima volta; egli era tornato sopra quella espressione e, quasi per escludere a bella posta l'interpretazione simbolica, aveva affermato che quel pane era “la sua carne” data per la vita del mondo. Questa precisazione non era tollerabile in un parlare metaforico: parlando della sua “carne-pane”, Gesù non si esprimeva simbolicamente. Così ragionarono, con pertetta logica, gli uditori della sinagoga di Cafarnao, i quali perciò si dettero a discuter fra loro: Come può darci costui la (sua) carne da mangiare? Il momento era davvero decisivo e solenne; a Gesù spettava in quel momento di precisare ancor meglio la sua intenzione, esprimendo con limpidezza cristallina se le sue parole dovevano esser interpretate come metaforiche ovvero come piane e reali.

§ 382. La limpidezza cristallina si ebbe. Gesù, udita la discussione degli uditori, soggiunse: In verità, in verità vi dico, se non man­giate la carne del figlio dell'uomo e beviate il sangue di lui, non avete vita in voi stessi. Chi mangia la mia carne e beve il mio san­gue ha vita eterna, e io lo risusciterò all'estremo giorno. La carne mia infatti è vero nutrimento, e il sangue mio è vera bevanda; chi mangia la mia carne e beve il mio sangue in me rimane, e io in lui. Come inviò me il Padre vivente e io vivo per il Padre, (così) anche chi mangia me, egli pure vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non (avverrà) come (a) i padri (vostri che) mangiarono (manna) e morirono: chi mangia questo pane, vivrà in eterno. Ascoltate queste spiegazioni, gli uditori non ebbero più il minimo dubbio; né, in realtà, avrebbero potuto averlo. Le parole ascoltate saranno state dure quanto si vuole, ma più chiare e precise di cosi' non potevano essere; Gesù aveva nettamente e ripetutamente affer­mato che la sua carne era vero cibo e il suo sangue vera bevanda, e che per avere vita eterna bisognava mangiare di quella carne e bere di quel sangue. Non era possibile equivocare. Non equivoca­rono infatti gli ostili Giudei, che videro confermata la loro prima interpretazione; non equivocarono neppure molti dei discepoli stessi di Gesù, che trovarono scandalo in quelle parole. Molti pertanto dei discepoli di lui, avendo ascoltato, dissero:”Duro è questo di­scorso; chi può ascoltarlo?”. L'aggettivo duro qui vale quasi per “ripugnante”, “stomachevole”, tanto che non si può ascoltarlo senza un certo ribrezzo.
Evidentemente si era pensato ad un ban­chetto da antropofagi. Gesù in realtà non aveva precisato la maniera in cui si sarebbe mangiata la sua carne e bevuto il suo sangue; ma perfino davanti alla possibilità dell'interpretazione antropofaga e dello scandalo, egli non retrocedette d'un sol passo e non ritirò una sola parola. Sa­pendo che i suoi discepoli mormorano di ciò, disse loro: Ciò vi scan­dalizza? Se dunque contempliate il figlio dell'uomo che risale dov'e­ra prima? Lo spirito è il vivificante, la carne non giova a nulla; i detti ch'io ho parlati a voi sono spirito sono vita. L'ultimo pe­riodo fu ritenuto sufficiente da Gesù per dissipare il timore del ban­chetto da antropofagi: i suoi detti erano spirito e vita. Ma gli stessi detti conservavano il loro pieno valore letterale, senza traslati me­taforici; l'indispensabile era aver fede in lui, e l'ultimo argomento di tale fede sarebbe stato contemplare il figlio dell'uomo risalente al cielo, donde era disceso quale pane vivente. Pane celestiale, carne celestiale. Chi avesse avuto tale fede, avrebbe visto in che maniera si poteva veramente mangiar la carne di lui e bere il suo sangue senza ombra di antropofagia.

§ 383. La reazione dei discepoli al discorso udito, nonostante le spiegazioni aggiuntevi da Gesù, non fu soltanto verbale: da questo (tempo in poi) molti dei suoi discepoli si ritrassero addietro e non camminavano piu' con lui. Avvenne dunque una defezione, che al­lontanò da Gesù molti dei suoi discepoli; i dodici apostoli invece rimasero fedeli. Un giorno, quando la defezione era già assai pro­gredita, Gesu' disse ai dodici:”Anche voi forse volete andarvene?”. Gli rispose Simone Pietro: « Signore, da chi andremo? Parole di vita eterna (tu) hai; e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il santo d'Iddio » (Giovanni, 6, 67-69). Non è fortuita in uno scrittore quale Giovanni quella consecuzione di pensiero, secondo cui i dodici avevano creduto e poi conosciuto. Su questo argomento Giovanni non torna più, e l'annunzio del pane di vita non risulta attuato in tutto il resto del suo vangelo, perché egli sarà il solo evangelista che non racconterà l'istituzione dell'Eu­caristia alla vigilia della morte di Gesù. Ma appunto in questa sua omissione sta la più chiara indicazione che l'annunzio è stato at­tuato nella forma spirituale predetta. Giovanni omette l'istituzione dell'Eucaristia perché già narrata da tutti e tre i Sinottici e già notissima agli uditori della sua catechesi (§ 165); ha invece narra­to l'annunzio, perché i Sinottici l'avevano omesso (§ 164).
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06/08/2012 18:19

[SM=g27998] Il paralitico di Bezetha

§ 384. I fatti precedenti erano avvenuti in Galilea e nell'imminen­za della Pasqua: è anche possibilissimo che lungo il loro svolgimen­to la Pasqua fosse già trascorsa. Giovanni narra questi avvenimenti al cap. 6, ma nel precedente cap. 5 egli ha narrato fatti che si svolgono a Gerusalemme; già accennammo alcune ragioni che rac­comandano di considerare i fatti del cap. 5 come posteriori crono­logicamente a quelli del cap. 6 (§ 177), per cui si tolgono alcune difficoltà testuali senza che s'introducano nuovi inconvenienti. Riprendendo pertanto il cap. 5 lasciato in sospeso, troviamo che Gesù si è recato a Gerusalemme in occasione di una imprecisata festa dei Giudei; la quale poté esser la Pasqua (§ 177), ma più pro­babilmente era la Pentecoste dello stesso anno 29; in questo caso si era sul declinare del maggio.
A settentrione di Gerusalemme, immediatamente fuori delle mura, stava sorgendo un quartiere nuovo, il quale - come avviene spesso in casi simili si designava usualmente con un doppio nome, quello generico di Città Nuova o quello specifico di Bezetha (cfr. Flavio Giuseppe, Guerra giud., v, 151; Il, 530). In questo quartiere, e precisamente vicino alla vecchia Porta della città chiamata “Pro­batica” ossia delle pecore, esisteva uno stagno o piscina chiamata anch'essa Bezetha. Vi si raccoglievano le acque di una sotterranea fonte che, come quella di Gihon (Silce) situata nello stesso versante della città, era intermittente, scaturendo di tempo in tempo; a quel­le acque si attribuivano particolari virtù curative, specialmente se un malato riusciva a tuffarvisi appena cominciavano a gorgogliare per il nuovo afflusso. Perciò erano stati costruiti a quadrilatero tor­no torno allo stagno quattro portici, con un quinto trasversale in mezzo, che le ricerche moderne hanno chiaramente riscontrati; in quei portici giaceva una moltitudine di infermi, ciechi, zoppi, rattrappiti, aspettando il movimento dell’acqua.

§ 385. Un giorno Gesù, aggirandosi fra quell’ammasso di miserie, si fermò davanti a un uomo disteso su un giaciglio; era stato colpito da paralisi 38 anni prima, e si faceva trasportare là sperando la guarigione. Improvvisamente Gesù gli domandò: Vuoi guarire? – Naturalmente l’infelice pensò all’acqua; sperava egli in quell’acqua, sì, ma purtroppo non faceva mai in tempo ad entrarvi per primo perché, immobilizzato com’era e non avendo nessuno che lo spingesse dentro non appena cominciava il gorgoglimento, era sempre preceduto da altri. A questo rimpianto del paralitico Gesù non rispose, ma ad un tratto gli ordinò: “Alzati, prendi su il tuo giaci­glio e cammina!”. E subito l'uomo diventò sano; e prese su il suo giaciglio e camminava (Giov., 5, 8-9). Senonché quel giorno era sabbato. Ecco quindi che zelanti Giudei, al vedere quello scandalo, vanno incontro al risanato, e gli fanno stizzosamente osservare ch'e­gli non può trasportare di sabbato un giaciglio; pesava ben più quel giaciglio che un fico secco, eppure per i sommi maestri era norma sacrosanta che di sabbato non si poteva trasportare neanche un fico secco (§ 70). La risposta del ripreso fu spontanea: Quello che mi ha guarito mi ha comandato di prendere il giaciglio e di cammina­re! - Gli altri replicarono: E chi è costui? Il guarito non lo sa­peva, perché non conosceva Gesù, e in quel momento Gesù si era occultato per evitare la folla accorsa al miracolo. Tùttavia più tardi Gesù incontrò nel Tempio il guarito, e gli ri­volse alcune parole d'esortazione. Allora il guarito, temendo forse di apparire un complice agli occhi dei Farisei, andò a riferir loro che autore della guarigione e del comando era stato Gesù.
Per questo perseguitavano i Giudei Gesu', perché faceva queste cose di sabbato. Non solo, dunque, perché aveva comandato di trasportare il giaciglio, ma anche per la guarigione operata; dunque i Farisei di Gerusalemme condividevano pienamente l'opinione dei loro col­leghi della Galilea, già manifestata in occasione dell'uomo dalla ma­no rattrappita (§ 309). Ma Gesù, entrato in discussione, rispose loro: “Il Padre mio fino adesso opera, ed io opero”. Per questo, dunque, ancor piu' cercavano i Giudei d'ucciderlo, perché non solo abrogava il sabbato, ma diceva suo proprio Padre Iddio, facendo se stesso uguale a Dio. Quanto ad acume di mente, quei Giudei non lasciavano nulla a desiderare. Essi avevano ben seguito il ragionamento di Gesù, ch'era in sostanza questo come Iddio creatore opera sem­pre, governando e conservando tutto il creato e non ammettendo alcun riposo sabbatico in questa sua operazione, così e per la stessa ragione io Gesù opero. Dunque - argomentavano quei Giudei -Gesù fa se stesso uguale a Dio.
Avevano afferrato perfettamente il ragionamento di Gesù; ma poiché la sua conclusione rafforzata dal miracolo abbatteva uno dei capisaldi della casuistica farisaica, ragionamento e conclusione dovevano essere senz'altro rigettati.

§ 386. Seguì un lungo ragionamento di Gesù a difesa della sua missione; nella prima parte (Giov., 5, 19-30) egli illustra la sua eguaglianza col Padre e i còmpiti che ne derivano di essere dispen­satore di vita e giudice universale; nella seconda (ivi, 31-47) sono addotte le testimonianze che accreditano quella missione eppure sono misconosciute dai Giudei. Il ragionamento contiene quelle idee ed espressioni elevate che sono predilette dal IV vangelo, e che scar­samente o quasi incidentalmente si riscontrano nei Sinottici. Dal punto di vista storico, come già rilevammo (§ 169), la differenza di tono si spiega agevolmente considerando la differenza degli inter­locutori con cui Gesù discute: i montanari della Galilea, anche se Farisei, non raggiungevano certamente la finezza intellettuale dei dottori di Gerusalemme, con cui Gesù stava qui a discutere. Queste discussioni gerosolimitane, trascurate dai Sinottici, sono giustamente supplite dal solerte Giovanni.
Il lungo ragionamento di Gesù (che dovrà essere letto direttamente nel testo) non convinse affatto i Giudei, i quali ricorsero ad argo­menti d'altro genere: ossia decisero che quel fastidioso operatore di miracoli doveva esser soppresso. Cosicché, dopo ciò Gesu' s'ag­girava nella Galilea: non voleva infatti aggirarsi nella Giudea, per­ché i Giudei cercavano d'ucciderlo (Giovanni, 7, 1, ricollegantesi con 5, 47).

[SM=g28004] La “tradizione degli anziani”

§ 387. Trasferendosi in Galilea, Gesù si era sottratto alle insidie dei Farisei di Gerusalemme, ma costoro non abbandonarono però la partita; lassù nella Galilea essi non potevano certo spadroneggiare come a Gerusalemme, ma qualcosa potevano sempre fare: ad esem­pio, pedinare Gesù e raccogliere nuove accuse contro di lui. Di­fatti, già tornato Gesù in Galilea, si radunarono presso di lui i Fa­risei ed alcuni degli Scribi venuti da Gerusalemme (Marco, 7, 1). La tattica scelta da questi inviati fu quella di assillare l'irriduci­bile Rabbi con rilievi ed osservazioni sulla sua condotta, sia per umiliarlo in se stesso sia per screditarlo presso il popolo. Notarono subito che i discepoli del Rabbi non si lavavano le mani prima di mangiare: violazione gravissima della “tradizione degli anziani”, gravissimo delitto che equivaleva - secondo la sentenza rabbinica (§ 72) - a “frequentare una meretrice” e attirava la punizione d'essere “sradicato dal mondo”.
Riscontrato il delitto, lo denunzia­rono subito al Rabbi, come al responsabile morale. Gesù accetta la battaglia, ma dal caso singolo s'innalza a considera­zioni più ampie. Tutte quelle abluzioni di mani e di stoviglie sono prescritte dalla “tradizione degli anziani”: sta bene. Ma gli an­ziani non sono Dio, e la loro tradizione non è legge di Dio, la quale è infinitamente superiore; perciò in primo luogo bisogna ba­dare alla legge di Dio, e non preferirle mai la tradizione di uomini. Ora, avveniva questo caso. La legge di Dio, ossia il decalogo, ave­va prescritto di onorare il padre e la madre, e quindi di sovvenire ai loro bisogni fornendo aiuti materiali. I rabbini, dal canto loro, avevano stabilito la norma che, se un Israelita aveva deciso d'of­frire un certo oggetto al Tempio, quell'offerta era inalienabile e l'oggetto non doveva finire che nel tesoro del Tempio: in tal caso bastava pronunziare la parola Qorban (“offerta” sacra), e l'og­getto designato diventava proprietà sacra del Tempio in virtù di un voto irrevocabile. Spesso perciò accadeva che un figlio, maldi­sposto verso i suoi genitori, pronunziava Qorban su tutto ciò ch'egli personalmentè possedeva: cosicché i genitori, anche sul punto di morir di fame, non potevano toccar nulla di ciò che il figlio posse­deva; costui invece continuava tranquillamente a godersi i suoi beni consacrati in voto (anche ciò permettevano i rabbini), fino a che li consegnava effettivamente al Tempio, oppure trovava una scappa­toia per non consegnarli (anche qui le scappatoie rabbiniche non mancavano).

§ 388. Stando così le cose, Gesù rispose ai suoi pedinatori: Bellamente (voi) dispregiate il comandamento di Dio per osservare la tradizione vostra! Mosé infatti disse: “Onora il padre tuo e la ma­dre tua” e “ Chi maledice padre o madre sia messo a morte”; voi invece affermate: “Se un uomo dice al padre o alla madre - (Sia) Qorban ciò che ti potrebbe giovare - (deve mantenere)”; (cosic­chè) non gli lasciate piu' nulla da fare al padre o alla madre, abo­lendo la parola d'Iddio con la tradizione vostra che avete trasmessa (Marco, 7, 9-13). Accennando poi ad altri casi non venuti in di­scussione aggiunse: E cose simili di tal genere ne fate molte (§ 37). La conclusione fu tolta da un passo di Isaia (29, 13): Ipocriti! Bellamente profetò di voi Isaia dicendo: “Questo popolo con le labbra mi onora, ma il cuor loro lungi si tiene da me; e invano mi rendono culto insegnando insegnamenti (che sono) comandi d'uomini” (Mat­teo, 15, 7-9).
Farisei criticanti avevano avuto la loro parte, e sembra che non rispondessero. Gesù però si preoccupò delle turbe che avevano ascol­tato, e che avevano la testa infarcita delle minute prescrizioni fa­risaiche riguardo a purità o impurità di cibi (§ 72); onde rivolgen­dosi ad esse continuò: Uditemi tutti e capite! Non c'è nulla este­riormente all'uomo che entrando dentro di lui possa inquinarlo; bensì quelle cose che escono fuori dell'uomo sono quelle che inqui­nano l'uomo (Marco, 7, 14-15). Come altre volte, Gesù aveva par­lato anche qui da capovolgitore (§ § 318, 368); i Farisei se ne scan­dalizzarono: i discepoli stessi non capirono bene la forza del capo­volgimento anti-farisaico, e quando furono soli con Gesù gliene domandarono la spiegazione. La spiegazione fu elementare: tutto cio che entra nell'uomo, non raggiunge il cuore ch'è il vero santuario dell'uomo, bensì il ventre, donde i cibi ingenti sono emessi poco dopo; dal cuore dell'uomo invece escon fuori i pensieri malvagi, gli adulterii, le bestemmie e tutto il corteo di male azioni, e queste sole hanno la potenza d'inquinare l'uomo. Per Gesù, dunque, l'uomo era essenzialmente spirito e creatura mo­rale; tutto il resto, in esso, era accessorio e subordinato a quella superiore essenza.

[IMG]http://im1.freeforumzone.it/up/17/20/595326240.gif[/IMG]Gesù nella Fenicia e nella Decapoli. Seconda moltiplicazione dei pani

§ 389. La relazione degli evangelisti diviene nuovamente saltuaria e aneddotica, e improvvisamente ci presenta Gesù trasferitosi nelle regioni di Tiro e Sidone, ossia nella Fenicia. E la prima volta che Gesù esce fuori dalla Palestina dacché ha cominciato la vita pub­blica e forse dacché è nato (salvo la fuga in Egitto durante la sua infanzia). Perché quella uscita? Certamente non fu per portare in terra di pagani la “buona novella”, perché ciò non entrava nella sua missione personale e immediata come dichiarerà ben presto egli stesso (Matteo, 15, 24); neppure per sottrarsi a minacce di Antipa, perché di ritorno da Gerusalemme era venuto appunto nel territo­rio di lui: probabilmente fu per sottrarsi alle persecuzioni dei Fa­risei venuti a pedinarlo anche da Gerusalemme (§ 387), e nello stesso tempo per rifugiarsi in un luogo ove potesse rimanere sco­nosciuto e tranquillo (cfr. Marco, 7, 24) e provvedere ai suoi disce­poli, che avevano tanto bisogno ancora di formazione spirituale. Ma anche in Fenicia, come già era avvenuto a Bethsaida (§ 327), il progetto di tranquillità e raccoglimento svanì. Anche quelle re­gioni pagane, confinanti con la Palestina, avevano inteso parlare di Gesù come di gran taumaturgo: andavano in giro per il mondo d'allora tanti sedicenti operatori di miracoli, che là non si ebbe alcuna difficoltà ad annoverare fra essi anche il profeta della Ga­lilea; se si attribuivano portenti a Esculapio e ad altri Dei, non c'era ragione di non attribuirli anche al Dio dei Giudei operante per mezzo d'un suo profeta: all'atto pratico si sarebbe giudicata la va­lentia di ciascuno. Questi, più o meno, dovevano essere i sentimenti d'una donna di Tiro che si presentò a Gesù.
Era pagana, e mentre Marco che scrive per i Romani la chiama siro-fenicia perché la Fenicia faceva parte della provincia romana di Siria, Matteo che scrive per i Giudei la chiama cananea alludendo all'avanzo dell'antica popolazione paga­na che abitava nella Siria-Palestina prima degli Ebrei. La donna era spinta a Gesù dal suo cuore di madre: una sua figlioletta - cosi' la chiama Marco era malamente vessata dal demonio, e la madre aveva messo la sua speranza in Gesù. Espone ella la sua domanda; Gesù non le risponde parola. L'infelice madre insiste, e segue per la strada il gruppo di Gesù e dei discepoli implorando ad alta voce Abbi pietà di me, Signore, figlio di David! Era la maniera insistente e rumorosa che usavano in Oriente i mendicanti (§ 351); la donna, che non doveva ritrovarsi in povertà, era spinta ad imitare i men­dicanti dal suo cuore di madre. Gesù continua a non udirla; ma dopo un poco i discepoli, seccati di quella pubblicità, dicono a Gesù di allontanarla, invitandolo con ciò implicitamente ad accordare la grazia. Gesù risponde asciuttamente di essere stato inviato sol­tanto alle pecorelle sperdute della casa d'Israele: i pagani, qual era la donna, sarebbero stati oggetto della missione personale di altri, non di Gesù. La donna interviene direttamente, e rinnova la supplica. Gesù allora le risponde con durezza: Lascia prima che si satollino i figli. Non sta bene infatti prendere il pane dei figli e gettar(lo) ai cagnolini! I privilegiati figli erano i Giudei, e i cagno­lini erano i pagani. La durezza della risposta fu quasi amarezza di medicina che provochi la reazione, e con ciò la guarigione. La don­na reagì rispondendo ancora da madre implorante: Anzi (sta bene), Signore! Anche i cagnolini sotto la tavola mangiano dalle briciole dei ragazzi! Era una reazione di fede. Per Gesù fede significava salvezza (§§ 349-351); perciò egli rispose all'implorante: O donna, grande e' la tua fede! (Matteo, 15, 28). Per questa parola, va', e' uscito dalla tua figlia il demonio (Marco, 7, 29). La madre senz'altro credette, e tornata in casa trovò la bambina adagiata sul letto e libera dall'ossessione.

§ 390. Da Tiro Gesù s'inoltrò più a settentrione, fino a Sidone; di là piegò verso oriente, e con imprecisato giro attraverso la Decapoli (§ 4) si riportò nei pressi del lago di Tiberiade (Marco, 7, 31). Di questa peregrinazione randagia, che probabilmente fece trovare a Gesù quell'isolamento con i discepoli che non aveva trovato a Tiro, ci è trasmesso un solo episodio avvenuto nella Decapoli e narrato dal solo Marco (7, 31-37). Fu presentato a Gesù un sordomuto con vive raccomandazioni che gli imponesse le mani. Gesù lo prende in disparte dalla folla, gli mette le dita nelle orecchie, tocca con un po' della propria saliva la lingua di lui, quindi guarda su in cielo sospirando; infine gli dice: Ethpetah., cioè Sii aperto! L'evangelista trascrive in greco la pre­cisa parola aramaica, ripetuta fedelmente da Pietro nella sua cate­chesi, pur facendola seguire dalla traduzione greca (§ 133). Il sor­domuto restò guarito all'istante. Gesù poi ordinò che non si parlasse dell'accaduto; ma anche questa volta il suo ordine fu poco o punto eseguito. Perché, invece di operare una guarigione immediata come in altri casi, Gesù premise quei vari atti preliminari?
Il vecchio Paulus di­ceva che Gesù applicava qualche medicina naturale (§ 198); sol­tanto che l'acuto esegeta ha dimenticato di segnalare, a beneficio dell'umanità intera, quale fosse quella medicina. Parlando invece seriamente, si potrà congetturare che la circostanza di trovarsi Gesù nella regione pagana della Decapoli rendesse opportuno quella spe­cie di simbolismo preparatorio, per ragioni che oggi a noi sfuggono; nello stesso tempo è ben probabile che, non potendo il sordomuto udire le parole di Gesù e volendo costui eccitarlo a quella fede che sempre richiedeva in chi domandava un miracolo, si servisse di quegli atti materiali appunto per eccitarlo alla fede viva.

§ 391. A questo punto i Sinottici, salvo Luca, narrano una secon­da moltiplicazione di pani, somigliantissima alla prima ed avvenuta egualmente sulla riva orientale del lago di Tiberiade (§ 372). Accorrono attorno a Gesù grandi folle, che rimangono con lui tre giorni: in questo tempo le cibarie di cui si erano provviste sono consumate.
Gesù ha compassione di quella gente, e non vuole rin­viarla digiuna per timore che venga meno lungo la strada. I di­scepoli fanno osservare che lì, in luogo deserto, non c'è modo di trovar pane. Gesù chiede quanti pani disponibili ci siano; gli si risponde: Sette, e pochi pesciolini (Matteo, 15, 34). Come la prima volta Gesù prende quel cibo disponibile, lo spezza e lo fa distribuire; tutti mangiano e si satollano, e si raccolgono sette sporte di avanzi. Coloro che avevano mangiato erano quattromila uomini senza (contare) donne e bambini (ivi, 38). Ambedue i Sinottici che raccontano, dopo la prima, anche questa seconda moltiplicazione dei pani la distinguono espressamente dalla prima (Matteo, 16, 9-10; Marco, 8, 19-20). Ciò è più che sufficiente a dimostrare che la primitiva catechesi degli Apostoli, testimoni de­gli avvenimenti, parlava di due fatti ben distinti; non è però suffi­ciente a convincere di questa distinzione gli studiosi radicali mo­derni, che invece pensano allo sdoppiamento di un unico fatto.
Ma sta in contrario che i due fatti, se sono somigliantissimi, mostrano anche divergenze sia quanto al tempo sia quanto ai numeri; le loro somiglianze, invece, sono facilmente giustificate dalla corrispondenza delle circostanze. E se Gesù volle non una, ma due volte, provvedere miracolosamente ai bisogni materiali delle folle ricercanti il regno di Dio, fu per con­fermare sempre più l'ammonizione del Discorso della montagna: Cercate prima il regno e la sua giustizia e tutte queste cose vi sa­ranno date in aggiunta (§ 331). Trattandosi dell'urgentissima preoc­cupazione umana, quella del pane materiale, due esempi tipici, in­vece di uno solo, erano opportunissimi. Dopo il miracolo Gesù risalì in barca ed approdò, certamente sulla sponda occidentale, ad un luogo che Matteo (15, 39) chiama Magadan, e invece Marco (8, 10) Dalmanutha. I nomi sono del tutto sconosciuti, e nonostante varie congetture fatte non si sa a quali luoghi assegnarli.
[Modificato da Caterina63 06/08/2012 18:20]
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[SM=g28004] Il segno dal cielo. Il lievito dei Farisei. Il cieco di Bethsaida

§ 392. Tornato Gesù in Galilea, saltarono nuovamente fuori i suoi pedinatori rimasti sul posto. I Farisei, fiancheggiati questa volta dai Sadducei (Matteo, 16, 1), entrarono in discussione con lui; e poiché la discussione non li pensuadeva, gli chiesero una prova definitiva della sua missione cioè un portento che calasse giù dal cielo. Que­sta sì che era la prova incontrastabile, da cui anch'essi sarebbero rimasti assolutamente convinti, non già guarire storpi, risuscitare mor­ti e moltiplicare pani! Ci voleva qualcosa come un bel globo iride­scente che calasse giù dal cielo, o anche che il sole s'oscurasse, oppure qualche altra meteora di tal genere: allora senza dubbio Gesù avrebbe vinto la sua causa! La richiesta non era nuova. A un atto magico di questo tipo avevano pensato quei Giudei che, disputando con Gesù dopo la prima moltiplicazione dei pani, ave­vano ricordato la manna calata dal cielo (§ 379); del resto il « se­gno » messianico per eccellenza era, nell'opinione diffusa d'allora, il portento astronomico e meteorologico (§ 446); fuor di questo, tutti gli altri portenti non avevano un valore probativo sicuro, ap­punto perché non corrispondevano all'aspettativa comune. Ma questa aspettativa, perché deformata ed avvilita, non fu appa­gata da Gesù. Udendo la richiesta, egli sospirò profondamente: e questa fu la sua vera risposta, fatta di commiserazione e di ram­marico. Solo come un dippiù egli aggiunse: « Perché ricerca questa generazione un segno? ìn verità vi dico, non sarà dato a questa ge­nerazzone un segno!. E lasciatili, salito nuovamente (in barca), se ne andò al di là (Marco, 8, 12-13).

§ 393. Essendo stata subitanea la partenza, i discepoli avevano di­menticato di far provviste, e lungo il tragitto si rammaricavano di aver con loro un solo pane. Gesù, udendo le loro parole, disse loro: Guardatevi dal fermento dei Farisei e dal fermento di Erode! -Erode, cioè Antipa, fu menzionato certamente in conseguenza di discorsi o di avvenimenti precedenti; è probabile che fra coloro che avevano discusso testé con Gesù vi fossero agenti di Erode, o che i Farisei stessi agissero per conto di Erode, dato che costui aveva sempre la sua vecchia curiosità riguardo a Gesù (§ 357): la stessa partenza subitanea di Gesù indurrebbe a credere ch'egli volesse sot­trarsi bruscamente alle insidiose e maligne investigazioni che veni­vano dalle due parti. I discepoli tuttavia, che si sentivano lo stomaco vuoto, non vedevano che relazione avesse il fermento con i Farisei e con Erode. Gesù, ricordando loro le due moltiplicazioni dei pani, li esortò a non preoccuparsi del pane materiale bensì nuo­vamente a star lontani dal suddetto fermento. Allora capirono ch'egli alludeva alle dottrine dei Farisei e alle astuzie di Erode, che corro­devano lo spirito come un fermento corrode la pasta azima.

§ 394. Le ostilità trovate sulla riva occidentale del lago (e che do­vettero essere molto più gravi di quanto risulti dagli scarsissimi ac­cenni degli evangelisti) avevano indotto Gesù a riportarsi a Bethsaida, forse per cercare animi meglio disposti; ma anche di ciò che av­venne là non c'è trasmesso nulla, salvo la guarigione riferita dal solo Marco (8, 22-26) il quale l'apprese certamente dalla catechesi di Pietro. E portano a lui un cieco, e gli raccomandano di toccarlo. E avendo preso il cieco per la mano, lo condusse fuori della borgata, e avendo sputato negli occhi di lui e postegli le mani sopra, lo in­terrogava: “Vedi alcunché?”. E (quello) guardando in su diceva: “Scorgo gli uomini, perché vedo come alberi che camminano!”. Allora di nuovo gli impose le mani sugli occhi, e (quello) vide di­stintamente e fu ristabilito e scorgeva nettamente da lontano tutte le cose. E (Gesu') lo mandò a casa sua dicendo: “Non entrar neppure nella borgata!”. Questa vivida descrizione, dovuta a Pietro non meno che a Marco, ci fa assistere a una vera guarigione graduale; forse il cieco non era tale dalla nascita, perche' rico­nosce subito uomini ed alberi, ad ogni modo la visione è dapprima torbida e confusa, e poi perfetta. Perché questa graduazione? Si possono ripetere le ipotesi fatte a proposito del sordomuto (§ 390), la cui guarigione ha qualche analogia con questa; ma, meglio che congetture, non siamo in grado di fare. Quanto all'impiego della saliva, si ritrova anche nelle prescrizioni dei rabbini per le malattie d'occhi; quindi anche questa volta i razionalisti seguaci del Paulus riusciranno a spiegar la guarigione in maniera naturalissima.

[IMG]http://im1.freeforumzone.it/up/17/58/586635446.gif[/IMG]A Cesarea di Filippo

§ 395. Da Bethsaida Gesù risalì verso settentrione, allontanandosi ancor più da contrade giudaiche, e raggiunse la zona di Cesarea di Filippo (§ 19). In quella zona, in prevalenza pagana, egli e i suoi discepoli non erano assillati da folle d'imploranti né disturbati da intrighi di Farisei e di politicanti; fu dunque per lui una specie di ritiro con i suoi prediletti. Quei discepoli, del resto, rappresentavano il miglior risultato del­l'opera sua: saranno stati chi ruvido, chi zotico, e chi di dura cer­vice; avranno tutti, più o meno, risentito delle grette idee predomi­nanti allora nella loro stirpe; ma uomini di cuore erano, sincera­mente affezionati al maestro e pieni di fede in lui. Le solite turbe che assiepavano Gesù non avevano questi pregi: in Gesù esse cerca­vano ordinariamente il taumaturgo che guariva malati, risuscitava morti e moltiplicava pani, e se gradivano pure sentirlo parlare del regno di Dio e s'infiammavano anche alla sua parola, in parte era quella vampa nazionalista che Gesù deprecava e in parte era un fuoco di paglia che si spegneva poco dopo. Perciò Gesù prediligeva i discepoli, e ne curava particolarmente la formazione spirituale in vista del futuro. E oramai, dopo un anno e mezzo di operosità, egli poteva trattarli confidenzialmente nella questione più delicata per lui e forse più oscura per i discepoli stessi: la qualità messianica. Quel maestro così amato, quel taumaturgo cosi potente, quel predicatore cosi efficace, era veramente il Messia predetto da secoli ad Israele, ov­vero era soltanto un tardivo profeta dotato di straordinari doni divini?
Era un figlio di Dio, ovvero era il figlio di Dio? Certamente, dentro di loro, i prediletti discepoli si erano rivolti già nel passato questa domanda: ma se personalmente si sentivano assai inclinati a rispondere che egli era proprio il Messia, il figlio di Dio, ne erano anche distornati dalla vigilantissima cura mostrata fino allora da Gesù affinché quella risposta affermativa non fosse proclamata ad alta voce. Perché mai quella ritrosia inesplicabile? Era questo un punto assai oscuro per i discepoli; i quali però pensavano che il maestro ne sapeva più di loro, e avendo fede in lui si rimettevano a lui, aspettando che quel punto oscuro fosse schiarito a suo tempo. Gesù giudicò che allora era venuto questo tempo. La lunga ed in­tima assiduità con Gesù aveva aperto gli occhi ai discepoli in molte cose; d'altra parte, là in terra pagana, non esistevano pericoli d'in­composti tumulti nazionalisti qualora i discepoli avessero avuto la certezza che Gesù era il Messia e di ciò avessero potuto parlare tra loro liberamente; è anche probabile che, nei giorni di tranquillo ritiro passato con i discepoli, Gesù li avesse predisposti spiritual­mente a ricevere la delicata confidenza, sfrondando dalla loro immaginativa molte frasche politiche di cui era adornata ancora nelle loro menti la figura del Messia d'Israele. Infine, com'era solito fare nei momenti più decisivi della sua missione, Gesù si era appartato a pregare da solo (Luca, 9, 18).

§ 396. Ripreso tutti insieme il cammino, stavano per giungere a Cesarea di Filippo. S'avanzavano lungo la strada, ed erano già in vista della città (Marco, 8, 27): di fronte ad essi si ergeva la mae­stosa roccia su cui troneggiava il tempio di Augusto (§ 19). A un tratto, riferendosi certamente a discorsi precedenti, Gesù chie de ai discepoli: Chi dicono gli uomini che io sia? Gli fu risposto alla rinfusa: Ho inteso dire che tu sei Giovanni il Battista! Un altro: C'è chi dice che sei Elia! - Un altro ancora: Secondo alcuni tu saresti Geremia! Altri infine riferirono l'opinione più vaga se­condo cui Gesù era uno degli antichi profeti risorto. Le opinioni riferite erano numerose; ma Gesù non dette loro alcuna importanza, né si fermò a discuterle. Quell'investigazione sul pensiero altrui era una semplice introduzione all'investigazione veramente importante, quella sull'opinione personale dei discepoli. Terminate infatti le ri­sposte, Gesù disse loro: “Voi, invece, chi dite che io sia?”. I discepoli ebbero certamente un sussulto: a quella domanda si sen­tirono toccati nell'intimo, e con stupore videro che Gesù da se stesso entrava nel campo fino allora gelosamente evitato. Dovette seguire un silenzio imposto più da felicità ritrosa che da vera esitanza, si­lenzio non dissimile da quello d'una fanciulla che sia chiesta in isposa dal giovane ch'ella nel suo cuore segretamente già amava: forse i discepoli ripensarono in quel momento alla parola di Gesù che si era paragonato, nei loro confronti, ad uno sposo fra gli « ami­ci dello sposo » (§ 307).
E rimasero lì in mezzo alla strada muti d'un silenzio eloquente, con gli occhi fissi sul tempio di Augusto che dominava su citta' e campagna dall'alto della roccia. Passati alcuni istanti il silenzio fu tradotto in parole da Simone Pie­tro, ne poteva esser da altri che da lui impetuoso tra affezionati: Tu sei il Cristo, il figlio d'Iddio il vivente! La traduzione del vere­condo silenzio era stata perfetta; lo si vide in quei barbuti visi, che esprimevano la felicità d'un cordiale consenso e dimostravano una giocondità da lungo tempo repressa.

§ 397. Gesù sfiorò col suo sguardo tutti quei visi; rivolto poi a chi aveva parlato disse: Beato sei (tu), Simone figlio di Giona, poiché carne e sangue non rivelò (ciò) a te, bensì il Padre mio quello nei cieli! L'affermazione di Simone era confermata in pieno da colui ch'era il maggiormente interessato. Tutti i presenti si sentirono parimente confermati nella loro antica fede serbata in segreto. Dovette seguire ancora un breve silenzio, in cui fu alzato ancora uno sguardo al tempio lassù in cima alla roccia. Poi Gesù rispose: Ebbene, an­ch'io ti dico che tu sei Roccia, e sopra questa roccia costruirò la mia chiesa, e porte d'inferi non prevarranno contro di essa. Darò a te le chiavi del regno dei cieli, e ciò che (tu) abbia legato sopra la terra sarà legato nei cieli, e ciò che (tu) abbia sciolto sopra la terra sarà sciolto nei cieli (Matteo, 16, 16-19). Già in precedenza Simone era stato da Gesù chiamato Roccia, in aramaico Kepha (§ 278), ma quella prima volta non era stata comunicata la ragione e la spie­gazione dell'appellativo. Adesso la spiegazione è comunicata, ed è tanto più chiara davanti alla visione della roccia materiale che so­stiene il tempio dedicato al signore del Palatino.
Il tempio spirituale che Gesù costruirà al Signore dei cieli, cioè la sua Chiesa, avrà per roccia di sostegno quel suo discepolo che per primo lo ha procla­mato Messia e vero figlio di Dio. Anche le altre parole di Gesù sono chiare, alla luce delle circostanze in cui furono pronunziate. Gli Inferi (in greco Ade) corrispondono alla ebraica Sheol (§ 79), non però come generica dimora dei morti, bensì come dimora dei morti reprobi, ostili al bene e al regno di Dio; le porte di cotesta bolgia satanica, cioè tutte le sue massime forze (cfr. la sublime Porta), non prevarranno contro la costruzione di Gesù e contro la roccia che la sostiene. Tipicamente semitici sono anche i simboli delle chiavi e del legare e sciogliere. Ancora oggi in paesi arabi girano per le strade uomini con un paio di grosse chiavi legate ad una funicella e pendenti ostentatamente di qua e di là della spalla: sono i padroni di case, che fanno pompa in quella maniera della propria autorità. Il sira­bolo del legare e sciogliere (cfr. Matteo, 18, 18) conserva qui il valore che aveva nella terminologia rabbinica contemporanea, ove si ritrova usato frequentemente: i rabbini “legavano” quando proi­bivano alcunché, “scioglievano” quando lo permettevano; Rabbì Nechonja, fiorito verso l'anno 70 dopo Cr., usava premettere alle sue lezioni la seguente preghiera: “Ti piaccia, o Jahvè, Dio mio e Dio dei miei padri, che... noi non dichiariamo impuro ciò ch'è puro e puro ciò ch'è impuro; che noi non leghiamo ciò ch'e' sciolto e non sciogliamo ciò ch'e' legato”. L’ufficio del discepolo Roccia è dunque ben definito. Egli sarà il fondamento che sosterrà la Chiesa, e la sosterrà così saldamente che le avverse potenze infernali non prevarranno contro di essa. Egli inoltre sarà il maggiordomo di quella casa, le cui chiavi saranno perciò affidate a lui. Egli infine detterà legge nell'interno di quella casa, proibendo oppure permettendo alcunché, e le sue sentenze pronunziate sulla terra saranno tali quali ratificate nei cieli.

§ 398. La replica di Gesù a Simone Pietro è di una chiarezza che si direbbe abbagliante; né minore è la sua sicurezza testuale, giacché tutti gli antichi documenti senza alcuna eccezione concordano nel trasmetterci con precisione sillabica il nostro odierno testo. Eppure, com'è ben noto, questo testo ha fatto scorrere torrenti d'inchiostro, e si è recisamente negato che Gesù abbia conferito a Simone l'ufficio di essere roccia fondamentale della Chiesa, depositano delle sue chiavi e arbitro di legare e di sciogliere. Come mai questa negazio­ne? Gli antichi protestanti ortodossi assicuravano che Gesù non ha parlato affatto di Simone Roccia, ma di se stesso, e per il resto si è riferito a tutti gli Apostoli collettivamente e alla loro fede. Quando dice sopra questa roccia costruirò la mia chiesa, ecc., Gesù allunga un dito e lo rivolge verso se stesso, sebbene stia a parlare con Simone e di Simone. Quel dito allungato risolve la questione: esso è chiarissimamente sottinteso dal contesto, e si accorda spontanea­mente con le parole che seguono darò a te le chiavi del regno dei cieli e ciò che (tu) abbia legato, ecc. Come si vede subito, il ragio­namento è perfetto, purché si parta dal principio che bianco significa nero e nero significa bianco: lucus a non lucendo. I negatori moderni dell'ufficio di Simone hanno preso la strada pre­cisamente opposta.

Essi hanno trovato che la spiegazione degli antichi protestanti è di una goffaggine tale da tradire subito la tendenziosità settaria che l'ispira. No, rispondono essi, le parole di Gesù hanno precisamente quel significato che la tradizione e il buon senso vi hanno sempre ritrovato; su ciò è inutile arzigogolare: - Uno di questi nuovi negatori si esprime così: Simone Pietro... vive ancora, agli occhi di Matteo, in una potenza che lega e scioglie, che detiene le chiavi del regno di Dio e che e' l'autorità della Chiesa stessa... Si­mone Pietro e' la prima autorità apostolica in ciò che riguarda la fede, perché il Padre gli ha rivelato a preferenza il mistero del Fi­glio; in ciò che riguarda il governo delle comunità, perché il Cristo gli ha confidato le chiavi del regno; in ciò che riguarda la disciplina ecclesiastica, perché egli ha il potere di legare e di sciogliere. Non e' senza motivo che la tradizione cattolica ha fondato su questo testo il dogma del primato romano (Loisy). Gesù dunque ha veramente conferito a Simone l'ufficio in questione, secondo i nuovi negatori? Mai più! La ragione è che Gesù non ha mai pronunziato quelle parole; quel testo è tutto, o quasi tutto, falso o inventato; esso fu interpolato tra la fine del secolo I e gl'inizi del II o a Roma, a servizio della chiesa romana, oppure in Palestina. E le prove di tutto ciò? Non si è addotto nessun codice antico, nes­suna versione, nessuna citazione, che mostrino indizi sia pur vaghi d'interpolazione: si sono addotti argomenti a silentio (che tutti sanno quanto valgano) per cui scrittori cristiani dei secoli II e III o non citano il passo o ne citano, solo una parte. Si potrebbe forse pensare che gli antichi protestanti, beffeggiati dai moderni negatori per avere scoperto il dito allungato di Gesù, siano in grado di vendicarsi trion­falmente applicando ai beffeggiatori le parole di Orazio: Quod­cumque ostendis mihi sic, incredulus odi!

