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mercoledì 24 luglio 2013

LA VITA DI GESU' CRISTO di don ricciotti




SCARICA QUI LA VITA DI GESU' CRISTO DI DOM RICCIOTTI

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PREFAZIONE
PREFAZIONE
La prima vaga idea di scrivere questo libro mi venne molti anni fa in circostanze straordinarie. Ero stato trasportato in un ospedaletto da campo, che stava rimpiattato sotto un bosco d'abeti in un vallone delle Alpi: per qualche tempo rimasi là tra la vita e la morte, più vicino a questa che a quella; notte e giorno il vallone rintronava dello schianto delle granate, attorno a me gridavano feriti e rantolavano moribondi, il lezzo delle cancrene che ammorbava Varia sembrava un preannunzio del cimitero. Aspettando la mia sorte a un certo momento pensai che, se fossi sopravvissuto, avrei potuto scrivere una Vita di Gesù Cristo; il vangelo di lui, infatti, stava là sul mio pagliericcio, e le sue pagine ove le macchie di sangue si erano sovrapposte a guisa di rubriche alle lettere greche mi parevano un simbolico intreccio di vita e di morte.
Guarito che fui e tornato alla vita normale, quell'idea della Vita di Gesù Cristo invece di attirarmi mi sgomentava, e ogni volta che vi ripensavo ne avevo sempre più paura: eppure non solo non mi abbandonava giammai, ma piuttosto diventava per il mio spirito una specie di necessità. Come si fa istintivamente di fronte alle necessità paurose, cominciai con girarle dattorno, quasi per illudere me stesso: mi detti a pubblicare studi su testi ebraici e siriaci, quindi una Storia d'Israèle e poi ancora la Guerra giudaica di Flavio Giuseppe, ma la vera roccaforte restava ancora là intatta nel bel mezzo dei miei giri, risparmiata dalla mia paura. Ben poco mi scossero esortazioni d'amici e inviti d'autorevolissime persone: risposi immutabilmente per molti anni che le mie forze non reggevano davanti a una Vita di Gesù Cristo.
Invece più tardi, contro ogni previsione, ho ceduto. Ma ciò è av­venuto appunto perché l'agonia dell'ospedaletto da campo, dopo tanti anni, si è rinnovata e in circostanze assai peggiori: quando cioè vidi che la tempesta di una nuova guerra s'addensava sull'umanità, e che l'Europa secondo ogni più facile previsione sarebbe stata nuovamente allagata di sangue, allora mi parve che non la mia persona ma tutta intera l'umanità, quella cosiddetta civile, giacesse moribonda con un vangelo macchiato di sangue sul suo pagliericcio.
Quest'immagine divenne allora così imperiosa su di me che fui costretto a obbedire: essendo tornato il sangue sul mondo, bisognava pure che tornasse il vangelo. E così il presente libro è stato scritto mentre l'Europa era in preda alla guerra, ossia a ciò ch'è la negazione più integrale del vangelo.
* * *
Se faccio queste confidenze al lettore non è per parlare della mia insignificante persona: è invece per avvertire in quale stato d'animo è stato scritto questo libro. La quale avvertenza è, a parer mio, impor­tantissima per giudicare ogni biografia di Gesù: il lettore che avrà la pazienza di scorrere l'ultimo capitolo dell'Introduzione si convincerà facilmente che le biografie di Gesù scritte dallo Strauss, dal Renan, dal Loisy e da tanti altri ricevettero le loro particolari coloriture so­prattutto dallo stato d'animo del rispettivo autore. Altrettanto è avve­nuto a me e lo confesso onestamente giacché lo stato d'animo con cui ho scritto è stato quello di uscire dal presente e raccogliermi nel passato, uscire dal sangue e raccogliermi nel vangelo.
Ma appunto per questa ragione ho voluto fare opera esclusiva­mente storico-documentaria: ho ricercato cioè il fatto antico e non la teoria moderna, la sodezza del documento e non la friabilità d'una sua interpretazione in voga; ho perfino osato imitare la nota «impas­sibilità» degli evangelisti canonici, i quali non hanno né una esclama­zione di letizia quando Gesù nasce né un accento di lamento quando egli muore. Ho mirato, dunque, a far opera di critica.
So benissimo che quest'ultima parola, comparsa già nel titolo, sarà giudicata usurpata da coloro per i quali la scienza critica è soltanto demolitrice e la sua ultima conclusione deve essere un «No»; ma non è affatto dimostrato che cotesti valent’uomini abbiano ragione, e tanto meno che la loro intenzione demolitrice sia risultata realmente efficace sui documenti presi di mira: anche su questo punto l'ultimo capitolo dell'Introduzione convincerà facilmente il lettore spassionato e imparziale. Del resto cotesti demolitori sono oramai quasi «supe­rati»: naturalmente essi, dopo aver imperato per parecchi anni, rifiu­tano di abdicare e rimangono tenacemente attaccati ai loro metodi; ma, come è già avvenuto per l'Antico Testamento, anche per il Nuovo la critica programmaticamente demolitrice è in decadenza e fra non molto rimarrà prerogativa non invidiata dei «vecchi». Oggi, in forza sia delle recentissime scoperte documentarie sia di tante altre ragioni, la saggia critica mira ad essere costruttrice e la sua ultima conclusione vuole essere un «». Compito difficile, senza dubbio: ma la rilut­tanza che provavo a scrivere questo libro era causata specialmente da questa difficoltà, di essere nello stesso tempo critico e costruttivo.
Per amore di chiarezza, e per non costringere il lettore a ricorrere ad altri libri, ho dovuto riassumere nell'Introduzione alcune poche pa­gine del volume secondo della mia Storia d'Israele: trattavano infatti argomenti che ero costretto a trattare anche qui. Non si cerchino in­vece in questo libro moltissime altre cose che esso, già troppo ampio, non doveva né poteva trattare: tale è il caso, ad esempio, della biblio­grafia, che per il Nuovo Testamento forma quasi una scienza a sé e richiederebbe un volume a parte; solo eccezionalmente mi sono indotto a citare qua e là alcuni pochi lavori particolari, mentre per uno sguardo generale valgono e sono anche troppi gli autori citati nell'ul­timo capitolo dell'Introduzione.
Cordialmente ringrazio il R.mo P. Mariano Cordovani, O. P., Maestro del S. Palazzo, per avere amichevolmente riveduto il mano­scritto, suggerendomi preziosi miglioramenti.
Giuseppe Ricciotti
Roma, Regia Università, gennaio 1941.
AVVERTENZA ALLA 2a EDIZIONE
La 1a edizione di questo libro, apparsa per la Pasqua del 1941, si esaurì in circa un mese, sebbene tirata a 5000 copie. Questa 2a edizione, preparata con somma ur­genza, è stata totalmente ricomposta ma senza alcun cambiamento dalla 1a edizione non essendo state ancora fatte osservazioni di sorta da competenti recensori o lettori: soltanto vi è stato aggiunto in fondo l'Indice Analitico, di cui difettava la 1a edizione.
maggio 1941.