§ 399. Queste sono le ragioni, addotte da una parte e dall'altra, per negare l'ufficio di Simone. Ma la ragione vera e reale, eppure non addotta mai francamente ed esplicitamente, è la previa « im­possibilità » che Gesù abbia conferito quell'ufficio. Questa “impos­sibilità” è assoluta, indiscutibile, trascendente, e vale ben più della chiarezza del senso e della sicurezza testuale. Soltanto da questa roccia sono scaturiti i torrenti d'inchiostro accen­nati sopra, e soltanto sopra questa roccia si adunano concordemente negatori antichi e moderni. Scesi però dalla roccia e calati sul ter­reno esegetico-documentario, i concordi negatori discordano fra loro e si negano a vicenda. Secondo essi, dietro le spalle di chi si appella alla chiarezza del sen­so e alla sicurezza testuale s'erge l'ombra del papismo: papismo o no, i negatori alzerebbero tripudianti grida di trionfo se avessero a propria disposizione solo una metà degli argomenti strettamente “storici” di cui dispongono gli adombrati dal papismo. Ma hanno poi questi negatori pensato di riguardare qualche volta dietro le proprie spalle, per vedere se caso mai là si ergano le ombre di Lu­tero o di Hegel, e se unicamente quelle ombre suggeriscano ad essi i loro argomenti “storici”?
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06/08/2012 18:26

[IMG]http://im1.freeforumzone.it/up/17/20/595326240.gif[/IMG] Rettificazioni messianiche

§ 400. Il decisivo annunzio ormai era stato comunicato, ma subito appresso vennero quei correttivi (§ 301) che dovevano contenerne il significato nei suoi giusti termini. E in primo luogo l'annunzio era ancora confidenziale, riserbato ai soli discepoli; terminato infatti il conferimento dell'ufficio a Simone Pietro, Gesù immediatamente intimò ai discepoli di non dire a nessuno che egli e' il Cristo (Mat­teo, 16, 20).
Gesù giudicava non essere ancora venuto il tempo di divulgare l'annunzio, sia perché le turbe non erano preparate, sia anche perché gli stessi discepoli valutavano certamente in maniera imperfetta la qualità messianica di Gesù. Egli quindi si dette a rettificarla e perfezionarla. Da allora cominciò Gesu' Cristo a mostrare ai discepoli suoi che egli deve andare a Ge­rusalemme, e molto patire dagli Anziani e sommi sacerdoti e Scribi, ed essere ucciso e al terzo giorno risuscitare (ivi, 21). Quale differenza fra il rumoroso e folgoreggiante Messia atteso dalle plebi, e questo Messia che schiva d'esser riconosciuto per tale e predice i patimenti e la morte violenta che l'aspettano! Per i discepoli, ai quali appunto era rivolto l'energico ammonimento, fu un colpo rude. Il generoso Pietro, sia per il suo carattere sia per l'ufficio testé ricevuto, si cre­dette in dovere d'intervenire; e Pietro presolo seco (da parte), co­minciò a rimproverarlo, dicendo: “(Dio sia) a te propizio, Signore! Non ti avverrà punto ciò!”.
Ma egli, voltatosi, disse a Pietro: « Vat­tene dietro a me, Satana! Mi sei di scandalo, perché non hai i pen­sieri d'Iddio, bensì quelli degli uomini. Il tentatore per eccellenza era Satana (§§ 78, 273), e qui la Roccia della Chiesa e il maggior­domo del regno dei cieli riceve l'appellativo di tentatore. La ragione di questa umiliazione, cioè l'aver egli vagheggiato il Messia domi­natore deprecando il Messia sofferente, era imputabile più ai suoi tempi che a lui personalmente: ad ogni modo dimostra bene quanto bisogno c'era di rettificazioni messianiche anche nelle coscienze dei piu intimi discepoli di Gesù. E le rettificazioni seguitarono, prendendo sempre più il tono di crude disillusioni. Che s'aspettavano quei discepoli andando appresso a Gesù Messia? Forse di trionfare, forse di goder vita suntuosa a fianco a un dominatore? Provvede Gesù a dissipare cotesti loro sogni con altrettante smentite anticipate, che risuonano come schiaffi sulla fac­cia d'un morfinizzato delirante. Gesù dichiara che chi vuole andargli appresso dovrà rinnegare se stesso, prendere la sua croce e seguirlo (Matteo, 16, 24). L'allusione alla croce acquistò certamente un senso più chiaro dopo la morte di Gesù; ma fin da allora i discepoli pote­vano comprenderla benissimo, giacché da quando i Romani si erano insediati in Palestina il supplizio della croce vi era applicato larga­mente (§ 597), e in modo particolare ai suscitatori di sommosse po­polari che molto spesso s'ispiravano a ideali messianici. Chi dunque vuole seguire Gesù si consideri già morto, e allora vivrà; perdendo la propria vita per causa di Gesù e della “buona novella”, il suo seguace la salverà, mentre se rimane spasmodicamente attaccato alla propria vita la perderà (Marco, 8, 35); che profitto ha infatti l'uo­mo se acquista il mondo intero, ma perde poi l'anima non acqui­stando l'eterna vita vera? Quale riscatto può egli dare per l'anima sua (ivi, 36-37)? Qualcuno si vergognerà di Gesù e della ”buona novella”? Ebbene, costui crederà di aver salvato la propria vita in questa generazione adultera e peccatrice; ma quando il figlio del­l'uomo verrà nella gloria del Padre suo circondato dagli angeli si vergognerà di chi si è vergognato di lui, e renderà a ciascuno se­condo le proprie azioni (Marco, 8, 38; Matteo, 16, 27).

Per Gesù, insomma, la vita presente è essenzialmente transitoria, e in tanto ha valore in quanto è indirizzata alla vita stabile, che è quella futura. Egli, Messia, guida alla vita stabile attraverso le aspre vicende di quella transitoria; chi non vuole seguirlo, e rimane nella vita transitoria, rimane nella morte.

§ 401. A questi detti di Gesù tutti e tre i Sinottici ne soggiungono un altro che ha tutta l'apparenza di essere stato pronunziato in altra occasione. E diceva loro: “In verità vi dico, vi sono alcuni dei qui presenti i quali non gusteranno morte finché vedano il regno d'iddio venuto in possanza” (Marco, 9, 1). Con fine accorgimento i Sinot­tici hanno collocato questo detto dopo le altre rettifiche messiani­che: tale, in sostanza, è anch'esso. La fragorosa apparizione del Messia politico non si sarebbe avverata; alla sua volta, il regno del sofferente ed assassinato Messia avrebbe dispiegato nella sua venuta tale possanza esterna ed interna da dissipare per sempre il sogno del Messia politico: e taluni dei presenti non sarebbero morti prima di aver assistito al dispiegamento di quella possanza. Infatti un quarantennio dopo, cioè nel giro di una “generazione” secondo computi giudaici, la Gerusalemme dei sogni messianici è distrutta, il giudaismo politico è stroncato per sempre, mentre invece la “buo­na novella” di Gesù è annunziata nell'intero mondo (Romani, 1, 8; cfr. Coloss., 1, 23).


[SM=g28004] La trasfigurazione

§ 402. Com'era da aspettarsi, le energiche rettificazioni messianiche depressero l'animo dei discepoli; quei focosi Galilei di pretto sangue giudaico ne rimasero sconcertati e abbattuti. La medicina per ria­nimarli fu somministrata da Gesù mediante la sua trasfigurazione, avvenuta sei giorni (circa otto giorni, secondo Luca) dopo la mani­festazione messianica. La scena è collocata dagli evangelisti su un monte eccelso, di cui però non ci è trasmesso il nome. Molti studiosi moderni pensano che fosse l'Hermon, la cui cima più elevata raggiunge i 2759 metri sul Mediterraneo, e che offrirebbe la congruenza di stare immedia­tamente sopra Cesarea di Filippo dove era avvenuta la manifesta­zione messianica. Ma, oltreché l'ascesa del monte è faticosa e richiede tra andare e tornare una buona giornata, sta il fatto che si tratta di una conget­tura del tutto recente: l'antichità invece non ha ricollegato la tra­sfigurazione con l'Hermon, sebbene una provocazione a tale ricolle­gamento fosse offerta a menti mistiche dal passo del Salmo 89, 13 (ebr.): Il Tabor e l'Hermon nel nome tuo esulteranno.
Al contrario, sul primo di questi due monti si è accentrata una tradizione che risale al secolo IV. Il Tabor non è per noi moderni un monte eccelso, essendo alto 562 metri dal Mediterraneo e 600-620 metri dalle valli circostanti (che sono più basse del Mediterraneo); ma per gli anti­chi poteva ben passare per un monte assai alto, essendo totalmente isolato e scorgendosi dalla sua cima buona parte della Galilea. Un'al­tra difficoltà è che la sua cima era forse abitata, e perciò non offri­va quella solitudine che sembra richiesta dalla scena della trasfigu­razione; ma anche questa difficoltà non è insormontabile: la cima doveva essere abitata in occasioni di torbidi e di guerre, riducendosi facilmente a fortezza come avvenne verso il 218 av. Cr. sotto An­tioco III il Grande (cfr. Polibio, v, 70) e al tempo della guerra di Vespasiano quando fu fortificata da Flavio Giuseppe che ne parla a lungo (Guerra giud., IV 54-61); fuor di questi tempi la cima do­veva essere in istato d'abbandono, soprattutto perché l'intero monte oltre ad essere scosceso e sassoso è assolutamente privo di acqua. Quanto alla distanza del Tabor da Cesarea di Filippo, poteva esser superata senza difficoltà nei 6 (o 8) giorni indicati. - Ovunque poi avvenisse il fatto, esso si svolse in questo modo.

§ 403. Fra i disanimati discepoli Gesù prese con sé i tre prediletti, ossia Pietro e i fratelli Giacomo e Giovanni, e li condusse sul monte. La strada lunga, la salita faticosa, la stagione estiva contribuirono a far si che i viandanti giungessero sul posto assai stanchi: proba­bilmente giunsero di sera, cosicché i tre discepoli preparatosi alla meglio un giaciglio si misero a dormire (Luca, 9, 32): Gesù invece, com'era solito di notte, si mise a pregare (ivi, 29) a breve distanza da loro. A un tratto i visi dei dormienti sono inondati d'una luce vivissima: aprono essi gli occhi, e scorgono Gesù in aspetto tutto diverso dal solito. Stava egli là trasfigurato davanti a loro, e lam­pante era il suo viso come il sole, e le sue vesti divenute bianche come la luce (Matteo, 17, 2). Quando i risvegliati, che erano aggra­vati di sonno (Luca, 9, 32), ebbero adattato alla meglio la vista e l'animo alla folgoreggiante visione, riconobbero presso il trasfigurato anche Mosè ed Elia, i quali parlavano con lui della sua dipartita, che stava per compiere in Gerusalemme (Lu­ca, 9, 31). Il discorso fra i tre dura più o meno tempo, e a un certo punto Mosè ed Elia fanno come atto di allontanarsi. Allora il solito Pietro crede opportuno intervenire e dice a Gesu': Rabbi! Noi stiamo bene qui! E possiamo fare tre tende, una a te, una a Mose' e una a Elia! Il bravo Pietro ripensa forse con rammarico di aver prov­veduto soltanto al suo proprio giaciglio dopo il faticoso cammino, trascurando quello per Gesù che adesso si mostra in quell'aspetto e in compagnia di quegli insigni visitatori; ma l'evangelista interprete di Pietro ha aggiunto subito appresso la vera spiegazione, udita cer­tamente più volte dalla bocca di Pietro: Non sapeva infatti che cosa dicesse; giacchè erano sgomentati (Marco, 9, 6).
Pietro non riceve risposta, perché una luminosa nube li avvolge tutti e nella nube risuona una voce: Questo è il figlio mio diletto, in cui mi compiaccio qui. Ascoltatelo! I tre discepoli, ancor più sgomentati, si prosternano con la faccia a terra, ma poco dopo Gesù va verso di loro, li tocca e dice: Alzatevi, e non temete! Guardando attorno, essi non vedono più nessuno, salvo Gesù nel suo aspetto abituale. Il giorno appresso scendendo dal monte, Gesù ordina loro: Non dite a nes­suno la visione, fino a che il figlio dell'uomo sia risuscitato dai morti!

§ 404. E’ inutile ricordare che per i razionalisti il racconto della trasfigurazione non ha nulla di storico, ed è o una allucinazione, o una elaborazione mitica, o un simbolo, e simili. Tuttavia un rap­presentativo razionalista ne ha esattamente riconosciuto il valore concettuale, affermando che la trasfigurazione del Cristo si ricollega strettamente, nel quadro sinottico, con l'annunzio della sua passione e della sua resurrezione gloriosa. Essa corregge la prospettiva dei do­lori, e prelude al trionfo (Loisy). E’ esatto, sebbene non del tutto completo: infatti anche la presenza di Mosè ed Elia, rappresen­tanti rispettivamente della Legge e dei Profeti, ha un suo partico­lare valore, volendo dimostrare che la Legge e i Profeti dell'Antico Testamento hanno per loro ultima mira il Messia Gesù: e ciò cor­risponde a quanto Gesù aveva detto nel Discorso della montagna, di non essere venuto ad abolire la Legge o i Profeti... bensì a com­piere (§ 323). Sotto un certo aspetto, la trasfigurazione di Gesù è anche un contrapposto alla sua tentazione (§ 271 segg.). Più direttamente, è un correttivo all'effetto deprimente che le rettificazioni messianiche avevano prodotto sui discepoli, ma nello stesso tempo è una conferma di quelle rettificazioni. Gesù Messia, anche sfolgorante di luce, parla con Mosè ed Elia della sua dipartita, ossia morte, che sta per oc­corrergli a Gerusalemme, come se quella morte sia per lui il pas­saggio necessario onde entrare nella sua gloria manifesta.
Quando egli avrà superato quel passaggio e sarà già entrato nella sua gloria, rimprovererà a certi suoi tardi discepoli: O stolti e lenti di cuore a credere...; non doveva forse patire tali cose il Cristo (Messia), e (così) entrare nella sua gloria? (§ 630). In tal modo la medicina somministrata fece senza dubbio il suo ef­fetto, rianimando i discepoli, ma insieme moltiplicò in essi talune ansie ed incertezze. Perché quella proibizione di parlare ad altri della visione? E il permesso di parlarne solo dopo che il figlio del­l'uomo fosse risuscitato dai morti, a quale avvenimento futuro si ri­feriva? Si era dunque veramente alla vigilia della pafingenesi co­smica e della resurrezione dei morti accennate dalle antiche profezie (Isaia, 26, 19; Ezechiele, 37; Daniele, 12, 1-3)? Ma allora perchè Elia non compariva stabilmente - e non fugacemente come nella visione - per disporre i preparativi della grande palingenesi? Con quest'ultima questione cominciarono i discepoli, e chiesero a Gesù: Perché dunque gli Scribi dicono che Elia deve venire dapprima? (Matteo, 17, 10). Gesù rispose confermando ma insieme schiarendo: Elia, si, deve venire a predisporre tutto; ma esso è già venuto, e gli hanno fatto tutto il male che hanno voluto: così anche il figlio dell'uomo dovrà soffrire e ricevere il male da quelli. Allora i di­scepoli capirono che di Giovanni il Battista parlò ad essi (ivi, 13).

L'indemoniato epilettico

§ 405. Scesi alle falde del monte, i quattro raggiunsero ben presto gli altri Apostoli rimasti alla pianura. Trovarono allora che i rima­sti, forse in numero di nove, erano circondati da molta gente e da Scribi, con i quali stavano discutendo. Visto Gesù, uno della folla gli si fa innanzi dicendo: Ti ho portato mio figlio, l'unico che io abbia, ch'è posseduto da uno spirito mali­gno muto; quando se ne impadronisce, lo dilania, ed esso schiuma, digrigna i denti e s'irrigidisce. Ho pregato i tuoi discepoli di scac­ciarlo, ma non ci sono riusciti. - Questo fallimento aveva forse pro­vocato la discussione con gli Scribi, i quali non avranno mancato di dir la loro parola maligna sui discepoli e anche sul maestro as­sente. Ma adesso egli è presente, e saputo di che si tratta esclama: O generazione priva di fede, fino a quando sarò presso di voi? Fino a quando vi sopporterò? Poi, cercando con lo sguardo il giovanetto: Portatelo a me! (Marco, 9, 19). La fede era per Gesù condizione essenziale per i miracoli; ed egli ne deplorava la mancanza sia presso gli Scribi e il padre del giovanetto, sia presso gli Apostoli il cui fal­limento tradiva in essi una fede fiacca e tentennante. Fino a quando dovrà Gesù sopportare quella mancanza o fiacchezza di fede? Il giovanetto fu portato a Gesù; ma alla presenza del taumaturgo fu subito preso da una crisi parossistica, e stramazzò a terra dibatten­dosi, rantolando e spumando. Durante l'attacco Gesù volle interrogare il padre, non tanto come medico che cerchi di stabilire una diagnosi, quanto per far risaltare agli occhi dei presenti il valore del “segno” che si accingeva a compiere e per indurli a riflettere sulla loro mancanza di fede. Quanto tempo e' che gli successe que­sto? Il padre rispose: Dalla fanciullezza; spesso il maligno spirito lo getta nel fuoco o nell'acqua.
Se puoi far qualcosa, vieni in nostro aiuto, avendo pietà di noi! - Le parole del povero padre tradivano ancora una titubanza di fede, nonostante la deplorazione di Gesù. Perciò Gesù gli disse: Quanto al “se puoi“, tutto e' possibile a chi ha fede! (Marco, 9, 23, greco). La scena che successe a queste pa­role, delineata dallo stile di Marco conforme alle parole di Pietro, è di una vivezza palpitante. Subito, gridando, il padre del ragazzetto diceva (con lacrime):”Ho fede! Soccorri alla mia mancanza di fe­de!”. Vedendo però Gesu' che affluisce folla correndo, intimò allo spirito impuro dicendogli: “Spirito muto e sordo, io t'impongo, esci da costui e non entrare mai pu' in esso!”. E dopo aver gridato e molto sbattuto(lo), (lo spirito) uscì'.
E (il ragazzetto) diventò come un cadavere, tanto che molti dicevano: “E’ morto!”. Gesu' invece, prendendo gli la mano, lo rialzò e (quello) si levò ritto. L'evangelista medico ha la finezza di aggiungere che Gesù lo rese a suo padre. Gli Apostoli, già rimasti delusi, non potevano rinunziare a indagare la causa della delusione; avvicinatisi in privato a Gesù gli dissero: Perché noialtri non potemmo scacciarlo? E Gesù di rimando: Per la vostra scarsezza di fede!
In verità infatti vi dico, se abbiate fede quanto un chicco di senapa, direte a questo monte “Passa oltre da qua a là!” e passerà oltre, e nulla vi sarà impossibile. Del chicco di senapa Gesù già aveva parlato nella sua parabola (§ 368); questo monte a cui alludeva era forse il Tabor, la cui mole s'ergeva davanti a loro; quanto alla necessità della fede per ottenere miracoli Gesù vi aveva insistito più volte nel passato (§ 349 segg.), ma la sua le­zione aveva prodotto scarsi frutti.

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[IMG]http://im1.freeforumzone.it/up/17/71/816421599.gif[/IMG]Ultimi giorni in Galilea

§ 406. Dopo i precedenti fatti Gesù s’aggirava per la Galilea, e non voleva che alcuno (lo) sapesse (Marco, 9, 30); era dunque una pe­regrinazione impiegata soltanto alla formazione spirituale dei di­scepoli che l'accompagnavano, mentre l'annunzio della buona no­vella alle turbe non entrava nel suo scopo. Quella formazione richiese ben presto una nuova ammonizione circa la sorte terrena del Messia, per dissipare sempre meglio i sogni di messianismo politico tenacemente albergati in quegli spirti giudaici: Il figlio dell'uomo sta per essere consegnato in mano agli uomini, e l'uccideranno, e al terzo giorno risusciterà. Il risultato della nuova ammonizione dimostra quanto fosse necessaria, giacché i discepoli furono afflitti assai (Matteo, 17, 22-23), e un altro evangelista ag­giunge che non capivano questa parola, ed era velata per essi affinché non la percepissero; e temevano d'interrogar lui circa questa parola (Luca, 9, 45). Più tardi il gruppo s'indirizzò a Cafarnao, e vi giunse mentre i discepoli un po' appartati da Gesù erano tutti infervorati in una seria discussione fra loro (§ 408).

Nella borgata l'arrivo fu notato dai gabellieri, i quali s'affrettarono ad accertarsi se Gesù aveva pa­gato il tributo per il Tempio di Gerusalemme: tutti gli Israeliti adul­ti erano infatti obbligati a pagare annualmente, per la manuten­zione del Tempio, mezzo siclo d'argento ossia due dramme (§ 534). La colletta si faceva ordinariamente prima della Pasqua, ma nelle zone più distanti come la Galilea si protraeva o si suppliva fino a prima della Pentecoste e dei Tabernacoli; essendo stato Gesù assente da Cafarnao da molto tempo, e avvicinandosi la festa dei Taberna­coli, i gabellieri vennero a riscuotere. Si rivolsero essi a Pietro domandandogli: Il vostro maestro non paga (il) didramma? E Pietro, con la sua solita foga: Ma certamente: ed entrò nella casa ove stava Gesù per parlargliene. Ma Gesù lo prevenne: Che te ne pare, Simone? I re della terra da chi percepiscono tasse o censo? dai loro figli o dagli estranei? E Pietro rispose: Dagli estranei. Gesù allora replicò: Dunque i figli sono esenti! L'applicazione al caso di Gesù era chiara: egli era il figlio di Dio, e perciò non era tenuto al tributo per la casa terrena del suo Padre celeste. Tuttavia Gesù continuò: Ma affinché non li scandalizziamo, andato (tu) al mare getta un amo, e il primo pesce che viene su prendi(lo), e apertagli la bocca troverai uno statere. Prendilo, e dàllo ad essi per me e te (Matteo, 17, 24-27). Lo statere infatti equivaleva a un siclo intero, cioè a quattro dramme; così si soddisfaceva ai tributi di Gesù e di Pietro insieme. L'oratore del Discorso della montagna aveva esortato ad imitare gli uccelli del cielo e i gigli del campo, e a non preoccuparsi di cose materiali ma soltanto del regno di Dio e della sua giustizia: là egli aveva predicato a parole, qui commenta con le opere le sue parole dimostrandole sagge, come aveva già fatto nelle due moltiplicazioni dei pani. Forse in quel momento il peculio comune del gruppo degli Apostoli era ridotto a pochi spiccioli; Gesù, senza ricorrere a pre­stiti, rinvia Simone a quella Provvidenza che fornisce il cibo agli uccelli e il vestito ai gigli, e la Provvidenza avalla l'ipoteca addos­sata su lei dal Discorso della montagna.

§ 407. Vivono ancora oggi abbondantissimi nel lago di Tiberiade i pesci del genere dei Chronidi i quali seguono un ciclo d'incuba­zione singolarissimo, facilmente riscontrabile soprattutto nella specie chiamata Qhronis Simonis, volgarmente “pesce di S. Pietro”. La femmina di questo pesce depone fra la vegetazione subacquea le uova, in numero di circa 200; più tardi il maschio raccoglie queste uova fra le sue branchie e specialmente nella sua bocca, conservan­dole ivi molto tempo, fino a che il ciclo evolutivo sia terminato e i piccoli, raggiunta la lunghezza media di 10 millimetri, possano vivere indipendentemente: questo ufficio d'incubazione ha procurato al maschio anche il nome di Chronis paterfamilias. Nell'ultimo pe­riodo dell'incubazione, quando gli embrioni sono abbastanza sviluppati, la gola del maschio incubatore è divenuta mostruosamente sproporzionata al resto del suo corpo, ed è cosi rigonfia che assai spesso le mascelle non si rinserrano più. Quando poi è giunto il tempo di mandar via liberi i piccoli, il maschio incubatore ne pro­voca l'uscita introducendosi nella bocca qualche oggetto che espelle man mano i piccoli e che rimane al loro posto per qualche tempo. Questo oggetto è di solito un ciottolo, ma in sua vece lo stesso ser­vizio potrebbe esser fatto da una moneta, ad esempio da uno sta­tere o siclo antico.
Fu questo il caso del pesce pescato da Simone con lo statere in bocca? Non potremmo dirlo; sappiamo soltanto che il moltiplicatore dei pani fece assegnamento sulla Provvidenza anche questa volta, sebbene in altra maniera, e la Provvidenza pagò puntualmente l'ipoteca emessa su di lei dal Discorso della montagna. Dei successivi seguaci di Gesù forse nessuno fece assegnamento sulla banca della Provvidenza più fiduciosamente di Francesco d'Assisi, e la sua esperienza gli permetteva di dire ch'era una banca puntua­lissima nei pagamenti. C'è da chiedersi se il figlio di Bernardone non fosse un esegeta più acuto dei moderni critici del vangelo.

§ 408. L'incarico dato a Pietro si ricollegava in qualche modo con la discussione che i discepoli avevano avuta fra loro quand'erano giunti a Cafarnao; ciò forse apparve dal loro contegno o da qualche frase mozza, cosicché Gesù li interrogò direttamente: Di che ragionavate per istrada? La domanda li mise in imbarazzo: si vergo­gnavano essi di rispondere, perché oggetto della discussione era stato chi di loro fosse il maggiore nel regno dei cieli. C'era motivo infatti da discutere, non tanto riguardo a Pietro già preferito a Ce­sarea di Filippo e anche adesso per il pagamento dello statere, quanto riguardo agli altri: ciascuno avrà portato le sue buone ra­gioni per dimostrare che, quando il maestro si fosse assiso sul suo trono messianico rilucente di ori e tempestato di gemme, il seggio più onorifico e più vicino al trono spettava a sé e non al compagno con cui discuteva. Dopo un breve silenzio di pudore, uno prese co­raggio e disse a Gesù di che si era discusso: Chi sarebbe stato il primo? Nell'interpellato parlò nuovamente l'oratore del Discorso della mon­tagna, il capovolgitore. Primo - egli rispose - sarebbe stato l'ultimo di tutti, il servo e lo schiavo di tutti. Proprio in quel momento passa a caso per la stanza un bambino; Gesù lo chiama a sé, lo accarezza, lo mette nel mezzo di quegli uomini maturi, e guardan­doli uno per uno in faccia sentenzia: In verita' vi dico, se non vi mutiate e diventiate come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli!
Chiunque pertanto si abbassera come questo bambino, costui è il maggiore nel regno dei cieli (Matteo, 18, 3-4). Proseguendo poi a proposito del bambino preso a modello, Gesù affermò che chi accoglieva nel nome di lui un bambino come quello accoglieva lui stesso, come accogliendo lui si accoglieva il Padre celeste che lo aveva inviato (§ 483). Questa larghezza d'accoglienza non sembrò chiara a Giovanni. Poco prima egli e gli altri Apostoli non avevano accolto, anzi avevano a bella posta ostacolato, un tale che scacciava demonii nel nome di Gesù: poteva certo ammettersi che quel tale si servisse del nome del maestro per esorcizzare, ma in tal caso egli avrebbe dovuto en­trare nel gruppo di discepoli e accompagnarsi con loro; siccome però non aveva voluto unirsi, gli Apostoli lo avevano ostacolato. Gesù disapprovò l'agire degli Apostoli; essi non avrebbero dovuto ostacolare quel tale, perché chi non era contrario a loro era favorevole a loro (Marco, 9, 38-40).

§ 409. Alla rinfusa, poi, in quei giorni impiegati nella formazione spirituale dei discepoli Gesù impartiva loro altre norme, man mano che se ne presentava l'occasione (Marco, 9, 41 segg., e paralleli): Chi darà un bicchier d'acqua ai discepoli di Gesù in quanto tali, non rimarrà senza ricompensa. Chi scandalizza uno di coloro che credendo in Gesù sono ridiven­tati piccoli come bambini, sarà meglio per lui che legatagli con una corda al collo una mola asinaria sia gettato in mare; a questo ser­vizio si prestava benissimo la mola inferiore (delle due pietre che formavano la macina da grano mossa da asini), la quale pietra era bucata per far scorrere in basso la farina, e attraverso il foro sa­rebbe passata la corda. Si deve far attenzione a non disprezzare uno dei piccoli in ispirito, perché i loro angeli tutelari contemplano sempre il volto del Padre celeste. Se un fratello ha mancato, sia ripreso in segreto a quattr'occhi: se ascolta, è stato guadagnato un fratello. Se non ascolta, si prendano uno o due testimoni per regolarsi conforme alla prescrizione della Legge mosaica (Deuteronomio, 19, 15-17). Se ancora non ascolta, sia deferito alla Chiesa; e se non ascolta neppure la Chiesa, sia considerato com'è considerato nel giudaismo un pagano e un pubblicano, ossia come un estraneo alla comune vita spirituale. Però quanto gli Apostoli, costituenti la Chiesa, legheranno o scioglie­ranno sulla terra sarà anche legato o sciolto in cielo (§ 397). Quando due concordino sulla terra a chiedere qualche cosa, sarà loro concessa dal Padre celeste. Poiché dove siano congregati due o tre in nome di Gesù, anche Gesù è in mezzo a loro.

La primitiva catechesi, trasmettendoci queste sentenze, mostrò di scorgere in esse le norme che dovevano regolare la vita sociale dei seguaci di Gesù e lo stampo su cui doveva plasmarsi la Chiesa del­le prime generazioni. Ma la norma di denunziare il fratello colpevole e pervicace risve­gliò nel cervello di Pietro una difficoltà: Signore, quante volte pec­cherà contro di me il mio fratello e io gli rimettero'? Fino a sette volte? Il numero sette era tipico e sacro nel giudaismo, e qui Pietro si mostra ancora magnanimo, giacché nel secolo appresso Rabbi Jehuda sentenzierà che Dio perdona fino alla terza volta ma non la quarta (loma, 86 b, Bar.; allusione ad Amos, 2, 4). Con tutto ciò la magnanimità di Pietro sembra pusillanimità a Gesù, il quale re­plica: Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette! cifra convenzionale per indicare una quantità illimitata. Secondo Pietro, infatti, il precetto del Discorso della montagna di offrire l'altra guancia a chi dia uno schiaffo doveva valere solo sette volte, e all'ottavo schiaffo il precetto era abolito; invece, secondo l'ora­tore del Discorso della montagna, l'ottavo schiaffo era sempre il primo e quindi il precetto era sempre valido. E perché mai?

§ 410. Il perché fu spiegato da Gesù con una parabola. C'era un potente re che un bel giorno volle fare il bilancio di cassa, e per­ciò chiamò alla resa dei conti i suoi ministri. Fra i primi si presentò uno che doveva consegnare ben 10.000 talenti: somma addirittura spaventosa, e specialmente per quei tempi, giacché equivarrebbe a più di 60 milioni di lire in oro. Il debitore naturalmente non aveva tal somma; e allora il re, per ricuperarne almeno una minima parte, ordinò che si vendessero sia il debitore con la moglie e i figli come schiavi, sia tutti i suoi possedimenti. In sostanza, la sentenza era benigna per quei tempi, perché al debitore e ai suoi familiari era lasciata ancora la vita, mentre il re perdeva la massima parte del suo credito. Ma a udire quella decisione il debitore si gettò ai piedi del re, implorando non tanto con la solita teatralità orientale quan­to con la sincerità dell'uomo rovinato per sempre: Sii longanime con me, e ti restituirò ogni cosa! Il re, ch'era di cuore molto buo­no, ne ebbe compassione, e senz'altro rimandò libero il debitore rimettendogli l'intero debito. - L'uomo tornava davvero a respirare e ad esser uomo: era scampato dalla schiavitù, e per di più aveva guadagnato ben 10.000 talenti! Senonché, appunto questa fierezza l'accecò. Uscito dalla terribile e fortunata udienza, egli s'imbatté in un suo collega che gli era debitore di cento denari, somma di poco più che 100 lire in oro; appena lo vede, gli salta addosso, lo prende per il collo da soffo­carlo quasi, e si dà a gridare: “Pagami il tuo debito!” Il povero collega gli si getta ai piedi esclamando: Sii longanime con me, e ti restituirò!
Ma quello non dette ascolto, e lo fece mettere in prigione fino a che avesse pagato. Il fatto addolorò gli altri impiegati di corte, che lo riferirono al re. Allora il re fece chiamare il debitore graziato e gli disse: “Servo malvagio! Io ti ho rimesso tutto quel­l'enorme debito perché ti raccomandasti; e non dovevi, dunque, an­che tu aver compassione del tuo collega?”. E, adiratissimo, il re lo fece consegnare, non già ai soliti carcerieri, ma ai torturatori fino a che non avesse pagato l'intero debito. E Gesù concluse: Gasù anche il mio Padre celeste farà con voi, se non ri­mettiate ciascuno al suo fratello dai vostri cuori. Pare che questa volta gli Apostoli non chiedessero a Gesù la spie­gazione della parabola, tanto era chiara. Il re è Dio; la spaventosa somma condonata dal re al ministro sono le mancanze condonate da Dio all'uomo; la trascurabile somma brutalmente richiesta dal oollega al collega sono i piccoli torti di uomo ad uomo. Cosicché ed è questo l'insegnamento conclusivo della parabola - il perdono di Dio all'uomo esige imperiosamente il perdono dell'uomo all'uo­mo. E quanto Gesù aveva già concluso nel Pater noster: - Rimetti a noi i debiti nostri come anche noi rimettemmo ai nostri debitori.

§ 411. A questo tempo, cominciando dalla Pasqua della prima moltiplicazione dei pani (§ 372), erano trascorsi parecchi mesi e giun­geva oramai l'autunno dell'anno 29; dall'inizio del ministero pub­blico di Gesù era passato più d'un anno e mezzo, circa una ven­tina di mesi. Stando ai dati espliciti dei vangeli, l'operosità di tutti questi mesi era stata impiegata soltanto nella Galilea, salvo il viag­gio a Gerusalemme (§ 384) e l'altro viaggio nella Fenicia e a set­tentrione della Palestina (§ 389). Purtroppo, facendo un bilancio secondo i calcoli umani, risultava un forte deficit nel risultato di quell'operosità. I compaesani di Na­zareth avevano decretato l'ostracismo al predicatore della « buona novella » (§ 359). Le borgate presso il lago, che sembravano le pre­ferite da lui, erano accorse attorno al taumaturgo, si, ma per ottener luce ai loro ciechi, udito ai loro sordi, vita ai loro morti, pane ai loro stomachi: quando invece si era trattato di accettare il “cam­biamento di mente” e il capovolgimento spirituale richiesti dal taumaturgo, gli accorsi avevano in massima parte rifiutato, e la se­menta da lui sparsa era caduta o sui sentieri calpestati o sul pietrame o fra le spine (§ 365).
Che cosa era germogliato dalla sua seminatura? Oltre al manipolo dei discepoli - anche questi lonta­nissimi da una piena maturazione - si potrà ragionevolmente sup­porre che molto scarsi dovevano essere coloro che in tutta la Galilea aderivano sinceramente alla “buona novella”. Umanamente dun­que era, o sembrava, un bilancio fallimentare. Gesù lo sentì. Il suo cuore ne fu attristato; tanto più che non c'era tempo per insistere ancora, dovendo egli allontanarsi per tentare altrove. Che cosa avrebbe potuto egli fare nel passato fra quei Galilei, e specialmente fra le borgate prossime al lago, per ottener una messe più abbondante? Nulla. E se la messe era stata scarsis­sima, il danno non era forse di quelle borgate da lui tanto amate? Cosicché dal suo cuore, uno di quei giorni, eruppe il rimpianto e la deplorazione: Guai a te Ghorozain! Guai a te Bethsaida! Giac­che', se in Tiro e Sidone fossero avvenuti i portenti avvenuti in voi, da lungo tempo in sacco e cenere avrebbero fatto penitenza! Senonche' vi dico, per Tiro e Sidone vi sarà piu' tollerabile (sorte) nel giorno del giudizio che per voi! E tu Cafarnao, forseché fino al cielo sarai innalzata? Fino agà Inferi sarai abbassata! Giacchè se in Sodoma fossero avvenuti i portenti avvenuti in te, sussiste­rebbe fino ad oggi! Senonché vi dico che per la terra di Sodoma vi sarà piu' tollerabile (sorte) nel giorno del giudizio che per te.

§ 412. Delle borgate galilee qui nominate conosciamo bene Beth­saida e Cafarnao; ma Chorozain non appare altrove, ed è ricor­data soltanto qui in tutti i vangeli. Questa inaspettata menzione è altamente istruttiva, perché mostra quanto lacunose siano le informazioni trasmesseci dagli evangelisti circa i fatti di Gesù; se adesso Gesù nomina Chorozain individualmente per una partico­lare deplorazione, ciò mostra che nel passato la borgata era stata oggetto di amorevoli cure non meno di Bethsaida e di Cafarnao: eppure di queste cure noi non sappiamo assolutamente nulla. L'Onomastico di Eusebio dice che Chorozain distava due miglia da Cafarnao. Infatti a circa tre chilometri a nord di Cafarnao è il luogo chiamato oggi Keraze (o Kerazie), ove recentemente è stata riportata alla luce l'antica sinagoga costruita di pietra di basalto e con decorazioni analoghe a quelle della sinagoga di Cafarnao (§§ 285, 336): un'iscrizione aramaica conservata ivi nel seggio dell'archigogo ricorda per gratitudine un Judan figlio di Ismael, benemerito della costruzione dell'edificio.
Oggi, come già ai tempi di Eusebio, tut­to il luogo è deserto. In tempi tardivi questa borgata, nominata nei vangeli soltanto per esser maledetta, attirò la fantasia popolare cri­stiana la quale, dopo averci riflettuto sopra parecchi secoli, sen­tenziò che essa sarebbe stata la patria dell'Anticristo.

DALL'ULTIMA FESTA DEI TABERNACOLI FINO ALL'ULTIMA FESTA DELLA DEDICAZIONE

La questione cronologica e geografica


§ 413. Finora i tre evangelisti sinottici hanno camminato su strade abbastanza parallele fra loro: solo Giovanni, secondo la sua abi­tudine, si è inoltrato in una particolare direzione che non ignora ma neppure fiancheggia quella dei tre suoi predecessori (§ 165). Senonché a questo punto anche fra i tre Sinottici avviene un distacco: Matteo e Marco proseguono verso una direzione che è genericamente comune, ma sono abbandonati da Luca che piega da un altro lato, mentre Giovanni continua per la sua via che non è nè quella di Matteo e Marco nè quella di Luca. Soltanto in occasione dell'ultima Pasqua della vita di Gesù, Luca si affiancherà nuovamente a Matteo e Marco; dal canto suo anche Giovanni terrà loro dietro, ma come al solito precisando e integrando. Già sappiamo chè Giovanni si preoccupa soprattutto dell'operosità di Gesù in Gerusalemme e fissa nettamente le date: perciò, anche in questo nuovo periodo, egli offre allo storico elementi di sommo pregio per l'integrità della biografia e per il suo quadro cronologico.
A sua volta Luca, in questa sua narrazione ove non è fiancheggiato dagli altri due Sinottici, comunica molti fatti e discorsi del tutto nuovi, pur curandosi poco o nulla di fissare tempi e luoghi. Di qui sorge la questione di collocare in tempi e in luoghi convenienti le cose che Luca narra indipendentemente sia da Matteo e Marco sia an­che da Giovanni. Molti studiosi moderni designano convenzionalmente questa narrazione propria al terzo evangelista come il “viaggio” di Gesù secondo Luca, perché l'intera sezione comincia annunziando un viaggio di Gesù alla volta di Gerusalemme (Luca, 9, 51) e termina con l'ingresso effettivo nella città (19, 28 segg.); il quale ingresso però è precisamente il punto in cui Luca si ricongiunge con gli altri evangelisti, perché è l'ingresso dell'ultima Pasqua. Ma si tratta di un vero “viaggio”?

§ 414. Per rispondere bisogna tener conto di alcuni fatti. In primo luogo, questo “viaggio” sarebbe stato di una lentezza eccezionale, giacché s'inizierebbe al principio dell'autunno per raggiunger la mèta solo nella primavera successiva: più che un viaggio, dunque, sareb­be una peregrinazione vaga su zone occasionali e senza una mèta urgente. Inoltre, nel racconto di questo “viaggio” si ripete una seconda e una terza volta che Gesù è in cammino verso Gerusalemme (Luca, 13, 22; 17, 11), la quale però non è mai raggiunta; solo alla quarta volta, quando si conferma il proposito di raggiun­gere la mèta (18, 31), questa è effettivamente raggiunta (19, 28 segg.). Ora, perché mai questi ripetuti annunzi, che non sono affatto ri­chiesti dalla chiarezza del discorso e non vi aggiungono nulla di nuovo? Non acquisterebbero invece un preciso significato qualora si considerassero come allusioni a differenti viaggi a Gerusalemme, piuttosto che conferme di un solo “viaggio”? Così infatti si è pen­sato, facendosi rilevare che l'indipendente Giovanni colloca appun­to in questo periodo il viaggio per la festa dei Tabernacoli, quello per la Dedicazione, e quello per l'ultima Pasqua. Tuttavia questa presunta corrispondenza fra i viaggi minori di Luca e quegli espliciti e distinti di Giovanni, oltre ad incontrarsi in ta­lune difficoltà topografiche e cronologiche, sembra avere contro di sé le parole stesse con cui Luca annunzia a principio il suo maggiore “viaggio”: Avvenne poi, nel compiersi i giorni dell'assun­zione di lui (di Gesù), che egli decIse stabilmente (a parola: confermò il volto) di andare a Gerusalemme (Luca, 9, 51).

Queste pa­role indicano chiaramente che il viaggio annunziato si dovrà conclu­dere con la morte di Gesù e la sua successiva nella glo­ria; ma anche qui nulla c'induce a ritenere che questa conclusione del viaggio sia cronologica piuttosto che logica, ossia che in questo scorcio della vita di Gesù Luca badi più al succedersi dei giorni che all'imminente prova suprema di Gesù e al successivo trionfo di lui. D'altra parte nel maggiore “viaggio” di Luca troviamo inquadrati fatti e discorsi di Gesù che presso Matteo e Marco sono collocati in altro contesto, cioè durante l'operosità di Gesù in Galilea: e in questa divergenza, se Luca il più delle volte sembra da preferirsi quanto alla serie degli avvenimenti, è ben possibile che qualche rara volta siffatta preferenza sia da concedersi a Matteo e Marco.
§ 415. Tutto considerato, non sembra che sia il caso di parlare di un maggiore “viaggio” di Luca sotto l'aspetto cronologico e grafico. Questo “viaggio” non è che una giustapposizione o compo­sizione letteraria: essa è stata formata con elementi di più viaggi compiuti in questo tempo da Gesù, ed è inoltre accresciuta con vari altri elementi raccolti senza preoccupazioni cronologiche e geo­grafiche ma solo concettuali e logiche.
I viaggi minori di Gesù, che hanno fornito il precipuo materiale a questa narrazione com­plessiva, possono benissimo essere i viaggi distintamente ricordati da Giovanni; tuttavia Luca, nell'utilizzarne il materiale, non ha preteso stenderne la minuta e distinta cronistoria, ma ha solo mi­rato a presentare la realtà dei fatti in maniera tale che risultasse una appropriata conclusione e un degno coronamento alla prece­dente operosità di Gesù: il quale si avvicina con serena consape­volezza alla prova suprema in Gerusalemme, e superata la prova raggiunge la sua assunzione nella gloria. Questo scopo concettuale e logico, ben più che quello cronistorico e annalistico, era nella mira della catechesi primitiva, e specialmente di quella di Paolo seguita fedelmente da Luca (§ 135 segg.).
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06/08/2012 18:32

Alla festa dei Tabernacoli

§ 416. Finiva l'estate dell'anno 29, e con l'autunno si avvicinava la gaia e popolare festa dei Tabernacoli (§ 76). Se Gesù era stato l'ul­tima volta a Gerusalemme per la festa della Pentecoste (§ 384), erano circa quattro mesi che mancava dalla città santa: in questo tem­po la sua operosità in Galilea aveva trovato pessima corrispondenza, ed egli aveva deciso di allontanarsene. Ma dove andare? La mèta gli fu zelantemente suggerita da quei suoi “fratelli” che non credevano in lui (§ 264); essi avevano ben notato i meschini risultati ottenuti dal loro parente dopo tanto affaticarsi nella Galilea, e d'altra parte lo avrebbero visto con loro grande soddisfazione a capo di una fiumana di popolo bene inquadrata e diretta baldanzosamente verso Gerusalemme: là bisognava recarsi per sbalordire quegli in­signi dottori con le opere se si volevano risultati decisivi, altro che perder tempo e sprecar miracoli fra quei montanari della Galilea! Gli dissero pertanto i suoi fratelli: “Trasferisciti di qua e va' nella Giudea, affinché anche i tuoi discepoli (di laggiù) vedano le opere tue che fai. Nessuno, invero, fa alcunché in segreto, e cerca d'essere egli stesso in evidenza. Se fai queste cose, mostra te stesso al mon­do!”.
Neppure, infatti, i fratelli di lui credevano in lui! (Giovanni, 7, 3-5). A Gerusalemme aveva già pensato anche Gesù; ma appunto quel suggerimento dei suoi “fratelli”, dettato da tutt'altre considerazio­ni, servi da momentaneo ostacolo all'attuazione dei suoi piani. Essi pensavano che assai opportuna per una altisonante manifestazione di Gesù era appunto la fèsta dei Tabernacoli, alla quale affluivano grandi folle anche da fuori la Palestina; Gesù invece pensava che precisamente il pericolo di quella rumorosità era un motivo per re­spingere il loro consiglio. Cosicché i “fratelli” insieme con gli altri pellegrini galilei partirono per Gerusalemme, e Gesù invece rimase ancora in Galilea; tuttavia più tardi, quando le carovane parentali (§ 261) erano già partite, si mosse anch'egli alla volta della città santa non manifestamente ma come in segreto (Giov., 7, 10).

§ 417. L'itinerario scelto da Gesù fu il più breve, quello che scen­deva lungo il mezzo della Palestina attraversando la Samaria. I Samaritani, nel loro inveterato rancore, coglievano volentieri l'oc­casione di questi grandi passaggi di pellegrini israeliti per dar loro fastidi di ogni sorta, non escluse ferite e morte; veramente Gesù nel passato aveva trovato buone accoglienze presso i Samaritani, ma soltanto presso quelli di Sychar (§ 294), e del resto il fatto era avvenuto circa un anno e mezzo prima, cosicché non si poteva fare molto assegnamento su quelle antiche disposizioni amichevoli. Quin­di, per premunirsi, egli inviò in precedenza alcuni suoi discepoli che preparassero l'alloggio in un villaggio innominato della zona peri­colosa; ma quanto egli aveva temuto avvenne, perché i Samaritani di quel villaggio, conoscendo che si trattava di Galilei diretti a Ge­rusalemme, non vollero concedere ospitalità. A quest'atto disumano i due fratelli Giacomo e Giovanni, infiammati da baldanzoso zelo, si ricordarono di aver ricevuto da Gesù la potestà di far miracoli per la diffusione del regno di Dio; domandarono perciò a Gesù se acconsentiva a che facessero cadere fuoco dal cielo per incenerire quei ribaldi. Egli invece rivòltosi, li rimproverò. E andarono in un altro villaggio (Luca, 9, 55-56, greco). Chissà che questo altro vil­laggio non fosse appunto Sychar?

§ 418. Nel frattempo le prime comitive di Galilei erano giunte a Gerusalemme; i cittadini, memori del fatto del Bezetha avvenuto pochi mesi prima (§ 384), avevano cercato subito se fosse giunto anche Gesù: “Dov’ è colui?”. E molto bisbiglio era riguardo a lui nelle folle; alcuni dicevano: “E’ buono”; altri invece dicevano:”Macché! Anzi inganna la folla!”. Nessuno tuttavia parlava con franchezza a suo riguardo, per paura dei Giudei (Giovanni, 7, 11-13). Questa scena vividamente storica, sebbene dovuta all'evangeli­sta che si vorrebbe far passare come un astratto allegorista, mostra che la precedente visita di Gesù a Gerusalemme aveva lasciato trac­ce abbastanza profonde, suscitando consensi e dissensi. Improvvisamente, quando gli otto giorni dei Tabernacoli erano per metà pas­sati, si seppe che Gesù era giunto e si era messo ad insegnare nel­l'atrio del Tempio (§ 48). Accorsero ammiratori e detrattori; tutti indistintamente riconoscevano l'efficacia del suo parlare. Ma i detrattori cominciarono subito con una questione pregiudiziale. Non poteva esser veramente dotto e sapiente, se non chi aveva frequentato le scuole dei grandi Rabbi e Scribi ed era stato am­maestrato secondo i loro metodi; perciò quei tali si domandavano diffidenti: Come sa costui di lettere, non essendo stato ammaestrato? C'era ben da diffidare di quell'autodidatta, che in materia religiosa osava staccarsi dalla “tradizione”.
Gesù rispose: “La mia dottrina non e' mia ma di chi m'inviò. Se alcuno voglia fare la volontà di lui, conoscerà riguardo alla dottrina se e' da Dio, oppure (se) io parlo da me stesso. Chi parla da se stesso, cerca la gloria propria; chi invece cerca la gloria di chi l'inviò, costui e' verace e ingiustizia in lui non e'. Non vi dette forse Mose' la Legge, e(ppure) nessuno di voi pratica la Legge? Perché cercate d'uccidermi?”. Rispose la folla: “Hai un demonio! (§ 340). Chi cerca d'ucciderti?”. Rispose Gesu' e disse loro: “Un'unica opera feci e tutti ammirate. Per questo Mose' vi dette la circoncisione non che (essa) sia (istituita) da Mosè; ma dai padri - e in sabbato circoncidete un uomo. Se un uomo riceve la circoncisione in sabbato afinché non sia abolita la Legge di Mose', vi sdegnate con me perché feci sano un uomo intero in sabbato? Non giudicate secondo apparenza, bensì' con giusto giudi­zio giudicate!” (Giov., 7, 15-24).

§ 419. La discussione si riferiva alla guarigione del Bezetha e alle obiezioni fattele dai Farisei. Gesu', senza tornar sopra alle diatribe rabbiniche né replicase all'ingiuria di avere un demonio, cerca di far penetrare i suoi contraddittori più addentro nel significato vero della Legge mosaica. E la disputa continuò; tanto che alcuni di Gerusalemme, ben sapendo qual vento spirasse in città, si chiede­vano: Non è costui quello che vogliono uccidere? Eppure, ecco che parla in pubblico e non gli dicono nulla! Avrebbero forse i nostri maggiorenti riconosciuto che egli è proprio il Messia? Ma noi sap­piamo donde è costui, mentre quando verrà il Messia nessuno co­nosce donde sia! - Era infatti opinione diffusa che il Messia doveva sì essere un discendente di David e nascere a Beth-lehem (§ 254), ma anche che sarebbe comparso inaspettatamente dopo essersi trat­tenuto per lungo tempo in un luogo a tutti sconosciuto in assoluto ritiro; di Gesù invece si sapeva benissimo il luogo abituale di di­mora, e perciò egli non poteva essere il Messia. Gesù quindi rispose appellandosi ancora una volta alla sua propria origine preterrena e all'autorità di chi l'aveva inviato. E me sapete, e donde sono sapete. E(p pure) da me non sono venuto, bensì' e' vero colui che m'inviò che voi non sapete. Io (invece) so lui, perché da lui sono ed egli inviò me (Giov., 7, 28-29). Queste parole furono pronunziate da Gesù ad alta voce, come dichiarazione solenne. Come tale fu intesa dai suoi avversari, i quali la interpretarono - e interpretarono giustamente - come una di­chiarazione di esistenza preterrena e divina; senonché tale dichiara­zione era per essi blasfema, e perciò quegli scandalizzati scattarono e cercarono d'attuare subito l'antico progetto d'impadronirsi di Ge­sù. Ma ancora non era venuta l'ora di lui - osserva l'evangelista spirituale - cosicché nessuno gli mise le mani addosso. Gli avversari infatti erano controbilanciati dagli ammiratori, anzi questi ultimi presero animo, nonostante il vento infido, ed entrando in discussione fecero osservare: Quando il Messia verrà, opererà forse più mi­racoli di costui? Questa risposta era un richiamo alla precisa realtà.
L'argomento dei miracoli, ch'era perentorio e perciò bersagliatissimo venti secoli fa non meno di oggi, ottenne buon effetto e molti credettero in lui. Tuttavia gli avversari che volevano impadronirsi di Gesù non si rassegnarono, e ricorsero ai magistrati del Tempio affinché procedessero a un regolare arresto; ma l'atteggiamento risoluto degli am­miratori di Gesù dovette sconsigliare di procedere a un'azione così pericolosa, potendo seguirne uno di quei tumulti che troppo spesso sorgevano negli atrii del Tempio. E mentre le guardie ronzavano attorno a Gesù, egli ripeteva ai suoi avversari: Ancora breve tempo sono con voi, e (poi) vado a colui che m'inviò. Mi cercherete (al­lora) e non (mi) troverete; e dove sono io, voi non potete venire. Gesù si riferiva ancora alla precedente affermazione della sua origine e provenienza divina; gli avversari, respingendo questa idea, si trovarono davanti ad una allusione imprecisabile e si domanda­vano fra loro: Vorrà egli forse recarsi nella Diaspora giudaica all'estero, per ammaestrare là i pagani?

§ 420. Frattanto, durante l'ottava dei Tabernacoli, si svolgeva ogni giorno la processione che andava ad attingere l'acqua alla fonte di Siloe (§ 76). L'ultimo giorno, ch'era il più solenne, Gesù prese oc­casione dalla cerimonia e ne fece un'applicazione a sé e alla sua dottrina: Se (alcuno ha sete, (venga) a me e beva! Di una certa acqua aveva Gesù parlato già alla Samaritana; ma anche nei secoli prima aveva parlato della stessa acqua un profeta facendo pronunziare a Dio questo lamento: Due mali ha commesso il popol mio: abbandonarono me, sorgente d'acqua viva, per scavarsi cisterne screpolate, cisterne che non serbano acqua! Anche questa volta Gesù aveva parlato ad alta voce in tono di dichiarazione solenne, e la dichiarazione riaccese tra la folla le dispute di pochi giorni prima. Degli ammiratori alcuni affermavano: Costui è davvero il profeta! Altri: è il Messia. - Gli av­versari rispondevano: Macché Messia! Forseché dalla Galilea viene il Messia? Non viene forse da Beth-lehem, come discendente di Da­vid? - Le guardie del Tempio tentarono nuovamente d'impadronirsi di Gesù, ma rimasero interdette dalla sua potenza spirituale. Rimproverate dai magistrati e dai Farisei di non averlo arrestato, risposero con semplicità: Giammai un uomo parlò in tal maniera come parla quest'uomo! (Giov., 7, 46). I Farisei replicarono sarca­stici: Anche voialtri sareste forse rimasti ingannati da lui? Guardate invece se alcuno dei maggiorenti, o di noi Farisei, ha creduto in lui! Ma questa folla, che non conosce la Legge, è tutta di ma­ledetti! - I maledetti della folla, che ammiravano Gesù, costituivano l'abominevole “popolo della terra” (§ 40). Alla discussione prese parte anche il cauto Nicodemo, rimasto “fra color che son sospesi” (§ 290). Ebbe egli il coraggio di appellarsi alla legalità osservando: Forseché la nostra Legge giudica l'uomo, se non l'ha in precedenza ascoltato e non ha conosciuto ciò che fa? - Ma anche a Nicodemo fu risposto col sarcasmo: Sei forse pu­re tu della Galilea? Fa' ricerche e ti convincerai che dalla Galilea non sorge profeta! - Lo spirito regionalista dei Giudei faceva da avanguardia allo spirito nazionalista dei Gentili; l'uno e l'altro con­corderanno più tardi nel sentenziare che “dalla Galilea non sorge profeta”, e pronunzieranno la loro sentenza senza prima ascoltare l'imputato e senza indagare ciò che ha fatto.

§ 421. Un'altra circostanza della festa offrì occasione a Gesù per presentare se stesso e la sua dottrina. Fin dai vespri del primo gior­no dei Tabernacoli il popolo accorreva all'atrio esterno del Tempio recando rami di palma, mirto e salice; appena calavano la tenebre, i sacerdoti accendevano grandi lampade appese ad altissimi cande­lieri, e subito la folla accendeva innumerevoli altri lumi d'ogni ge­nere. Fra questa luminaria si svolgevano festeggiamenti giocondi, in cui tenevano il primo posto danze eseguite nel mezzo dell'atrio, men­tre i Leviti schierati sui gradini dell'atrio interno cantavano inni sacri: le danze erano eseguite specialmente dai maggiorenti della nazione e dai dottori più famosi, che facevano a gara nel danzare il più a lungo possibile tenendo fiaccole ardenti in mano. I bagliori di quella gaia notte rimanevano negli occhi delle folle festanti anche durante l'ottava seguente, e in uno di quei giorni Gesù applicò la cerimonia a se stesso. Qual giorno fosse, non ci viene detto; ma se Giovanni (8, 12-59) colloca questo episodio dopo gli altri della stessa festa, fa ciò probabilmente perché vede in esso un'opportuna preparazione all'episodio successivo del cieco nato, che riceve la luce da Gesù. Un giorno dunque, trovandosi nell'aula del Tesoro attigua all'”a­trio delle donne” (§ 47), Gesù disse ai Giudei: Io sono la luce del mondo. Chi segue me non cammina nella tenebra, bensì avrà la luce della vita. Come prima aveva parlato dell'acqua riferendosi alla cerimonia dei Tabernacoli, così adesso parlava della luce con analogo riferimento. I Farisei gli risposero che nessuno era tenuto a prestargli fede, perché egli rendeva testimonianza a se stesso, e la sua testimonianza non era verace. Ne seguì una disputa in più riprese (cfr. Giov., 8, 20-21 con 8, 30-31), che dovrà essere letta per intero nel testo originale. Le affermazioni fondamentali di Gesù sono le seguenti.

§ 422. La testimonianza di Gesù è garantita dal suo Padre celeste; ma i Giudei non conoscono il Padre, perché non conoscono Gesù. Intanto il tempo stringe: Gesù si allontanerà per sempre dai Giudei, ed essi moriranno ostinati nel peccato di non aver riconosciuto la sua missione. Essi sono dalle cose di giù e del mon­do; Gesù è dalle cose di su e non del mondo. A questo punto i Giudei, ironicamente, gli rivolgono la stessa domanda già rivolta a Giovanni il Battista dalla loro ambasceria (§ 277): Tu chi sei? Gesù risponde: In primo luogo, (io sono) ciò che appunto vi sto dicendo; la frase evita una dichiarazione precisa e netta, la quale invece è aspettata dai Giudei per poter scendere subito a violenze contro Gesù, come di fatto avverrà alla fine della discussione. Eppure - prosegue Gesù - quando i Giudei avranno innalzato il figlio dell'uomo allora conosceranno che egli è “il figlio dell'uomo”, fedele esecutore della missione ricevuta dal Padre. Questa totale dedizione alla volontà del Padre colpisce molti uditori, i quali credono in lui. Ai nuovi credenti si rivolge poi Gesù, ma subito interloquiscono altri presenti che gli sono rimasti avversi.
Accettando gl'insegnamenti di Gesù - dice egli - si ottiene la vera libertà, e questa consiste non già nell'essere discendenti di Abramo bensì nell'affrancamento dal peccato. Chi è vero discendente di Abramo compia le giuste opere di Abramo, e non cerchi di ucci­dere Gesù inviato dal Padre celeste. Non basta proclamarsi - come fanno gli avversari - figli d'Iddio, bisogna anche amare Gesù ed accettare i suoi insegnamenti, perché egli è uscito da Iddio e inviato da lui; chi non ascolta le parole di Gesù dimostra d'avere per pa­dre il diavolo che fu omicida da principio ed il padre della men­zogna. Se Gesù dice la verità, perché non gli si crede? Chi può convincere lui di peccato? Chi è da Dio, ascolta i detti di Dio; ma per questo gli avversari non ascoltano Gesù, perché non sono da Dio.

§ 423. A questo punto la lotta diviene più serrata. I Giudei risen­tono dei colpi ricevuti, e reagiscono non con accorgimenti dimostrativi ma con ingiurie. Essi replicarono: “Non diciamo bene noi che tu sei un Samaritano (§§ 4, 417) e hai un demonio?”. Gesù rispose:”Io non ho un demonio, ma onoro il Padre mio e voi (invece) mi disonorate. Io al contrario non cerco la mia gloria; v'é chi (la) cerca e (su ciò) giudica. In verità, in verità vi dico, se alcuno abbia custodito la mia parola non vedrà morte in eterno”. Gli risposero i Giudei: “Adesso abbiamo conosciuto che hai un de­monio! Abramo morì, (così) pure i profeti, e tu dici - Se alcuno abbia custodito la mia parola non gusterà morte in eterno. - For­seché sei tu maggiore del nostro padre Abramo che morì? (Così) pure i profeti morirono. Chi ti fai (da) te stesso?”. Gesù rispose: “Se io abbia glorificato me stesso”la mia gloria e' niente; v'e' il Padre mio che mi glorifica” (quello di) cui voi dite - Dio nostro. - E(ppure) non lo conoscete, mentre io so lui; e qualora (io) dica che non so lui, sarò simile a voi mentitore. Ma (io) so lui, e la parola di lui custodisco. Abramo, il vostro padre, esultò per (desiderio di) vedere il mio giorno, e (lo) vide e (ne) godé”. Dissero pertanto i Giudei a lui: “Cinquanta anni ancora non hai, e hai visto Abra­mo?” (§§ 176,182). Disse loro Gesù:”in verità, in verità vi dico, prima che Abramo fosse, io sono”. La discussione è finita. Gesù si è proclamato anteriore ad Abramo, e quindi all'intero ebraismo di cui Abramo è il capostipite. O si accetta la sua affermazione, credendo in lui: oppure in contrapposto si proclama che Gesù è posteriore e inferiore all'ebraismo, e quindi sottoposto alle sue leggi. Ora, secondo la Legge ebraica (Le­vitico, 24, 16), il bestemmiatore deve esser lapidato; perciò i Giudei, secondo i quali Gesù ha bestemmiato proclamandosi preesistente ad Abramo, passano ad applicare la Legge: Tolsero pertanto delle pietre per lanciar(le) addosso a lui. Ma Gesù si nascose, e uscì dal Tempio.
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06/08/2012 18:35

[SM=g27998] La donna adultera

§ 424. Egualmente in occasione della festa dei Tabernacoli è ri­portato l'episodio della donna adultera, che è collocato precisamente dopo il discorso dell'acqua simbolica e prima del discorso della luce simbolica (Giovanni, 8, 3-11). Ma sull'episodio grava la famosa que­stione della sua trasmissione, che sorge dai fatti seguenti. Il racconto dell'episodio manca nei più antichi codici greci unciali (salvo nel dibattuto codice D, del secolo vi) e in molti minuscoli, come pure nelle antiche versioni siriaca, copta, armena, e nei codici più autorevoli della versione latina pre-geronimiana. Fra gli antichi scrittori cristiani tacciono dell'episodio i Greci tutti quanti fino al secolo XI; lo ignorano anche i Latini più antichi, quali Tertulliano, Cipriano e Ilario, mentre sulla fine del secolo iv e nel v lo conoscono Paciano di Barcellona, Ambrogio, Agostino, e in seguito altri sempre più numerosi.
Altri codici greci, sia unciali sia specialmente minuscoli, o lasciano uno spazio nel luogo ove andrebbe il racconto dell'episodio, oppure riportano il racconto ma notandolo con un asterisco (che segnalava i passi aggiunti posteriormente e controversi). I codici stessi che riportano il racconto contengono una quan­tità eccezionale di varianti testuali, fenomeno ordinario di passi di­battuti. Si è anche notato che il racconto, mentre contiene espres­sioni linguistiche estranee allo stile abituale di Giovanni e affini invece a quello dei Sinottici, interrompe la concatenazione logica fra i due discorsi dell'acqua simbolica e della luce simbolica; e questa brusca interruzione sembra che fosse notata già nell'antichità, giac­ché un codice greco colloca il racconto non al suo posto solito ma dopo Giov., 7, 36, qualche altro lo relega in fondo al iv vangelo (dopo 21, 24), e infine quattro particolari codici (gruppo Ferrar) lo trasferiscono ad altro vangelo collocandolo dopo Luca, 21, 38. Riportano invece il racconto sei unciali greci meno antichi (oltre al suddetto D) e molti minuscoli; lo hanno anche parecchi codici della versione latina pre-geronimiana, quelli della Vulgata, dell'etiopica e alcuni recenti di altre versioni. D'altra parte, come risulta con buona probabilità da una notizia di Eusebio (Hist. eccl., III, 39, 17), sembra che l'episodio fosse già noto a Papia (§ 114) cioè già divul­gato nel primo ventennio del secolo II.

§ 425. Come risolvere la questione? L'assenza del racconto è do­vuta a una soppressione, oppure la sua presenza è dovuta a un'ag­giunta? La prima alternativa è scelta da S. Agostino (De coniug. adult., ti, 7, 6); egli pensa che il racconto sia stato soppresso nei codici da uomini di poca fede, i quali temevano peccandi impunitatem dan mulieribus suis. Senonché tale ragione, più psicologica che storica, non convince: in primo luogo perché, come osserva lo stesso S. Ago­stino, non fu dato nessun permesso di peccare da quel Gesù qui dixit: lam deinceps noli peccare; inoltre perché storicamente non è verosimile che semplici fedeli, laici e ammogliati, avessero tanta autorità nella Chiesa dei primi secoli da far sopprimere nelle sacre Scritture un passo di tanta ampiezza ed importanza: troppo gelosa era la Chiesa nel preservare intatte le sacre Scritture sia da inter­polazioni in più, sia da soppressioni in meno. Del resto, come e quando si sarebbe potuta effettuare una soppressione così radicale, che avrebbe cancellato ogni traccia del racconto da tutti i codici originali fino a mezzo il secolo IV? D'altra parte gli argomenti in favore del racconto hanno il loro innegabile peso; esso è riconosciuto anche da critici radicali, che considerano l'episodio come porzione antichissima della tradizione evangelica (Loisy), o come perla perduta dell'antica tradizione e casualmente ricuperata (Heitmiìller).
Altrettanto dicono i più auto­revoli studiosi cattolici, per i quali naturalmente il racconto è ispi­rato e fa parte delle sacre Scritture canoniche; fra essi appunto un editore neotestamentario conclude la sua ricerca dicendo che, nel testo del IV vangelo, il racconto dell'adultera è evidentemente una parte aggiunta... sebbene la sua alta antichità sia indiscutibile: perciò il racconto dev'essere annoverato fra le piu' preziose perle della tradizione; ma quale sia la prima origine del passo e come esso abbia trovato la strada per entrare nel vangelo di Giovanni, e' questione che rimane totalmente insoluta (Vogels). Proviene il racconto dal testo aramaico di Matteo (§ 114)? Sarebbe forse una noticina solitaria vergata dallo stilo di Luca? In favore di quest'ultima congettura deporrebbe il carattere del racconto, che è tutto di una misericordia infinita e ben degno dello scriba man­suetudinis Christi (§ 138). Ma dal punto di vista documentario dob­biamo confessare, purtroppo, la nostra ignoranza.

§ 426. Un giorno dunque, forse durante l'ottava dei Tabernacoli, Gesù, dopo aver passato la notte sul prediletto monte degli Olivi, di buon mattino ne scese, attraversò il Cedron, risalì ad occidente ed entrò nel Tempio: ivi il popolo accorse a lui nell'atrio esterno, ed egli sedutosi cominciò ad insegnare. Ad un certo punto irrompe nell'atrio un gruppo di Scribi e Farisei seguiti da un codazzo di gente; guardando essi torno torno nell'atrio, e scorto il cerchio di coloro che ascoltano Gesù vanno direttamente verso quella parte. Giunti, si aprono un varco tra la folla interrompendo la predica; di tra il codazzo che segue Scribi e Farisei si fanno avanti due o tre uomini che trascinano a forza una donna riluttante, e con un ultimo spintone la cacciano nello spazio rimasto vuoto davanti all'oratore; la donna, scarmigliata e coprendosi con le mani il viso per la vergogna, si accascia là a terra come un ciarpame di stracci. Gli Scribi e i Farisei spiegano allora a Gesù di che si tratta. Quel­la là è una donna sorpresa in flagrante adulterio: il complice, come per lo più succede (Daniele, 13, 39), pare che sia riuscito a fuggire, ma la donna è stata presa; ella non può negare la flagranza del delitto, e quindi dev'esser punita secondo la Legge. Ora, Mosè nella Legge ha comandato che siffatte donne siano lapidate (Deuterono­mio, 22, 23 segg.; cfr. Levitico, 20, 10).
Che ne pensa dunque il maestro? Come bisognerà comportarsi con questa delinquente? Dopo tale scena l'evangelista avverte: Dicevano questo per metterlo alla prova, onde avere (di che) accusarlo. Era quanto potevamo immaginarci, anche indipendentemente dall'avviso dell'evangelista. L'occasione, senza dubbio, era eccellente per quei Farisei. In primo luogo, quell'andare in giro per la città trascinandosi appresso la donna tremante e piangente permetteva ad essi di fare una ma­gnifica figura, come custodi esattissimi della Legge e guardiani ze­lanti della moralità. Del delitto doveva giudicare il Sinedrio (§ 59); ma che vantaggio ci sarebbe stato a condurre la donna direttamen­te al Sinedrio senza tanto strepito e clamore? Se tutto si fosse fatto con modesta riservatezza, nessuno avrebbe potuto apprezzare i meriti di loro, Scribi e Farisei. Inoltre, questo spiegamento di forze offriva un'altra opportunità bellissima. C'era quel Rabbi galileo che, con la sua ostentata indipendenza dai grandi maestri della Legge e con la sua crescente autorità sul popolo, meritava bene una le­zione pubblica e solenne, e precisamente su una questione di Legge. Il caso di quella donna sembrava fatto apposta per impartirgli que­sta lezione. Prima di consegnare la colpevole al Sinedrio bisognava sottoporre il caso a lui, come per averne un parere: si doveva lapi­dare o no quell'adultera?
Se egli avesse risposto di no, si sarebbe svelato da se stesso come un rivoluzionario, sovvertitore dell'ordine pubblico e abolitore della Legge mosaica. Se avesse risposto di essere inesorabili ed eseguire la lapidazione, avrebbe perduto quella sua autorità sul popolo, che gli era conciliata specialmente dai suoi pre­cetti di misericordia e di bontà. L'occasione, dunque, era davvero bellissima; i Farisei la colsero, e dettero battaglia a Gesù.

§ 427. La battaglia fu accettata Gesù, interrotta ormai la predica, ascoltò l'esposizione del caso, rimanendo tranquillamente assiso come stava prima. Quando gli accusatori dell'adultera ebbero finito, egli non rispose parola; soltanto, come persona che non abbia nulla da fare e cerchi d'ingannare il tempo, si curvò verso terra e si dette a tracciare col dito segni di scrittura sul pavimento. Il suo atteggia­mento diceva in sostanza ch'egli non aveva alcuna risposta da co­municare, e che stava li ingannando il tempo fino a che la questione fosse finita.
Gli accusatori aspettarono alquanto: Gesù seguitava a tracciare svolazzi in terra. Quelli ripeterono l'accusa, rinnovando la domanda, aspettarono ancora; solo dopo altro tempo Gesù len­tamente si rialzò sul busto, girò lo sguardo sugli accusatori, sulla folla, sulla donna, poi disse con semplicità: Chi di voi e senza pec­cato, lanci per primo su lei (una) pietra. Detto ciò come la cosa più naturale di questo mondo, si curvò di nuovo verso terra e ricomin­ciò a tracciare svolazzi. Tutto era finito, anzi non avrebbe dovuto neppur cominciare: l'interpellato era e si manteneva estraneo a quel­la questione, proposta da quegli accusatori, in quelle cincostanze; egli preferiva tracciare svolazzi, e se aveva dato quella risposta, lo aveva fatto cedendo alle loro insistenze. Agissero loro: purché si conformassero alla norma da lui data. Ahi, abi! quella norma li toccava intimamente! Non si trattava di giudicare su un elegante caso giuridico, per stabilire quanti colpi di staffile doveva ricevere il dorso altrui o quanto doveva esser alto il palo a cui si doveva impiccare il corpo altrui; si trattava di un giudizio intimo, di un tribunale invisibile in cui accusatore e giudi­ce erano tutt'uno, il tribunale della propria coscienza. Sarebbe sta­to in realtà facilissimo rispondere a quel Rabbi: Io sono senza pec­cato, e quindi lancerò per primo una pietra! - Ma con lui non era prudente scherzare; padrone della natura e scrutatore degli spiriti come si era più volte mostrato, quel Rabbi era capace di ripetere e precisare l'apostrofe dell'antico Daniele ai vecchioni di Susanna (Daniele, 13, 57) e di rispondere lì davanti alla folla: Sei senza peccato tu, che il giorno tale con la tal donna maritata hai fatto questo, e il giorno tal altro con la tal altra hai fatto quest'altro?!... - No, no: era troppo pericoloso stuzzicare quel vespaio. Perciò av­venne che quelli, quand'ebbero udito, se ne uscirono uno per uno cominciando dai piu' anziani (fino agli ultimi), e fu la­sciato solo Gesu' e la donna che stava in mezzo. Rialzatosi poi Gesu' disse a lei:”Donna, dove sono? nessuno ti condannò?”. Quella allora disse: “Nessuno, Signore!”.
Disse allora Gesù: “Nemmeno io ti condanno. Va', da questo momento non peccar più!”. Colui che era venuto non ad abolire la Legge di Mosè ma a com­pierla (§ 323), non aveva violato quella Legge e per di più ne aveva raggiunto l'intimo spirito; l'intimo spirito di ogni legge onesta non può essere che distogliere dal male e indirizzare al bene. La giu­stizia era stata sublimata nella misericordia.


[SM=g27998] Il cieco nato

§ 428. Dopo il discorso sulla luce spirituale, terminato senza effetto e col tentativo di lapidazione, Giovanni narra immediatamente una diffusione di luce materiale che ottiene il suo effetto, ossia la gua­rigione del cieco nato: il fatto dovette avvenire un poco più tardi, quando la festa dei Tabernacoli era finita da qualche tempo e il bollore degli animi si era calmato alquanto. Un giorno, di sabbato, Gesù passò vicino a un uomo cieco dalla nascita che chiedeva l'elemosina, forse nei pressi del Tempio. Riflet­tendo su quell'infelice, i discepoli che accompagnavano Gesù gli domandarono: Rabbi, chi peccò, costui o i suoi genitori, perché nascesse cieco? Si scorge in questa domanda la vecchia opinione ebraica, secondo cui il male fisico era sempre conseguenza e puni­zione del male morale: opinione già dimostrata fallace dal nobi­lissimo autore del libro di Giobbe, eppure tenacemente prolungatasi presso dotti e indotti. Gesù respinse l'opinione dicendo che nè quel­l'infelice nè i suoi genitori avevano peccato, e che quel caso singolo era stato permesso affinché si manifestassero le opere di Dio: Fin quando (io) sia nel mondo, luce sono del mondo (Giov., 9, 5). Detto ciò, Gesu' sputò in terra, fece con lo sputo un po' di fango, mise quel fango sugli occhi del cieco, e poi gli disse: Va', làvati nella piscina del Siloam. - Quello andò, si lavò, e tornò che vedeva. L'evangelista spirituale, appena ha scritto il nome di Siloam, vi aggiunge una glossa di sapore mistico, avvertendo che quel nome si traduce z ìnviato ~. E in realtà il greco Siloam sta per l'ebraico Shiloh: questo era il nome dato originariamente al canale sotter­raneo che raccoglieva le acque della fonte di Gibon (§ 384) convogliandole e introducendole dentro la città; in virtù di tale fun­zione al canale era stato dato il suddetto nome col significato di inviante (il liquido), o anche di (liquido) inviato, e dal canale il nome si era esteso naturalmente anche alla piscina in cui il canale terminava. Era la piscina del Siloe (§ 76). L'evangelista spirituale, che ha parlato dell'acqua simbolica convogliata sul mondo da Gesù, ripensa volentieri a lui come a soprannaturale liquido inviato; in quel liquido deve lavarsi l'intero genere umano privo di luce, come il cieco nato si lavò nella piscina del Sibe, e in ambedue i casi il risultato sarà il medesimo.

§ 429. Avvenuta la guarigione, seguono le inevitabili discussioni, perché il guarito era un mendicante di mestiere, notissimo a tutta la città e tutti sapevano ch'era nato cieco, mentre adesso vedeva. Perciò alcuni dicevano: E’ proprio lui! - Altri invece: Macché! uno che rassomiglia al cieco! - Il guarito, interpellato, risponde­va: Ma no, sono proprio io, il mendicante nato cieco! - Gli altri allora: E come ti si sono aperti gli occhi? - E quello, con sempli­cità: Eh! Quel tale che si chiama Gesù ha fatto un po' di fango; me l'ha messo sugli occhi; mi ha detto: “Va', làvati al Siloam”; ci sono andato; mi sono lavato; ho veduto. Ecco tutto! - Per approfondire l'indagine bisognava interpellare Gesù stesso. - Dov'è andato? domandarono al guarito. Quello rispose che non lo sapeva. Il caso era grave, sia per il fatto in sé, sia perché il tutto era avve­nuto di sabbato; perciò il guarito fu condotto ai Farisei. I Farisei ripeterono le stesse domande: ricevettero le stesse risposte. Nessun dubbio era possibile: quell'uomo lì davanti era il cieco nato, e ades­so vedeva benissimo. Tuttavia c'era di mezzo il sabbato. Quindi alcuni Farisei sentenziarono: Quest'uomo non è da Dio, perché non osserva il sabbato! - E infatti aveva violato il riposo sabbatico, facendo quella ditata di fango che aveva messo sugli occhi del cieco. Ma ci furono altri, un po' meno farisei, che osservarono: Ma se fosse un peccatore, come potrebbe fare prodigi di tal genere? - E i due gruppi dissenzienti cominciarono a discutere fra loro. Si, che il cieco fosse guarito era cosa certa; ma cosa anche più certa era che chi faceva una ditata di fango in giorno di sabbato era un peccatore, un empio, un ese­crando, epperciò non poteva operar miracoli. Non c'era via d'uscita. Nell'imbarazzo si volle conoscere, per aver qualche lume, il parere del guarito; gli fu chiesto: Che pensi tu di quel tale che ti ha aperto gli occhi? - E quello senz'altro: Per me, è un profeta!

§ 430. Male, malissimo. Si stimò necessario fare un passo indietro, e si ritornò sui dubbi, già scartati, riguardo all'identità del guarito. Si mandarono a chiamare i genitori di lui: Costui è proprio il figlio vostro? ~ proprio nato cieco? E come va che adesso ci vede? - I due vecchi, intimoriti da quell'accolta d'illustri dottori, si ripararono dietro alla realtà dei fatti, declinando ogni responsabilità loro per­sonale: Che questo sia il figlio nostro è certo, ed è pure certo ch'è nato cieco; ma come sia che adesso ci veda, o chi gli abbia aperto gli occhi, noi non ne sappiamo nulla. Interrogate lui stesso! Ha l'età: è maggiorenne; risponda egli stesso dei casi suoi! Riferita questa risposta, l'evangelista avverte: Ciò dissero i genitori di lui perché avevano paura dei Giudei; già infatti si erano accordati i Giudei che, se alcuno lo riconoscesse (come) Cristo (Messia), fosse espulso dalla sinagoga. I vecchi sagacemente avevano evitato il pericolo, e da essi non si poteva cavar nulla di decisivo. Gl'inquisitori allora tornarono di nuovo alla carica sul figlio. Presero perciò un tono esortativo e confidenziale; commovendosi, il cieco avrebbe forse “cantato”: Su dunque! Da' gloria a Dio! Noi sappiamo benissimo che questo tale è un peccatore. Dicci con schiet­tezza come sono andate le cose! - Quello rispose: Se sia peccatore o no, io non lo so; so unicamente che prima ero cieco, e adesso ci ve­do! - E quegli altri: Ma che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi? - Il guarito, che si serviva la prima volta degli occhi per contemplare quegli inquisitori, mentre forse avrebbe preferito andar fuori ad ammirare visioni più piacevoli, cominciò a perder la pazien­za: Ma ve l'ho già raccontato! Perché volete sentirlo di nuovo? Volete forse anche voi diventar discepoli di Gesù? - Apriti cielo! Un diluvio di maledizioni e d'improperi cadde addosso all'impertinente che aveva fatto l'ironica domanda, e fu ritorta su lui l'obbrobriosa insinuazione: Tu sei discepolo di quel tale; noi siamo discepoli di Mosè. Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Iddio; costui invece non sappiamo donde sia (§ 419). - Ma l'investito non si lasciò abbattere, e replicò impavido: Ma appunto qui sta la stranezza, che voi non sapete donde egli sia, e quello invece mi ha aperto gli occhi. E’ cer­tissimo che Dio ascolta, non già i peccatori, ma i giusti e i pii; come pure, dacché mondo è mondo, nessuno ha mai potuto fare quello che ha fatto! - Quale irriverenza!
Ai più insigni rappresentanti della “tradizione” e della sapienza giudaica pretendeva insegnare quel cialtrone tracotante, generato per di più nella colpa come la sua cecità aveva dimostrato! Gli fu perciò risposto sdegnosamente: Sei nato tutto intero nel peccato, e vieni a insegnare a noialtri? Fuori di qua! - E fu messo alla porta. Lo scacciato incontrò poco dopo Gesù, che gli disse: Credi tu nel figlio dell'uomo (variante: di Dio)? Il guarito rispose: E chi e', Si­gnore, affinché io creda in lui? Gesù soggiunse: E lo hai visto (allu­dendo alla guarigione ottenuta), e colui che ti parla e' (appunto) esso. Allora il guarito esclamò: Credo, Signore! e si prostrò davanti a lui. Gesù soggiunse: Per una cernita venni io in questo mondo, (ciò) affinché i non vedenti vedano e i vedenti diventino ciechi. Essendosi nel frattempo avvicinati alcuni Farisei, udirono le ultime parole e le interpretarono come allusione a loro stessi; chiesero perciò a Gesù: Siamo forse ciechi anche noi? Gesù rispose: Se foste (soltanto) ciechi, peccato non avreste; ora invece dite “Vediamo!”, (e perciò) il vostro peccato permane. In altre parole, la cecità è generale, ma si può guari­re da essa soltanto se si comincia col riconoscere di esserne affetti, mentre non ne guarirà giammai colui che s'illude di vedere; questa illusione è più dannosa della cecità stessa, perché è il suo settemplice sigillo.

§ 431. L'irriducibile tenacia dei Giudei nel non riconoscere la guarigione del cieco nato è di una storicità perfetta, ed è anche un fenomeno storicamente regolarissimo. Questi Farisei troneggiavano su certi loro piloni che non dovevano mai crollare, anche se tutto il resto del mondo fosse crollato: l'osservanza farisaica del sabbato, l'appartenenza all'associazione farisaica, e cose simili, erano i loro piloni, dall'alto dei quali essi giudicavano l'universo intero, approvando ciò che rafforzava i piloni e riprovando ciò che li indeboliva. Citano essi al loro tribunale il cieco guarito e i suoi genitori, investigano sulle testimonianze, almanaccano scappatoie, senza però ottenere la spiegazione desiderata. Non fa niente: si lasci crollare tutto il resto, ma rimangano i piloni. Ebbene confrontando serenamente i fatti, lo storico odierno trova che dopo tanti secoli una certa parte dell'umanità a cambiato ben poco nei suoi procedimenti riguardo ai dati della vita di Gesù: ha cambiato soltanto i nomi, ma i procedimenti sono rimasti in sostanza gli stessi. Quei piloni incrollabili che una volta si chiamavano osservanza del sabbato, e simili, oggi si chiamano assurdità del miracolo, impossibilità del soprannaturale, e simili: ma i piloni, agli effetti pratici, sono sempre gli stessi. Si citano al tribunale del razionalismo i vari documenti, s'investigano le testimonianze, si almanaccano teorie, senza però ottenere la spiegazione desiderata, anzi ottenendo un Gesù sempre più soprannaturale (§ 221 segg.). Non fa niente: si lasci crollare tutto il resto, ma rimangano i piloni. E cosi rimane la cecità, col suo settemplice sigillo.

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06/08/2012 18:39

[IMG]http://www.cattolicesimo.com/Apologetica/vitaCristo/img/buonpastore.jpg[/IMG]Il buon pastore

§ 432. La guarigione del cieco nato e le relative discussioni ebbero ancora degli strascichi, probabilmente vari giorni dopo ma egual­mente a Gerusalemme. Gesù ricorre ad una parabola, parzialmente allegorizzata (§ 360) ma ricavata dai comuni usi palestinesi, e paragona la propria operosità a quella d'un buon pastore, e la società da lui fondata ad un ovile. - L'ovile in Palestina si riduce oggi (e cosi più o meno era venti secoli fa) a un muricciolo di pietre ove si radunano la sera le pecore, di uno o più greggi, che di giorno hanno pascolato nei dintorni. Una portina bassa e stretta aperta nel muricciolo permette alle pecore d'entrare e uscire ad una ad una, per essere più facilmente contate ambedue le volte. Di notte un solo pastore fa la guardia all'ovile contro i ladri e le bestie feroci; ma verso l'alba, quando vengono gli altri pastori a prendersi ciascuno il suo gregge, il pastore di guardia apre regolar­mente ad essi la porticina: il nuovo arrivato dà il suo grido particolare, e allora le sue sole pecore si affollano all'uscio, escono ad una ad una e seguono per tutta la giornata il pastore nella steppa. Le altre pecore aspettano finché non odono il grido particolare del proprio pa­store, e s'avviano ad uscire soltanto quando sentono quella voce, che poi le guiderà per tutta la giornata. Così, gregge per gregge, le pecore partono tutte attraverso l'unica porticina, dirette dalle rispettive voci; le quali, poi, alle volte pronunziano nomi particolari per le pecore predilette: “Ehi! La Bianca!”>. “Tu, la mia Bella!”.
Quella porticina, dunque, è il punto più delicato dell'ovile, ed essa sola ispira fiducia; chiunque non passi attraverso essa ma salga per il muricciolo scaalcandolo, si dimostra con ciò stesso nemico, e non può essere che un ladro o una bestia feroce. Perciò disse Gesù: In verità, in verità vi dico, chi non entra per la porta nell'ovile delle pecore, bensì salendo da altra parte, colui e' ladro e rapinatore. Chi invece entra per la porta e' pastore delle pecore: a lui apre il portiere, e le pecore odono la voce di lui, e le proprie pecore chiama (egli) per nome e le conduce fuori; quando tutte le proprie abbia menate fuori, cammina davanti ad esse, e le pecore lo seguono perché sanno la voce di lui. Un estraneo invece non seguiranno, bensì fuggiranno da lui, perché non sanno la voce degli estranei.

§ 433. Senonché l'allusione non fu capita; e allora Gesù vi ritornò sopra: In verità, in verità vi dico, che io sono la porta delle pecore. Tutti, quanti vennero prima di me, ladri sono e rapinatori; ma le pecore non li udirono. Io sono la porta: se per me alcuno sia entrato, sarà salvato, ed entrerà ed uscirà e troverà pascolo. Il rapinatore non viene se non per rapire, fare strage e distruggere: io venni affinché abbiano vita e abbondantemente (l')abbiano. Chi fossero questi ladri e rapinatori Gesù non spiegò, ma le condizioni storiche dei suoi tem­pi erano sufficienti a farli riconoscere; come gli antichi profeti ave­vano trovato il massimo ostacolo alla loro missione nell'operosità avversaria degli pseudoprofeti profetizzanti la menzogna e... la frau­de del loro cuore, cosi Gesù parlando qui da Messia si riferisce al­l'operosità avversaria degli pseudopredicatori messianici che pullula­rono prima e dopo di lui. Flavio Giuseppe, che li conobbe di persona, descrive coloro che predicarono sotto il procuratore Antonio Felice (52-60 d Cr.) con queste parole: Uomini ingannatori e im­postori, che sotto apparenza d'ispirazione divina operavano innova­zioni e sconvolgimenti; inducevano essi la folla ad atti di fanatismo religioso, e la conducevano fuori nel deserto, come se là Dio avesse mostrato loro i segni della libertà (imminente) (Guerra giud., II, 259). Riferendosi poi al tempo dell'assedio di Gerusalemme lo stesso testimone oculare afferma: Molti, del resto, erano allora i profeti che... andavano intimando d'aspettare il soccorso da parte di Dio... Cosicché il misero popolo fu allora illuso da ciarlatani e da quei che parlavano falsamente a nome di Dio (ivi, VI, 286-288).
Ma la can­crena era vecchia, e se scoppiò in pieno ai tempi qui accennati da Flavio Giuseppe, raccogliamo dallo stesso storico che essa covava da molto tempo prima e che ai tempi di Gesù aveva invaso già larga­mente la plebe giudaica. Questi sono i ladri e i rapinatori a cui allu­de Gesù, come ai diretti e immediati avversari di lui Messia; se poi afferma che le pecore non li udirono, si riferisce alla parte buona e sana del popolo, che del resto ai suoi tempi era ancora la parte nu­mericamente maggiore, mentre in seguito andò sempre scemando.

§ 434. Insistendo ancora nel paragone dell'ovile, Gesù continuò: Io sono il pastore, quello buono. Il pastore, quello buono, rimette la sua vita per le pecore. Il mercenario e che non è pastore, di cui non sono proprie le pecore, vede il lupo che viene, e lascia le pecore e fugge - e il lupo le rapisce e disperde - perché è mercenario e non gl'importa delle pecore. Io sono il pastore, quello buono, e conosco le mie e conoscono me le mie, come conosce me il Padre ed io conosco il Padre: e la mia vita rimetto per le pecore. Ho pure altre pecore, che non sono di questo ovile; anche quelle devo io condurre, e la mia voce udranno, e si farà un solo gregge e un solo pastore. Gesu' dunque, da vero pastore e non da mercenario, è pronto a per­der la vita per il bene dei suoi seguaci. Inoltre, egli è pastore non soltanto di questo ovile dell'eletto popolo israelitico, ma anche di altre pecore le quali un giorno udranno la sua voce: si formerà allora un solo gregge di suoi seguaci, tratti indifferentemente dal po­polo d'Israele e da altri popoli, e il nuovo gregge collettivo avrà per comune pastore il Messia Gesù.
Già gli antichi profeti, trattando dei tempi del futuro Messia, avevano contemplato questo slargamento del ristretto ovile d'Israele entro cui sarebbero entrate pecore di altri ovili Alla fine dei giorni, sarà stabilito il monte della casa di Jahvè sulla cima dei monti e piu' elevato delle colline, e affluiranno ad esso tutte le genti e accorreranno popoli molti, dicendo: “Venite, ascendiamo al monte di Jahvè, alla casa del Dio di Giacobbe, affinché c'insegni le sue vie e procediamo sui sentieri di lui: perché da Sion uscirà la legge, e la parola di Jahvè da Gerusalemme! Terrà egli giudizio fra le genti, e darà sentenza su popoli molti; ed essi foggeranno le loro spade a zappe, e le loro lance a faIci: non alzerà gente contro gente la spada, né impareranno piu' oltre la guerra. Isaia, 2, 24; cfr. Michea, 4, 13.
Gesù infine concluse: Per questo il Padre mi ama, perché rimetto la mia vita affinché nuovamente (io) la riprenda. Nessuno la tolse a me,> bensì io la rimetto da me stesso. Ho potestà di rimetterla, e ho po­testà di riprenderla nuovamente. Questo comando ricevetti dal Pa­dre mio. Anche per queste parole fu dissenso tra i Giudei. Molti, e forse i più, le commentavano spregiosamente concludendo: Ha un demonio ed è pazzo; perché state ad ascoltarlo? - Altri tuttavia replicavano: Eh, no! Queste parole non sono da indemoniato! Può forse un demonio aprir gli occhi ai ciechi? (Giov., 10, 19-21).



[SM=g28004] Espansione del Regno di Dio in Giudea


§ 435. Terminate le ultime discussioni sorte in occasione del Taber­nacoli, Gesù si allontanò da Gerusalemme. Nel bimestre abbondante che correva fra i Tabernacoli e la Dedicazione (§ § 76-77), avvennero buona parte dei fatti narrati a proposito del cosiddetto ”viaggio” di Luca (§ 413 segg.), che perciò si svolsero in massima parte nella Giudea: questo, infatti, era il nuovo campo di lavoro scelto da Gesù allorché aveva abbandonato la Galilea (§ 411). Come già avvertim­mo, questa narrazione particolare a Luca ha mire cronologiche e geo­grafiche soltanto vaghe e generiche, e ciò le imprime un carattere spiccatamente aneddotico; dell'operosità varia spiegata da Gesù in questo tempo per diffondere il regno di Dio nella Giudea abbiamo soltanto elementi isolati, difatti e di discorsi, ma non una relazione completa ed organica. Il diligente raccoglitore Luca ci fornisce solo le notizie ch'è riuscito a ricuperare, sia nella loro quantità sia nei loro reciproci collegamenti: di ciò ch'egli ignora, fedelmente tace. Occasionalmente ci vengono ricordati, tutti insieme, tre uomini che vogliono seguire Gesù (Luca, 9, 57-62); di questi tre, soltanto due so­no mentovati da Matteo (8, 19-22), ed è molto probabile che i tre si presentassero in tempi e luoghi diversi, sebbene poi le loro men­zioni fossero riunite insieme per ragioni redazionali.

§ 436. Un tale, che era scriba secondo Matteo, raggiunge Gesù per istrada e gli dice: Maestro, ti seguirò dovunque tu vada! - Pensava forse, il buon uomo, che un profeta così autorevole e potente avesse una dimora stabile e decorosa, la quale gli servisse da centro di ir­radiazione per la sua operosità. Gesù lo disillude con francbezza: Le volpi hanno tane e i volatili del cielo nidi, ma il figlio dell'uomo non ha dove reclini il capo. In altre parole, il primo a seguire le norme del Discorso della montagna relative alla fiducia nella Prov­videnza (§ 331) era appunto l'oratore di quel discorso. A un altro, che già faceva parte dei discepoli secondo Matteo, Gesù stesso rivolse l'invito dicendogli: Seguimi! L'invitato era ben disposto, ma prima domandò licenza di andar a seppellire suo padre; Gesù replicò: Seguimi! E lascia i morti a seppellire i loro morti; alle quali parole Luca aggiunge le altre: tu invece va', annunzia il regno d'Iddio! - Molto si è discusso su questo breve dialogo. Taluni hanno pen­sato che il padre di quel discepolo non fosse veramente morto, altri­menti il figlio secondo i costumi giudaici avrebbe dovuto stare presso la salma e non vicino a Gesù: egli quindi avrebbe domandato in realtà il permesso di andare ad assistere il vecchio padre nei suoi giorni estremi, come ancora oggi per esprimere questa assistenza si usa la frase affettuosa « chiudere gli occhi ai propri vecchi »; tut­tavia, pur non essendo assolutamente impossibile, la spiegazione è poco verosimile.
Anche meno verosimile è l'ipotesi (Perles) secondo cui il testo greco risulterebbe da una traduzione difettosa dell'aramaico, il quale avrebbe detto originariamente lascia i morti al seppellitore dei loro morti. Secondo ogni verosimiglianza, il padre del discepolo era ve­ramente morto; d'altra parte Gesù vuol far risaltare l'imperiosità dell'appello al regno di Dio, che poteva in certi casi passar sopra anche alle costumanze più legittime. Se per ragioni religiose la Legge mosaica proibiva al sommo sacerdote e al « nazireo » di curare il seppellimento dei propri genitori (Levitico, 21,11; Numeri, 6, 7), a maggior ragione il Messia Gesù esigeva negli annunziatori del regno di Dio almeno la stessa libertà dai legami sociali e una dedizione totale al loro ufficio. I viventi fuor del regno di Dio erano spiritual­mente morti, e il tornare anche per breve tempo fra quei morti po­teva esser pericoloso per quel discepolo: costui ch'era chiamato al regno di Dio, entrasse risolutamente nel regno della vita senza vol­gersi addietro a rimirare il cimitero del mondo. Questa è anche, in sostanza, l'esortazione rivolta al terzo postulante. Egli dice a Gesù: Signore, io ti voglio seguire, ma prima permetti ch'io vada a congedarmi da quei di casa mia. - Gesù risponde: Nessuno che imponga la mano su aratro e riguardi all'indietro, è adatto al regno d'iddio! Come il bifolco che governa l'aratro non traccerà solchi diritti se si rivolta addietro, così chi mira al regno di Dio non deve voltarsi a riguardare le cose del mondo lasciate dietro le sue spalle.

§ 437. Trasferitosi in Giudea, Gesù inviò nuovamente in missione particolare i suoi cooperatori, come aveva già fatto in Galilea (§ 352). Essendo cresciuti i cooperatori, questa volta gli inviati furono ben più numerosi: settantadue, o settanta, a seconda dei codici; è ben probabile che fra i nuovi inviati fossero inclusi, tutti o in parte, i dodici già inviati l'altra volta. Le norme e gli scopi della nuova missione furono sostanzialmente gli stessi di quella precedente; la sua zona d'azione dovette essere la Giudea e forse anche la Transgiordania, - senza però che ci siano fornite notizie precise in proposito: neppure siamo in grado di dire quanto tempo durasse questo nuovo giro d'evangelizzazione, ma sembra che non si protraesse oltre una venti­na di giorni. Al loro ritorno gl'inviati erano giubilanti. Riunitisi appresso a Gesù, gli riferirono con fierezza che perfino i demonii si erano assoggettati a loro nel nome di lui. Gesù si associò alla loro gioia, asserendo di aver visto Satana caduto dal cielo come folgore, e confermò ad essi per l'avvenire l'impero sulle potenze avverse; ma insieme li ammonì che la loro vera gioia doveva esser causata non dall'impero sugli spiriti del male, ma dal fatto che i loro nomi erano stati scritti nel cielo. Il bel successo ottenuto dai discepoli nel propagare il regno di Dio produce in Gesù una gioia più ampia ed elevata. Innalza egli il pensiero al suo Padre celeste, ne contempla i piani dell'umana sal­vezza e rileva che nell'attuare quei piani sono impiegati i mezzi uma­namente meno opportuni, gli uomini meno pregiati ed appariscenti: il suo spirito erompe allora in un ringraziamento tripudiante al Padre celeste.
In quella stessa ora esultò (egli) nello Spirito santo e disse: Rendo laude a te, Padre, Signore del cielo e della terra, perché celasti queste cose a sapienti e intelligenti, e le rivelasti a pargoli! Si, Padre, perché così fu beneplacito al tuo cospetto! - Tutte le cose a me furono consegnate dal Padre mio: e nessuno conosce chi e' il Figlio se non il Padre, e chi e' il Padre se non il Figlio e a chi voglia il Figlio rivelare. Rivolto infine ai discepoli li proclamò beati perché còntemplavano e udivano cose che invano avevano desiderato di con­templare e udire antichi profeti. Questa “esultanza” di Gesù è riferita concordemente da due Sinot­tici (Luca, 10, 21-22; Matteo, 11, 25-27); eppure, a sentirla leggere senza conoscere la provenienza, si concluderebbe fiduciosamente che essa proviene dal vangelo di Giovanni, tante sono le sue analogie di pensiero e di espressione col IV vangelo: il quale invece non contiene nulla di questo tratto. Siffatte analogie sono state sufficienti agli studiosi prevenuti per concludere, ad onta dell'attestazione concorde degli antichi documenti, che il tratto è aggiunto posteriormente o almeno ampiamente interpolato.
Gli studiosi non prevenuti, e che si riportano alle origini storiche dei quattro vangeli, vedranno in questo tratto un documento genuino dell'insegnamento di Gesù, pur rammentandosi che di quell'ampio insegnamento i Sinottici hanno ordinariamente preferito certe parti più accessibili e piane, mentre Giovanni è andato apposta in cerca delle parti più elevate ed ardue tralasciate da quelli (§ § 165, 169); tuttavia l'ordinaria preferenza dei Sinottici riceve un'eccezione appunto qui, ove essi trasmettono ciò che Giovanni tralascerà. Ma rimane sempre fermo che Sinottici e Giovanni si riportano egualmente al Gesù storico.


[SM=g27998] Il buon samaritano

§ 438. Durante questo peregrinare nella Giudea, probabilmente poco dopo il ritorno dei settantadue discepoli, Gesù fu avvicinato da un dottore della Legge che voleva farsi un'idea chiara del pensiero di Gesù su alcuni punti fondamentali: se ne dicevano tante sul conto di quel Rabbi galileo, che il dottore volle rendersi conto della realtà e metterlo alla prova. Lo interrogò quindi con semplicità: Maestro, che cosa devo fare per ottenere la vita eterna? Gesù gradì l'interrogazione, e volle con opportune sollecitazioni far rispondere allo stesso interrogante, come già aveva usato far Socrate. Gli chiese quindi: Nella Legge che cosa sta scritto? Come (vi) leggi? Quello rispose che vi stava scritto d'amare Iddio con tutte le proprie forze e il prossimo come se stesso. L'amor di Dio era appunto il pri­mo e più solenne precetto che ogni fedele Israelita ricordava a se stesso recitando quotidianamente lo She’ma (§ 66), e Gesù, da fedele israelita, approvò pienamente la risposta: Rispondesti rettamente. Fa' ciò, e vivrai! enonché in nessun passo della Legge si trovano uniti insieme i due precetti dell'amore di Dio e del prossimo, e sembra che anche i rab­bini di quel tempo non usassero unirli insieme; ad ogni modo restava l'incertezza del terrnine prossimo, che non si sapeva bene a chi do­veva riferirsi, se ai soli parenti o amici, oppure anche a tutti i con­nazionali e correligionari, ovvero nella più esorbitante delle ipotesi perfino ai nemici, agli alienigeni, agli incirconcisi, agli idolatri (§ 327, nota seconda).
Di tutta questa gente chi era il vero prossimo per un Israelita? Possibile che fosse un reca ognuno di essi senza di­scriminazione? Il dottore volle mostrare di non aver parlato alla leg­giera, giacché aveva mirato appunto all'ultima questione; perciò egli, volendo giustificare se stesso, disse a Gesu': E chi e' il mio prossimo? Gesu' gli rispose con una parabola. Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico; e s'imbatté in ladroni i quali spogliatolo e carica to(lo) di percosse se n'andarono, lasciandolo mezzo morto. L'odierna strada da Gerusalemme a Gerico è di 37 chilometri, ma anticamente era un poco piu' breve perché l'ultimo suo tratto oggi è stato allungato per comodità del traffico; quell'uo­mo scendeva da Gerusalemme a Gerico, perché la strada è quasi tutta in discesa essendovi fra le due città un dislivello di circa 1000 metri. Circa dall'80 chilometro fin quasi alle porte di Gerico la stra­da si svolge in luoghi assolutamente deserti, montagnosi, e spesso im­pervii; perciò in tutti i tempi è stata infestata da ladroni, essendo praticamente impossibile snidarli dai rifugi segreti disseminati ai fianchi della strada ed avendo essi ogni comodità di allontanarsi e scomparire dopo qualche misfatto. Oggi sono stati moltiplicati lun­go la strada i corpi di guardia della polizia; ai tempi dei Bizantini e dei Crociati serviva da corpo di guardia il Khan Hathrur, massic­cia costruzione situata al 19° chilometro, che mentre proteggeva da rapine i viandanti poteva offrir loro anche un ricovero per la notte. La strada infatti, benché cosi malsicura, era frequentatissima, essendo l'unica che metteva la capitale Gerusalemme e buona parte della Giudea in comunicazione con l'ubertosa e popolosa pianura di Ge­rico e più in là ancora con la Transgiordania.

§ 439. Il malcapitato, dunque, giace sulla strada ammaccato di per­cosse, stordito, e non può in nessun modo tirarsi fuori da quelle con­dizioni se qualche pietoso non viene in suo soccorso. Ora per caso un sacerdote scendeva per quella strada, e veduto quello passò di lungo. Similmente poi anche un Levita, venuto sul posto e veduto (quello), passò di lungo. La parabola evidentemente suppone che ambedue, il sacerdote e il Levita, avessero terminato la loro muta di servizio al Tempio (§ 54), e quindi tornassero alle loro case situate a Gerico o giù di lì. Dopo questi due, passa un terzo viandante. Ma un Samaritano, essendo in viaggio, venne presso di quello, e veduto (lo) si commosse; e avvicinatosi lasciò le ferite di lui versandovi sopra olio e vino; fattolo poi salire sul giumento (suo) proprio, lo condusse alla locanda ed ebbe cura di lui. E la dimane, messi fuori due denari, (li) dette al locandiere e disse: “Abbi cura di lui) e ciò che (tu) abbia speso in più io al mio ritorno ti renderò”. Il Samaritano era forse un mercante che andava per acquisti nel distretto di Gerico, e di li a poco sarebbe ritornato facendo il cammino inverso; era anche be­nestante, perché viaggiava su un giumento suo proprio. La pietà ch'egli senti subito per l'infelice l'indusse a curano come meglio po­teva in quella solitudine: applicò quindi alle ferite i medicinali del tempo, ossia l'olio emolliente e il vino disinfettante, e le fasciò con bende improvvisate; caricò poi di peso sul giumento quell'uomo inerte e imbambolato, e sostenendolo di fianco come meglio poteva lungo il tragitto lo portò fino alla locanda.
Questo ricovero era certamente il caravanserraglio (§ 242) di quella strada; forse era situato sul posto dell'odierno Khan Hathrur, che una vecchia denominazione chiama anche « Castel del sangue », dal color rosso che le rocce ferrigne hanno in quel luogo, ma che spontaneamente fu applicato al sangue abitualmente sparso lungo la strada: di qui anche l'altra denominazione usuale di “Al­bergo del buon Samaritano”. I due denari d'argento, equivalenti a un po più di due lire in oro, erano una scorta sufficiente per prov­vedere a vari giorni di cura: del resto, se la scorta non fosse bastata, il Samaritano aveva promesso al locandiere di rimborsarlo del di più.

§ 440. La parabola era finita. Siccome il dottore aveva richiesto di sapere chi fosse il suo prossimo, cosi Gesù concluse la parabola pro­vocando la risposta dal dottore stesso: Chi di questi tre ti sembra che sia stato (il) prossimo di colui che s'era imbattuto nei ladronì? Il dottore naturalmente rispose: Quello che usò misericordia con lui. E allora Gesù: Va', anche tu fa' lo stesso! Si noterà l'apparente discrepanza fra la domanda del dottore (chi e' il mio prossimo?) e la risposta di Gesù (anche tu fa' lo stesso!); è una discrepanza di pura forma. Il dottore rimane nel campo delle idee: Gesu' scende nel campo dei fatti, perché le più belle idee parole se non diventano fatti della vita; la vita e' il paragone delle parole, e le parole più belle diventano efficaci solo quando siano precedute e seguite da una vita di disinteresse e di sacrificio. E perciò al dottore che vuol sapere chi é il prossimo, Gesù mostra chi agisce da prossimo e aggiunge l'esortazione ad imitare costui. Nel caso della parabola, il prossimo del ferito erano ufficialmente più d'ogni altro il sacerdote e il Levita: ottima idea, pessimo risulta­to. In nessun modo era ufficialmente prossimo del ferito il Samaritano: pessima idea, ottimo risultato.
I due ministri della religione nazionale non sentono il minimo palpito di pietà per il loro conna­zionale boccheggiante: lo straniero ed esecrato Samaritano fa per quell’infelice avrebbe fatto per suo padre e sua madre. Dei tre, solo il Samaritano agisce da prossimo, pur non essendo ufficialmente “prossimo”; dunque qualsiasi uomo, di qualsiasi razza e fede, può essere prossimo perché può agire da prossimo.
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06/08/2012 18:44

[IMG]http://im1.freeforumzone.it/up/17/71/816421599.gif[/IMG]Marta e Maria. Il « Pater noster » Parabole sulla preghiera

§ 441. Durante la sua peregrinazione Gesù giunse alle immediate vicinanze di Gerusalemme; entrato in un villaggio, che Luca non no­mina, fu ospitato da due sorelle di nome Marta e Maria. Sono le so­relle di Lazaro, delle quali parla anche Giovanni (11, I segg.), e per­ciò l'innominato villaggio deve essere Bethania; con l'insieme della narrazione concorda anche la situazione di Bethania che è sulla strada pericolosa da Gerusalemme a Gerico, e quindi, se la parabola del buon Samaritano fu recitata poco prima dell'arrivo a Bethania, occasione alla parabola fu fomita dai luoghi stessi ove Gesù era di passaggio.
Nella casa ospitale, certamente già nota a Gesù, chi appare gover­nante è Marta, probabilmente la più anziana delle due sorelle ch'era­no forse orfane: e non per nulla si chiama Marta (in aramaico “si­gnora”), giacché ella provvede a tutto, dispone tutto, per fare degna accoglienza all'ospite e amico venerato. Il fratello Lazaro non figura affatto in questo episodio e non è neppur nominato; era egli forse appartato e già in preda a quella malattia che pochi mesi più tardi l'avrebbe condotto alla sua quatriduana dimora nella tomba (§ 489)? Non è impossibile, ma non sappiamo nulla di preciso. Quanto a Maria, ella sfrutta l'incessante operosità di sua sorella per starsene tranquillamente vicino a Gesù; dal momento che la brava Marta bada a tutto, la sorella minore ha agio d'ascoltare dalla bocca di Gesù quelle parole che trascinano folle e tramutano cuori. Marta va e viene affaccendata, passando per la stanza dei due, e cerca di raccogliere anch'essa talune delle parole di Gesù: ma la spigolatura è scarsa, perché sono molte le faccende domestiche; cosicché ad un certo punto un'amorevole invidiuzza - o meglio emulazione - verso la sorella, nonché una certa dimestichezza con l'amico di casa Gesù, la rendono ardita ad accenti di confidenza; fattasi dappresso disse: Signore, non t'importa che mia sorella mi abbia lasciata sola a ser­vire? Dille dunque che s'unisca ad aiutarmi!

In altre parole Marta, solerte massaia e devota ammiratrice di Gesù, fa notare che, sbri­gando più presto in due le faccende domestiche, le sorelle unite in­sieme potranno più tranquillamente godere della parola del maestro. Senonché Gesù, con confidenza eguale ma animata da un'idea ben più alta, le risponde: Marta, Marta! Ti preoccupi ed agiti per molte cose, mentre di poche c'e' bisogno o d'una sola. Maria, in realtà, si scelse la porzione buona, la quale non le sarà tolta. Erano infatti molte le cose materiali a cui badava la buona Marta, ma queste molte si potevano ridurre a poche, data la frugalità di Gesù e dei suoi discepoli presenti; e anche queste poche cose mate­riali erano trascurabili davanti a quell'una sola, ma spirituale, a cui convergeva tutta l'operosità di Gesù. Non aveva egli ammonito, nel Discorso della montagna, di cercare in primo luogo il regno di Dio con la certezza che esso avrebbe portato con sé per soprappiù tutto il resto? Quella era la porzione buona che Maria si era scelta.

§ 442. Subito dopo l'episodio di Bethania, Luca colloca l'insegnamento del Pater noster, che Matteo invece ha già riportato nel Di­scorso della montagna.
La collocazione di Luca, come già rilevammo (§ 371), sembra più a suo posto storicamente, perché ha la seguente introduzione che dà ragione dell'insegnamento. E avvenne che, men­tre egli era in un certo luogo pregando, appena terminò, uno dei suoi discepoli gli disse:”Signore, insegnaci a pregare, come pure Giovanni (il Battista) insegnò ai discepoli suoi”. Disse quindi loro:” Quando preghiate, dite: Padre, ecc.”. Ma fu questa veramente la prima volta che Gesù insegnò a pregare ai suoi discepoli? Se si ri­sponde in maniera affermativa resta da spiegare come mai Gesù, dopo tante norme di formazione spirituale impartite a quei suoi pre­diletti, non avesse mai toccato questo punto così importante rele­gandolo agli ultimi mesi di sua vita.
Ovvero questa volta Gesù tornò sopra a un argomento già trattato, spiegandolo e confermandolo sem­pre meglio? Ciò sembra più verosimile; e allora le collocazioni sia di Luca che di Matteo avrebbero ciascuna la sua parte di ra­gione. Se pertanto questo rinnovato insegnamento del Pater noster avvenne poco dopo l'episodio di Bethania, è anche naturale che avvenisse nei pressi di Bethania. Nel secolo IV si additava il vicino monte degli Olivi come luogo ove Gesù ammaestrò i discepoli, ma solo verso il secolo IX si hanno le prime affermazioni che ivi fosse insegnato il Pater noster. Nell'anno 1345 Nicolò da Poggibonsi scriveva: ... Vai a monte Uliveto; e a parte destra, sopra la via, si e' un muro, insu una chiesa, ma ora si e' guasta, che non c'e' se non l'amattonato. Di sotto si c’è una cisterna, e al ponente, in sul muro, si c'e' una grande pietra, nella quale si vedea scritto tutto il Paternostro. E ivi il nobile Jesu' Cristo fece il Paternostro, e diello agli Apostoli (Libro d'Oltra­mare, I, pag. 165). Oggi, nella rinnovata chiesa dell'Eleona, presso la vetta del monte degli Olivi, la prima preghiera cristiana è parimente scolpita in lingue d'ogni stirpe umana.

§ 443. Insegnata la formula, Gesù continuò l'insegnamento sulla preghiera illustrandone particolarmente le principali qualità, che erano la tenacia e la fiducia. La preghiera, secondo Gesù, doveva essere tanto insistente e tenace, da sembrare quasi petulante: la norma infatti viene illustrata con una breve parabola, che è un bell'esem­pio di petulanza palestinese. In un villaggio qualsiasi vi sono due amici, uno dei quali a notte inoltrata riceve la visita d'un suo conoscente che è in viaggio e desi­dera alloggiare quella notte presso di lui. Un giaciglio si fa presto a prepararglielo; ma il viandante ha pure fame, e come si fa a ser­virlo se tutto il pane disponibile in casa è stato consumato nella cena di quella sera? Non resta che andare a chiederne in prestito; ma dove andare, che l'ora è tarda e tutti dormono? Non c'è da tentare cbe presso l'amico; è già mezzanotte, ma avrà pazienza e farà questo fa­vore. Difatti l'amico ospitante va all'uscio dell'altro e comincia a bussare a distesa: Ebi! Ehi! Prestami tre pani. E’ capitato da me un conoscente in viaggio, e non ho che mettergli davanti? - Quello di dentro, risvegliato bruscamente, pensa ch'è un'indiscrezione bell'e buona: Non mi dar seccature! La porta e' già inchiavata, e i miei figlioli stanno con me a letto! Non posso alzarmi!...
Ma se quello di fuori non si lascerà disanimare dalla prima ripulsa, e seguirà inve­ce a bussare e strepitare, quello di dentro alla fine cederà, se non in forza dell'amicizia, certo in forza della seccatura. E Gesù concluse: Anch'io dico a voi: “Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto. Ognuno infatti che chiede riceve, e che cer­ca trova, e che bussa gli sarà aperto”. Ciò valeva per la tenacia della preghiera. Ma da quale considerazione morale doveva essere alimentata quella tenacia? Donde proveniva la fiducia d'esser esauditi? Anche questo punto fu illustrato da Gesù con brevi esempi pratici. A chi di voi, essendo padre, il figlio domanderà un pane, gli darà forse un sasso? oppure anche un pesce, forse invece d'un pesce gli darà un serpente? oppure chiederà un uo­vo, gli darà uno scorpione? (Luca, 11, 11-12). (Infatti i grossi scor­pioni palestinesi hanno il ventre ovale e biancastro, cosicché, visti rovesciati, dànno l'impressione d'un uovo). In questo modo, dunque, si comportano i padri terreni; ciò offre il terminus a minori alla com­parazione che fa Gesù, il quale prosegue: Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare doni buoni ai vostri figli, quanto più il Padre vostro, quello nei cieli, darà cose buone a quei che lo pregano? (Matteo, 7, 11).


[SM=g27998] Guarigione di un indemoniato e calunnie dei Farisei. Più beati della Madre di Gesù. Il segno di Giona

§ 444. Alle istruzioni sulla preghiera Luca fa seguire la guarigione di un indemoniato muto (Luca, 11, 14 segg.). La stessa narrazione si ritrova in Matteo (12, 22 segg.), ove però l'indemoniato è anche cieco oltreché muto (cfr. S. Agostino, De cons. evangelist., II 37); inoltre la discussione con i Farisei che seguì alla guarigione si ritro­va in Marco (3, 22 segg.), ov'è collocata in mezzo alla visita dei pa­renti di Gesù (§ 345). La collocazione di Luca, che mette guarigione e discussione durante questa permanenza nella Giudea è da preferirsi a quella degli altri due Sinottici che l'anticipano. Gesù dunque, a cui era stato presentato un indemoniato muto (oltre­ché cieco), lo guarì pubblicamente. Al fatto si trovarono presenti alcuni Scribi giunti da Gerusalemme e alcuni Farisei, i quali non ne­garono la guarigione ma la spiegarono affermando che Gesù coman­dava ai demonii perché egli stesso se la intendeva col principe dei de­monii Beelzebul, e con l'autorità di costui agiva. Il nome di questo principe era stato anticamente Ba’ al zebub, “Baal (dio) delle mo­sche”, e aveva designato una divinità filistea di Accaron (cfr. II[Iv] Re, 1, 2 segg.); più tardi, invece, designò l'oggetto dell'idolatria in genere, e allora il nome con leggiera mutazione fu cambiato in Ba' al zebul, “Baal del letame”, per allusione dispregiativa agli idoli ed alloro culto. Gesù, pertanto, sarebbe stato in amichevoli relazioni con questo principe. All'ingiuria degli Scribi e dei Farisei Gesù rispose nella maniera meno gradita ad essi, cioè invitandoli ad un sereno ragionamento. Riferendosi pertanto all'angelologia del giudaismo contemporaneo (§ 78), Gesù fece osservare che il regno di Satana era un regno gerarchicamente costituito e ben compatto, mentre se fosse stato diviso in se stesso sarebbe caduto in rovina.
Come dunque voi, Scribi e Farisei, potete affermare che io scaccio Satana nel nome di Satana? In tal caso il suo regno sarebbe diviso e cadrebbe in rovina. Del resto anche voi, Scribi e Farisei, avete i vostri esorcisti; ebbene, do­mandate ad essi se è possibile scacciare Satana in nome di Satana, ed essi vi giudicheranno nella vostra calunnia contro di me. Se poi scaccio i demonii nel nome di Dio, e li scaccio io personalmente con tanta facilità e li fo anche scacciare dai miei discepoli, tutto ciò dimostra che qualcosa di straordinario si compie in mezzo a voi, cioè che e' giunto su voi il regno d'iddio. Ma voi non vedete tutto ciò perché non volete vedere, e davanti al fulgore della luce chiudete ostinatamente gli occhi; il che significa peccare direttamente contro lo Spirito santo fonte di luce per voi, significa sbarrare le strade di salvezza appianatevi da Dio e frustrare i suoi disegni. Badate però che ogni peccato e bestemmia sarà rimessa agli uomini, ma la bestem­mia dello Spirito non sarà rimessa; e chi dica parola contro il figlio dell'uomo gli sarà rimessa, ma chi (la) dica contro lo Spirito santo non gli sarà rimessa né in questo secolo né in quello venturo. Rimane in oscurità eterna chi non vuole disserrare gli occhi dell'anima alla luce dello Spirito; e non basta disserrarli momentaneamente ma è necessario tenerli sempre aperti, perché Satana espulso una volta torna all'assalto del suo antico dominio.

§ 445. A questa discussione erano presenti anche persone favorevoli a Gesù; ed ecco d'in mezzo ad esse levarsi una voce di donna che grida a Gesù: Beato il ventre che ti portò, e le mammelle che succhiasti! La felicitazione, squisitamente femminile, è riportata dal solo Luca (§ 144). Gesù accolse la felicitazione, ma nello stesso tempo la sublimò rispondendo: Ancor più beati quelli che ascoltano la parola d'iddio e (la) custodiscono. Una risposta sostanzialmente eguale Gesù aveva già data a coloro che gli annunziavano esser giunti i suoi parenti e sua madre per parlargli (§ 345).

§ 446 E la discussione, dopo il grido della donna, riprese. Alcuni Scribi e Farisei, mostrando quasi una certa condiscendenza, si di­chiararono disposti a riconoscere la missione di Gesù: ma natural­mente ci volevano le prove, i “segni”, e questi non potevano essere i miracoli operati fino allora da Gesù; ci voleva invece un “segno” di tipo rabbinico, di quelli fatti a tempo e luogo prestabiliti, quasi a tocco di bacchetta magica, e meglio ancora se fosse stato un “se­gno” meteorologico calato dal cielo. Era in sostanza la richiesta fat­ta poco prima a Gesù da altri Farisei (§ 392). Anche questa volta la richiesta è respinta da Gesù, il quale però ag­giunge talune dichiarazioni: Una generazione perversa e adultera ricerca un segno, e un segno non le sarà dato se non il segno di Giova il profeta. Poiché, come Giona era nel ventre del cetaceo tre giorni e tre notti, cosi sarà il figlio dell'uomo nel cuor della terra tre giorni e tre notti.
L'espressione giorno e notte designava nell'uso rab­binico il complesso di 24 ore, fosse questo complesso intero o soltanto frazionario; perciò qui Gesù annunzia che il figlio dell'uomo sarà nel cuor della terra durante tre complessi di 24 ore, interi o fraziona­ri; e poi ne risalirà fuori come Giona dal suo cetaceo. Dal momento che i Farisei respingono gli altri segni e ne richiedono uno con parti­colari condizioni, accolgano questo segno di Giona che risponde in gran parte alle loro condizioni: esso infatti avverrà a tempo presta­bilito, cioè alla morte del figlio dell'uomo; se non calerà dal cielo aperto ove dimorano gli angeli potenti, sorgerà in compenso dall'abis­so chiuso ove dimorano i morti impotenti (§ 79); infine, non rappre­senterà un puntiglio di potenza personale perché il figlio dell'uomo avrà cessato allora le sue presenti contese e si troverà nel cuor della terra, ma in compenso il segno rappresenterà il trionfo di un'idea come il fatto di Giona rappresentò il trionfo della “penitenza” presso gli abitanti di Ninive. Uomini Niniviti sorgeranno nel (giorno del) giudizio con questa generazione e la condanneranno, perché fe­cero penitenza alla predicazione di Giona: ed ecco, più che Giona è qui. Lo stesso farà in quel giorno la regina di Saba, venuta dalle estremità della terra ad ammirare la sapienza di Salomone (I [III] Re, 10,1 segg.): ed ecco, più che Salomone e' qui. L'allusione al triplice “giorno e notte” da passare nel cuore della terra fu capita bene dai Farisei. Appena morto Gesù, essi correranno da Pilato raccomandandosi che provveda in tempo, giacché essi in quell'occasione si ricordano che quell’imbroglione (cioè Gesù) disse essendo ancora vivo: “Dopo tre giorni risorgo” (§ 619). Cosicché anche il segno di Giona, rispondente in gran parte alle condizioni da loro poste, verrà da loro respinto: essi si raccomanderanno a Pilato per paura che il nuovo Giona risalga dal cuor della terra, per paura che la loro cecità sia illuminata, e per paura che essi non possano ancora bestemmiare lo Spirito santo.
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06/08/2012 18:48


[IMG]http://www.cattolicesimo.com/Apologetica/vitaCristo/img/ges%C3%B9pranzofariseo.jpg[/IMG] Gesù a pranzo da un fariseo. Invettive e ammonizioni

§ 447. Evidentemente il dissidio tra i Farisei e Gesù diventava sem­pre più grave e profondo. I primi non perdonavano a Gesù la sua indipendenza dal formalismo legale, la quale egli in mille occasioni proclamava con le parole e dimostrava con i miracoli. Gesù, dal canto suo, non cessava dal redarguire con le parole più severe la vacuità spirituale ricoperta dal formalismo farisaico, l'ostinazione pervicace di quegli uomini della Legge e la loro orgogliosa tracotan­za: egli inoltre mostrava di aver sentito intimamente l'ingiuria da es­si rivoltagli, allorché lo avevano designato come amico e ministro di Beelzebul. Tuttavia, poco dopo i fatti precedenti, un Fariseo invitò Gesù a pran­zo: non sappiamo se facesse ciò mosso da una certa simpatia per il discusso Rabbi oppure dal desiderio d'implicarlo in questioni insi­diose, ad ogni modo nessuno più di un Fariseo era abile nel salvare le apparenze e nel distingnere la teoria dalla pratica. Gesù accettò l'invito, ed entrato nella camera da pranzo si adagiò senz'altro sul suo divano in attesa delle vivande. Questa maniera di comportarsi era una mancanza farisaicamente assai grave: Gesù veniva dalla strada e dal contatto con la folla, e osava prender cibo senza prima aver praticato le accurate lavande di pre­scrizione? Il Fariseo ospitante ne rimase disgustato; in cuor suo egli pensò che il suo ospite, invece d'un autorevole rabbi, non era che uno di quei “tangheri” a cui Giuda il Santo non avrebbe dato un tozzo di pane neppure se l'avesse visto morir di fame (§ 40): e invece il Fariseo ospitante aveva commesso la dabbenaggine d'in­vitarlo a pranzo. I sentimenti interni del Fariseo gli si leggevano sul viso: Gesù li lesse, e ne segui una serrata disputa. Disse Gesù: Voi dunque, Farisei, mondate l'esterno della coppa e del piatto, ma il Vostro interno e' ripieno di rapina e malvagità! Stol­ti! Forseché chi fece l'esterno non fece anche l'interno? Piuttosto date in elemosina le cose contenute (in quei recipienti), ed ecco che tutto diventerà per voi puro! - Ma guai a voi, Farisei, perché pagate la decima della menta e della ruta e d'ogni legume, e trasgredite l'(equità nel) giudizio e l'amore di Dio! Invece, queste cose bisognava fare e quelle non tralasciare. - Guai a voi, Farisei, perché amate il primo seggio nelle sinagoghe (§ 63) e i saluti nelle piazze! - Guai a voi, perché siete come i sepolcri invisibili, e gli uo­mini che (ci) camminano sopra non (li) sanno! E’ ben lecito supporre che, alle prime note di questa musica, il pranzo finisse li' e che le in­vettive sostituissero le vivande.
Il Fariseo ospitante e i suoi soci di “colleganza” (§ 39) avranno risposto come meglio potevano; ma as­sistevano a quel pranzo anche taluni maestri di Legge (§ 41), i quali si sentirono chiamati in causa almeno implicitamente, tanto che uno di essi replicò risentito: Maestro, dicendo ciò insulti anche noi! Ma anche egli e i suoi colleghi ebbero la loro parte, giacché l'indomabile Rabbi riprese: E anche a voi legisti, guai! Perché caricate gli uomi­ni di carichi mal sopportabili, e voi con un solo dei vostri diti non toccate quei carichi! - Guai a voi, perché costruite i sepolcri dei profeti, mentre i vostri padri li hanno uccisi! Dunque siete testimoni e consentite alle opere dei vostri padri, perché essi li hanno uccisi e voi costruite. .. Guai a voi, legisti, perché toglieste la chiave della scienza, (ma) voi non entraste ed impediste coloro ch'entravano! (Luca, lì, 39-52).

§ 448. In queste invettive Gesù ha di mira la pratica e non la teo­ria, la generalità e non i singoli. In teoria i rabbini, almeno dopo l'Era Volgare, insegnarono più d'una volta che la dottrina doveva esser congiunta con l'esempio personale, e che era cosa riprovevole esser più severo con gli altri che con se stesso ; quanto alla pratica, lo storico prudente non ha che da rimettersi al giudizio degli stessi in­teressati, cioè al riportato passo del Talmud che descrive i sette tipi diversi di Farisei (§ 38). Non tutti e singoli i Farisei e gli Scribi meri­tavano queste invettive, senza dubbio; ma Gesù s'indirizza, non ai singoli, ma alla generalità, e questa le meritava senza dubbio. Se poi Gesù rinfaccia loro di costruire i sepolcri ai profeti, non è per rim­proverarli dell'opera in sé pia: è piuttosto perché la pietà si limitava all'opera materiale, mentre spiritualmente quei che costruivano sepolcri ai profeti continuavano con la loro condotta morale l'opera dei padri loro che avevano ucciso gli stessi profeti: i figli, mentre confessavano d'aver nelle loro vene il sangue dei padri, mostravano con i fatti di averne ereditato anche lo spirito (cfr. Matteo, 23, 29 segg.). In particolare i legisti e gli Scribi si erano arrogati il mono­polio della Legge mosaica, e di questa torre d'avorio pretendevano di possedere essi soli la chiave: ma era una chiave monca e ruggi­nosa, che poteva aprire a mala pena gli accessi esterni di quella tor­re i quali si chiamavano “lettera morta”, mentre né ai possessori della chiave né ad altri essa permetteva d'inoltrarsi fino ai penetrali interni i quali si chiamavano “carità viva”. Il risultato di quel battagliero pranzo fu quale ci potevamo facilmen­te attendere. Uscito egli (Gesù) di là, gli Scribi e i Farisei comincia­rono ad essere terribilmente indignati (contro di lui) e ad assillano di questioni su molti punti, tra­mandogli insidie per cogliere alcunché dalla sua bocca. L'antica lot­ta, dunque, diveniva sempre più serrata, e tutto lasciava prevedere una conclusione prossima.

§ 449. Da quanto era avvenuto Gesù trasse argomento per impartire avvisi ai suoi seguaci. La folla, in questa congiuntura di tempo, si era moltiplicata al punto da esserne in pericolo l'incolumità perso­nale degli accorsi (Luca, 12, 1): e qui Luca fa pronunziare a Gesù un discorso i cui elementi si ritrovano quasi tutti in Matteo ma spar­pagliati. - Si guardino i suoi discepoli dal fermento dei Farisei, ch'è ipocrisia (§ 393). Nessun discepolo è dappiù del proprio maestro; se dunque Gesù è stato chiamato Beelzebul (§ 444), i suoi discepoli non dovranno aspettarsi un trattamento migliore (Matteo, 10, 25). Essi tuttavia parlino con tutta apertura e franchezza: non v'è nulla di occulto che non debba esser rivelato, e ciò ch'essi hanno udito in se­greto lo palesino dall'alto dei tetti. Non temano essi di coloro che possono soltanto uccidere il corpo ma non l'anima; temano invece di colui che può mandare in rovina corpo e anima nella Geenna.
Non si preoccupino della propria esistenza, ma si affidino alle predi­sposizioni del Padre celeste che sorveglia su ogni cosa; i passeri dei campi valgono un'inezia, perché se ne comprano cinque per due assi (13 centesimi), eppure nessuna di quelle bestiole è dimenticata da Dio: stiano dunque tranquilli i discepoli perché essi valgono assai più di molti passeri messi insieme, e perché tutti i capelli delle loro teste sono contati. Chiunque pertanto confesserà davanti agli uomini il figlio dell'uomo, costui lo confesserà davanti al Padre celeste e agli angeli di Dio, ma chiunque lo rinnegherà sarà da lui rinnegato. Nè si preoccupino i discepoli della propria difesa oratoria quando sa­ranno citati al giudizio delle sinagoghe e dei vari tribunali, perché lo Spirito santo insegnerà loro in quel momento ciò che dovranno dire per difendersi. Anche in quest'ultima norma Gesù si mostra capovolgitore (§ 318). Preoccupazioni di difesa oratoria non aveva avute neppure Socrate, quando si presentò al tribunale per uscirne condannato a morte: Le cose infatti stanno così. Io adesso per la prima volta sono salito in tribunale, all'età di settanta anni; sono quindi imperito e straniero al parlare di qui (Apologia di Socrate, 1). Il filosofo ateniese parlò con sincerità perfetta, con franchezza assoluta; rna il suo discorso -almeno nella forma pervenutaci - è disposto secondo tutte le norme classiche dell'oratoria forense, con esordio, proporzione, confutazione delle accuse, perorazione e controproposta di pena. Né egli parlò in virtù di altri, ma in virtù sua propria; parlò egli Socrate, non già il suo abituale (§ 194).
Quel suo arcano genio ispiratore, mentre in altre occasioni gli si era opposto internamente affinché non operasse alcunché di inopportuno, in quella mattina del giudizio non intervenne in nessuna maniera: A me infatti, o uomini giudici, - e chiamandovi giudici intendo chiamarvi esattamente - e' accaduto alcunché di meraviglioso. Infatti l'ispirazione a me abituale era sempre assai frequente in tutto il tempo passato e si opponeva anche in cose assai minute, se io fossi stato per operare a­cunché non rettamente. Adesso invece... il segno del Dio non mi si oppose né all'uscire stamane di casa, nè quando salivo qui in tribu­nale, nè in alcun punto del discorso quando stavo per dire alcunchè; eppure in altri discorsi mi trattenne a mezzo in molti punti mentre parlavo: adesso invece non mi si e' opposto giammai in tutto ciò che ho fatto o detto in questo negozio (Apologia, 31). Nei seguaci di Ge­sù avverrà un fenomeno ben più importante di quello di Socrate. In essi lo Spirito non agirà solo negativamente, come il socra­tico che impediva il non retto ma non suggeriva il retto; invece lo Spirito stesso suggerirà le parole di difesa e porrà un'efficace apolo­gia in bocca ai calunniati. I quali perciò potranno e dovranno tra­scurare l'oratoria forense.

Questioni finanziarie. La suprema aspettativa

§ 450. Un giorno, durante questo vago peregrinare di Gesù, un tale si presentò a lui pregandolo che interponesse la sua autorità in una questione finanziaria: Maestro, dì a mio fratello di spartire con me l'eredità (Luca, 12, 13). Assai imprudentemente siffatto invito era n­volto a colui che nel Discorso della montagna aveva contrapposto nettamente Dio e Mammona (§ 331); la risposta adeguata non po­teva essere che una esortazione di lasciare l'intero Mammona a chi lo deteneva e di passar totalmente alla parte di Dio. Gesù invece dette una risposta inadeguata, non entrando neppure nell'argomento dell'invito: O uomo, chi mi costituì giudice o spartitore a vostro ri­guardo? Si direbbe quasi che il denaro per se stesso faccia ribrezzo a Gesù, e che egli tema imbrattarsi le mani anche maneggiandolo in servizio. Non vuoi saperne nulla. All'invito respinto seguirono considerazioni sulla fallacia dei beni materiali, illustrate da una parabola. C'era un uomo ricco, a cui un annata i campi fruttarono in misura abbondantissima. Su tutto quel raccolto egli si concentrò col pensiero, cercando modo di allo­garlo e conservarlo per bene. E cominciò a dire: Butterò giù i miei granai e ne costruirò di maggiori, e là disporrò convenientemente questa gran raccolta! - Tutto contento per questa sistemazione, passò a rallegrarsi con se stesso: Allegro, che hai l'abbondanza assicurata per molti anni! Sta' tranquillo, mangia, bevi e divertiti! - Ma ecco che improvvisamente interviene come nuovo attore di scena Dio stesso, il quale dice a quel ricco beato: Stolto, questa notte tu dovrai morire, e tutti quei tuoi beni di chi saranno? - Tale è la sorte, concluse Gesù, di chi tesoreggia per se stesso, e non e' ricco in Dio. Soggiunse poi, riannodandosi ai concetti del Discorso della montagna: Non temere, o piccolo gregge! Poiché si compiacque il vostro Padre di dare a voi il regno. Vendete le vostre sostanze e date elemosina; fatevi borse che non s'invecchiano, tesoro non manchevole nei cieli!... (§ 330) (Luca, 12, 32-33).
E’ comunismo tutto ciò? E’ assai più che comunismo, perché è altruismo della carità; è precisamente quell'altruismo totale ed asso­luto, che per un principio sovrumano provvede materialmente agli altri fino a trascurare se stesso: vendete le vostre sostanze e date ele­mosina. D'altra parte il comunismo odierno, nella sua intima essen­za, non ha neppur l'ombra della dottrina di Gesù, perché non cono­sce affatto le borse che non s'invecchiano e il tesoro non manchevole nei cieli: gli manca cioè la suprema aspettativa.

§ 451. Su questa aspettativa infatti tornò di lì a poco Gesù, come sulla più profonda base di tutti i suoi insegnamenti. Perché rinunzia­re alle ricchezze? Perché confidare solo nel tesoro dei cieli? Perché considerare tutto il mondo presente come un'ombra fugace? A que­ste domande rispose Gesù ammonendo: Siano i vostri fianchi recinti e le lucerne accese (tale era la tenuta notturna dei famigli pronti a servire), e voi (siate) simili ad uomini: aspettanti il loro signore quando torni dalle nozze, affinché venuto che sia e bussato che abbia subito gli aprano. Il padrone era partito avvertendo la servitù che sarebbe andato ad una festa di nozze, e perciò il suo ritorno non poteva essere che a notte assai inoltrata (§ 281); ma i premurosi servi vogliono ch'egli non attenda alla porta neppure un istante, ed essi passano le ore notturne vegliando con i fianchi recinti e le lucerne accese e con l'orecchio teso all'arrivo di lui. Beati quei servi che il signore venuto troverà veglianti! Commos­so da tanta cura, quel buon padrone si cingerà egli stesso i fianchi, li farà adagiare a mensa e li servirà: egli infatti ha già cenato alle noz­ze, ma quei bravi servi non hanno avuto tempo di prepararsi un po' di cibo per l'ansia di tenersi pronti mentre passavano in sollecita attesa la seconda e la terza vigilia della notte (§ 376). Nella stessa guisa un solerte padrone di casa fa sorvegliare tutta la notte, perché non sa in quale ora il ladro possa venire a scassinare la casa: volen­do il padrone esser sicuro, diffida di qualunque ora e durante l'intera notte mantiene la sorveglianza. Onde Gesù concluse: Anche voi siate preparati, perché in quell'ora che non credete il figlio dell'uomo viene. Qual è questa “venuta” del figlio dell'uomo?

E’ quella che mostrerà palesemente il risultato perenne e immutabile degli insegnamenti di Gesù. Aveva egli parlato della rinunzia alle ricchezze, contrapponen­do ad esse il tesoro nei cieli. Ma perché rinunziare alle ricchezze? Perché considerare il mondo presente come un'ombra fugace? Ap­punto perché si effettuerà questa “venuta” del figlio dell'uomo; la quale dissiperà l'ombra fugace e disvelerà la realtà perenne, farà sfumare le ricchezze terrene accumulate e distribuirà l'invisibile te­soro celeste, adempirà le speranze di coloro che hanno sperato in quella “venuta” e fisserà in eterno la loro sorte beata. Beati quei servi che il signore venuto troverà veglianti!.

§ 452. Pietro domandò spiegazioni a Gesù: Signore, a noi dici que­sta parabola, o anche a tutti? Egli era rimasto colpito dell'annunzio che il padrone dei premurosi servi si metterà egli stesso a servire i servi per premiarli della loro premura, e voleva sapere se questa era la sorte di alcuni privilegiati soltanto, ovvero di tutti. Gesù rispose introducendo un elemento nuovo, cioè i servi eventualmente trascu­rati e infingardi, e stabilendo una graduazione fra i doveri e le re­sponsabilità dei servi in genere. C'è un servo zelante ch'è stato desti­nato, durante l'assenza del padrone, a dispensare i viveri agli altri servi; se egli eseguirà fedelmente questa incombenza, il padrone al suo ritorno lo premierà eleggendolo amministratore di tutti i suoi averi. Se invece quel dispensiere, approfittando della prolungata as­senza del padrone, si darà a spadroneggiare egli stesso, a battere gar­zoni e ancelle, e a far orge ed ubriacarsi, il padrone al suo improv­viso ritorno lo punirà di castigo severissimo, mentre con castighi mi­nori punirà anche gli altri servi che abbiano mancato in misure mi­nori; rimane infatti il principio generico che a chiunque fu dato molto, molto sarà ricercato a lui; e a chi fu affidato molto, maggior­mente si domanderà a lui (Luca, 12, 35-48). Dunque, la « venuta » del figlio dell'uomo apporterà come elemento comune a tutti la stabilità immutabile della propria sorte, ma in questo elemento comune vi saranno differenze e graduazioni; soprat­tutto, poi, il tempo preciso della “venuta” è ignoto.

[SM=g27998] Il segno di contraddizione. Urgenza del cambiamento di mente

§ 453. Insegnamenti di questo genere rovesciano la stratificazione dei pensieri umani. Non erano le elucubrazioni dei casuisti Parisei sull'uovo fatto dalla gallina di sabbato (§ 251) e sulle sciacquature di mani e di stoviglie prima di mangiare: era un incendio che metteva tutto a soqquadro in quel mondo concettuale giudaico, e che più tardi propagherà le sue fiamme anche in altri mondi. Lo riconobbe Gesù stesso, proclamando dopo le precedenti dichiarazioni: Un fuoco venni a gettare sulla terra, e che voglio se e' già acceso? Se è un fuoco, sarà una prova attraverso cui passeran­no i seguaci di Gesù. Vi passerà anzi, per primo, Gesù stesso: Ma d'un battesimo ho da esser battezzato, e come sono angustiato fino a che sia compiuto! Il metaforico battesimo di Gesù segnerà il divam­pare palese del fuoco; ma battesimo e fuoco sono ambedue una prova, il primo per Gesù, l'altro per tutta la terra.
La prova della terra apporterà su essa, non già pace e concordia, ma guerra e discordia. Continua infatti Gesù descrivendo gli effetti della sua dottrina sulla terra: avverranno scissioni e lotte in una famiglia di cinque persone, e tre si schiereranno contro due, e due contro tre; il padre si metterà contro il figlio e viceversa, la madre contro la figlia e viceversa, la suocera contro la nuora e viceversa. Prima, tutti erano d'accordo; ma penetrato che sia in quelle cinque persone il messaggio di Gesù, è penetrata fra esse la discordia, perché alcuni lo benedicono e altri lo maledicono (Luca, 12, 49-53). Già il vecchio del Tempio, più di trenta anni prima, aveva contemplato Gesù quale segno contraddetto (§ 250): la persona di Gesù e la sua dottrina saranno il segno di contraddizione per tutto il genere umano. Anche qui lo storico odierno può facilmente riscontrare se queste idee espres­se venti secoli fa abbiano reale riscontro nei fatti storici di allora e dei secoli seguenti fino ad oggi. Intanto Farisei e Sadducei, mescolati con le turbe, seguivano passo passo Gesù mirando al loro scopo di raccogliere prove contro di lui.
Gesù ne trasse occasione per rivolgere esortazioni in comune ad essi ed alle turbe. I giorni passano, gli eventi precipitano, e costoro invece di provvedere ai loro supremi interessi si arrovellano per ostaco­lare il regno di Dio. Ma non vedono essi ciò che accade attorno a loro? Non riconoscono i segni dei nuovi tempi morali? I segni dei tempi materiali essi sanno ben riconoscere quando di sera scorgono una nuvola che viene su da ponente, dicono subito che verrà la piog­gia; quando invece soffia vento da mezzogiorno, dicono che farà caldo; così infatti avviene. E dai segni morali manifestatisi da Gio­vanni il Battista in poi non scorgono essi, ipocriti, che è venuto il tempo di rinnovamento spirituale e di « cambiamento di mente » (§ 266)? Il vecchiume sarà inesorabilmente abolito; e vi sono ancora dei ciechi che non scorgono la novità che si attua, e pretendono ri manere attaccati al vecchiume? Aprano gli occhi, vedano, e giudichino essi stessi ciò ch'è necessario prima che sia troppo tardi (Luca, 12, 54-57).

§ 454. Un paio di fatti di cronaca offrirono di lì a poco occasione per tornare sullo stesso argomento. A Gesù, galileo, fu riferita in quei giorni la strage che il procuratore romano Pilato aveva fatta di cer­ti Galilei mentre offrivano sacrifizi nel Tempio (§ 26). Gesù allora, riferendosi alla vecchia opinione ebraica secondo cui il male materiale era sempre punizione di un male morale (§ 428), rispose: E cre­dete voi forse che quei Galilei rimasti uccisi fossero peccatori più di tutti gli altri Galilei, essendo capitata loro questa sorte? Tutt'altro; vi dico infatti che se non « cambierete di mente », tutti nella stessa guisa perirete. Col fatto recentissimo ne ricollegò poi Gesù un altro, avvenuto poco prima egualmente a Gerusalemme; ivi nel quartiere del Sibe (§ 428), cioè alla periferia dell'abitato, era crollata improv­visamente una torre che faceva parte del sistema difensivo della città, del quale scavi recenti hanno rimesso in luce varie tracce: crol­lando, la torre aveva travolto ed ucciso diciotto persone. Ebbene - soggiunse Gesù - credete voi che quei diciotto infelici fossero più colpevoli di tutti gli altri abitanti? Tutt'altro; vi dico infatti che se non abbiate “cambiato di mente”, tutti egualmente perirete (Lu­ca, 13, 1-5). Qual è la fine qui minacciata agli impenitenti.

Si osservi come am­bedue i fatti citati quali esempi contengano una fine violenta, perché le vittime di Pilato muoiono di spada e le vittime della torre muoio­no schiacciate: erano le morti ordinarie nelle guerre e negli assedi di allora, e basta leggere la Guerra giudaica di Flavio Giuseppe per tro­vare ad ogni pagina morti di spada o di schiacciamento (oltreché di fame) durante tutto l'assedio di Gerusalemme. Qui dunque si minac­cia una fine tra violenze abitualmente guerresche, alle quali invece non era stato fatto alcun cenno nelle precedenti parabole dei servi che aspettano la venuta del padrone. Là infatti si trattava di un fatto assolutamente inevitabile, sebbene da attuarsi in un tempo ignoto, cioè della “venuta” del figlio dell'uomo il quale fisserà a ciascuno la propria sorte; qui invece la fine violenta è senz'altro evitabile, ba­stando a tale scopo ricorrere al “cambiamento di mente”. Le parole di Gesù sono nettissime nel loro dilemma O non cambierete di mente, e allora tutti perirete come nei due esempi; oppure cambie­rete di mente, e allora vi sottrarrete alla fine violenta degli esempi. Senza alcun dubbio il “cambiamento di mente” rappresenta qui lo scopo della missione di Gesù; questa missione è presentata come un'ultima dilazione offerta da Dio al prediletto popolo giudaico affinché si converta; in caso negativo, le minacce si eseguiranno. Tutto ciò è chiaramente confermato nella breve parabola soggiunta subito da Gesù. C'era un uomo il quale aveva nella sua vigna un albero di fichi che non faceva frutto. Disse pertanto al vignaiuolo: Son già tre anni che vengo a cercar frutti da quest'albero e non ne trovo; perciò taglialo via, giacché non dà frutto e isterilisce anche il terreno attorno! Ma il vignaiuolo intercedette: Padrone, lascialo stare ancora quest'anno. Io zapperò torno torno alle radici, ci met­terò letame, e poi vedremo: se darà frutto, bene; altrimenti, dopo quest'ultima prova, lo taglierai via! (Luca, 13, 643).
Il simbolismo è trasparente. Già rilevammo che i tre anni di sterilità dell'albero sembrano alludere alla durata della vita pubblica di Ge­sù (§ 178), della quale allora correva appunto il terzo anno; ma checché sia di ciò, è chiaro che l'albero rappresenta il giudaismo, il padrone della vigna Dio, il vignaiuolo Gesù stesso. Ritorna quindi la minaccia di prima: in quest'ultima dilazione concessa all'albero, o esso darà frutti, ovvero finirà sotto i colpi d'accetta.

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[SM=g27998] La donna rattrappita e l'uomo idropico. Questioni conviviali

§ 455. Fecero effetto queste minacce? Divampava l'incendio ac­ceso da quel fuoco che Gesù era venuto a gettare sulla terra? In al­tre parole, si stava attuando il “cambiamento di mente” che ripu­diava il vecchiume formalistico e ricercava lo spirito nuovo? A queste domande Luca non dà una risposta esplicita, ma sembra be­ne che ne dia una implicita mediante un aneddoto ch'egli soggiunge alle narrazioni precedenti, e che mostra come il formalismo rabbi­nico gravasse quale cappa di piombo sugli spiriti e non fosse stato neppure scalfito dalle minacce di Gesù. L'aneddoto è quello della donna rattrappita guarita di sabbato (Luca, 13, 10-17); senonché lo stesso evangelista, indulgendo alla sua predilezione per i quadretti abbinati, poco dopo questo aneddoto fa seguire l'altro somigliantissi mo dell'uomo idropico guarito egualmente di sabbato (14, 1-6). I due quadretti si richiamano logicamente l'un l'altro, come una ripetuta e sfiduciata risposta alle precedenti domande sull'efficacia della predicazione di Gesù, ed è quindi opportuno presentarli affiancati; tutta­via, egualmente dai dati di Luca confrontato con gli altri evangelisti, appare che i due fatti sono cronologicamente staccati, e che la donna fu guarita poco prima della festa della Dedicazione e nella Giudea, l'uomo invece poco dopo quella festa e probabilmente nella Tran­sgiordania. Gesù dunque, durante la sua peregrinazione nella Giudea, si recò di sabbato in una sinagoga e si mise a predicare. Tra i presenti era una donna malata da diciotto anni - forse di artrite o anche di paralisi - e così rattrappita che non poteva in nessun modo alzar la testa e guardare in alto. Vistala, Gesù la chiamò e le disse: Donna, sei disciolta dalla tua malattia; e le impose le mani. Quella, raddrizzatasi all'istante, si dette a ringraziare e glorificare Dio.
L'archisinagogo che presiedeva all'adunanza (§ 64) s'indignò per quella guarigione fatta di sabbato; non osando però abbordare direttamente Gesù, se la prese con la folla arringandola stizzito: Ci sono sei giorni in cui si deve lavorare: in essi dunque venite a farvi curare, e non nel giorno del sabbato! Per quello zelante archisinagogo la guarigione miraco­losa non significava nulla, il sabbato invece - che del resto non era stato violato - significava tutto. Gesù allora rispose a lui e agli altri della mentalità di lui: Ipocriti! ognuno di voi di sabbato non scioglie forse il suo bove o l'asino dalla mangiatoia, e (lo) conduce ad abbe­verare? Infatti, sciogliere o stringere un nodo di fune era compreso in quei 39 gruppi di azioni ch'erano proibite di sabbato (§ 70); ma nella pratica, trattandosi delle bestie domestiche, si provvedeva in una maniera o un altra al loro sostentamento. Messo ciò in chiaro, Gesù argomenta a fortiori concludendo: E costei ch'e' figlia di Abra­mo, e che il Satana legò or e diciotto anni, non bisognava che fosse sciolta da questo legame nel giorno di sabbato? Al Satana erano fat­te risalire comunemente malattie di ogni genere (§ 78). Se dunque c'era un giorno più opportuno di tutti per dimostrare la vittoria di Dio sul Satana, cioè del Bene sul Male, era appunto il sabbato, il giorno consacrato a Dio: quindi Gesù, meglio d'ogni altro, era pe­netrato nello spirito del sabbato, operando appunto in esso quella vittoria di Dio sul Satana.

§ 456. Al ragionament6 di Gesù la folla assenti cordialmente; quan­to ai suoi avversari, Luca dice che rimasero confusi, ma ciò non significa che assentissero al ragionamento. Già vedemmo che l'osser­vanza rabbinica del sabbato era uno dei piloni su Cui troneggiavano i Farisei e che non doveva mai crollare (§ 431). Anche se i fatti mi­racolosi smentivano quell'osservanza, ciò non significava nulla si trascurassero i fatti e si bestemmiasse lo Spirito santo (§ § 444, 446), purché rimanesse il sabbato farisaico. Il quadretto corrispondente si svolge, non in sinagoga, ma in casa di un insigne Fariseo che ha invitato Gesù a prender cibo da lui. E’ di sabbato, e i Farisei stanno spiando. Ecco che un uomo idropico si presenta a Gesù, attirato forse dalla sua fama di taumaturgo e spe­rando d'esser guarito. Gesù allora si rivolge ai legisti e ai Farisei di­cendo: E’ lecito di sabbato curare o no? Quelli rimasero in silenzio, sebbene per molti casi la questione fosse già stata trattata e decisa dai dottori della Legge (§ 71). Continuando il silenzio, Gesù tira per mano a sé l'idropico, lo guarisce e lo licenzia; quindi dice ai silenzio­si: Chi di voi avendo il figlio o il bove che cada in un pozzo, non lo ritira su subito in giorno di sabbato? - Ma anche questa domanda rimane, secondo Luca, senza risposta. Appare a prima lettura che i due aneddoti sono somigliantissimi; solo che in quello dell'idropico gli avversari di Gesù non si mostrano acrimoniosi e si limitano a tacere. Poiché questo fatto sembra avve­nuto in Transgiordania, bisognerebbe concludere che i Farisei e i legisti di quella zona, più remota da Gerusalemme, fossero un po' meno fanatici e gretti di quelli della Giudea, i quali stavano sotto l'immediata influenza della capitale.

§ 457. La mancanza d'acrimonia in questi Farisei d'oltre Giordano appare anche dalla circostanza che il convito si protrasse a lungo e vi furono trattate senza astio varie questioni, cominciando da quella dei primi posti. Quei bravi Farisei non sarebbero stati Farisei se non fossero venuti a diverbio per occupare a mensa i posti più vicini al padron di casa e più onorifici: Quel divano spetta a me! - Spetta invece a me, che sono più degno! - Più degno tu? Chi credi di essere? - Io sono più anziano e più dotto di te; cedimi il posto! - E così di seguito. Per gente che viveva soprattutto di esteriorità, siffatte questioni di eti­chetta erano capitali. Gesù intervenne commentando il diverbio, e volle confondere i litiganti mostrando come la loro vanità non fosse neppure abbastanza sagace nello scegliere i mezzi per trionfare. Disse egli: Quando (tu) sia invitato da alcuno a nozze, non ti adagiare sul primo divano, affinché non (avvenga) per caso che uno piu' degno di te sia invitato da lui, e venuto colui che invitò te e lui ti dica: « Da' posto a costui! » e allora (tu) cominci ad occupare con vergogna l'ultimo posto. Quando invece (tu) sia invitato, va' ad adagiarti all'ultimo posto, affinché quando venga chi ti ha invitato ti dica: « Amico, sali piu' in alto! ». Allora avrai gloria al cospetto di tutti i tuoi commensali: poiché chiunque s’innalza sarà abbassato, e chi s'abbassa sarà innalzato. Confusa in tal modo la vanità degli invitati con la considerazione della loro propria imperizia, restava da mettere a posto l'atteggia­mento dell'invitante, e in genere di tutti gli invitanti che troppo spesso agivano per vanagloria congiunta col tornaconto materiale; inoltre, agli invitati e agli invitanti, la lezione sul convito materiale poteva giovare per una sfera più alta, ricordando loro le norme e i vantaggi di un certo convito spirituale. Perciò Gesù, rivolgendosi al­l'invitante, proseguì: Quando (tu) faccia un pranzo o una cena, non chiamare i tuoi amici nè i tuoi fratelli né i tuoi parenti né ricchi vi­cini, affinché non (avvenga) per caso che pure essi ti invitino alla loro volta, e tu abbia il contraccambio.
Ma quando (tu) faccia un ricevimento, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e beato sarai, perché non hanno da contraccambiarti! Il contraccambio infatti ti sarà dato nella resurrezione dei giusti. Strettamente affine a questa norma è quella contenuta nel logion ignoto ai quattro vangeli ma attribuito a Gesù da S. Paolo: E cosa piu' beata dare che ricevere (§ 98). La base comune a tutte queste norme è sempre quella dei Discorso della montagna, cioè una sanzione non terrena ma ultraterrena (§ 319): qui essa è chiamata resurrezione dei giusti, altrove regno dei cieli oppure venuta del figlio dell'uomo, ma è in sostanza la stessa base che sorregge tutto l'edificio della dottrina di Gesù, mentre tolta que­sta base l'edificio crolla e la dottrina non ha più senso. Erano perfettamente logici e conseguenziari gli antichi pagani di cui parla S. Paolo, i quali, dal momento che negavano questa base ultraterrena alla dottrina di Gesù (cfr. Atti, 17, 32), trovavano che la stessa dot­trina era una stoltezza (I Corinti, 1, 23). Ancora oggi, le posizioni dialettiche non sono affatto mutate, e la dottrina di Gesù è ancora definita o stolta o divina, a seconda che si respinge o si accetta quella sua base.

§ 458. Con l'idea della ricompensa ultraterrena quegli invitati era­no stati sollevati - come appunto voleva Gesù - al pensiero di un convito spirituale. Allora uno di essi esclamò: Beato chi mangerà ci­bo nel regno d'iddio! Gesù prese occasione per presentare il regno di Dio quale un convito servendosi di una parabola, la quale è riporta­ta sia da Luca (14, 16-24) sia da Matteo (22, 2-14). Le due recen­sioni sono differenti fra loro in parecchi accessori, ma soprattutto perché quella di Matteo ha per aggiunta uno sviluppo abbastanza lungo (22, 11-14) che non trova corrispondenza nella recensione di Luca. Recitò Gesù una sola volta la parabola nella forma più am­pia di Matteo, che poi fu accorciata da Luca? Oppure la recitò nella forma più corta di Luca, che poi fu ampliata da Matteo con un frammento di altra parabola affine? Oppure la recitò più volte in forme diverse? Si è molto discusso su queste domande; la risposta più probabile sembra essere che Gesù abbia impiegato più volte nelle sue parabole questo tema generico del convito - come del resto face­vano anche i rabbini - pur con mire alquanto diverse secondo le circostanze. La recensione pertanto di Matteo risulterebbe dalla fu­sione di due parabole conviviali di Gesù: la prima (22, 2-10) corri­sponde sostanzialmente a quella di Luca; la seconda (22, 11-14) sa­rebbe soltanto la parte conclusiva di un'altra parabola, il cui ante­fatto manca perché nella redazione odierna si giudicò che la somigliante parabola di Luca lo sostituisse bastevolmente. Nella recen­sione lucana la parabola è la seguente.

§ 459. Un uomo fece una gran cena e invitò molti. All'ora oppor­tuna spedì il suo servo agli invitati pregandoli di venire perché ogni cosa era pronta; senonché tutti cominciarono ad addurre pretesti per non venire. Uno disse: Ho comprato un campo, e devo andare ad esaminarlo; scusami! - Un altro disse: Ho comprato cinque paia di buoi, e vado a provarli; scusami! - Un terzo si sbrigò con poche parole: Ho preso moglie, e quindi non ne parliamo nemmeno! - Ottenute tali risposte, il servo le riportò al padrone. Costui allora si adirò, e dette ordine al servo: Va' per le piazze e le strade della città, e fa' entrare al banchetto poveri, storpi, ciechi e zoppi! - L'or­dine fu eseguito, e il servo ne informò il padrone aggiungendo: Quei disgraziati sono entrati, ma ci sono ancora posti vuoti. - Il padrone allora replicò: Esci ancora per la campagna, e fà entrare quanti tro­verai lungo i sentieri e le siepi; perché la mia casa dovrà essere gre­mita di quei disgraziati, mentre nessuno degli invitati di prima gu­sterà la mia cena! Evidentemente il convito simboleggia il regno di Dio, gl'invitati riluttanti sono i Giudei, e i poveri che li sostituiscono sono i Gentili: ciò che appare anche meglio dalla recensione di Matteo. Luca termina qui; ma in Matteo la scena ha il seguito già accenna­to. Riempita la sala di quei miserabili, l'invitante (il quale in Mat­teo è un re che fa il convito di nozze a suo figlio) viene in persona nella sala a vedere i commensali. Ad un tratto scorge fra essi un tale che non ha indossato la prescritta veste nuziale (della quale, tuttavia, non è stato fatto cenno in precedenza). Il re perciò gli dice: Amico, come mai sei entrato qui senza avere la veste nuziale? - Quello tace confuso. Allora il re ordina agli inservienti: Legategli mani e pie­di, e gettatelo nella tenebra esteriore: ivi sarà pianto e stridor di denti! - Gesù infine concluse dicendo: Molti infatti sono chiamati, pochi tuttavia eletti. La parte finale di questo tratto singolare esce già dalla sfera simbo­lica e si riferisce direttamente all'oggetto vero della parabola (“pian­to e stridor di denti”). Inoltre esso aggiunge un elemento nuovo al­la parabola comune a Luca e Matteo, ed è che non tutti i nuovi in­vitati sono degni del convito, ma solo quelli che hanno la veste nu­ziale: fuori di allegoria, non tutti i Gentili che hanno sostituito i Giudei nel regno del Messia sono degni del regno, ma solo quelli che hanno le opportune disposizioni spirituali. Gesù, infatti, già ave­va ammonito Nicodemo che se alcuno non sia nato da acqua e (da) Spirito, non può entrare nel regno d'iddio (§ 288); questa rinascita intema era la condizione essenziale per entrare legittimamente nel convito messianico. L'esclamazione del commensale di Gesù: Beato chi mangerà cibo nel regno d'Iddio! era stata anche un'interrogazione, cercando in qualche maniera di sapere chi avrebbe goduto di quella beatitudine. Gesù ha risposto all'interrogazione mostrando chi avrebbe respinto e chi accettato l'invito al convito messianico, e fra quelli che l'avrei ben accettato chi se ne sarebbe mostrato degno e chi indegno.
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06/08/2012 18:52

[IMG]http://im1.freeforumzone.it/up/17/71/816421599.gif[/IMG] DALL'ULTIMA FESTA DELLA DEDICAZIONE FINO ALL'ULTIMO VIAGGIO LUNGO LA GIUDEA

Alla festa della Dedicazione


§ 460. Nella precedente operosità di Gesù furono consumati circa due mesi e mezzo, cioè l'intervallo di tempo che separava la festa dei Tabernacoli (§ 416) da quella delle Encenie, ossia della Dedicazione del Tempio (§ 77). Poiché Giovanni (10, 22) dice esplicitamente che a quest'ultima festa Gesù intervenne, viene spontaneo identificare questo intervento con uno dei viaggi minori appena accennati da Luca (§ 415). Era dunque la fine di dicembre dell'anno 29; inter­rompendo la sua vaga peregrinazione lungo la Giudea, Gesù si recò nella capitale per continuare ivi il suo ministero durante quella na­zionalistica « festa dei lumi ». La sua presenza in città fu subito notata le recenti discussioni sulla sua missione e il suo aggirarsi nella circostante Giudea avevano reso il Rabbi galileo oggetto di particolare attenzione e sorveglianza da parte delle supreme autorità del giudaismo. Difatti un giorno del­l'ottava festiva, mentre Gesù si intratteneva nel Tempio e insegnava passeggiando nel “portico di Salomone” (§ 48) forse a causa della pioggia - il minuzioso Giovanni ricorda appunto che era inverno - gli vennero attorno i soliti avversari Giudei e gli dissero: Fino a quando tieni sospeso l'animo nostro? Se tu sei il Cristo (Messia), dic­celo francamente! La forma di questa dichiarazione è non solo ami­chevole, ma quasi di raccomandazione e di preghiera: si direbbe che quegli interroganti aspettassero soltanto la franca dichiarazione che Gesù era l'aspettato Messia per darsi anima e corpo a lui. La so­stanza dell'interrogazione è invece un'insidia: gli avversari aspettano quella franca dichiarazione soltanto per ritorcerla in accusa contro Gesù e rovinarlo, come mostreranno poi i fatti.

Il carattere subdolo dell'interrogazione è rivelato da Gesù, il quale risponde fornendo la sostanza della dichiarazione attesa, ma non nella forma desiderata, giacché dichiara chi egli sia, senza però offri­re appiglio all'insidia: Ve (lo) dissi e non credete: le opere che io faccio nel nome del Padre mio, queste attestano circa me; ma voi non credete, perché non siete delle mie pecore. Le mie pecore odono la voce mia, e io le conosco e mi seguono; e io do ad esse vita eter­na, e non periranno in eterno e non le rapirà alcuno dalla mia mano. Ciò che il Padre mio mi ha dato è maggiore di tutte le cose, e nessuno può rapir(lo) dalla mano del Padre. (Ora), io e il Padre siamo una sola cosa (Giovanni, 10, 25-30). Gli interroganti avevano sperato che Gesù rispondesse esplicitamente “io sono il Mes­sia”; Gesù invece ha risposto in sostanza “Che io sia il Messia ar­gomentatelo dalle opere che io faccio”, evitando una dichiarazione precisa e netta, come già aveva fatto con gli stessi avversari alla fe­sta dei Tabernacoli (§ 422). Anche il motivo di questa maniera in­diretta di rispondere è il medesimo; considerando serenamente i mi­racoli di Gesù, tutti potevano concludere che era giunto... il regno d'iddio (§ 444) e che egli era il Messia, mentre questo appello ai miracoli non offriva appiglio a denunzie politiche e a violenze; se invece Gesù si fosse con termini espliciti dichiarato Messia davanti a quegli avversari, avrebbe fornito loro occasione di accusano pres­so le autorità romane come agitatore politico, o anche di trascendere ad atti di violenza immediata contro di lui.

§ 461. Infatti, appena udite le ultime parole di Gesù, i Giudei pre­sero di nuovo le pietre per lapidarlo; l'evangelista con l'avverbio di nuovo vuoI ricordare l'analogo tentativo fatto ai Tabernacoli pochi mesi prima. In quell'occasione Gesù si era proclamato anteriore ad Abramo (§ 423), si era descritto come buon pastore di affezionate pe­core (§ 432 segg.), ed aveva anche risaputo del tentativo fatto dai Farisei di “rapire dalla sua mano” una di quelle pecore, cioè il cieco nato scacciato dagli inquisitori, ed espulso conseguentemente dalla sinagoga (§ 430). Qui Gesù va assai più oltre: in linea prelimi­nare afferma che gli avversari non credono in lui perché non sono del numero delle sue pecore, e che queste non possono essere rapite via dalla mano di lui come neppure dalla mano del Padre; infine, rivela la ragione fondamentale di tutto ciò, la quale è che Gesù e il Padre sono una sola cosa. Dunque Gesù, pur non proclamandosi esplicitamente Messia, si proclama addirittura Dio? Cosi interpretarono le sue parole i Giudei con logica inappuntabile, e lo dichiararono apertamente. Vedendoli infatti raccogliere le pie­tre, Gesù domandò loro: “Molte opere buone vi mostrai (fatte per autorità ricevuta) dal Padre; per quale opera fra esse mi lapidate?”. Gli risposero i Giudei:”Per opera buona non ti lapidiamo, ma per bestemmia, e perché, essendo tu uomo, fai te stesso Dio!”. Il furo­re per la lapidazione è momentaneamente calmato: in Oriente sui mercati e nei fondachi, nei luoghi pubblici e nei privati, gli animi si accendono ad un tratto per un nonnulla: si grida, si gesticola, tea­ tralrnente, senza conseguenze tragiche. Così avvenne quella volta, e i minacciosi ascoltarono le spiegazioni di Gesù, che disse: Eppure nella vostra Legge sta scritto quel passo: “Io dissi - Siete Dei –“ (cfr. Salmo 82, 6 ebr.).
Se dunque Dio stesso, rivolgendosi agli uo­mini li chiama Dei, e fa ciò nella sacra Scrittura la cui testimonianza è irrefragabile; perché accusate di bestemmia me per aver detto che sono figlio di Dio, se il Padre stesso mi ha santificato e inviato nel mondo? Ad ogni modo, guardate le mie opere: se non faccio le opere del Padre mio, non mi credete; ma se le faccio, lasciatevi con­vincere da esse, e allora conoscerete che in me (e') il Padre e io (so­no) nel Padre (Giovanni, 10, 34-38). Nel passo della Scrittura addotto a prova, il termine Dei è usato in senso improprio, perché si riferisce ai giudici umani, che rappresen­tano l'autorità di Dio nei tribunali. La prova tuttavia era efficace come argomento ad hominem, per ridurre al silenzio gli avversari di Gesù rispettosi della sacra Scrittura: se la Scrittura stessa chia­mava Dei gli uomini, i Giudei non potevano accusarlo di bestem­mia avendo egli maggior ragione per attribuirsi quel termine. Anche qui Gesù non scese a particolari, che avrebbero gettato altra esca sul fuoco; tuttavia, riferendosi alla frase incriminata secondo cui egli e il Padre erano una cosa sola, precisò dichiarando in me (e') il Padre e io (sono) nel Padre.
Lungi dall'essere un'attenuazione, questa spiegazione era una conferma della frase. Anche questa volta i Giu­dei capirono perfettamente, e il fuoco che era appena sopito divampò nuovamente: Cercavano pertanto di nuovo di afferrario; ma (egli) uscì fuori dalle loro mani. Quei Giudei erano molto intelligenti: capirono subito e perfettamente ciò che gli Ariani, tre secoli più tardi, non vollero capire, cioè che dalle parole di Gesù risulta indubbiamente che egli si è dichia­rato eguale in tutto al Padre. I critici radicali odierni sono intelli­genti quanto quegli antichi Giudei, e forse anche più: capiscono anch'essi perfettamente che dalle parole di Gesù risulta una dichiarazione di eguaglianza al Padre, ma parecchi di essi - tanto per non essere da meno degli antichi Ariani - assicurano che Gesù non pronunziò mai quelle parole, le quali sarebbero un'esposizione teorica del dogma cristiano dovuta all'autore del IV vangelo.
Le prove “storiche” di questa spiegazione sono tutte nell'assicurazione di chi la propone, e nella solita “impossibilità” che Gesù abbia pronun­ziato quelle parole. Ritorna insomma l'identico procedimento già seguito a proposito dell'episodio di Cesarea di Filippo (§ 398): giac­ché in sostanza quella critica demolitrice, se è povera e nuda di ar­gomenti storici, è anche monotona e uniforme nei suoi procedimenti dialettici.


[SM=g27998] Gesù nella Transgiordania

§ 462. Poco dopo la festa della Dedicazione, ossia nei primi giorni dell'anno 30, Gesù si recò in Transgiordania (Perea), precisamente nella zona ove Giovanni il Battista aveva amministrato il suo battesimo (§ 269) e vi si trattenne qualche tempo (Giovanni, 10, 40; cfr. Matteo, 19,1; Marco, 10, 1; Luca, 13, 31 segg.); di là tuttavia egli dovette in seguito irradiarsi per varie escursioni missionarie nelle par­ti settentrionali della Giudea, attraversando anche la Samaria e raggiungendo la Galilea, dalla cui direzione lo fa scendere Luca (17, 11) nel suo ultimo e definitivo viaggio verso Gerusalemme (§ 414). Perciò anche per questo periodo continua l'imprecisione di cronolo­gia e di topografia che già rilevammo, e la narrazione di Luca prosegue ad essere aneddotica (§ 415). Un tale una volta l'interroga: Signore, saranno pochi coloro che si salvano? - Gesù risponde impiegando idee che già abbiamo udite nel Discorso della montagna secondo Matteo (§ 333): Sforzatevi di entrare per la porta stretta, giacché molti cercheranno invano di en­trare quando il padrone, visto che gli invitati sono tutti giunti, si è levato da sedere ed è andato a chiudere l'uscio; allora sarà troppo tardi, e a quelli che busseranno per entrare sarà risposto: Non so donde siete! L'interrogazione fatta a Gesù risentiva dell'opinione diffusa a quei tempi nel giudaismo, che gli eletti fossero in numero molto minore dei reprobi.
Gesù non respinge né approva tale opinione, ma solo invita a sforzarsi per entrare nella sala del convito non essendo facile l'ingresso. E’ vero che l'interrogante è giudeo, membro del popolo eletto e connazionale di Gesù: ma tale qualità non serve a nulla per avere un ingresso di favore. Prosegue infatti Gesù: Quando vi vedrete cosi esclusi, insisterete dicendo « Ma come? Abbiamo mangiato e bevuto insieme con te, e tu hai insegnato nelle nostre piazze!“ eppure vi sarà ancora risposto “Non so donde siete; lungi da me voi tutti operatori di iniquità” (§ 333). Voi ri­marrete là ove è pianto e stridore di denti, pur vedendo i vostri antenati Abramo Isacco e Giacobbe, nel regno di Dio. Né i posti lasciati vuoti da voi a quel convito rimarranno vuoti, giacché giungeranno altri invitati non giudei da Oriente ed Occidente, da Settentrione e Mezzodi, e s'assideranno a mensa nel regno di Dio!

§ 463 Si avvicinarono poi a Gesù alcuni Farisei e gli dissero in tono confidenziale: Va' fuori, allontanati di qua, perché Erode vuole ucciderti (Luca, 13, 31). Questo Erode è Antipa, l'assassino di Giovanni il Battista; trovandosi allora Gesù nella Transgiordania, era appunto sul territorio di lui: di qui il consiglio datogli da quei Fa­risei. Ma come stavano in realtà le cose? Aveva Antipa vera intenzione di mettere a morte Gesù? Molto probabilmente no, ché se l'avesse avu­ta, l'avrebbe eseguita con segretezza e facilità. Egli piuttosto comin­ciava ad esser seccato di quel Rabbi galileo, ricomparso adesso nel suo territorio a commuovere turbe e sovvertire istituzioni e che nella sua fisionomia morale rassomigliava tanto al Giovanni da lui ucciso; questa sua vittima doveva stargli sempre fissa davanti agli occhi, qua­si per continuare con più potenza il suo ufficio di censore, e il tetrarca non aveva alcun desiderio di disturbare ancor più le sue notti adulterine facendo una vittima anche di Gesù. Si allontanasse costui spontaneamente dal suo territorio, senza costringerlo a ricorrere alla forza. Ma come indurlo a questa partenza? C'erano i Farisei pronti a questo servizio; se com'è probabile (§ 292) - appunto essi si erano prestati come mediatori per attirare Giovanni il Battista sul territorio di Antipa e farlo catturare da lui, adesso in compenso fa­cessero la mediazione inversa inducendo Gesù ad allontanarsi con lo spauracchio della morte: e i Farisei si sarebbero prestati volentieri a questo servizio perché, attirato che avessero Gesù nella zona di Gerusalemme, più facilmente avrebbero fatto di lui ciò che volevano. Una fine astuta da volpe.

Gesù infatti, sapendo benissimo come stavano le cose, rispose a quei premurosi Farisei: Andate a dire a questa volpe: “Ecco, scaccio demonii e compio guarigioni oggi e domani, e al terzo (giorno) son consumato; senonché e' necessario che oggi e domani e il dì seguente io cammini, perché non e' conveniente che un profeta perisca fuori di Gerusalemme”. La risposta da portare alla volpe, ossia ad Antipa, lo esortava a non preoccuparsi: Gesù avrebbe continuato la sua operosità taumaturgica, nel territorio del tetrarca o altrove, ancora due giorni e al terzo giorno l'avrebbe cessata ed egli stesso sarebbe stato consumato; ma questa consumazione della sua vita non sarebbe avvenuta nel territorio di Antipa bensì a Gerusalemme, tanto per rispettare il tragico privilegio di questa città di es­sere l'assassina dei profeti. Ancora una volta, dunque, Gesù si appella nettamente alle sue opere taumaturgiche come alle prove della sua missione; inoltre affer­ma che questa missione durerà ancora un giorno, un secondo giorno, e parte di un terzo.

E’ questa indicazione di tempo soltanto vaga e generica (come, riferendosi al passato, si direbbe “ieri, l'altro ieri e tre giorni fa”), oppure vuole essere una delimitazione ben precisa? Il primo caso è certamente possibile, ma il secondo sembra più pro­babile; se Gesù pronunziava queste parole nel gennaio dell'anno (§ 462), circa due mesi e mezzo lo separavano dalla sua morte, e questi sarebbero i due giorni e mezzo qui accennati.

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Condizioni per seguire Gesù[IMG]http://im1.freeforumzone.it/up/17/52/830338704.gif[/IMG]

§ 464. Luca continua nella sua raccolta di aneddoti. All'avvertimento da parte di Antipa, egli soggiunge il convito presso il Fariseo e le successive discussioni di cui già trattammo (§ 456 segg.); appresso ancora egli colloca una serie di condizioni per seguire Gesù, il quale le elenca un giorno ch'è seguito da numerose folle, mentre alcune di queste condizioni sono collocate altrove da Matteo. Esse si raggruppano in tre capi principali: l'amore per Gesù deve preva­lere nel suo seguace sull'amore per il proprio sangue e per tutte le persone che ne partecipano; deve prevalere sull'amore per la sua propria persona morale e fisica; deve prevalere sull'amore per i beni materiali. Se alcuno viene a me, e non odia il padre suo e la madre e la moglie e i figli e i fratelli e le sorelle e anche la sua propria vita non può essere mio discepolo.
Chiunque non porta la sua croce e viene dietro a me (§ 400) - non può essere mio discepolo. Ognuno di voi che non rinunzia a tutte le sue sostanze - non può essere mio discepolo. Il Semita, per dire che egli amava meno Tizio che Caio, diceva che odiava Tizio in confronto di Caio (cfr. Genesi, 29, 30-33: Deuteronomio, 21, 15-17); in tal senso qui Gesù, nella prima condizione, di­ce che il suo seguace deve odiare le persone del suo proprio sangue. Probabilmente per effetto del lavoro redazionale la terza condizione (Luca, 14, 33) è staccata dalle altre due (14, 26-27), ed è preceduta da una doppia parabola che le illumina tutte e tre. Queste condizio­ni sono essenzialissime per entrare nella sequela di Gesù: ognuno dunque, avanti d'incamminarsi per seguirlo, faccia bene i suoi cal­coli e ponderi se è disposto ad osservarle, altrimenti non s'incammini. E infatti, chi è che voglia costruire una torre, e non faccia prima il computo delle spese per vedere se potrà sostenerle? Se invece co­mincerà senz'altro a costruire, gli potrà succedere che, gettate le fon­damenta, non abbia più denari per sovredificare; e allora la fab­brica rimasta a mezzo diventerà la favola del paese, e tutti si beffe­ranno del presuntuoso costruttore. Oppure qual è quel re che voglia muover guerra con 10.000 armati a un altro re che ne ha 20.000, e non faccia prima i calcoli strategici per vedere se l'inferiorità numerica delle proprie forze può essere compensata dalla loro valentia o da altre circostanze propizie?
Se poi vede che non può essere compensata, non attacca battaglia, ma piuttosto entra in negoziati di pace. Nella stessa guisa, chi vuol seguire Gesù, deve amar lui prima di tutto e sopra ogni altra cosa. Può darsi benissimo il caso che l'amor per lui si accordi con altri amori; ma quando questi altri amori con­trastino con quello supremo, dovranno cedere il campo ad esso e lasciarlo dominare da padrone assoluto. Altrimenti non si può es­sere in alcun modo vero seguace di Gesù.
Queste condizioni, franche fino alla rudezza, furono presentate da Gesù alle molte folle che accorrevano a lui (Luca, 14, 25). Il loro significato storico è chiaro. Fra gli accorrenti molti, anzi moltissimi, si sentivano attirati dalla superiorita spirituale di Gesù, dalla poten­za dei suoi miracoli, da vaghe speranze di trionfi e di gloria, da aspet­tative di condominio con lui nel suo regno messianico, ma costoro alle prime difficoltà si sarebbero ritirati precipitosamente addietro; Gesù previene queste difficoltà, e presenta le rudi condizioni per se­guirlo come altrettante disillusioni di cotesti loro sogni beati. Non si prendano le cose alla leggiera. Al seguace di Gesù si può chiedere ad ogni momento di essere un gigante di eroismo: l'edificio che que­sto seguace comincia a costruire è una torre basata sulla terra, ma la cui cima dovrà toccare il cielo; il volo che egli spicca, affidato unicamente a “l'ale sue”, congiunge due « liti sì lontani » quali la terra e il cielo.
Chi non si sente la forza di far ciò rinunziando a tutti « gli argomenti umani », potrà mettersi alla sequela di qualche insigne maestro fariseo, non già di Gesù: Vedi che sdegna gli argomenti umani, Si che remo non vuol né altro velo Che l'ale sue tra liti si lontani. Purgatorio, ir, 31-33.


[SM=g27998] La pecora e la dramma perdute

§ 465. Qui Luca fa seguire una collana di parabole: le prime perle di questa collana, da lui conservataci, si possono ben chiamare i gio­ielli della misericordia divina, e confermano al gioielliere il titolo de­cretatogli da Dante di scriba mansuedinis Christi (§138). Una breve introduzione serve da cornice a queste parabole della misericordia: Stavano a lui vicini tutti i pubblicani ed i peccatori per udirlo; e (quindi) mormoravano sia i Farisei che gli Scribi dicendo: “Costui accoglie i peccatori e mangia insieme con essi!”. Brontola­menti di questo genere erano già noti a Gesù, che aveva risposto in proposito molto tempo prima (§ 306). Questa volta rispose nuova­mente ricorrendo alle predilette parabole, le quali potevano giovare sia ai tracotanti condannatori sia ai poveri condannati. Il primo paragone fu preso dai costumi pastorali (§ 432 segg.). Un pastore ha 100 pecore e la mattina, fattele uscire dall'ovile, si mette in giro con esse per la steppa a farle pascolare. A una certa ora della giornata si avvede che una pecora manca; guarda e riguarda, non la vede.
Non c'è dubbio: s'è perduta. Si sarà staccata dal gruppo, attirata da qualche valloncello più verde e ubertoso, e mentre il re­sto del gregge si allontana sarà rimasta là solitaria, ingannata dalla momentanea abbondanza ma esposta al lupo notturno. Presto! Bisogna far di tutto per ritrovarla, prima che calino le rapide ombre del vespero palestinese. Il sollecito pastore affida allora le altre 99 pecore ai garzoni, e corre alla ricerca della smarrita... Cala in valloncelli, sale su collinette, scruta su distese aperte, sempre col cuore angosciato; spia il roteare dei falchi, chiama, tende l'orecchio, non si dà pace, finché in un mo­mento di gaudio ode un belato. E’ la pecora perduta! Le corre dappresso. Per lei non ha una voce di rimprovero, non un gesto di minaccia; anzi l'alza di peso e se la mette sulle spalle, estendendo a lei il privilegio riserbato agli agnellini da latte che non possono an­cora camminare: trovandosi solitaria, quella povera bestiola avrà tanto penato, non meno del suo pastore, e merita bene quel privile­gio! Né il pastore avverte sulle sue spalle quel carico non leggiero: il gaudio di sentire addosso a sé la bestiola perduta gliene fa sembrare piacevole il peso. La sera poi, giunto a casa, il pastore non si occupa affatto delle altre 99 pecore che egli sa al sicuro, bensì chiama amici e compagni volendo condividere con essi il suo nuovo gaudio: Allegri! E’ andata bene! Eccola là, la pecora perduta! L'ho ritrovata! - Gesù concluse: Vi dico che così sarà gaudio nel cielo per un solo peccatore che si penta, piu' che per 99 giusti i quali non hanno bi­sogno di penitenza. Il secondo paragone è tolto dalle usanze domestiche, ma simboleg­gia l'identico insegnamento morale del primo. Una buona donna di casa, accorta ed economica, si è costituito un gruzzoletto a forza di piccole industrie e di risparmiucci. Sono dieci dramme, dieci lam­panti monete del valore complessivo di poco più che 10 lire in oro.

La donna le tiene ben raggruppate dentro una pezzuola; la pezzuola è accuratamente ravvolta e legata a nodo; il prezioso involto sta gelosamente nascosto in un angoletto oscuro della casa, dove di tanto in tanto la donna va a far delle visitine per vedere che tut­to sia in ordine e per rallegrarsi la vista a quel luccichìo. Senonché un brutto giorno la visitatrice, slegato l'involto, trova che le dram­me non sono più dieci, ma nove. Che amara sorpresa! Dove mai sa­rà andata a finire la dramma mancante? Quando sarà scomparsa? Tutta affannata la donna ripensa alle ultime volte che ha maneg­giato il gruzzolo: forse è rotolata via il giorno tale, quando fece in fretta e furia quel pagamento; forse quell'altro giorno, quando scon­volse tutta la casa per far pulizia. E allora l'ansiosa donna si arma di lucerna e di scopa; scruta gli angoletti più oscuri, spazza una per una le fessure dell'impiantito, spia in tutti i bucherelli e in tutte le screpolature, fino a che scorge rimpiattata fra due assi la dramma mancante. Allora esplode la sua gioia rumorosa; la donna fa croc­chio con amiche e comari per raccontare a tutte il suo gaudio, come aveva fatto il pastore per la pecora ritrovata. E Gesù conclude: Così, vi dico, e' gaudio al cospetto degli angeli d'Iddio per un solo peccatore che si penta. In conclusione, conversione di uomini in terra significa in cielo gaudio di angeli.

[SM=g27998] Il figliuol prodigo

§ 466. Le due parabole precedenti hanno mostrato quale sarà il contegno di Dio riguardo al peccatore che si penta e torni a lui; ma quale dovrà essere il contegno dell'uomo non peccatore riguardo al peccatore pentito? A questa nuova domanda risponde, dopo aver confermato il contegno di Dio, la parabola del figliuol prodigo. Letterariamente parlando, questa parabola non può essere definita che come un miracolo. Questo racconto, che nel campo morale è il massimo argomento di speranza per ogni figlio dell'uomo, nel cam­po letterario sarà sempre il massimo argomento di disperazione per ogni cultore dell'umana parola, come hanno riconosciuto da gran tempo studiosi di ogni tendenza. Nessuno scrittore al mondo ha raggiunto tanta potenza di commozione, in un racconto cosi breve, così vero, così privo di qualsiasi artificio letterario. La sua semplicità è somma, il disegno è appena lineare: eppure la sua efficacia è mag­giore di quella d'altre narrazioni giustamente celebrate per sapienza di costruzione e limpidezza d'eloquio. Ripetere questa parabola con altre parole equivale indubbiamente ad offuscarne la bellezza; tut­tavia, per ragioni di chiarezza storica, siamo costretti a questo deturpamento. Un uomo aveva due figli, con i quali viveva agiatamente in cam­pagna curando i suoi vasti terreni e governando la numerosa servitù. Dei figli il maggiore era una vera perla: giovane serio e posato, non badava che alla fattoria, era il braccio destro di suo padre nel diri­gere i lavori dei campi, non si prendeva uno svago con i pochi ed assennati amici che aveva. Il figlio minore era tutt'altro: pieno di fumi nel cervello, si sentiva soffocare in quella vita cosi puntuale e metodica; i lavori dei campi lo annoiavano, il gregge e l'armento lo infastidivano col loro tanfo, la fattoria gli sembrava un carcere dove i carcerieri erano i garzoni sempre pronti a fare la spia d'ogni sua azione al padre. Dai molti e scapati amici che aveva nei dintor­ni aveva sentito raccontare cose mirabili di grandi città lontane, do­ve si tenevano banchetti, danze, musiche, feste sbalorditive, dove si incontravano ad ogni passo donne profumate e piacevolissimi amici, invece delle puzzolenti pecoraie e dei lerci bifolchi di suo padre. Là era la vera vita!
Là lontano egli ripensava accorato nelle sere estive, quando dopo un'oziosa giornata se ne stava sdraiato sul prato della fattoria rassegnandosi a sentir cantare i grilli, e riflettendo con me­lanconia che i mesi e gli anni volavano via irrimediabilmente e che la sua gioventù sfumava nel vuoto e nella noia. Ma un giorno il giovane non ne poté più e prese la sua risoluzione, conforme a ciò che qualche tempo prima gli era stata suggerito da un amico. Si presentò egli al padre e gli disse senz'altro: Padre, dammi la parte del patrimonio che (mi) spetta. La richiesta non era irregolare: secondo la Legge ebraica (Deuteronomio, 21, 17), il fi­glio primogenito aveva diritto a una parte doppia; in questo caso, essendo due figli, al minore spettava un terzo dell'asse ereditario. A quella richiesta, il padre dovette guardare lungamente negli occhi il giovane, ma non disse parola, come il giovane non ardi aggiunger parola a quella della richiesta; l'uno s'allontanò dall'altro in silen­zio. In questo scambievole silenzio, che durò più giorni, la sparti­zione fu fatta; i beni immobili da cedersi furono convertiti in de­naro, e non molti giorni dopo, radunata ogni cosa, il figlio piu' gio­vane emigrò in regione lontana. Finalmente cominciava la vera vita! La regione era assai lontana, ignara affatto dei pregiudizi di morale ebraica e anzi seguace di co­stumanze aborrite dall'ebraismo; il giovane vi entrava provvisto di gran denaro, equivalente alla terza parte di un asse molto conside­revole; poteva dunque fare il piacer suo. I suoi antichi sogni co­minciavano a diventare realtà, e quell'assetato di godimenti vi si immerse a corpo morto. Il testo dice che egli si dette a vivere sfrenatamente o dissolutamente, sia anche prodigalmente o da scialacquatore; le due maniere, del resto, sono necessariamente congiunte tra loro. I giorni passavano presto e bene, in quella vita; ma vennero anche le conseguenze. Dopo un certo tempo, insieme col tempo, era passato anche il denaro, unica fonte di quei piaceri, giacché per quanto ri­colma fosse stata da principio la borsa del giovane, non era poi senza fondo. Ma la febbre del piacere l'aveva subito pervaso ed accecato a tal punto, da non lasciargli vedere che la borsa andava sempre più scemando. Un giorno, poi, rimase affatto vuota. La vita beata era finita; ne cominciava un'altra ben diversa.

§ 467. Avendo dunque egli speso tutto, avvenne gran fame in quella regione, ed egli cominciò ad aver bisogno. Il gaudente di ieri è adesso assalito da due parti, all'interno e all'esterno; non solo la sua borsa è vuota, ma nel paese è giunta a un tratto la carestia, una di quelle carestie che mettono in ristrettezze anche chi in tempo ordi­nario vive senza stenti, ed è superfluo dire che gli amici adulatori di ieri sono scomparsi insieme col denaro dell'adulato e adesso ba­dano soltanto ai casi propri. In tali frangenti e in paese straniero il giovane non ha da sofisticare: o morir di fame, o mettersi a lavo­rare come càpita, anche nel lavoro più umiliante e schifoso. Egli allora andò e s'attaccò a uno dei cittadini di quella regione; e (costui) lo mandò nei suoi campi a pascere i porci. Era dunque una regione non giudaica, altrimenti non vi si sarebbero allevati i porci; questo animale, impuro secondo la Legge ebraica, era così abominato dai Giudei, che evitavano perfino di nominarlo, e un dottore del Talmud poteva sentenziare: Maledetto l'uomo che alleva porci, e maledetto chi insegna a suo figlio la sapienza greca (Baba qam ma, 82 b Bar.). E così il gaudente di ieri è divenuto porcaio: ma se con ciò ha evitato la morte, non ha evitato la fame che gli rode continua­mente le viscere. C'è penuria di tutto; i porci, grufolanti tutta la gior­nata per i campi sotto la sua sorveglianza, trovano poco o niente, ma almeno la sera, tornati al porcile, ricevono la loro razione di carrube, e bene o male si saziano. Lui no; per lui non c’è nemmeno una sola carruba: il porcaio vale assai meno d'un porco. Ed è un Giudeo
E bramava riempire il suo ventre delle carrube che i porci mangiavano e nessuno glie(le) dava. In queste spaventose condizioni passa parecchio tempo. Durante le soste canicolari, quando i porci famelici ed estenuati si sdraiano al­l'ombra di un albero, anche l'emaciato porcaio si sdraia a fianco loro fra la polvere e il letame; ma il pensiero gli vola ostinatamente alle lontane serate estive, quando sdraiato sul prato della fattoria pater­na sentiva cantare i grilli vagando con la mente dietro ai sogni del futuro. Quei rosei sogni si sono adesso pienamente avverati; egli li sente attorno a sé nei porci che grugniscono, addosso a sé nei lu­ridi e fetenti stracci di cui è coperto, dentro di sé nella fame che gli torce le budella. Tornato pertanto in se stesso disse: “Quanti mercenari di mio padre abbondano di pani, e io invece qui muoio di fame!”. E che fare? Tornare dal padre? Ma come averne il coraggio, dopo quello che è accaduto? Ebbene, si può tornare a lui non come a padre ma come a padrone; sarà sempre un guadagno immenso vivere a mercede nel­la fattoria paterna come un garzone qualunque, piuttosto che conti­nuare in quella vita nefanda ch'è una lenta morte. Certo sarà una gran degnazione da parte del padre se dimenticherà l'ingiuria rice­vuta e se vorrà accoglierlo - non già come figlio, beninteso ma solo come umile garzone; ma quell'uomo è cosi buono che forse accon­sentirà a riceverlo! “Sorto, me n'andrò da mio padre e gli dirò: Padre, peccai contro il cielo (= Dio) e innanzi a te! Non sono piu' degno di essere chiamato tuo figlio! Fammi come uno dei tuoi mercenari!

§ 468. Sorretto da questa speranza e raccolte le ultime sue energie, il giovane si mette in viaggio verso la fattoria paterna Durante il cammino, piu' volte il cencioso viandante stremato di forze dispera di poter giungere alla beata mèta, più volte sopraffatto dal ricordo della sua partenza dispera di esservi accolto almeno come un cane randagio. Ma non c'è altro per lui: il mondo intero adesso si rac­chiude per lui in quella fattoria. Ed egli, strascinandosi per la strada come meglio può, finalmente vi giunge. E un chiaro pomeriggio. Suo padre sta nei campi a sorvegliare i lavori; ma il suo occhio solerte, che scorre da aratro ad aratro e da garzone a garzone, non ha più la limpidezza di una volta; è velato, mostra le stigmate di una pena antica ma non invecchiata, e di tanto in tanto si fissa là verso l'e­stremo Orizzonte restando immobile a riguardare chissà quali fan­tasmi. Mentre però egli stava ancora assai distante, suo padre lo vide e (ne) fu intenerito; e correndo gli cadde sul collo e lo baciò. Un bacio? Anzi molti e molti baci su quel collo pidocchioso e su quella barba inzaccherata? Certo il padre l'ha riconosciuto pur ri­dotto in quello stato; ma appunto perché l'ha riconosciuto come mai lo bacia? Come mai non chiama invece i garzoni per farlo menar via? Non è egli il figlio che ha rinnegato suo padre? E ne­cessario attirare su ciò l'attenzione del vecchio. Gli disse allora il figlio:”Padre, peccai contro il cielo e innanzi a te! Non sono piu' degno di essere chiamato tuo figlio!”. E’ il discorsetto già preparato a memoria, che qui però è accorciato mancando l'implorazione fi­nale: Fammi come uno dei tuoi mercenari! Non ha il coraggio il figlio di implorare il posto di servo davanti a quell'effusione di bontà paterna, oppure l'implorazione è impedita da altri baci?
Ma a che serve quell'implorazione? Sono parole vane, supremamente inutili; il padre non le avverte nemmeno. Tutto concitato, il vec­chio si rivolge ai garzoni accorsi, e: “Presto! Tirate fuori la veste migliore e rivestitelo, e mettetegli un anello alla mano e sandali ai piedi!”. E come no? Non è forse il padroncino che rientra? Deve forse un solo istante di più comparire così sfigurato e deturpato, il padroncino? Quando poi egli è rivestito e rimesso a nuovo, bisogna che tutti facciano festa insieme; si abbandonino aratri e zappe, e si prepari un gran banchetto: “E portate il vitello in­grassato, ammazzate(lo), e banchettando facciamo festa! Perché que­sto figlio mio era morto e tornò in vita, era perduto e fu ritrovato!

§ 469. A questi fatti non fu presente il figlio maggiore; quella perla di giovane, come al solito, stava al lavoro, e in quel pomeriggio si era recato nei campi più lontani dal casale per certe faccende a cui doveva badare. Ritornò quindi assai tardi, quando il banchetto era inoltrato e quando le copiose libazioni avevano rafforzato le ugole al canto e i piedi alla danza. A sentire tutto quel frastuono, il giovane posato cadde dalle nuvole. Allora, chiamato uno dei garzoni, doman­dava che cosa fosse ciò. E quello gli disse: “E’ arrivato tuo fratello, e tuo padre ammazzò il vitello ingrassato perché lo riebbe sano e salvo”. Ma naturalmente il garzone non si fermò qui, e cominciò ad informare l'interrogante su tutto il resto, descrivendo cioè come il fratello fosse arrivato in uno stato tale che l'ultimo cane rognoso del­la fattoria a petto a lui sembrava il sommo sacerdote di Gerusalemme. Il figlio maggiore ne rimase accorato. Dunque, per quel giovinastro che era il danno e la vergogna della famiglia, il padre faceva tanta baldoria? Ma era impazzito anche il padre? Se però il vecchio era rimbecillito, il suo unico degno figlio, che era stato sempre con la testa a posto, non aveva nessuna intenzione di imitarlo. Si adirò al­lora e non voleva entrare. Ma suo padre, uscito fuori, si raccoman­dava a lui. Quello però rispondendo, disse al padre: “Ecco! Da tan­ti anni ti faccio da servo, e giammai trasgredii un tuo comando, e a me giammai desti un capretto affinché con gli amici miei facessi festa! Quando invece venne cotesto tuo figlio, che ha divorato le tue sostanze con le prostitute, ammazzasti per lui il vitello ingras­sato!”. il (padre) allora gli disse: “Figlio! Tu sempre stai con me, e tutte le cose mie sono tue.
Ma far festa e rallegrarsi bisognava, perché cotesto tuo fratello era morto e (ri)visse, ed era perduto e fu ritrovato!“. Si osservi come il figlio maggiore, parlando del minore al padre, lo chiami cotesto tuo figlio; il padre invece, parlando dello stesso al figlio maggiore, lo chiama cotesto tuo fratello. Il maggiore ha qua­si paura di imbrattarsi la bocca chiamando quello scapestrato suo fratello, e vorrebbe rinnegarlo come tale; il padre gli ricorda che lo scapestrato e' suo fratello, e quindi egli lo deve trattare come tale, nella stessa guisa che egli padre lo ha già trattato come figlio. L'inse­gnamento morale di questa seconda parte della parabola è tutto qui: come il padre è sempre padre, cosi il fratello sia sempre fratello. E’ dunque falsa la conclusione decretata da pochi critici, per i quali la seconda parte della parabola - cioè l'episodio del fratello maggio­re - sarebbe un'aggiunta fatta tardivamente.
Al contrario, la mira generale di tutta la parabola include anche l'insegnamento contenuto in quella seconda parte. Nella prima parte la parabola ha insegnato la misericordia per il peccatore pentito, elargitagli da Dio ch'è suo padre, ma questo insegnamento non è nuovo perché è già stato pro­posto nelle precedenti parabole della pecora e della dramma per­dute; nella seconda parte poi insegna la necessità della misericordia per il peccatore pentito elargitagli anche dall'uomo ch'è suo fratel­lo, e precisamente come conseguenza del perdono del padre e in riconnessione con quel perdono. Questa seconda parte della parabola è dunque veramente la cupola di tutto l'edificio e il suo coronamento supremo. Non si può dire che il fratello maggiore, sdegnato della bontà paterna, simboleggia storicamente i Farisei, sdegnati della bontà di Ge­sù per i pubblicani e i peccatori. Il simbolo invece ha valore più ampio, e include qualunque figlio del Padre celeste che sia geloso della misericordia di quel Padre verso un altro figlio rinsavito dopo un traviamento.

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06/08/2012 18:58

[IMG]http://im1.freeforumzone.it/up/17/71/816421599.gif[/IMG] Il fattore infedele. Il ricco Epulone

§ 470. Oltre ad essere lo scriba della misericordia, Luca e' anche l'evangelista della povertà (§145): ecco quindi che nella collana di parabole che stiamo esaminando, alle perle sulla misericordia divina seguono altre sulla povertà umana, anche queste conservate dal solo forziere di Luca. Che il rinunziare alla ricchezza fosse un atto di accortezza da parte del seguace di Gesù, fu da lui mostrato con la seguente parabola. Ci fu un uomo ricco che aveva un fattore, e costui fu accusato presso il padrone di dissiparne i beni; perciò fu chiamato dal pa­drone, che gli disse seccamente: Mi sono giunte all'orecchio cattive voci sul conto tuo; presèntami al più presto i conti della tua am­ministrazione! - Uscito di là, il fattore pensò ai casi suoi, e si vide perduto se non avesse trovato qualche ripiego per campar la vita nella sua vecchiaia. Cominciò quindi a ragionare: Adesso che mi sa­rà tolta l'amministrazione, come potrò mantenermi? A lavorare nei campi non sono più capace; a domandar l'elemosina mi vergogno. Dopo averci ripensato su lungamente, decise di far ricadere sul pa­drone il peso del suo sostentamento per mezzo di un'astuta truffa.
Si trattava di diminuire falsamente il debito che ciascun colono aveva col padrone, affinché poi quei debitori fraudolentemente beneficiati si mostrassero grati col fattore ricompensandolo. Chiamato perciò un colono gli domandò: Quanto devi al mio padrone? - Quello rispose: Cento barili d'olio. - Il fattore allora: No, prendi qua la ricevuta e scrivi cinquanta! - Cosicché a questo primo debitore era rimessa la metà del debito. Chiamato poi un altro, gli fece la stessa doman­da; e quello rispose: Devo cento misure di grano. - E il fattore: No, prendi qua la ricevuta, e scrivi ottanta! - Naturalmente con questo metodo egli trattò tutti gli altri coloni del padrone, i quali gli furo­no ben grati nel presente e anche nel futuro. E in tal modo il fat­tore esonerato provvide alla sua vecchiaia. Un furto, senza dubbio. Ma un furto furbo, ben congegnato, che mostra l'accortezza e la previdenza di quel fattore, riluttante a finire nella miseria. Qui appunto sta la forza della parabola, la quale - astraendo dalla disonestà del furto che non entra in considerazione - converge tutta su quella accortezza e quella previdenza. La parabola infatti prosegue dicendo che quel padrone, parlando del­la frode di cui era stato vittima, lodò il suo fattore truffaldino per­ché prudentemente aveva agito. Era un uomo di spirito quel pa­drone, e sapeva prendere da gran signore i dispiaceri della vita met­tendone in luce gli aspetti interessanti! La parabola quindi termina ammonendo che i figli di questo secolo sono piu' prudenti dei figli della luce fra (quelli della) loro generazione, cioè confrontati con i membri della rispettiva categoria. Ma a spiegar meglio il funzionamento di questa prudenza, Gesù ag­giunse: E io vi dico:”Fatevi degli amici per mezzo dell'iniquo Mam­mona (§ 331), affinché quando (esso) venga a mancare vi accolgano negli eterni tabernacoli ». Con queste parole il funzionamento della prudenza è chiaro, e la parabola, trasportata ad un'atmosfera superiore, è applicata con precisione. Le ricchezze terrene siano spese tutte per acquistare, non già beni terreni che sono egualmente tran­sitori e fallaci, bensì beni perenni e sicuri. E in qual modo? Impie­gando quelle ricchezze nel beneficare i poveri. Questa beneficenza è un frutto imperituro delle ricchezze, perehé i beneficati diventano gli amici del beneficante e al crollo di questo secolo lo ricompenseranno accogliendolo negli eterni tabernacoli. Con ciò riappare evidentis­sima la sanzione ultraterrena che è alla base di tutta la dottrina di Gesù (§ 319): erogare le proprie ricchezze in vista e in attesa della vita futura. In quella suprema attesa (§ 450 segg.) la povertà è somma prudenza.

§ 471. I Farisei, che udirono l'esposizione di questi principii ma non partecipavano alla suprema attesa, trovarono che tutto ciò era scioc­co. Udivano tutte queste cose i Farisei, che erano amatori del dena­ro, e lo beffeggiavano. E che modo di parlare era quello? Buttar via il proprio denaro per rimaner poi nudi come un lumacone senza guscio? Queste erano, non soltanto pazzie da mentecatto, ma anche bestemmie da eretico! La legge ebraica parlava ben chiaro: la pro­sperità materiale era una benedizione di Dio e un premio per chi osserva le norme della morale religiosa (cfr. Levitico, 26, 3 segg.), mentre la povertà e la miseria erano il retaggio degli empi secondo l'antica tradizione ebraica (cfr. Giobbe, 8, 8 segg.; 20, 4 segg.; 27, 13 segg.). Se dunque Gesù era povero, peggio per lui: era segno che Dio non gli concedeva il premio dei giusti perché non lo meritava; ma cessasse di sconvolgere la Legge e la tradizione ebraica. Gesù, riferendosi al vero motivo che faceva parlare i Farisei in difesa delle ricchezze, rispose: Voi siete coloro che si dimostrano giusti davanti agli uomini (in quanto cioè si spacciavano per giusti perché ricchi), ma iddio conosce i vostri cuori; perché ciò che e' eccelso tra gli uomini e' abominio davanti a Iddio. Quanto alla Legge e alla tra­dizione, questo delle ricchezze era uno dei casi in cui l'antica Legge doveva essere compiuta e perfezionata (§ 322): infatti la Legge e i Profeti, fino a Giovanni (il Battista); da allora, del regno d'iddio si dà la buona novella e ognuno fa violenza verso di esso (Luca, 16, 15-16).
La Legge allettava i suoi seguaci anche con la promessa delle ricchezze; ma dopo Giovanni il Battista la Legge è stata sostituita dal regno di Dio, che non promette più beni materiali ed esige anzi la violenza morale di distaccarsi da essi. Del resto lo stesso spirito intimo della Legge antica non induceva ad attaccarsi alle ricchezze ma a superarle, perché esse erano proposte come mezzo e non come fine: chi si fermava a questo mezzo allettativo, tradiva lo spirito della Legge. Questo è l'insegnamento che Gesù illustrò con una nuova parabola strettamente aderente a vari concetti del giudaismo, tanto da apparire sotto un certo aspetto la più giudaica delle parabole di Gesù.

§ 472. C'erano due Giudei, uno ricchissimo, l'altro poverissimo. il ricco portava vesti fatte di porpora di Tiro e di bisso d'Egitto, e ogni giorno teneva conviti interminabili. Il povero, che aveva il comu­nissimo nome di Lazaro, giaceva ricoperto di piaghe sulla strada presso l'atrio del ricco; di là egli sentiva il lontano frastuono dei conviti del ricco e suo sogno supremo sarebbe stato saziarsi di ciò che cadeva da quelle mense, ma nessuno badava a lui: anzi, pur in quella sua povertà così nera, sembra che egli recasse qualche utilità al ricco, giacché i cani (forse di costui) ogni tanto al passargli davanti si fer­mavano a leccare il marciume delle piaghe che gli ricoprivano il corpo. Ma, come Dio volle, morirono ambedue, e allora le parti si invertirono. Morto prima Lazaro, vennero gli angeli e lo trasporta­rono di peso su in alto nel luogo di felicità eterna deponendolo nel seno di Abramo, fra le braccia del privilegiato « amico di Dio » ca­postipite degli Ebrei. Morto poi il ricco, fu sepolto con gran pompa; la quale però fu anche l'ultima, giacché dalla sua splendida tomba egli rotolò giù nella Sheol (§ 79), ove si trovò immerso in atroci tormenti. Capovoltasi in tal modo la situazione, il già ricco alzando gli occhi dalla Sheol vide su in alto Abramo che sorreggeva dolcemente in seno il già povero Lazaro. Alzò allora anche la voce gridando: “Pa­dre Abramo! Abbi pietà di me, e invia Lazaro affinché bagni d'acqua la punta del suo dito e refrigeri la mia lingua, perché spasimo in questa fiamma!”. Ma Abramo disse: “Figlio! Ricòrdati che rice­vesti i tuoi beni nella vita tua e Lazaro egualmente i mali; adesso però qui (egli) é consolato, tu invece spasimi”.
Il giusto Abramo fa rilevare la giustizia della doppia sorte: poiché il ricco è stato dimo­strato giusto davanti agli uomini (Luca, 16, 15) dalle sue ricchezze e la sua religione è consistita tutta in questo, egli è già stato ricom­pensato sufficientemente; poiché d'altra parte ciò ch'e' eccelso fra gli uomini e' abominio davanti a Iddio, adesso davanti a Dio le sue pas­sate ricchezze diventino per lui ragione di sofferenza. Precisamente il contrario, per la ragione inversa, avvenga a Lazaro. Del resto le nuo­ve sorti sono assolutamente immutabili, e Abramo non può far niente anche per uno della sua razza che non stia lassù vicino a lui: « E oltre a tutto questo, tra noi e voi é stato stabilito un abisso grande, affinché quei che volessero passare di qui verso di voi non possano né di costà si attraversi verso di noi“. Anche qui si trova la sorte perfettamente invertita: come prima della morte il ricco non faceva nulla in pro di Lazaro, così adesso Lazaro non fa nulla in pro del ricco; l'abisso morale che separava i due è diventato adesso un abisso cosmologico. Tuttavia il ricco, anche rotolato nella Sheol, ripensa ai suoi parenti e desidera che almeno essi sfuggano in futuro alla sorte presente di lui. A tale scopo torna a pregare Abramo: “Ti chiedo perciò, padre, che invii lui (Lazaro) a casa di mio padre - ho infatti cinque fratelli - affinché faccia testimonianza ad essi, si che non vengano anch'essi in questo luogo del tormento”.
Ma neppure questa domanda è accolta da Abramo, il quale secco secco risponde: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino quelli!”, cioè regolino la loro condotta conforme alle norme di Mosè e dei Profeti consegnate nella sacra Scrittura, e ciò basterà ad evitare il luogo del tormento. Ma il ricco non è di questa opinione, e perciò insiste: “No, padre Abramo! Ma se alcuno da(lla regione dei) morti vada a loro, cambieranno di mente La ragione è respinta risolutamente da Abramo, che chiude la disputa sentenziando: “Se non ascoltano Mose' e i Profeti, neppure se alcuno sia risorto dai morti saranno persuasi”. In conclusione, la Legge ebraica non solo non è abolita, ma è dichia­rata più efficace della rivelazione privata fatta da un morto risusci­tato. Inoltre, lo spirito di quella legge invita a servirsi delle ricchezze come di una scala per salire a Dio, ma non già a fermarsi sulla scala; il regno di Dio, poi, respinge senz'altro la scala.
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06/08/2012 19:01

[IMG]http://im1.freeforumzone.it/up/17/20/595326240.gif[/IMG]DALL’ULTIMO VIAGGIO LUNGO LA GIUDEA FINO ALLA SETTIMANA DI PASSIONE

I dieci lebbrosi. Vicende del Regno di Dio


§ 473. Le peregrinazioni di Gesù, frattanto, continuavano; trasferi­tosi dalla Transgiordania nuovamente nella Giudea, egli dovette spin­gersi fin verso la Galilea, donde scese per il suo ultimo viaggio alla volta di Gerusalemme (§§ 413 segg., 462). All'inizio di questo viaggio, mentre Gesù stava per entrare in un villaggio posto sui confini tra la Samaria e la Galilea (che una tradi­zione molto tardiva vorrebbe riconoscere in Genin) gli vennero incon­tro dieci lebbrosi, i quali, tenendosi a distanza per la nota prescri­zione (§ 304), si dettero a gridargli che avesse pietà di loro. Gesù ri­spose che andassero a presentarsi ai sacerdoti, come aveva già ordi­nato l'altra volta; non era già la guarigione, ma una promessa di guarigione. I lebbrosi interpretarono la risposta in questo senso, e s'incamminarono per obbedire; strada facendo si trovarono guariti. La felicità della guarigione fece dimenticare ad essi i doveri della gra­titudine e tutti se ne andarono per i fatti loro, tranne uno, che glo­rificando Dio tornò addietro a ringraziar Gesù. Ora, costui era pro­prio un Samaritano. Gesù gradi l'omaggio di quello straniero, rilevò che egli solo aveva sentito il dovere della gratitudine, e gli confermò che era stato salvato dalla sua fede (§ 349 segg.).

§ 474. Dopo l'episodio dei lebbrosi Luca introduce i Farisei, e ripor­ta un dialogo di Gesù con essi e poi con i suoi discepoli. Il dialogo, riferito quindi dal solo Luca, contiene tuttavia vari elementi che si ritrovano nel grande discorso escatologico degli altri Sinottici (§ 523 segg.), di cui questo dialogo sembra un' anticipazione; ma anche qui Luca è da preferirsi sotto l'aspetto cronologico, perché è assai pro­babile che l'argomento comune al dialogo e al discorso fosse trattato più di una volta da Gesù, sebbene gli altri Sinottici per ragioni reda­zionali riuniscano le varie trattazioni in una sola. Questo dialogo è provocato da una interrogazione dei Farisei che domandano a Gesù quando viene il regno d'iddio (Luca, 17, 20). Era ironica la domanda, ovvero si riferiva seriamente alla venuta clamorosa del regno nazionalistico-messianico? Non si potrebbe dire con certezza, sebbene la risposta di Gesù faccia propendere per il secondo senso. Gesù rispose agli interroganti in maniera sbrigativa, come a gente non disposta a lasciarsi convincere: il regno d'iddio non viene con avvertenza, né si dirà “Ecco (é) qui” ovvero “(E)lì”. Ecco, infatti, il regno d'iddio è dentro voi” Questa indicazione dentro voi si riferiva alla colletti­vità (in mezzo a voi) non ai singoli (nell'interno di ciascuno di voi), perché Gesù vuol far rilevare che il regno di Dio si propaga, non in maniera spettacolosa come l'attendevano i Farisei, ma senza avver­tenza: tanto è vero che esso è già in mezzo a loro. E altro Gesù non disse a quegli interroganti maldisposti.

§ 475. Tuttavia, data l'importanza dell'argomento, vi tornò sopra rivolgendosi nell'intimità ai suoi discepoli; ai quali disse: Verranno giorni quando desidererete vedere uno solo dei giorni del figlio del­l'uomo, e non vedrete (tal giorno). I giorni qui annunziati sono di distretta e di calamità: in quelle circostanze i discepoli di Gesù de­sidereranno di vedere uno solo dei giorni in cui il figlio dell'uomo viene in possanza (§ 401), cioè dispiegando quella sua forza che gli assicurerà il trionfo finale: eppure quel sospirato giorno, di manifesta ripresa e palese sopravvento contro le calamità imperversanti, non verrà. Si avranno piuttosto annunzi fallaci, contro i quali Gesù mette in guardia i suoi discepoli E vi si dirà “Ecco (e') qu”, “Ecco (e') là” il sospirato figlio dell'uomo che torna da trionfatore; ma voi non prestate fede, non vi movete, né andate appresso a tali indicazioni. Come infatti la folgore folgoreggiando da un punto all'altro del cielo lampeggia, così sarà il figlio dell'uomo nel giorno suo. Dunque il fi­glio dell'uomo verrà indubbiamente da trionfatore a compiere la consumazione del regno messianico, ma quel suo giorno sarà subita­neo e improvviso come la folgore del cielo né alcuno potrà preve­derlo; oltre a ciò, quel suo trionfo dovrà essere preceduto dalla sua sofferenza (§ 400): prima però e' necessario che egli soffra molto, e che sia riprovato da questa generazione (Luca, 17, 25). Stante questa sicurezza del fatto unita con l'incertezza del tempo, i discepoli dovranno stare sempre pronti e non abbandonarsi alla ne­gligenza a cui si abbandoneranno gli altri uomini.
E come avvenne nei giorni di Noe', così sarà anche nei giorni del figlio dell'uomo mangiavano, bevevano, prendevano moglie, prendevano marito, fino al giorno che Noé entrò nell'arca e venne il diluvio e distrusse tutti Similmente, come avvenne nei giorni di Lot: mangiavano, bevevano, compravano, vendevano, piantavano, costruivano, ma nel giorno che Lot usci da Sodoma, piovve fuoco e zolfo dal cielo e distrusse tutti; conforme a ciò sarà nel giorno in il figlio dell'uomo si rivela. Cosicché molti, moltissimi, saranno coloro che nel giorno del figlio dell'uomo penseranno a tutt'altro che a lui e al suo trionfo; questi moltissimi staranno tenacemente attaccati al mondo che tuttora li avvolge, e non si accorgeranno del mondo nuovo che sopravviene: come appunto la moglie di Lot al tempo del cataclisma era ancora attaccata col desiderio alla sua casa di Sodoma, e fu uccisa da que­sto suo attaccamento che la fece rivolgere indietro. in quel giorno chi starà sul tetto e i suoi oggetti (staranno) dentro la casa, non scenda a prenderli; e chi (starà) nei campo, egualmente non si ri­volga addietro. Ricordatevi della moglie di Lot! Chi cerchi di porre in salvo la sua vita la perderà, e chi la perderà la farà vivere. Perciò l'avvento glorioso del figlio dell'uomo, essendo subitaneo ed imprevi­sto, esige che tutti siano staccati da tutto, perfino dalla propria vita, onde seguire immediatamente il trionfatore apparso. Questo distacco sarà il criterio di discriminazione per selezionare coloro che segui­ranno il trionfatore Vi dico: in quella notte saranno due in un solo letto; l'uno sarà preso e l'altro sarà lasciato. Saranno due (donne) macinanti alla stessa (mola); e l'una sarà presa e l'altra sarà lasciata.
Ma, fatta la discriminazione, coloro che saranno presi dove andranno? Evidentemente presso il trionfatore apparso. I discepoli ne interrogano Gesù dicendogli: Dove, Signore? Forse, più che la risposta, intendevano il luogo. A quest'ultimo punto non rispose Gesù, che si limitò a far rilevare come i prescelti si raccoglieranno spontaneamente da tutto il mondo attorno al trionfatore, con la stessa rapidità sicura con cui le aquile si raccolgono attorno al carname: Dove (sta) il corpo, là pure sopra s'accoglieranno le aquile.
§ 476. Riassumendo in poche parole l'intero dialogo, troviamo che Gesù ha parlato del regno di Dio ai Farisei e ai discepoli. Ai Farisei egli ha confermato che quel regno è un fatto, non fragoroso o folgoreggiante, ma pur realissimo, tanto che è già in mezzo ad essi: è dunque la predicazione stessa di Gesù, simboleggiata nella stessa maniera per mezzo delle parabole (§ 365 segg.). - Ai discepoli Gesù ha parlato di una nuova venuta del figlio dell'uomo, destinata al trionfo palese di lui ed alla consumazioiie del regno messianico: essa sarà subitanea ed imprevista, e poiché deciderà circa la sorte degli eletti e dei riprovati, tutti devono tenersi pronti col distacco assoluto da ogni bene presente. E’ dunque la parusia del Cristo glorioso, che instaurerà il regno di palese ed universale giustizia e che costituisce l'ultimo risultato della predicazione di Gesù, presentata poco prima ai Farisei egualmente come regno di Dio. Di questa parusia parlerà nuovamente Gesù (§ 525 segg.).

[SM=g27998] Il giudice iniquo. Il fariseo e il pubblicano

§ 477. Il precedente dialogo ebbe uno strascico. Come prospettiva terrena, il dialogo aveva pronunziato parole di colore oscuro, che avevano lasciato prevedere, oltre alla sofferenza suprema ed alla ri­provazione del maestro, anche quei giorni di distretta e di calamità in cui i discepoli avrebbero desiderato invano di vedere uno solo dei giorni trionfali del figlio dell'uomo. Ma, se in quei giorni di prova i discepoli avessero pregato, non sarebbero stati esauditi? La prova non sarebbe stata abbreviata? Iddio non avrebbe reso giustizia ai suoi eletti, facendo un piccolo anticipo ai trionfo finale del figlio dell'uomo? Si, certamente; e Gesù espresse questo insegnamento con una para­boIa molto simile a quella dell'amico importuno (§ 443) e riportata dal solo Luca (18, 18) appunto dopo il precedente dialogo: Diceva poi loro una parabola riguardo alla necessità che essi pregassero sem­pre e non si stancassero. C'era in una città un giudice che non aveva né timor di Dio né riguardo per uomini. Nella stessa città c'era anche una povera ve­dova che, come di solito le vedove nell'antichità, riceveva continui soprusi da un tale. La vedova ricorreva ogni tanto dal giudice racccomandandosi: Rendimi giustizia del mio persecutore! - Per un pezzo il giudice non se lo dette per intesa, ma alla fine, seccato per l'insi­stenza della donna, fece tra sé questo ragionamento: “Se pur non temo iddio né ho riguardo per uomo, tuttavia per il fastidio che mi dà questa donna le renderò giustizia, affinché non venga alla fine a rompermi la testa”. - Finita qui la parabola, Gesù soggiunse: “Udiste che cosa dice il giudice iniquo?
E iddio forse non farà giustizia dei suoi eletti che gridano a lui di giorno e di notte ed è lento a loro riguardo? Vi dico che farà giustizia di essi con celerità! Senonché il figlio dell'uomo, venuto (che sia), troverà la fede sulla terra?”. Quest'ultima proposizione non mostra una chiara connessione logica con ciò che precede, e non senza fondamento si è pensato che essa sia un detto staccato di Gesù proveniente da altro discorso. La pro­posizione sembra aver presenti i tempi in cui i discepoli desidereran­no vedere un solo dei giorni del figlio dell'uomo e non lo vedranno (§ 475); quei tempi saranno così duri e calamitosi che scoteranno la fiducia di moltissimi (cfr. Matteo, 24, 12; Marco, 13, 22), tanto che in tono retorico si può ben domandare se il figlio dell'uomo... troverà la fede sulla terra. Checché sia del senso e riferimento di questa proposizione, è noto che i cristiani delle prime generazioni fecero un particolare assegnamen­to su queste promesse. Stretti fra persecuziom incessanti, essi anela­rono di vedere il giorno del figlio dell'uomo, in cui il Cristo trionfato­re calasse dalle nubi a rendere loro giustizia: e attesero di vedere que­sta giustizia con celerità e di contemplare la grande rivelazione del fi­glio dell'uomo da un giorno all'altro. Ma alla loro ansia furono som­ministrati correttivi già dagli Apostoli, i quali ammonirono di non perturbarsi quasicché sia imminente il giorno del Signore (II Tessa­lonicesi, 2, 2), e di ricordarsi che un solo giornò (e') presso il Signore come mille anni, e mille anni come un solo giorno; non ritarda il Si­gnore la promessa (II Pietro, 3, 8-9). Quei primi cristiani inquadra­vano la promessa di Gesù nel calendario dell'uomo; gli Apostoli in­vece l'inquadravano nel calendario di Dio.

§ 478. La parabola della vedova, esaudita per la sua insistenza nel pregare, porta ad un'altra riguardante l'indole e le disposizioni spi­rituali della preghiera: è la parabola, particolare anch'essa a Luca (18, 9-14), in cui sono attori un Fariseo e un pubblicano, cioè i due estremi della scala su cui erano disposti i valori morali nel giudaismo. La parabola fu indirizzata da Gesù a taluni che confidavano in se stessi di essere giusti e disprezzavano gli altri. Un Fariseo e un pubblicano salgono alla stessa ora nel Tempio di Gerusalemme per pregare. Il Fariseo, nella sua confidente sicurezza di essere giusto, agisce e pensa come tale. S'inoltra egli nell'”atrio de­gli Israeliti” (§ 47), fino al limite più vicino al “santuario” ove dimora il Dio della sua nazione e della sua setta. Quel Dio è un essere potente: ma per lui, uomo giusto e Fariseo rigoroso, quel Dio ha una predilezione singolare, e quindi egli può trattarlo con una cer­ta familiarità; anzi può trattarlo come un monarca, si, ma a cui il suddito viene ad elencare una quantità di belle cose fatte in favore di lui. Il Fariseo infatti, messosi là in piedi come pregavano ordinaria­mente gli Ebrei, comincia il suo elenco: O Dio, ti ringrazio perché io non sono come gli altri uomini, rapaci, ingiusti, adulteri, o anche come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana (§ 77); pa­go la decima di quanto posseggo (§ 36).

La parabola non prosegue nell'elenco; ma questo poté benissimo prolungarsi assai ed enumerare altre elette virtù del Fariseo, come le sciacquature di mani e di sto­viglie prima di mangiare, l'astenersi dallo spegnere una lampada in giorno di sabbato, la conoscenza a memoria dei 613 precetti della Torah (§ 30), e tante altre egregie doti dell'inappuntabile Fariseo. In conclusione, Dio è stato beneficato dal Fariseo: l'uomo ha fatto con­sistere la sua preghiera nell'elencare i benefizi elargiti da lui a Dio, ossia nello sciorinare quelle giustizie umane di cui l'antico profeta aveva sentenziato: Come panno di mestrui (sono) tutte le nostre giu­stizie (Isaia, 64, 5 ebr.). Nel frattempo il pubblicano, conscio del disprezzo decretatogli dai benpensanti del giudaismo e sicuro che lo stesso disprezzo è condiviso da Dio, si è fermato appena all'ingresso dell'atrio, come un mendico mal tollerato; là lontano, senza neppure osare di alzare gli occhi ver­so il “santuario”, egli sta a battersi il petto implorando: O Dio, sii propizio a me peccatore! Tutta qui è la preghiera di colui che i rab­bini definivano “tanghero” (§ 40), perché egli ha coscienza di non poter donare a Dio nulla di quanto sta donandogli il Fariseo: s'affi­da quindi alla misericordia di Dio confessandosi peccatore in umiltà profonda: … io mi rendei Piangendo a quei che volentier perdona. Orribil furon li peccati miei; Ma la bontà infinita ha si gran braccia, Che prende ciò che si rivolge a lei. Purgatorio, m, 119-123 Il risultato del contrasto tra questi due uomini fu precisamente la smentita delle loro rispettive coscienze. Còncluse infatti Gesù: Vi di­co, questo (il pubblicano) discese giustificato a casa sua a diflerenza di quello: perché chiunque s'innalza sarà abbassato, mentre chi s'ab­bassa sarà innalzato. Nessuno meglio di S. Agostino ha riassunto in poche linee i punti principali della parabola: Che cosa (il Fariseo) abbia domandato a Dio, cercalo nelle sue parole: non troverai nulla. Salì' per pregare; non volle domandare a Dio, ma lodare se stesso. E’ poco non doman­dare a Dio e lodare se stesso: per dippiu', anche insultava chi doman­dava.

Il pubblicano stava lontano, egli tuttavia s'avvicinava a Dio... poco che stesse lontano: neppure alzava gli occhi al cielo... C'e' dippiu', si batteva. il petto... dicendo: “Signore sii propizio a me peccatore!”. Ecco colui che domanda.

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06/08/2012 19:03

Questioni matrimoniali. Gesù e i fanciulli [IMG]http://www.cattolicesimo.com/Apologetica/vitaCristo/img/bambiniGes%C3%B9.jpg[/IMG]

§ 479. A questo punto, nella serie dei fatti, Luca cede il passo a Matteo e Marco per la questione del divorzio; di tale questione Luca (16, 18) dà soltanto la sentenza conclusiva di Gesù, senza alcun accen­no alle ciroostanze e senza collegamento nel contesto immediato: invece Matteo e Marco comunicano le circostanze della questione. D'al­tra parte, Luca concorda con gli altri due Sinottici nel riferire l'ac­coglienza fatta da Gesù ai fanciulli, la quale dai due è posta imme­diatamente dopo la questione del divorzio; è dunque spontaneo con­cludere che tale questione - omessa da Luca perché forse la ritenne inutile per i suoi lettori pagani - avvenisse immediatamente prima dell'accoglienza fatta ai fanciulli. Si avvicinarono pertanto i Farisei e proposero a Gesù la seguente questione: Se é lecito rimandare la propria moglie per qualsiasi cau­sa? (Matteo, 19, 3). L'evangelista ha avvertito che i Farisei facevano questa domanda per tentare Gesù. Era infatti una questione vecchia, già trattata nelle scuole rabbiniche prima di Gesù e prolungatasi anche dopo. Nella Legge di Mosè il divorzio era stato concesso, solo ad iniziativa del marito, con queste parole: Quando un uomo prende moglie e ne diventa marito, e avvenga che ella non trovi grazia negli occhi di lui, bensi egli trovi in lei alcunché di turpe, egli scriverà per lei il libello di ripudio e lo consegnerà in mano a lei, e la rimanderà da casa sua (Deuteronomio, 24, 1); il libello di ripudio permetteva alla divorziata di contrarre nuovo matrimonio, ma dopo questo matrimonio - cessato che fosse per morte del nuovo coniuge o per nuovo divorzio - il primo marito non poteva più riprendere con sé la donna divorziata (ivi, 24, 2-4).
I rabbini erano fieri di questa facoltà di divorzio e la ritenevano una prerogativa concessa da Dio al solo popolo d'Israele ma non ai pa­gani; la divergenza nasceva tra loro quando si trattava di definire la ragione sufficiente per ammettere il divorzio, ragione accennata dal­la Legge con le parole alcunché di turpe trovato dal marito nella moglie. Stando a quanto diferisce la Mishna (Ghittin, ix; 10), le scuole dei due grandi maestri precristiani Sbammai e Hillel prendevano qui, come in altri casi, posizione contraria: gli Shammaiti interpretavano la ragione addotta dalla Legge in senso morale, cosicché secondo essi alcunché di turpe alludeva all'adulterio, che era il caso autorizzante il divorzio; gli Hilleliani la interpretavano in senso molto più largo, come riferita a tutto ciò che fosse sconveniente nella vita familiare o civile, e portavano l'esempio di una moglie che lasciasse bruciare una pietanza meritandosi perciò il divorzio. Più tardi Rabbi Aqiba andrà anche più in là, affermando che ragione sufficiente per il di­vorzio era se il marito trovava una donna più bella della propria moglie. E’ difficile dire se i Farisei che proposero la questione a Gesù fossero Shainmaiti o Hilleliani. Le loro parole “è lecito rimandare... per qualsiasi causa?” alludono certamente alla dottrina lassista degli Hilleliani: ma questa allusione vuoI essere un invito ad accettare la stessa dottrina, ovvero un ammonimento per respingerla? In altre parole, sono i lassisti Hilleliani che sperano trarre Gesù dalla loro parte, ovvero sono i rigoristi Shammaiti che sperano udire da Gesù una condanna della dottrina lassista? Gesù, come in altri casi, passa sopra ad Hilleliani e Shammaiti e si riporta alle origini della questione.
Egli rispondendo disse: Non legge­ste che chi creò dapprincipio “maschio e femmina li fece”, e disse: “A causa di ciò abbandonerà l'uomo il padre e la madre e s'attac­cherà alla propria moglie, e saranno i due in una sola carne”? (Genesi, 1, 27; 2, 24). Cosicché non sono piu' due, ma una sola carne. Ciò dunque che Iddio congiunse, uomo non separi (Matteo, 19, 4-7). Con questa risposta, e specialmente con il suo periodo conclusivo, l'istituzione del matrimonio è investigata nelle sue stesse origini, an­teriori a qualsiasi disputa umana ed anche alla legislazione di Mosè: con la doppia citazione del Genesi è chiamato in causa Iddio stesso, creatore del genere umano ed istitutore del matrimonio, e la conclusione è che ciò che iddio congiunse, uomo non separi.

§ 480. La replica dei Farisei era prevedibile. Risposero infatti: Per­ché, dunque, Mosé comandò di “dare un libello di ripudio e riman­dare” (Deuter., 24, 1)? Non era il divorzio un privilegio degli Israe­liti? Non era stato contemplato e regolato nella stessa Legge di Mosè? Se valeva la norma di Gesù uomo non separi, bisognava ri­nunziare al privilegio del divorzio: il che, per quei Farisei, era un assurdo. Alla difficoltà legale oppostagli, Gesù rispose rettificando; non si trat­tava di un privilegio, bensì di una tolleranza, carpita dalle condi­zioni personali dei destinatari e concessa per timore di peggio. Disse loro: “Mosé a cagione della vostra durezza di cuore vi concesse di rimandare le vostre mogli: ma da principio non fu cosi”. Con que­st'ultimo appello, la questione era riportata ancora una volta alle sue origini. Al rinnovato appello segue in Matteo un periodo sostanzial­mente parallelo a quello da lui riportato nel Discorso della monta­gna (§ 325): Matteo, 19, 9) Discorso della Montagna: Ma io vi dico che chiunque rimandi la sua moglie, non per fornicazione, e sposi un'altra commette adulterio. Ma io vi dico che chiunque rimandi la sua moglie, eccettuato (il) caso di fornicazione, fa ch'ella sia resa adultera, e chi sposi una (donna) rimandata commette adulterio. La stessa sentenza di Gesù si ritrova negli altri due Sinottici, presso i quali tuttavia manca il comma restrittivo non per fornicazione, ov­vero eccettuato (il) caso di fornicazione:Marco, 10, 11-12 Luca, 16, 18. Chi rimandi la sua moglie e sposi un'altra, commette adulterio contro di lei; se ella, rimandato suo marito, sposi un altro, commette adulterio. Chiunque rimanda la sua moglie e sposa un'altra, commette adulterio; e chi sposa una rimandata dal marito, commette adulterio.
A questi due Sinottici si deve aggiungere S. Paolo, come testimonio anche anteriore (§ 102) della primitiva catechesi cristiana, il quale scrive Agli sposati comando, non io ma il Signore, che la donna non si separi dall'uomo - che se poi si e' separata, rimanga senza sposare, oppure si riconcilii con l'uomo - e che (1') uomo non rimandi (la) donna (I Corinti, 7, 10-11). Nel qual passo S. Paolo distingue chiaramente la “separazione” dei due coniugi dal “rimando” della donna o divorzio; egli ammette la possibilità del primo caso, purché la donna non passi a nuove nozze; nega invece semplicemente la liceità del divorzio. La primitiva catechesi, dunque, è per noi rappresentata da due gruppi di testimonianze. Uno è quello di Matteo, che si ripete due volte (5, 32; 19, 9); l'altro è costituito dalle testimonianze di Marco, Luca e Paolo. Il primo gruppo ha il comma restrittivo; il secondo non ha questo comma. In che relazione stanno tra loro questi due gruppi? Esiste contraddizione tra loro? Parecchi critici radicali vi hanno scorto una contraddizione. Essi riconoscono che la primitiva catechesi non ammetteva il divorzio nep­pure nel caso d'adulterio, secondo le concordi testimonianze di Mar­co, Luca e Paolo; ma poiché in Matteo si trova il comma restrittivo che sembra ammettere il divorzio in tale caso, hanno risolto la diffi­coltà coltà col solito metodo di dichiarare quel cornma una interpolazione: esso sarebbe stato aggiunto nel testo di Matteo alle parole di Gesù per andare incontro alle esigenze di Giudei fattisi Cristiani, i quali non sarebbero stati disposti a rinunziare al divorzio in caso di infe­deltà della moglie. Metodo certamente assai agevole, e che per giunta in questo caso sarebbe comodissimo ai cattolici; ma anche metodo ar­bitrario, se non è suffragato - come non è nel presente caso - da nes­sun documento, e che inoltre va contro alla norma secondo cui il testo più difficile è di solito da preferirsi, come migliore di quello più facile. Qui appunto il testo di Matteo, con la sua particolare dif­ficoltà, ha tutte le apparenze di aver conservato meglio l'insieme delle parole di Gesù. Ma qual è il vero senso del comma in questione?

§ 481. Si noti che i Farisei hanno domandato a Gesù se e' lecito ri­mandare la propria moglie per qualsiasi causa, inten­dendo senza dubbio il divorzio ebraico; Gesù in risposta ha dichiara­to lecito tale rimando nel solo caso di fornicazione (adulterio) della donna. Con tale dichiarazione Gesù si è staccato doppiamente dalla legislazione ebraica: in primo luogo perché in quella legislazione alla donna adultera era comminata la morte (§ 426) e non il divorzio: in secondo luogo, perché egli non permette al marito che ha riman­dato la moglie per adulterio di sposare altra donna, e ciò in perfetta armonia col principio da lui testé enunziato secondo cui ciò che Iddio con giunse, uomo non separi. Dunque, anche se gli interroganti intendevano riferirsi al vero divorzio ebraico, Gesù non ha concesso tale divorzio neppure nel caso di adulterio, perché il marito in que­stione non può sposare altra donna, ossia non ha divorziato. Gesù dunque ha concesso non il “divorzio” bensì la separazione. Ma i Giudei sapevano distinguere tra “divorzio” e “separazione”? Qualunque fossero in proposito i loro concetti puramente giuridici (dei quali non siamo sicuramente inforrnati), è certo che in pratica si conosceva e si eseguiva la “separazione” di due coniugi rimanen­do essi tali. Il citato passo di S. Paolo (§ 480) è decisivo in proposito La stessa sacra Scrittura narrava un esempio, sebbene antico, in cui la stizzosa moglie di un Levita dopo un litigio si era separata da lui per quattro mesi rifugiandosi presso il proprio padre, dopo di che il marito era andato a rappacilicarla inducendola a ritornare presso di lui. Più forti ancora di queste ragioni sono in primo luogo la circostanza che Marco e Luca non riportano affatto il comma restritti­vo, appunto perché la primitiva catechesi stimò che esso non era di alcun valore contro l'indissolubilità del matrimonio e in favore del divorzio ebraico in secondo luogo l'altra circostanza che i disce­poli di Gesù nella loro mentalità ebraica valutarono appieno l'intran­sigenza della norma da lui esposta.

§ 482. Terminata infatti la lezione ai Farisei, i discepoli tornarono sulla questione dolorosa della moglie (qualcuno di essi, come Pietro, era ammogliato) interrogandone Gesù privatamente in casa (Marco, 10, 10). Un'esclamazione sommamente spontanea venne allora su dal profondo del loro cuore: Se in tal modo e' la condizione dell'uomo con la moglie, non mette conto sposare! L'intransigenza era stata ca­pita benissimo dai discepoli; adesso, secondo Gesù, un marito non solo non potevà più far divorzio dalla moglie dopo la bruciatura di una pietanza, come permetteva Hillel, ma doveva ritenersi irrime­diabilmente legato ad essa perfino dopo l'adulterio di lei. Le menti giudaiche dei discepoli ne rimasero perturbate: Gesù avrà avuto certamente ragione a preferenza di Hillel, ma in tal caso essi stima­vano che era preferibile non legarsi a nessuna donna e non sposare affatto. Gesù dal canto suo, lungi dal temperare la sua precedente intransi­genza, giudicò troppo generica l'esclamazione degli sconcertati di­scepoli, dichiarandola adatta per alcuni e disadatta per altri. I sin­goli individui del genere umano non sono, per Gesù, tutti egualmente disposti di fronte a tale questione: essi si raggruppano in più cate­gorie, alle quali non si può imporre una sola legge comune.
Alcuni potranno ripetere con libera e piena adesione di coscienza l'esclama­zione dei discepoli, e questi sono i privilegiati; altri la ripetono per una necessità buona o cattiva imposta dalla natura o dalla società umana, e questi sono i forzati; altri non la ripetono affatto, e questi prendono moglie. Di questi ultimi non si occupa qui Gesù, che vuole mostrare ai discepoli i pregi del celibato scelto liberamente e per uno scopo religioso. Egli però disse loro: Non tutti capiscono questa pa­rola, ma (solo) coloro ai quali e' dato (capirla). Vi sono infatti eunu­chi che dal seno della madre furono generati così; e vi sono eunu­chi che furono resi eunuchi dagli uomini; e vi sono eunuchi che si resero eunuchi da se stessi per il regno dei cieli. Chi può capirecapisca. Non si tratta dunque di una legge data a tutti; Si tratta di una proposta vantaggiosa per il regno dei cieli offerta a chi può capirla, e che possono capire (solo) coloro ai quali e~ dato (capirla). Gli altri agiscano liberamente, e prendano pur moglie: a patto però che ciò che Iddio congiunse, uomo non separi. Riassumendo, si trova che Gesù non ha affatto condannato il matri­monio, bensi lo ha riportato alla sua ragione e norma primitiva, pur avendolo posposto al celibato liberamente scelto per il regno di Dio. Una riprova se ne può vedere nel fatto che, subito dopo la disputa sul matrimonio, Matteo e Marco narrano l'accoglienza fatta da Gesù ai bambini (Luca ha l'accoglienza, ma non la disputa). I bambini sono i frutti dell'albero matrimoniale; e Gesù, che ha testé potato l'albero dai rami secchi e da vegetazioni parassitarie, fa festa a quei frutti riserbando a quei piccoli innocenti una predilezione somiglian­tissima, sebbene d'altro genere, a quella riserbata alle meretrici e ai pubblicani.

§ 483. E recavano a lui dei fanciullini affinché li toccasse; ma i di­scepoli sgridavano quelli (che li recavano). Visto però (questo), Gesu' si sdegnò e disse loro:”lasciate che i fanciullini vengano a me, non li impedite, perché di tali é il regno d'Iddio. In verità, vi dico, chi non accolga il regno d'iddio come un fanciullino, non entrerà in esso” (cfr. § 408). E abbracciatili li benediceva, ponendo le mani su di essi (Marco, 10,13-16). Fra questi fanciullini c'erano senza dubbio sia maschi che femmine, e Gesù li abbracciava tutti con eguale affetto. Ora, un trentennio prima di questa scena, e precisamente nell'anno I av. Cr., un contadino egiziano che si era allontanato da casa sua per ragioni di lavoro, aveva scritto a sua moglie, lasciata da lui gravida, una lettera conservataci fra i papiri recentemente ricuperati; la lettera finisce con questo comando dato alla futura madre: Quando avrai partorito il bambino, se e' maschio, allevalo; se è femmina, ammazzala (Oxyrhyncus Papyri, rv, n. 744). Nè quel contadino agiva diversamente da tanti altri padri di quei tempi, in Egitto e fuori.
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06/08/2012 19:06

[SM=g27998] Un ricco si presenta a Gesù. Considerazioni sulla ricchezza

§ 484. Quando Gesù stava per allontanarsi dal luogo ove gli erano stati presentati i bambini, si presentò frettoloso un giovane che ingi­nocchiatosi davanti gli domandò: “Maestro buono, che cosa farò perché (io) possa ereditare (la) vita eterna?”. Ma Gesu' gli disse:”Perché mi dici buono? Nessuno (é) buono se non uno, Iddio” (Marco, 10, 17-18). Già rilevammo (§121, nota) come i termini di. questo dialogo, confermati da Luca, appaiono in maniera diversa presso Matteo: si temette infatti che i termini, com'erano impiegati in Mar­co e Luca, offrissero appiglio a scandalo potendo essere interpretati come negazione della bontà di Gesù e della sua divinità; e quindi il traduttore greco del Matteo aramaico, pur conservando material­mente i termini, li impiegò in maniera diversa per togliere ai suoi lettori ogni occasione di malinteso. Ma, appunto perché più difficile (§ 480), il testo di Marco e Luca ha in suo favore ogni probabilità di essere il più antico e il più esatto nel riportare le parole di Gesù: il testo di Matteo, più facile, rispecchia meglio l'impiego che del dia­logo faceva la catechesi cristiana posteriormente alla pubblicazione dei vangeli di Marco e di Luca. Riportandosi alle circostanze storiche, i termini del dialogo si spie­gano agevolmente.
L'appellativo Maestro buono (Rabbi taba) non era mai usato parlando a rabbini, neppure ai più autorevoli, poiché sembrava esagerata adulazione: un rabbino si riteneva sufficiente­mente onorato dal termine Maestro, mentre colui al quale spettava l'appellativo di buono era a rigore soltanto Dio. Qui il giovane, che ha visto Gesù abbracciare e accarezzare i bambini, lo chiama buono più nel senso umano e familiare che in quello accademico e filosofico. Gesù ne prende occasione per offrire al giovane la maniera di approfondire la conoscenza del maestro a cui si rivolge; scendendo sullo stesso piano di lui (come aveva già fatto con la Samaritana; Gio­vanni, 4, 22), egli dice in sostanza al giovane: « Tu mi chiami mae­stro come qualunque altro dottore della Legge, e per di più mi chia­mi buono. Perché mi dài questo appellativo? Non sai che, secondo l'uso comune, esso è riservato a Dio? ». Il giovane avrebbe potuto giustificare l'uso dell'appellativo rispondendo: “Ma appunto tu sei il figlio di Dio!”. E invece non rispose. Si aspettava veramente Gesù questa risposta da quel giovane, forse ignaro; oppure aveva egli cer­cato di provocarla affinché in cuor loro rispondessero i discepoli, non ignari (§ 396), ch'erano presenti? Poiché il giovane non dette risposta, Gesù continuò per soddisfare alla richiesta di lui: Se poi vuoi entrare nella vita, osserva i comanda­menti. Il giovane chiese: Quali? - Gesù allora, confermando ancora una volta la Legge ebraica, gli recitò il Decalogo: Non ucciderai; non commetterai adulterio; ecc. Il giovane, meravigliato, replicò: Ma tutto ciò io l'ho osservato fin dalla mia prima giovinezza! Vorrei sapere se mi manca ancora qualche altra cosa. - Dopo questa fidu­ciosa e volenterosa risposta Gesù, a detta di Marco (10, 21), riguardatolo lo amò, ossia lo fissò con chiara espressione di benevolenza, e poi gli disse: Ti manca una cosa. Se vuoi essere perfetto, va', vendi tutti i tuoi beni, distribuisci ai poveri il ricavato, ché avrai un tesoro nei cieli; e poi seguimi! - A tale invito, quale risulta in complesso da tutti e tre i Sinottici, avvenne un cambiamento di scena: il giovane già cosi ardente e volenteroso diventò a un tratto gelido e afflittissi­mo (Luca, 18, 23) perché possedeva molti beni ed era assai ricco.
E cosi' ottenebrato, si allontanò. L'amara proposta di alienare tutti i propri beni era stata addolcita dalla promessa di un tesoro nei cieli, conforme alla sanzione univer­sale della dottrina di Gesù (§ 319), ma il palato del giovane sentì poco o nulla il dolce e moltissimo l'amaro; a lui il futuro tesoro nei cieli parve troppo lontano per poterlo preferire alle sue grosse anfore ripiene di lucenti sicli e custodite gelosamente dentro qualche occulto ripostiglio. Buon giovane, senza dubbio, ma d'una bontà comune e terra terra, mentre Gesù aveva ammonito che ai suoi seguaci poteva chiedere ad ogni momento di essere giganti di eroismo (§ 464). Quel giovane sarebbe stato certamente un ottimo magistrato dell'Impero romano, mentre al primo scrutinio per essere assunto quale alto ma­gistrato del regno dei cieli risultò deficiente: per questo regno egli non aveva l'animo tanto nobile quanto quell'ignobile pubblicano di Levi, che aveva posseduto forse meno sicli ma più generosità (§ 306).

§ 485. Partito il giovane, sul contegno di lui Gesù fece alcune con­siderazioni con i discepoli. “Quanto difficilmente - esclamò egli - quelli che hanno ricchezze entreranno nel regno d'Iddio!”. Senon­ché i discepoli rimanevano stupiti delle parole di lui. Gesu' però, di nuovo rispondendo, dice loro: “Figli, quant'e' difficile entrare nel regno d'Iddio! E’ piu' agevole per un camello passare attraverso la cruna dell'ago, che per un ricco entrare nel regno d'Iddio”. Quelli allora rimanevano sempre piu' stupefatti, dicendo tra loro: “E chi può salvarsi?”. Riguardatili, Gesu' dice: “Presso gli uomini (é) im­possibile, ma non presso Dio” (Marco, 10, 23-27). L'immagine del camello è perfettamente orientale. Sono infondate le interpreta­zioni che il nome greco di camello sia stato scambiato col nome somigliante di una grossa fune oppure che con l'appellativo cruna dell'ago si designasse una ignota porticina delle mura di Gerusalemme stretta ed aguzza. Gesù parla di un vero ca­mello e di una vera cruna d'ago, come più tardi nel Talmud si par­lerà di rabbini che a forza di sottigliezze facevano passare un elefante attraverso una cruna d'ago. Neppure è il caso di attenuare la forza di questo paragone; Gesù se ne serve per adombrare, non una grande difficoltà, ma una vera impossibilità.
Il ricco non può entrare nel regno di Dio per la stessa ragione per cui un uomo non può servire a Dio e a Mammona (§ 331) questi due monarchi nella loro lotta implacabile non si dànno quartiere, e l'uno non permette ai sudditi dell'altro di entrare sotto nessun pretesto nel proprio regno. E allora nessun ricco potrà in questo caso entrare nel regno di Dio? No, vi potrà entrare, purché prima svesta la divisa di suddito di Mammona, diventando povero di fatto o equivalente povero in ispirito (§ 321, nota). Ma sarà possibile questa diserzione dei sudditi di Mammona, che diventino sudditi di Dio? No, questa diserzione cosi paradossale è umanamente impossibile, perché gli uomini preferiranno sempre il palpabile oro terrestre all'impalpabile tesoro celeste: tuttavia essa presso gli uomini (e') impossibile, ma non presso Dio, e Dio opererà questo miracolo di fare che un ricco preferisca il tesoro lontano al­l'oro vicino. Queste idee in sostanza non erano nuove, essendo già state espresse da Gesù sia nel Discorso della montagna, sia nella sua recente dispu­ta con i Farisei a proposito delle ricchezze (§ 471). Un elemento nuovo qui introdotto è l'affermazione che l'abbandono delle ricchezze per entrare nel regno di Dio non sarebbe stato effetto d'industria umana ma della potenza di Dio.

§ 486. Ascoltate le parole di Gesù e applicatele a se stessi, gli Apostoli riscontrarono che essi si trovavano avvantaggiati sugli altri uomini. Dei loro sentimenti si fece interprete il solito Pietro, che disse a Gesù: Ecco, noi lasciammo tutto e ti seguimmo; cosicché erano diventati volenterosi poveri per Gesù e per il regno dei cieli, e stavano in regola con le condizioni testé dettate dal maestro. Seguì per ciò una domanda, riportata da un solo Sinottico: Che cosa dunque avremo? (Matteo, 19, 27). Gesù rispose riferendosi sia agli Apostoli suoi particolari seguaci e collaboratori, sia a tutti gli altri seguaci presenti e futuri che non avevano il grado di Apostoli. La parte della risposta che si riferisce agli Apostoli è riportata qui dal solo Matteo (19, 28), mentre da Marco è taciuta e da Luca (22, 28-30) è riportata fra i discorsi dell'ultima cena; la parte relativa agli altri seguaci di Gesù è riportata da tutti e tre i Sinottici, ma presso Marco e Luca con una particolare distinzione cronologica.
Agli Apostoli Gesù disse « In verità vi dico che voi che mi segui­ste, nella rigenerazione quando segga il figlio dell'uomo sul suo trono di gloria, sederete anche voi su dodici troni giudicando le dodici tribù d'israele. Ciò dunque avverrà alla rigene­raztone o palingenesi, la quale rinnoverà ab imis il « secolo » pre­sente allora, su quel trono di gloria che i rabbini riserbavano a Dio, si sederà il figlio dell'uomo come sul suo proprio trono, e aven­do ai suoi lati i dodici Apostoli seduti su troni minori giudicherà insieme con essi quelle dodici tribù d'Israele alle quali esclusivamen­te egli ha indirizzato la sua personale missione (§ 389). Con questa solenne assemblea giudiziale si chiuderà il « secolo » presente e s'mi­zierà il « secolo » futuro (§ 525 segg.). Ciò che Gesù promise agli altri suoi seguaci, non Apostoli, suona così presso Marco (10, 29-31): In verità vi dico, non v'e nessuno che la­sciò casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a cagio­ne della buona novella, il quale non riceva centuplicati adesso in questo tempo case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insie­me con persecuzioni, e nel secolo venturo (la) vita eterna. Qui la ricompensa non è messa in relazione col solenne giudizio delle do­dici tribù, ma è nettamente divisa in due tempi: la seconda parte si avrà nel secolo venturo, e consisterà nella vita eterna; la prima parte si avrà adesso in questo tempo, che perciò è il « secolo » pre­sente. Nella ricompensa del « secolo » presente si promette ai seguaci di Gesù il centuplo di tutto ciò che hanno lasciato. Ora, questo cen­tuplo è di beni solamente spirituali, ovvero anche materiali?

§ 487. E’ noto che, come gli scritti apocalittico-messianici del tar­divo giudaismo si sbizzarrirono nel descrivere i beni materiali che il futuro Messia avrebbe apparecchiati nel suo regno, così alcuni scrit­tori cristiani dei primi due secoli presero argomento da queste pa­role di Gesù per descrivere anch'essi il futuro regno del Messia Gesù quasi come un paese di Bengodi: in quel regno ogni vite avrà 10.000 tralci, ogni tralcio 10.000 rami, ogni ramo 10.000 viticci, ogni viticcio 10.000 grappoli, ogni grappolo 10.000 acini, e da ogni acino si pi­geranno 25 misure di vino, e altrettanto avverrà per il grano e gli altri prodotti del suolo; quel re­gno poi durerà mille anni (cfr. Apocalisse, 20, 3 segg.). Uguale con­cezione materiale ne aveva, dal di fuori, Giuliano l'Apostata, il qua­le domandava beffardamente ai Cristiani se il loro Gesù avesse re­stituito al centuplo anche le mogli i lasciate da essi per seguirlo. Ma a questo millenarismo materiale inferse gravi colpi già Origene nel secolo III, e più tardi 5. Gerolamo ripeterà In occasione di questo passo (della ricompensa centuplicata) alcuni introducono mille anni dopo la resurrezione, dicendo che allora ci sarà concesso il centu­plo di tutte le cose che lasciammo e la vita eterna; non compren­dendo però che, se nelle altre cose la promessa e' degna, nelle mogli appare una sconcezza, giacché chi ne ha lasciata una per il Signore, ne riceverà cento in futuro.

Il senso dunque e' questo: Chi per il Salvatore abbia lasciato cose carnali, riceverà cose spirituali, le quali in confronto e per valore intrinseco saranno come se si confronta il cento con un numero piccolo. Cosicché per S. Girolamo, come pu­re per altri Padri, il centuplo ha un valore spirituale. La spiegazione è sostanzialmente giusta, ma, dal punto di vista storico, non appare completa e dovrà essere integrata attribuendo al centuplo promesso pure un subordinato valore materiale. Anche sotto questo aspetto, infatti, la promessa di Gesù si riscontra immediata­mente avverata fra i primissimi cristiani, i quali costituivano una famiglia in cui si ritrovavano moltiplicati i beni materiali e gli af­fetti naturali lasciati per amore del Cristo. Narrano gli Atti (2, 44-45) che tutti i credenti (erano) insieme (e) avevano tutte le cose in comune, e vendevano le possessioni e sostanze e le spartivano fra tutti secondo che alcuno aveva bisogno; e poco appresso (4, 32) confermano che la moltitudine dei credenti aveva un cuore e un'a­nima sola, e nessuno diceva esser cosa sua propria alcunché di ciò ch'egli aveva, bensì tutte le cose in comune essi avevano. Cosi pure dagli Atti e dalle varie Lettere apprendiamo che i cristiani, di comunità anche lontane, si consideravano legati da vincoli di carità tanto forti da sentirsi, pure nel campo affettivo, largamente ricom­pensati di vincoli naturali forse spezzati per seguire il Cristo. Se dunque i primi cristiani avevano lasciato una casa ed un cuore, tro­vavano veramente cento case e cento cuori in compenso. Giusta­mente quindi in questi benelizi materiali, offerti dalla fratellanza religiosa, gli studiosi moderni delle varie tendenze vedono il centu­plo promesso da Gesù adesso in questo tempo, come del resto gli storici delle epoche successive della Chiesa scorgevano l'avveramento della stessa promessa in quelle molte associazioni i cui membri, per avvicinarsi allo spirito di Cristo, vissero e vivono di beni messi in comune, in maniera da poter affermare con S. Paolo di essere come nulla aventi ed ogni cosa possidenti (il Corinti, 6, 10).
Si noti bene, però, che questo centuplo materiale è promesso da Gesù insieme con persecuzioni. I seguaci del Messia assassinato (§ 400) dovevano infatti in qualche maniera assomigliarsi a lui, e seguirlo - come dice egualmente S. Paolo (ivi, 6, 4... 10) - in molta pazienza, in tribolazioni, in necessità, in angustie, in piaghe, in carceri, in tu­multi, in travagli, in veglie, in digiuni; ma pur fra queste vicende essi potevano affermare, insieme col nomenclatore delle medesime, di essere come castigati e non messi a morte, come attristati ma sempre gaudenti.

Gli operai della vigna [IMG]http://www.cattolicesimo.com/Apologetica/vitaCristo/img/operaivigna.jpg[/IMG]

§ 488. Queste ricompense promesse da Gesù secondo quale criterio saranno distribuite ai suoi seguaci? Questo punto fu esposto da Gesù mediante una nuova parabola, presa anche questa dai costumi agricoli del paese. In Palestina, ai primi accenni della primavera, le vigne dànno molto da fare e i vari lavori di potatura, sarchiatura e altro, devono finirsi presto prima che le viti si risveglino e comincino a gettare: sono alcune settimane di lavoro intenso, nelle quali tutti i proprie­tari cercano braccia. Ora, il regno dei cieli è simile a un padrone di vigna, che al tempo di questi lavori usci di buon mattino in cerca di braccianti. Recatosi sulla piazza del paese, ne trovò alcuni e accordatosi con loro sulla paga che sarebbe stata di un denaro d'argento al giorno (poco più d'una lira in oro), li inviò senz'altro alla sua vigna. Di nuovo verso l'ora terza di sole, cioè verso le nostre nove antimeridiane, quel padrone usci sulla piazza e trovò altri braccianti inoperosi; disse perciò loro: Andate anche voi nella mia vigna, e vi darò quello ch'è giusto. - Uscì ancora verso l'ora sesta e l'ora nona, cioè verso mezzogiorno e le tre pomeridiane, e trovando altri braccianti inoperosi inviò anche questi promettendo il giusto.
All'undicesima ora, cioè un'ora prima del tramonto, uscì nuovamen­te e trovando ancora gente inoperosa disse loro: Ma perché state qui tutta la giornata oziosi? - E quelli: Perché nessuno ci ha presi a giornata. - Allora il padrone: Ebbene, andate anche voi alla mia vigna. - Calato il sole, il padrone disse al suo fattore: Chiama i braccianti e pàgali, cominciando dagli ultimi arrivati per finire ai primi. - Il fattore chiamò gli ultimi e consegnò loro un denaro d'ar­gento a ciascuno; gli altri braccianti, che tenevano d'occhio il pagatore, vedendo che gli ultimi erano ricompensati cosi lautamente, speravano che la stessa lautezza sarebbe stata impiegata con loro: e invece, man mano che vennero quelli dell'ora nona e della sesta e della terza, ricevettero tutti lo stesso; perfino quelli impegnati al primo mattino ricevettero egualmente un denaro d'argento. Questi allora, nella loro delusione, cominciarono a brontolare contro il pa­drone dicendo: Come? Gli ultimi venuti hanno lavorato appena un'ora e al fresco, e tu li hai trattati alla pari con noi che abbiamo sopportato tutto il peso della giornata e il caldo? - Ma il padrone rispose a uno dei brontolanti: Amico, io non ti faccio torto. Non ci siamo messi d'accordo per un denaro al giorno? Te l'ho dato, e quindi va' per i fatti tuoi. Se io voglio dare al bracciante giunto per ultimo quanto ho dato a te, non mi è forse lecito di fare della roba mia quel che mi pare? Oppure non mi è lecito mostrarmi liberale con i tuoi compagni, se l'occhio tuo diventa invidioso della mia liberalità? - Gesù infine chiuse la parabola dicendo: Così gli ulti­mi saranno primi e i primi ultimi.

Gli scritti rabbinici ci hanno trasmesso vari paragoni che mostrano notevoli analogie con questa parabola di Gesù; ma, oltre ad essere posteriori in ordine di tempo, mirano anche a insegnamenti diversi. L'insegnamento generico di questa parabola è che la liberalità di Dio si riversa su chi vuole e nella misura che vuole, e che la ricom­pensa finale per i seguaci di Gesù sarà nella sua parte essenziale eguale per tutti. I braccianti della vigna non adombrano, a rigore, i ricompensati del regno dei cieli, i quali certamente non bronto­lano né accusano di parzialità chi li ha ricompensati né sentono in­vidia per altri: adombrano invece storicamente quei seguaci di Gesù che in vista del regno dei cieli si ritenevano per qualsiasi ragione più adorni di meriti che altri, e specialmente quei Giudei di spirito onesto ma di mentalità strettamente giudaica che si ritenevano tuttora più accetti a Dio per la loro appartenenza alla nazione elet­ta.
Per costoro i pubblicani, le meretrici, e anche i pagani, potevano bensì essere ammessi nel regno dei cieli quando si fossero con­vertiti, tuttavia in quel regno sarebbero stati di gran lunga addietro ai fedeli e genuini Israeliti, pieni di millenari meriti al cospetto di Dio. Gesù invece insegna che siffatti primati scompariranno, e che la liberalità del Re dei cieli potrà far passare gli ultimi ai primi posti, cosicché coloro che già erano primi diverranno ultimi.
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06/08/2012 19:08

[IMG]http://im1.freeforumzone.it/up/17/71/816421599.gif[/IMG] La resurrezione di Lazzaro

§ 489. Dalla festa della Dedicazione erano passati circa un paio di mesi, e si doveva essere sulla fine di febbraio o sui primi di marzo dell'anno 30 (§§ 460, 462). Gesù nella sua peregrinazione scendendo dai confini della Galilea (§ 414) si doveva essere avvicinato al Gior­dano e aveva seguito per un certo tratto la strada che fiancheggian­do il fiume portava verso Gerusalemme; pare che ad un certo punto egli, traversato il fiume, entrasse e rimanesse qualche tempo in Transgiordania, forse nello stesso posto prediletto ove si era ritirato subito dopo la Dedicazione (§ 462). Mentre era ivi, lo raggiunse una triste notizia da Bethania, il villag­gio di Marta e Maria: il loro fratello Lazaro, che forse era già ma­lato al tempo dell'ultima visita di Gesù a quella famiglia amica (§ 441), si era aggravato assai e stava in immiiìente pericolo di vita. Le due sorelle, pur rimanendo in casa ad assistere l'infermo, erano informate in maniera approssimativa dei viaggi e delle soste dì Gesù, e saputolo in Transgiordania a circa una giornata di cammino da Bethania, gl'inviarono un messaggio per comunicargli le condizioni del loro fratello: confidate nell'affetto particolare che egli portava a tutte e tre della famiglia, esse sperarono che Gesù sarebbe accor­so e con la sua presenza avrebbe impedito la morte. Ecco come Gio­vanni (11, 3 segg.) narra il messaggio delle sorelle e il successivo contegno di Gesù: Inviarono dunque le sorelle a lui dicendo: “Si­gnore, guarda che quello che tu ami e' malato”. Ma, avendo udito, Gesu' disse:” Questa malattia non é per morte ma per gloria d'Iddio, affinché sia glorificato il figlio d'Iddio per mezzo di essa”.
Ama­va invero Gesu' Marta e la sorella di lei e Lazaro. Ci aspetteremmo che questo amore, espressamente rilevato dall'evan­gelista, avesse spinto Gesù a partire immediatamente alla volta della famiglia amica che per varie ragioni l'attendeva; e invece la narra­zione continua dicendo che quando Gesù udì ch'era malato rimase per allora, nel posto dove era, due giorni; in seguito, dopo ciò, dice ai suoi discepoli: “Rechiamoci nella Giudea di nuovo”. Recarsi nella Giudea dal posto dove Gesù stava, significava recarsi a Gerusalemme o nei suoi dintorni, cioè proprio nel covo dei nemici di lui. I discepoli pensarono subito al pericolo e glielo fecero osser­vare: Rabbi, testé cercavano i Giudei di lapidarti (§ 461), e di nuo­vo va: là? Nella seguente risposta di Gesù ritroviamo i temi ricer­cati e raccolti con particolare cura da Giovanni. Rispose Gesu': “Non sono dodici le ore del giorno? Se alcuno cammini nel giorno non inciam pa, perché scorge la luce di questo mondo; se però alcuno cammini nella notte inciampa, perché la luce non e' in lui”. Le dodici ore della giornata mortale di Gesù non erano ancora trascorse tutte, sebbene già incombesse la sera; egli, luce di questo mondo (cfr. Giov., 1, 9; 3, 19; 8, 12), doveva compier tutto il suo cammi­no fino all'ultima ora, né i suoi nemici potevano recargli alcun male, perché ancora non era giunta la loro ora: l'ora del loro predominio sarebbe stata l'ora di tenebra. Detto ciò, soggiunse: “Lazaro, l'amico nostro, si é addormentato; ma andrò a risvegliarlo”. Queste parole confermarono nei discepoli l'erronea convinzione che essi già si erano fatta sia della risposta di Gesù al messaggio delle sorelle (questa malattia non e' per morte), sia dall'indugiarsi di Gesù per altri due giorni nel luogo ove stava; risposero perciò fiduciosi: Signore, se si é addormentato, si salverà.
Un sonno profondo era, infatti, considerato dalla medicina contem­poranea come un sintomo che l'organismo stava reagendo contro la malattia e cominciava a liberarsene; e quindi, anche per questa ragione, non era opportuno andare in Giudea da Lazaro per di­sturbarlo. Allora però Gesu' disse loro apertamente: “Lazaro morì. E godo per causa vostra - affinché crediate - che io non ero colà. Ma rechiamoci da lui”. I discepoli rimasero colpiti da quell'annuncio di morte, né sospetta­rono affatto l'intenzione vera di Gesù. Giacché dunque la disgrazia era avventita e non c'era più nulla da fare, perché recarsi in Giudea presso il covo dei Farisei e dei sommi sacerdoti?
Ai discepoli non sor­rideva affatto l'idea di questo viaggio e, presi in mezzo fra la paura dei Farisei e la deferenza per Gesù, essi tentennavano. D'altra parte il maestro appariva irremovibile nell'idea del viaggio: bisognava per­ciò seguirlo anche a costo di non tornare più addietro e di lasciare la vita laggiù fra quegli astiosi nemici, che essi andavano a provocare. L'apostolo Tommaso fece opera di persuasione tra i suoi col­leghi, mettendo però in mostra la sua sfiducia sull'esito finale del viaggio: Rechiamoci anche noi a morire insieme con lui! Tutti quin­di si misero in cammino verso Bethania, arrivandovi in una gior­nata; e qui la narrazione di Giovanni non può essere sostituita. Venuto pertanto Gesu', trovò lui (Lazaro) già da quattro giorni nel­la tomba. Era poi Bethania presso Gerusalemme circa quindici sta­di. Ora, molti dei Giudei erano venuti a Marta e Maria per conso­larle del fratello. Marta dunque, come udì che Gesu' viene, gli andò incontro: Maria invece sedeva in casa. Disse pertanto Marta a Ge­su': “Signore, se eri qui, non sarebbe morto il fratello mio. E(ppure) adesso so che quante cose (tu) chiedessi a iddio, te (le) darà Iddio!”. Le dice Gesu':”Risorgerà il fratello tuo”. Gli dice Marta: “So che risorgerà nella resurrezione nell'estremo giorno”. Le dice Gesìi:”Io sono la resurrezione e la vita; chi crede in me, quand'anche fosse morto, vivrà, e chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi ciò?”. Gli dice: “Si, Signore; io ho creduto che tu sei il Cri­sto, il figlio d'Iddio, il Veniente (§§ 339, 505) nel mondo”.

E detto ciò se ne andò a chiamare Maria, la sorella sua, segretamente dicen­do: “C'é il maestro, e ti chiama”. Or quella, come udì, si leva pre­stamente e veniva verso lui, poiché non era ancora giunto Gesu' nel villaggio, bensì era ancora al posto dove gli andò incontro Marta. I Giudei pertanto che erano con lei nella casa e la consolavano, ve­dendo che Maria era sorta ed uscita in fretta la seguivano, credendo che andasse alla tomba per piangere colà. Maria pertanto, come venne dove era Gesu', vedutolo cadde ai piedi di lui dicendogli: “Si­gnore, se eri qui, non sarebbe morto il fratello mio!”. Gesu' dun­que, come vide lei piangere e i Giudei venuti insieme con lei piangere, fremette nel (suo) spirito e turbò se stesso.

§ 490. Queste parole invitano a sospendere un momento la lettu­ra, per farvi sopra alcune considerazioni. Se la narrazione finisse qui, nessuno al mondo vi troverebbe difficoltà di sorta. Il racconto è piano, trasparente, senza ombra di sottintesi; è inoltre di tale ade­renza agli altri dati storici in nostro possesso, da trovar conferme ad ogni linea. Ne rileviamo solo alcune. L'antica Bethania stava veramente, seguendo l'antica strada, presso Gerusalemme circa quindici stadi, che sarebbero 2.775 metri (oggi invece il villaggio tende ad allontanarsene, propagandosi verso orien­te): data questa vicinanza da Gerusalemme, molti Giudei erano ve­nuti dalla città a condolersi con la distinta famiglia del morto, come volevano le regole d'urbanità. Presso i Giudei il morto era sepolto di solito il giorno stesso del de­cesso, come appunto avvenne per Lazaro (§ 491). Si stimava comunemente che l'anima del defunto si aggirasse per tre giorni attorno alla salma, sperando di penetrarvi di nuovo, ma al quarto giorno, cominciando la decomposizione, essa se ne allontanava per sempre. Le visite di condoglianza si prolungavano per sette giorni, ma erano più numerose nei primi tre. I visitatori esprimevano il loro cor­doglio dapprima con la solita rumorosità orientale, alzando grida e lamenti, piangendo, strappandosi le vesti, e infine rimanevano per un certo tempo seduti a terra in cupo silenzio. Quando Gesù arrivò, Marta e Maria stavano contornate da questi visitatori di condoglianza.
I quali sono chiamati da Giovanni Giu­dei, termine con cui egli designa abitualmente gli avversari di Gesù; tali infatti si mostrarono apertamente taluni di essi, come apparira dal seguito della narrazione. A Gesù andò incontro per prima Marta, che già vedemmo agire come governante in casa (§ 441); in seguito si mosse anche Maria, seguita dai visitatori. Scambiate le poche parole con le sorelle e viste tutte quelle persone piangenti, Gesù fremette nel (suo) spirito e tur­bò se stesso, come uomo vivo e vero che ha un'anima umana nel petto e che sente profondamente l'amore e il dolore umani. Si può immaginare una narrazione più ingenua, più esatta, più “ve­rista”? Tale sarebbe giudicata indubbiamente anche dagli studiosi radicalissimi se non avesse per conclusione un miracolo; ma poiché il tut­to termina con la resurrezione di un morto, e avvenuta davanti a te­stimoni cosi numerosi e cosi avversi, perciò si è decretato di scopri­re nella stessa narrazione o le tracce di una frode preparata in pre­cedenza, o almeno le prove di un mito o un'allegoria. Alla frode o a qualcosa di simile pensarono critici antichi (§ 198), le cui idee però riposano oggi nella tomba senza speranza di resurrezione. Alla allegoria pensano parecchi moderni, per i quali tutta la narrazione non avrebbe nulla di reale, ma sarebbe in una maniera o in un'altra l'illustrazione solo apparentemente storica di un'idea astratta. Senon­ché il lettore imparziale può aver visto da se stesso se la narrazione offra il minimo appiglio a un'interpretazione allegorica; certo è che, se è allegorica questa narrazione, potrà essere considerato allegorico qualunque attestato di morte rilasciato da medici e da giudici da­vanti ad una salma e alla presenza di testimoni numerosi ed avver­si; mentre, se attestati siffatti hanno valore storico, tanto più ne avrà questo attestato della morte di Lazaro. E ciò apparirà anche meglio dal seguito della narrazione, che qui riprendiamo.

§ 491. Gesù dunque, alla vista dei piangenti uscitigli incontro, fre­mette nel (suo) spirito e turbò se stesso, e disse: “Dove l'avete po­sto?”. Gli dicono:”Signore, vieni e vedi”. Gesu' pianse. Dicevano pertanto i Giudei: “Guarda! Come l'amava!”. Ma alcuni di essi dicevano:”Non poteva costui, che apri gli occhi al cieco (§ 428), fare che anche questo non morisse?”. Gesu' pertanto, di nuovo fremendo in se stesso” viene alla tomba. Era (questa) una spelonca, e una pietra era stata posta su di essa. Dice Gesu': “Togliete la pie­tra” Gli dice la sorella del morto, Marta: “Signore, già puzza: e infatti quatriduano”. Le dice Gesu': “Non ti dissi che, se (tu) cre­da” vedrai la gloria d'iddio?”. Tolsero pertanto la pietra. Gesu' al­lora alzò gli occhi in alto e disse: “Padre, ti ringrazio perché mi ascoltasti! Io invero sapevo che sempre mi ascolti; ma per la folla che sta attorno dissi (ciò)” affinché credano che tu m'inviasti”. E, detto ciò” a gran voce gridò: “Lazaro, vieni fuori!“. Usci il morto legato ai piedi e alle mani da bende, e la faccia di lui era avvolta da un sudano. Dice a quelli Gesu':”cioglietelo e lasciatelo andare!”. Le tombe palestinesi del tempo di Gesù erano situate poco discosto dai luoghi abitati o proprio alla periferia di essi. Le tombe di per­sone distinte. erano di solito scavate nel tufo, o perpendicolarmente a guisa di fossa nei luoghi pianeggianti, ovvero orizzontalmente a guisa di spelonca nei luoghi collinosi; consistevano essenzialmente in una camera funeraria con uno o più loculi per le salme, e spesso con un piccolo atrio davanti la camera: atrio e camera comunicavano tra loro mediante uno stretto uscio che rimaneva sempre aper­to, mentre l'atrio comunicava con l'esterno mediante una porta che veniva sbarrata con una grossa pietra (§ 618). La salma, dopo es­sere stata lavata, cosparsa di aromi, fasciata di bende e avvolta di lenzuolo, era semplicemente deposta nel suo loculo nella camera funeraria, rimanendo perciò a contatto quasi immediato dell'aria interna: è facile quindi immaginare che, al terzo o quarto giorno dalla deposizione, nonostante gli aromi tutto l'interno della tomba era ammorbato dalle esalazioni del cadavere. Di ciò si preoccupa nel caso nostra Marta, quando Gesù ordina di togliere la pietra che chiude la porta esterna.
La salma di Lazaro è là da quattro giorni: retrocedendo infatti in ordine di tempo, tro­viamo che un giorno, l'ultimo, è stato impiegato da Gesù per venire dalla Transgiordania a Bethania risalendo per la strada da Gerico a Gerusalemme (§ 438); due giorni, il penultimo e il terz'ultimo, sono stati consumati dal suo deliberato indugio dopo aver ricevuto l'annunzio che Lazaro era gravissimo; il quart'ultimo giorno, dun­que, è insieme quello in cui le sorelle del malato hanno inviato l'annunzio a Gesù e in cui Lazaro è morto ed è stato sepolto. Egli dun­que morì poche ore dopo che le sue sorelle avevano spedito il messo a Gesù.

§ 492. Oggi, sul posto dell'antica Bethania, si mostra una tomba che una tradizione attestata fin dal IV secolo identifica con quella di La­zaro. Trattasi certamente di un sepolcro del solito tipo palestinese, ma oggi è difficile farsi un'idea esatta del rapporto tra il sepolcro e il primitivo territorio circostante, a causa delle ripetute modifica­zioni che tutto il luogo ha ricevuto lungo i secoli. L'antica porta esterna fu murata dai musulmani nel secolo XVI, quando vi fu edifi­cata la moschea sovrastante: poco dopo vi fu adattato per altra parte l'accesso odierno, che discende per 24 gradini. Questo accesso immette nell'antico atrio della tomba, il quale è un quadrilatero di circa tre metri per lato; scendendo ancora tre gradini si penetra attraverso una stretta apertura nella camera funeraria, che è di di­mensioni alquanto minori e contiene oggi i loculi per tre salme. Checché sia dell'identità di questa tomba con quella di Lazaro, l'aderenza della narrazione ai costumi funebri e ai dati archeologici palestinesi è esattissima, e anche per questa ragione si scorge neI nar­ratore un testimonio oculare. Né è minore la corrispondenza della narrazione allo stato psicologico dei Giudei durante il fatto e subito dopo. Durante il fatto, alcuni Giudei contestano a Gesù, non senza una punta di beffa, di non aver impedito la morte di Lazaro dopo aver donato la vista al cieco di Gerusalemme.

Dopo il fatto, fra i Giudei stessi avviene una scis­sione cosi narrata dal testimonio oculare: Molti pertanto dei Giu­dei, che erano venuti a Maria ed avevano contemplato ciò che (egli) fece, credettero in lui; altri di essi, invece, se ne andarono ai Fa­risei e dissero loro le cose che fece Gesu'. L'effetto di questo zelante messaggio fu, come si vedrà, la decisione presa dai Farisei che l'ope­ratore di miracoli cosi grandiosi e cosi pubblici doveva essere tolto di mezzo; ma qui è importante rilevare come la scissione prodottasi tra i Giudei testimoni del miracolo abbia un fondamento psicologi­co storicamente perfetto. Fra quegli avversari di Gesù, coloro che non hanno dimenticato di essere uomini, si arrendono al miracolo e credono in chi l'ha operato; coloro invece che hanno subordinato il loro cervello e cuore di uomini alla propria qualità di membri d'un partito, non si preoccupano che del trionfo del partito e corrono a denunziare Gesù. La storia umana è piena di esempi di paradossale tenacia partigianesca, ma nessuna tenacia è stata più massiccia di quella dei Farisei. Crolli il mondo, ma rimanga a qualunque costo il fariseismo (§ 431). Difatti il mondo crollò e il fariseismo rimase, ma quale testimonio inconfutabile della propria disfatta.

§ 493. I critici radicali odierni (seguaci dei metodi dell'antico fari­seismo più che non sembri), per dimostrare che la narrazione della resurrezione di Lazaro è tutta allegorica e non ha alcun fondamento storico, portano una ragione che dovrebbe essere perentoria: la ra­gione è che il fatto è narrato dal solo Giovanni e non dai Sinottici, mentre se si trattasse di un avvenimento reale, i Sinottici nel loro stesso interesse apologetico non avrebbero potuto tralasciare un av­venimento così adatto a conciliare la fede nel Messia Gesù. La ragione è certamente perentoria, ma solo per mostrare la povertà d'argomenti dei critici radicali. In primo luogo si può ricordare loro ad personam che la resurrezione di Gesù è narrata concordemente dai Sinottici e da Giovanni, ma ciò non è per essi un motivo suffi­ciente per accettarla come fatto storico. Inoltre, la ragione addotta è un argomento a silentio; il quale, se è debolissimo sempre, è asso­lutamente nullo nel caso nostro. Noi sappiamo infatti che Giovan­ni ha voluto appunto supplire e integrare, in piccola parte; quanto era già stato narrato dai precedenti Sinottici (§163 segg.), e questo di Lazaro è precisamente uno di tali casi. D'altra parte i Sinottici, non soltanto sono lontanissimi dalla pretesa di raccontare tutti i fatti o miracoli di Gesù, ma essi stessi ci offrono la prova di averne trala­sciati moltissimi: già vedemmo infatti come i Sinottici riportino le parole di Gesù secondo cui egli aveva operato molti portenti anche a Chorozain, ma neppure uno di questi fatti di Chorozain è narra­to dai Sinottici o da Giovanni (§ 412).
Quanto alla ragione per cui i Sinottici omisero questa narrazione, è aperto il campo alle con­getture: una molto verosimile è che non volessero esporre Lazaro e le sorelle alle rappresaglie degli ostili Giudei tuttora spadroneggianti a Gerusalemme, dal momento che il Sinedrio aveva già pensato di uccidere Lazaro come testimonio incomodo (§ 503); più tardi invece, quando scrisse Giovanni, questo silenzio prudenziale non ave­va più ragione di essere, perché Gerusalemme era ridotta a un cu­mulo di rovine. D'una serenità olimpica è la spiegazione che il Renan fornì della resurrezione di Lazzaro. Veramente questa è la seconda spiegazione, giacché la prima che supponeva una sincope passeggera di Lazaro e un trucco accordato tra lui e le sorelle (§ 207) non lo aveva lasciato pienamente soddisfatto; e allora, senza abbandonarla del tut­to, di rincalzo egli vi aggiunge questa spiegazione definitiva. Un bel giorno i discepoli chiedono a Gesù che compia un miracolo per convincere i cittadini di Gerusalemme; Gesù risponde sfiduciato che quelli non crederebbero neppure se Lazaro risuscitasse, intendendo il Lazaro gia nominato nella parabola del ricco epulone (§ 472). Bastò questa risposta, perché più tardi i discepoli parlassero senz'altro di una vera e reale resurrezione di Lazaro. E cosi il miracolo è bell'e fatto. - Ora, certamente tutti quanti, dotti e indotti, am­metteranno che siffatta spiegazione è opportunissima per procurare un minuto di ilarità cordiale; ma tutti anche, dopo le risate, si domanderanno se una biografia di Gesù era il luogo più adatto per tirar fuori simile pulcinellate.
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06/08/2012 19:11

Gesù ad Efraim e a Gerico

§ 494. I maggiorenti Giudei di Gerusalemme presero molto sul serio la denunzia fatta dai testimoni della resurrezione di Lazaro. I Farisei, impensieriti, si rivolsero ai sommi sacerdoti che dovevano decidere in proposito, e fu adunata un'assemblea, alla quale certamente presero parte molti membri del Si­nedrio. Fu proposta la questione: Che facciamo? Giacché quest'uo­mo fa molti portenti! Se lo lasciamo (agire) così, tutti crederanno in lui; e (allora) verranno i Romani e distruggeranno sia il luogo (san­to) sia la nazione nostra. I partecipanti all'assemblea non discutono affatto la realtà dei miracoli di Gesù e specialmente dell'ultimo; ma già da tempo comparivano taumaturghi presentandosi quali inviati da Dio e predicando rivoluzioni fra il popolo (§ 433), che Gesù è considerato come uno di essi: anzi egli ha l'aggravante di compiere portenti più numerosi e strepitosi, e quindi tali da attirare anche più l'attenzione dei Romani.
Costoro in realtà erano già padroni della Palestina, sebbene non s'immischiassero nelle questioni del luo­go (santo), ossia del Tempio, e avessero lasciato alla nazione una cer­ta autonomia interna (§ 22); tuttavia cominciavano già ad essere seccati da quella processione interminabile di taumaturghi rivoluzio­nari, e forse appunto questo galileo di Gesù li avrebbe indotti a rea­gire con severità estrema troncando una volta per sempre la fasti­diosa processione. Gli eventi immediati si potevano prevedere facil­mente: Gesù avrebbe continuato ad operare i suoi sbalorditivi mira­coli; le folle sarebbero accorse in massa a lui; tutti d'accordo lo avrebbero proclamato re d'Israele in contrapposto al procuratore di Gerusalemme e all'imperatore di Roma; contro i sediziosi sarebbero accorse le coorti romane di stanza in Palestina ed eventualmente an­che le legioni di Siria; sarebbe successa prima una strage di Giudei e poi anche la distruzione del luogo (santo) e della nazione intera. Il pericolo era grave ed imminente: bisognava provvedere subito. All'assemblea partecipava il sommo sacerdote allora in carica, Caifa (§ 52), il quale dopo aver ascoltato per qualche tempo le proposte che venivano fatte, espresse il suo parere con l'imperiosità permes­sagli dal proprio ufficio: Voi non sapete nulla! Né riflettete che per voi é conveniente che muoia un solo uomo per il popolo, e non pe­risca l'intera nazione. Caifa non aveva nominato alcuno, ma tutti capirono: il solo uomo che doveva morire per il popolo era Gesù. E’ vero che Gesù non era uno sconvolgitore di popolo e non si era mai occupato di politica; è vero che egli era innocente, come probabil­mente avevano fatto notare poco prima anche alcuni dell'assemblea stessa: ma che importava tutto ciò? Se egli moriva, l’intera nazione sarebbe scampata alla rovina, e ciò era ragione sufficiente perché egli morisse. Dicendo questo, Caifa aveva parlato soltanto come uo­mo politico e nell'interesse della sua casta sacerdotale sadducea, in­teresse che qui concordava pienamente con quello dei Farisei.

Tut­tavia l'evangelista scorge nelle sue parole un senso ben più alto, e lo esprime con questa osservazione: Ora ciò non disse da se stesso, ma essendo sommo sacerdote di quell'anno profetò che Gesu' doveva morire per la nazione, e non per la nazione soltanto, ma affinché anche i figli d'Iddio dispersi radunasse (egli) in unità. La frase essendo sommo sacerdote di quell'anno ha dato occasione ad accusare l'evangelista di non sapere che l'ufficio del sommo sa­cerdote non era annuale. Veramente non si trattava di una notizia peregrina, poiché qualunque lettore dell'Antico Testamento sapeva che quell'ufficio era a vita, sebbene ai tempi di Gesù - come già rilevammo (§ 50) - assai raramente i sommi sacerdoti morissero in carica; perciò Giovanni, avendo presente questo abuso invalso ai suoi tempi, vuole soltanto dire che in quell'anno solenne in cui morì Ge­sù era Caifa il sommo sacerdote legittimo, e come tale pronunziò quelle parole che a sua insaputa avevano un significato ben più alto di quello da lui inteso. Agli occhi di Giovanni quell'ultimo sommo sacerdote dell'antica Legge decade in quell'anno stesso, in cui è sta­bilita la nuova Legge per mezzo del Messia Gesù; ma prima di decadere, in forza del suo legittimo ufficio, egli rende omaggio uffi­ciale all'istitutore della nuova Legge, proclamandolo inconsciamente vittima di salvezza per la nazione d'Israele e per tutte le altre del­la terra. La decisione presa dall'assemblea fu conforme al suggerimento dato da Caifa: Da quel giorno, pertanto, deliberarono di ucciderlo. Questa deliberazione fu probabilmente comunicata, o agli Apostoli o a Gesù stesso, da qualche persona benevola che l'aveva risaputa. Gesù allora non si mostrò più in pubblico, e allontanandosi dalla zona di Gerusalemme si ritirò con i suoi discepoli in una città detta Efraim, che, riconosciuta già nel secolo IV (cfr. Eusebio, Onomasti­con, 90), corrisponde quasi certamente all'odierna Taijibeh, circa 25 chilometri a settentrione di Gerusalemme sui margini del deserto. Era abitudine di Gesù ritirarsi in luoghi solitari alla vigilia di av­venimenti importanti per la sua missione.

§ 495. Ad Efraim Gesù rimane non molti giorni. La Pasqua s'avvi­cinava, e già cominciavano a passare le prime comitive avviate a Ge­rusalemme. Nella città santa si aspettava da un momento all'altro l'arrivo anche di lui. Ad ogni modo, per far si che la deliberazione dell'assemblea non rimanesse un vano desiderio, i sommi sacerdoti e i Farisei avevano dato comandi affinché, se alcuno conoscesse do­v'era, (lo) indicasse, cosicché lo catturassero (Giovanni, 11, 57). Nonostante questi ordini, uno dei primi giorni del mese Nisan dell'anno 30, Gesù abbandonò il suo ritiro di Efraim e si mise in viaggio ver­so Gerusalemme seguendo la strada più lunga che a fianco al Giordano passava per Gerico. I discepoli fiutavano nell'aria sentore di tragedia, e ciò li faceva camminare riluttanti sebbene fossero prece­duti da chi non mostrava riluttanza: erano nella strada per salire a Gerusalemme, e Gesu' andava avanti a loro, ed (essi ne) stupivano; coloro poi che seguivano, avevano paura (Marco, 10, 32). La carovana era formata come da due gruppi: il primo era degli Apostoli con qualche altro discepolo più antico ed affezionato, e questo gruppo era preceduto da Gesù che camminava distaccato in avanti tutto solo, tanto che essi ne stupivano; il secondo gruppo, di quelli che seguivano a qualche distanza, era formato da altri disce­poli più recenti, mescolatisi forse con pellegrini pasquali che già co­noscevano Gesù e s'interessavano di lui: soprattutto i componenti di questo secondo gruppo avevano paura. Lontano, verso destra, si proilavano le colline di Gerusalemme.

A un certo punto Gesù, fattisi venire dappresso con un gesto i dodici Apostoli, cominciò a dir loro le cose che stavano per accadergli:”Ecco, saliamo a Gerusalemme, e il figlio dell'uomo sarà conse­gnato ai sommi sacerdoti e agli Scribi, e lo condanneranno a mor­te, e lo consegneranno ai pagani, e lo beffeggeranno e lo sputacchie­ranno e lo flagelleranno e uccideranno, e dopo tre giorni risorgerà”. L'annunzio non era nuovo (§ § 400, 475), ma in quelle circostanze era opportunamente rinnovato: essendo imminente il tempo in cui Gesù avrebbe palesato universalmente la sua qualità di Messia, era opportuno richiamare alla memoria le precedenti rettificazioni mes­sianiche. Ma anche quella volta esse giovarono ben poco. Luca (18, 34) pazientemente ci fa sapere che i dodici non capirono nulla di queste cose, ed. era questa sentenza nascosta per essi; e non conosce­vano le cose che erano dette. Quanto fosse grossolana e massiccia questa incomprensione apparve in una scenetta avvenuta subito appresso.

§ 496. Fra i convocati da Gesù che non capirono nulla del suo an­nunzio, erano i due fratelli Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, mentre nel secondo gruppo che seguiva Gesù si trovava la loro ma­dre, ch'era forse una di quelle buone massaie che provvedevano alle necessità materiali dei cooperatori di Gesù (§ 343). L'annunzio di Gesù dovette essere comunicato dai figli alla madre e ampia­mente commentato da tutti e tre nella maniera più rosea e più fal­sa: si dovette parlare di Messia dominatore, di vittorie, di gloria, di trono, di corte e cortigiani, e degli altri sogni cari al messianismo politico: e giacché il tempo stringeva, i tre interlocutori giudicarono opportuno fare qualcosa per assicurarsi buone posizioni. Ecco per­ciò che, poco dopo, la madre accompagnata dai due figli si presen­ta umile e riverente a Gesù per rivolgergli una domanda; trattan­dosi di cosa assai importante, parlarono tutti e tre insieme interrom­pendosi tra loro, cosicché mentre Matteo (20, 20 segg.) attribuisce l'interrogazione alla madre, Marco (10, 35 segg.) l'attribuisce ai figli. - Che vuoi? Che volete? - dice Gesù. E allora la donna, aiuta­ta dai figli, espone la domanda. Adesso che Gesù fonderà il suo re­gno a Gerusalemme, non dovrà trascurare quei due bravi giovanotti; essi gli sono stati sempre affezionati, e per amor suo hanno perfino abbandonato la casa e le barche del loro padre; dunque Gesù si mostri riconoscente, e nell'assegnare ai suoi seguaci i posti nella cor­te messianica collochi l'uno alla destra e l'altro alla sinistra del proprio trono; e per se stessa la madre non chiede niente, ma spera che prima di morire non le sia negata questa giusta consolazione di vedere i suoi due giovanotti nei migliori posti a fianco del Messia glorioso.

La donna, rincalzata dai figli, ha finito di parlare. Gesù guarda a lungo tutti e tre, e poi con infinita pazienza dice ai giovani: Non sapete quel che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati del battesimo onde io sono battezzato? La gloria del Mes­sia verrà, si, ma prima egli deve bere un calice e ricevere una « im­mersione » che corrispondono appunto al tragico annunzio da lui dato testé agli Apostoli: prima della vita gloriosa, vi sarà la morte ignominiosa, e potranno essi affrontarla? I due giovani, con la bal­danza dei fiduciosi, rispondono: Possiamo! Gesù inaspettatamente dà loro ragione, ma nello stesso tempo respinge la loro richiesta: Si, si, berrete il mio calice e riceverete il mio battesimo, ma non è in poter mio farvi sedere a destra o a sinistra: i posti saranno occupati da coloro per cui sono stati preparati dal Padre celeste. - L'annunzio del calice e del battesimo allude alle future prove dei due Apostoli (§ 156, nota): il restante della risposta distingue ciò che gli interro­ganti avevano confuso insieme, cioè il regno del Messia sulla terra e quello glorioso nei cieli. Il primo è nel “secolo” presente e sarà pie­no di travagli e di persecuzioni (§ 486); il secondo si inaugurerà alla rigenerazione, e sarà prodotto dalla pazienza mostrata nei travagli e nelle persecuzioni del “secolo” presente: allora il figlio dell'uomo sederà sul suo trono di gloria, ma gli altri seggi ai lati di quel trono saranno assegnati dal Padre celeste. Il dialoghetto ebbe un seguito. Gli altri Apostoli riseppero della cu­pida richiesta fatta a Gesù, e nella loro gelosia s'indignarono contro i richiedenti, mostrando così di condividerne le ambizioni.
Gesù, ra­dunati nuovamente attorno a sé i contendenti, li ammonì mostrando­si anche su questo punto il moralista capovolgitore (§ 318): fra le nazioni pagane i governanti spadroneggiano sugli altri e fanno sen­tire su loro il peso della propria autorità, ma fra i seguaci di Gesù chi vuol essere maggiore degli altri diventi minore e chi vuol primeg giare diventi Io schiavo di tutti, a imitazione appunto di Gesù che non venne ad esser servito ma a servire, e a dar la sua vita a riscatto (da schiavitu') in favore di molti (Matteo, 20, 25-28). Gesù si era già presentato come buon pastore che serve tutta la giornata il suo numeroso gregge e dà la propria vita per esso (§ 434); qui egli riprende quest'ultima idea ed afferma che dà la sua vita a ri­scatto della schiavitù in favore dei molti suoi seguaci. E’ la dottrina su cui particolarmente insisterà più tardi S. Paolo.

§ 497. Seguendo la strada suddetta, Gesù giunse a Gerico. L'aristo­cratica città contemporanea era un vero luogo di delizie specialmen­te d'inverno, perché vi aveva ampiamente esercitato la sua passione di grande costruttore ellenistico Erode il Grande, e dopo di lui in minor parte anche suo figlio Archelao: vi si ammiravano un anfitea­tro, un ippodromo, una reggia sontuosà totalmente ricostruita da Achelao, e ampie piscine ove confluivano le acque dei dintorni. Ma il posto di questa città non era quello dell'antica, la vecchia Gerico cananea, le cui rovine si trovavano a circa due chilometri più a settentrione, presso la fontana di Eliseo: le esecrate rovine della città distrutta da Giosuè erano rimaste lungo tempo disabitate, ma la vicinanza della preziosa fonte vi aveva poi richia­mato gente e provocato il sorgere d'un certo numero d'abitazioni che ai tempi di Gesù valevano come sobborgo della Gerico contempora­nea (cfr. Guerra giud., Iv, 459 segg.).

Chi dunque scendeva dal settentrione, come qui Gesù, passava prima attraverso questo sobborgo formatosi presso la Gerico antica, e dopo appena una mezz'ora di cammino entrava nella città erodiana, situa­ta davanti all'imbocco della stretta valle (wadi el-Qelt) ove s'immet­teva la strada per Gerusalemme. Durante questo passaggio di Gesù avvenne un fatto narrato con interessanti divergenze dai tre Sinottici (Matteo, 20, 29 segg.; Marco, 10, 46 segg.; Luca, 19, 35 segg.). Secondo Matteo e Marco il fatto avvenne quando Gesù era uscito da Gerico; secondo Luca, quando egli vi si avvicinava. Inoltre, il fat­to consiste secondo Marco e Luca nella guarigione di un cieco, che in Marco è chiamato Bartimeo, “figlio di Timeo”; al contrario, secondo Matteo, furono guariti due ciechi. - La questione è antica, e ne furono proposte varie soluzioni, anche poco o nulla fondate; una di queste ultime è che i ciechi sarebbero stati tre, uno all'en­trata in Gerico e due all'uscita. La soluzione migliore sembra esser quella che tiene conto della doppia Gerico, l'antica e l'erodiana: di un viandante che faceva il breve tragitto dall'una all'altra si poteva ben dire tanto che era uscito da Gerico (antica) quanto che si avvicinava a Gerico (erodiana). Quanto al numero dei ciechi guariti, se uno o due, la divergenza non è nuova, perché già la trovammo a proposito dell'energumeno di Gerasa che secondo il solo Matteo aveva un compagno (§ 347); anche qui il solo Matteo enumera due cie­chi innominati.

Trasferendosi mentalmente a quei tempi, la diver­genza si comprende: già notammo che in Palestina i ciechi spesso si uniscono a coppia per mutuo aiuto (§ 351), e il cieco più intra­prendente della coppia ne è quasi la personificazione comune, men­tre l'altro rimane come nascosto all'ombra di lui; qui si aveva la per­sonificazione rappresentata da Bartimeo, ma l'accurato Matteo ri­corda che questa personificazione comune era composta da due in­dividui. Bartimeo dunque, assistito dal compagno minore, stava a limosina­re lungo la strada. Sentendo dal calpestio che passava un folto grup­po di gente, domandò chi fossero; gli fu risposto che passava Gesù il Nazareno, certamente a lui già noto per la fama dei suoi miraco­li. Ambedue i ciechi allora si dettero a gridare: Signore, abbi pietà di noi, figlio di David! Quelli della comitiva dettero loro sulla voce affinché tacessero, ma i due tanto più alzavano le loro grida insisten­do nell'implorazione.

A un tratto Gesù si fermò e dette ordine che gli fossero condotti vicino. I circostanti andarono da Bartimeo con una parola piena di speranza: Coraggio! Alzati! Ti chiama! Egli, gettato via il suo mantello, saltò su e seguito dal compagno minore andò da Gesù. Gesù chiese loro: Che volete che vi faccia? - Che può desiderare un cieco? Bartimeo rispose: Rabboni, che ci veda! E tutti e due, più e più volte insieme: Signore, che si aprano gli occhi nostri! Gesù allora disse: Va', la tua fede ti ha salvato! Era la stessa risposta, in sostanza, già data ai due ciechi di Cafarnao (§ 351). Toccati i loro occhi, ambedue furono guariti all'istante, e subito si unirono con la comitiva che seguiva Gesù.

§ 498. Gesù allora entrò in Gerico, naturalmente fra grande entu­siasmo: si correva da tutte le parti per vedere il famoso Rabbi cer­cato a morte dai Farisei, colui che aveva guarito li per lì su due piedi la notissima coppia di Bartimeo; il fervore popolare era accresciu­to dai due ciechi stessi, che mostravano i propri occhi guariti a quanti volevano esaminarli. Tra gli accorsi fu un certo Zaccheo, ch'era capo dei pubblicani: cit­tà di confine e centro commerciale importante, Gerico doveva albergare molti agenti d'imposte, e uno dei loro capi era appunto questo Zaccheo. Il suo nome ebraico, Zakkai, dimostra ch'egli era giudeo; se ciò nonostante faceva quell'odiato mestiere, come l'aveva fatto an­che Levi Matteo (§ 306), la colpa non era sua ma dei lauti guadagni che il mestiere procurava. Era infatti ricco; ma in lui, egualmente come in Levi Matteo, le ricchezze non avevano soffocato ogni senso di spiritualità, ché anzi quella sazietà materiale gli faceva provare una certa nausea e sentire talvolta più acuto il desiderio di ricchezze superiori all'oro e all'argento. In questo stato d'animo si trovava Zaccheo quel giorno in cui Gesù entrava a Gerico, e desiderava ardente­mente di avvicinarlo e parlargli, o almeno di vederlo.

Recatosi lungo il passaggio, capì subito che l'impresa era assai difficile; Gesù era attorniato da folla fittissima, in mezzo a cui sarebbe stato impossi­bile aprirsi un varco; d'altra parte il povero Zaccheo (non Gesù, come ha sognato l'Eisler; § 189) era basso di statura, cosicché dal pia­no terra non riusciva a scorgere neppure i capelli di Gesù. Rinunzia­re all'idea? Neppur per sogno. Il bravo Zaccheo fece una corsa sul davanti della folla che avanzava lentamente, e adocchiato un bel sicomoro ci si arrampicò sopra: era uno di quei bassi alberi, come se ne vedono ancor oggi a Gerico stessa, che hanno lunghe radici ri­salenti verso il tronco, in modo da sembrare circondati da tante funi; arrampicarsi là sopra, con quella bella comodità delle funi, fu cosa da nulla. La scena però dette sull'occhio. Se si fosse trattato di un con­tadino o un popolano qualunque, nessuno ci avrebbe badato; ma quell'omettino lassù era un capo pubblicano, cioè un capo di quelle sanguisughe che succhiavano il sangue del popolo.
Forse più d'uno dei passanti pensò che quella sarebbe stata una buona occasione per fargli fare un volo dall'albero, o almeno per accendergli un bel falò sotto: tutti ad ogni modo se lo additavano tra loro con beffe e sghi­gnazzamenti. Finalmente passa Gesù presso il sicomoro. Guardando in su tutti, guarda anche Gesù. Quei di Gerico che lo accompagnano gli spie­gano chi sia l'omiciattolo appollaiato sull'albero: è un niente di buono, un uomo peccatore, anzi un capo peccatore e capo sangui­suga, che per atroce sarcasmo si chiama Zakkai (“puro”) mentre dovrebbe chiamarsi a ragione con ben altri nomi; non sarebbe quin­di decoroso per il maestro rivolgergli la parola, e nemmeno fermarsi a guardarlo. Gesù invece, non solo sì è fermato e lo guarda, ma non sembra affatto persuaso delle informazioni che sta ricevendo; quan­do poi gli informatori hanno finito di parlare, si rivolge all'omettino sull'albero e gli dice nientemeno cosi': Zakkai, presto, vieni giu'! Og­gi infatti in casa tua devo far sosta. Fu uno scandalo generale. Frettoloso e gioioso Zaccheo si ruzzolò giù dall'albero, e il maestro senz'altro s'avviò con lui a casa sua; ma, vedendo (ciò), tutti mormoravano che presso un uomo peccatore en­trò ad albergare.

Trattandosi della casa impura di un peccatore, i fedeli alle norme farisaiche naturalmente rimasero fuori; e invece quella casa diventava più pura di tante altre appartenenti a Farisei. Zaccheo infatti, che sentiva non poche coserelle gravanti sulla sua coscienza, quando fu dentro casa volle onorar l'ospite facendo ampia ammenda del proprio passato; disse perciò a Gesù: Ecco, la metà delle mie sostanze, Signore, do ai poveri, e se frodai taluno in qualche cosa restituisco al quadruplo. L'ospite, pienamente soddisfat­to dell'ammenda, rispose al capo sanguisuga: Oggi si è fatta salvezza in questa casa, perché anche questo è un figlio di Abramo; venne infatti il figlio dell'uomo a cercare e salvare ciò che era perduto. In maniera analoga aveva risposto Gesù nel difendere l'altro pub­blicano, Levi Matteo, divenuto poi suo seguace. La guarigione di Bartimeo era stata un miracolo che aveva meravi­gliato le folle; l'ammenda di Zaccheo probabilmente non meravigliò nessuno, e forse vi fu gente che vi malignò sopra.
Eppure, nel pen­siero di Gesù, l'ammenda era un miracolo diverso ma non minore della guarigione se nel caso di Bartimeo un cieco aveva veduto, nel caso di Zaccheo un camello era passato attraverso una cruna d'ago, mentre tale passaggio era presso gli uomini impossibile, ma non presso Dio (§ 485).
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06/08/2012 19:15

La parabola delle mine e dei talenti

§ 499. Probabilmente l'ammenda di Zaccheo e la risposta di Gesù avvennero durante un banchetto offerto dal capo pubblicano al suo ospite. Vi avranno partecipato, oltre ai discepoli di Gesù, anche altri suoi ammiratori che s'aspettavano da lui grandi cose: e un fremi­to ansioso doveva passare a ondate in quella sala, ove a mezza voce si sentiva parlare di regno di Dio, di Messia glorioso, di travolgenti vittorie, di tribunali giudicanti, di fulgidi troni e di cortigiani gloriosi e beati; se ne parlava tuttavia con qualche prudenziale riser­bo per non dispiacere al maestro, giacché tutti sapevano ch'egli -chissà per quali sue recondite ragioni - disapprovava quei ragiona­menti e sostituiva a quelle prospettive così rosee altre prospettive altrettanto lugubri. Eppure, senza alcun dubbio, oramai si era alla vigilia di fatti decisivi; tutto induceva a credere che da un giorno all'altro la potenza taumaturgica del maestro si sarebbe dispiegata in pieno, lo stato delle cose sarebbe stato totalmente mutato e il regno di Dio palesemente inaugurato. Da alcune finestre della sala si scorgeva forse la suntuosa reggia ricostruita da Archelao: e taluni di quegli infervorati dovettero ripensare all'effimero ed oscuro prin­cipato di quel tetrarca (§ 14), contrapponendogli in cuor loro lo sta­bile e glorioso regno che il Messia Gesù avrebbe inaugurato di lì a pochi giorni. Gesù in parte udì le sommesse parole, e per il resto comprese da sé lo stato d'animo dei presenti; perciò disse una parabola, perché egli era vicino a Gerusalemme e quelli credevano che il regno d'iddio sta­va per apparire subito (Luca, 19, 11).
La parabola fu la seguente. Un uomo nobile partì per una regione lontana, onde ricevere l'in­vestitura di un regno e poi ritornare quale re effettivo del luogo di partenza. Per non lasciare inoperoso il proprio denaro durante la sua assenza, consegnò una mina - cioè un po' più di 100 lire in oro - a ciascuno dei dieci suoi servi con l'incarico che la commercias­sero fino al suo ritorno. Senonché i suoi cittadini lo odiavano, e mandarono dietro a lui una loro propria ambasceria che dicesse a colui che doveva concedere l'investitura: Non vogliamo che costui regni su di noi! - Tuttavia l'investitura fu concessa, e l'uomo no­bile tornò quale re effettivo. Questa “premessa” della parabola è cavata dalla realtà storica; già notammo che essa corrisponde esattamente al viaggio che un trenta anni prima Archelao aveva fatto a Roma per ricevere da Augusto l'investitura dei suoi dominii, e inoltre anche alla delegazione di 50 Giudei che fu inviata da Gerusalemme dietro a lui e contro di lui (§13). Si abbia anche presente che, mentre Gesù parlava e gli altri l'ascoltavano, gli occhi di tutti potevano benissimo posarsi sulla reg­gia dello stesso Archelao rimasta vuota a Gerico. Tornato il nuovo re, domandò i conti ai servi a cui aveva affidato le mine. Si presentò per primo un servo che con la mina consegnatagli ne aveva guadagnate altre dieci; il re lo lodò perché era stato fe­dele nel pochissimo, e lo ricompensò dandogli il governo di dieci città. Si presentò un secondo che aveva guadagnato altre cinque mine, e costui fu ricompensato col governo di cinque città. Venne poi un terzo che disse: Signore, rieccoti la tua mina che io ho te­nuta riposta in un fazzoletto; ho avuto infatti paura di te che sei severo, ritiri ciò che non hai depositato e mieti dove non hai semi­nato! - Evidentemente questo servo non aveva acconsentito all'am­basceria ostile inviata dietro al pretendente al regno, ma neppure aveva fatto alcunché in favore di lui; conoscendolo per altro come molto esigente, aveva conservato tale quale la somma affidatagli, cosicché il futuro re non avrebbe potuto accusarlo d'infedeltà e di fur­to.
Ma il re gli rispose: Dalla tua bocca ti giudico, servo malvagio! Sapevi che io sono uomo austero, che tolgo ciò che non ho depo­sitato e mieto ciò che non ho seminato? E perché non consegnasti il mio argento alla banca, ché io ritornato l'avrei riscosso con interes­se? Voltosi poi agli astanti comandò: Toglietegli la mina, e datela a quello che ne ha dieci! - Gli fu fatto osservare: Ma, signore, quello ha già dieci mine! - Però il re replicò: Eppure è cosi; a chi ha già, sarà ancora dato, mentre a chi non ha, sarà tolto anche ciò che ha! Inoltre, quei tali miei nemici che non volevano ch'io regnassi su loro siano condotti qui ed uccisi in mia presenza!

§ 500. L'ansiosa aspettativa che quegli uditori avevano del regno messianico non poté rimanere soddisfatta della parabola. In essa l'insegnamento è, in primo luogo, che il palese trionfo del regno di Dio sarà o uno ricompensa o un castigo a seconda del contegno dei singoli individui: in secondo luogo, che quel trionfo avverrà dopo una partenza e un'assenza del pretendente al regno, il quale com­parirà ed agirà da re soltanto alla sua futura venuta. Applicando la parabola, troviamo che il pretendente al regno è Gesù stesso; il qua­le è già nel pieno possesso dei suoi diritti regali, ma ancora non è partito per andare a ricevere l'investitura pubblica e solenne dal suo Padre celeste assentandosi dai suoi sudditi, alcuni dei quali gli sono apertamente ostili e vorrebbero che egli non regnasse; questa sua as­senza non è breve, giacché il pretendente parte per una regione lon­tana e affida ai suoi servi traffici che richiedono molto tempo (difatti Matteo, 25, 19, dirà che il padrone della parabola ritorna dopo mol­to tempo); quando Gesù sarà di ritorno dal suo Padre celeste, allora avverrà l'inaugurazione manifesta e solenne del suo regno con il premio dei sudditi fedeli e il castigo dei negligenti e ribelli. Non stiano dunque in ansiosa trepidazione i discepoli, aspettandosi da un giorno all'altro il trionfo solenne del regno di Dio. Prima di quel trionfo Gesù dovrà partire per una regione lontana e rimanere assente da loro fino alla sua nuova parusia, ossia presenza. Durante questa sua indefinita assenza, i nemici del lontano re brigheranno accanitamente affinché non regni: anzi, quando sarà proposto loro di riconoscere ufficialmente la sua regalità di Messia ebraico, rispon­deranno di riconoscere soltanto la regalità del Cesare pagano (Gio­vanni, 19, 15). Perciò questa sua assenza sarà un periodo di dure prove per i sudditi fedeli rimasti soli, e superando tali prove essi me­riteranno di partecipare al trionfo finale della parusia. Se però il trionfo definitivo era riservato alla parusia, Gesù stesso aveva già promesso una grande manifestazione di possanza del regno di Dio che poteva ben valere come parziale anticipazione del trionfo finale (§ 401); inoltre aveva promesso particolari soccorsi ap­punto durante quelle dure prove (§ 486).

La parabola delle mine, propria a Luca, è narrata anche da Matteo (25, 14-30) ma in altro contesto e con talune divergenze. Matteo la fa recitare da Gesù durante il grande discorso escatologico, pronun­ziato a Gerusalemme nel rnartedì della settimana di passione (§ 523); inoltre, colui che parte non è un pretendente al regno che va a ri­ceverne l'investitura ma è un uomo facoltoso, e non distribuisce ai suoi servi una mina a ciascuno ma o cinque o due o un solo talento, il quale valeva 60 mine: alla fine, poi, non si parla del castigo dei nemici che avevano brigato contro l'assente. - La collocazione che Luca dà alla parabola è senza dubbio migliore di quella di Matteo, perché corrisponde in maniera sorprendente al momento storico e alle circostanze della recita; lo stesso si dica della qualità di pretendente al trono e del conseguente castigo dei nemici, che non si ritro­vano in Matteo. Per il resto le due parabole corrispondono quanto alla sostanza: quella di Matteo può essere un raccorciamento di quel­la di Luca, ma può anche darsi che il dippiù che si ritrova in Luca (specialmente il castigo finale dei nemici) provenga da una parabola diversa.


Il convito di Bethania


§ 501. Risalendo da Gerico verso Gerusalemme, Gesù doveva pas­sare necessariamente per Bethania, da cui si era allontanato poche settimane prima. Ivi egli giunse sei giorni prima della Pasqua (Gio­vanni, 12, 1), cioè in un sabbato; poiché il tragitto da Gerico a Be­thania (§§ 438, 489 segg.) era così lungo che non sarebbe stato permesso in un giorno di sabbato, Gesù probabilmente viaggiò nel venerdì precedente per giungere a Bethania sul tramonto, quando cominciava ufficialmente il sabbato. Anche qui l'indicazione di Giovanni vuole precisare ciò che i precedenti Sinottici hanno lasciato nel vago: attenendosi infatti a Matteo (26, 6 segg.) e a Marco (14, 3 segg.) sembrerebbe che questa visita a Bethania fosse avvenuta più tardi, il mercoledì successivo: ma questo ritardo della narrazione presso di loro è dovuto alla mira di far risaltare la relazione tra le parole pronunziate a Bethania da Giuda e il suo successivo tradi­mento. Con la venuta a Bethania sembrava che Gesù si offrisse da se stesso al pericolo: i suoi nemici, che poco prima avevano deciso la sua morte e ordinato il suo arresto (§ § 494, 495), erano là ad una passeg­giata da Bethania e potevano essere informati subito ed agire.
Il pe­ricolo indubbiamente esisteva, tuttavia era meno immediato di quan­to apparisse: in primo luogo dopo l'ordine di arresto Gesù era scom­parso, e quindi i primi bollori si erano alquanto raffreddati, salvo a riaccendersi se Gesù fosse ricomparso; inoltre, oramai si era in piena preparazione pasquale, a Gerusalemme giungevano ad ogni ora folle di Giudei di tutte le regioni e quindi anche di conterranei e ammiratori di Gesù, e non era opportuno provocare un tumulto procedendo contro di lui con la città così affollata. Ad ogni modo i Sinedristi ed i Farisei, non dimentichi affatto della loro decisione, si sarebbero regolati con prudenza a seconda delle circostanze; frat­tanto i comuni Giudei della capitale, incuriositi, aspettavano di ve­dere come si sarebbe svolta la lotta e se sarebbe prevalso il Sinedrio oppure Gesù. A Bethania Gesù dovette trovare accoglienze trionfali, provocate cer­tamente dal ricordo della recente resurrezione di Lazaro. La sera di quel sabbato fu tenuto un convito in suo onore in casa di un certo Simone soprannominato il Lebbroso, ch'era senza dubbio uno dei più facoltosi della borgata, e doveva il suo soprannome alla malat­tia da cui era guarito, forse per intervento di Gesù. Fra gli invitati non poteva mancare, e difatti non mancò, Lazaro; sua sorella, la massaia Marta, dirigeva il servizio; l'altra sorella Maria, meno esper­ta di faccende domestiche, provvide da se stessa a portare un con­tributo d'onore al convito. Come i convitati erano sdraiati su di­vani con il busto verso la tavola comune e i piedi all'in fuori nella maniera che già dicemmo (§ 341), Maria ad un certo punto del con­vito entrò recando uno di quei vasi d'alabastro dal collo allungato, in cui gli antichi usavano conservare essenze odorose di gran pre­gio: la ragione è data da Plinio quando dice che l'alabastro cavant ad vasa unguentaria, q'uoniam optime servare incorrupta dicitur (Natur. hist., XXXVI, 12). Il vaso recato da Maria conteneva una lib­bra, cioè 327 grammi, di nardo autentico di gran valore.
L'aggetti­vo autentico, come dice il greco “di fiducia”, è oppor­tuno, perché il citato naturalista romano ricorda che l'ungnento di nardo si adulterava facilmente, adulteratur et pseudonardo herba qua' ubique nascitur (ivi, XII, 26). E come genuino, il nardo di Ma­ria era di gran valore: Giuda, che doveva intendersi di prezzi, lo valutò a piu' di 300 denari, cioè a più di 320 lire in oro; Plinio (ivi) dice che in Italia il nardo costava 100 denari la libbra, e altre spe­cie meno pregiate anche meno: tuttavia egli stesso ricorda altrove (ivi, XIII, 2) unguenti che costavano da 25 a 300 denari la libbra. Maria pertanto, giunta al divano di Gesù, invece di sciogliere il si­gillo apposto sull'orifizio del vaso ne spezzò il collo allungato, in se­gno di maggiore dedizione, e ne effuse abbondantemente l'essenza profumata dapprima sul capo di lui e poi il rimanente sui suoi pie­di: egualmente in segno di particolare omaggio, asciugò ella con i propri capelli i piedi profumati del maestro, imitando in parte l'an­tica peccatrice innominata (§ 341). E la casa fu piena del profumo dell'unguento.

§ 502. L'atto compiuto da Maria non era insolito: ad ospiti insigni invitati a banchetto si offrivano, dopo la lavanda di mani e piedi, squisiti profumi di cui cospargersi. E tanto più questa finezza era na­turale in Maria in quanto la usava verso colui che aveva risusci­tato il fratello, anche se per compierla ella impiegava una quantità di essenza veramente straordinaria; ma l'esuberanza della materia testimoniava l'esuberanza del sentimento interno. Questa prodigalità sorprese taluni discepoli, e più di tutti il loro amministratore comune che era Giuda l'Iscariota (§ 313); costui, come avverte in maniera distinta Giovanni (mentre gli altri evan­gelisti parlano di discepoli in genere), protestò apertamente pur sotto la parvenza di beneficenza: Perché s'e' fatto questo scempio d'un­guento? Si poteva infatti vendere questo unguento per piu' di 300 denari, e dare ai poveri! (Marco, 14, 4-5). Ma alla protesta di Giu­da l'evangelista Giovanni, non meno pratico che spirituale, fa se­guire una sua riflessione: Disse però questo, non perché gl'importava dei poveri, ma perché era ladro, e avendo (egli) la cassetta asportava le cose messevi (dentro) (Giovanni, 12, 6). Da questa notizia apprendiamo che il gruppetto dei seguaci abituali di Gesù faceva vita comune, senza dubbio insieme col maestro, e tutti mettevano i personali proventi in comune depositandoli in una cassetta; questa era affidata a Giuda, il quale fun­geva da amministratore e certamente sarà stato coadiuvato occasionalmente da quelle pie donne che, di tempo in tempo secondo le loro possibilità, seguivano il gruppo di Gesù incaricandosi dell'assi­stenza materiale (§ 343).

Ma Giuda era ladro, e sottraeva il denaro dalla “cassetta”. Ora, questo furto continuato difficilmente poteva essere riscontrato dagli altri Apostoli, i quali erano totalmente occu­pati nel ministero spirituale e per le cose materiali si rimettevano in tutto a Giuda; invece appunto le pie donne avevano ogni facilità di riscontrare il furto perché, occupandosi delle spese e fornendo esse stesse buona parte del denaro, potevano seguire a un dipresso le entrate e le uscite della “cassetta” ed avvedersi delle sottrazioni più notevoli. Forse di tali sottrazioni avevano esse informato gli altri Apostoli e Gesù stesso; e da allora l'amministratore infedele fu guar­dato con occhio d'accorata pietà, ma silenziosamente fu lasciato an­cora nel suo ufficio per la speranza che egli, non svergognato, rinsa­visse. Qui invece Giuda si mostra incancrenito: piu' di 300 denari era una somma cospicua, quasi un anno intero di salario d'un operaio (§ 488), e il ladro al vedersi sfumare questa bella entrata scatta allegando il pretesto dei poveri. Il seguace di Mammona vuoi conser­vare ancora la divisa esteriore di seguace di Dio (§ 485). Alla protesta di Giuda, Gesù rispose: Lasciala (fare)! Che lo serbi (= che valga come riserbato) per il giorno del mio seppellimento! I poveri infatti sempre avete con voi, me invece non avete sempre (Giov., 12, 7-8; cfr. Matteo, 26, 10-13; Marco, 14, 6-9). Per Gesù, dunque, l'unzione da lui testé ricevuta valeva come un'anticipazione del suo imminente seppellimento, giacché le salme si deponevano nella tomba cosparse di aromi e di essenze profumate.
Ma anche da questo nuovo annunzio pare che gli Apostoli non si convincessero dell'imminente morte di Gesù: tranne forse Giuda che, da buon finanziere umano, previde la bancarotta altrui e dovette da allora pen sare direttamente ai casi propri.

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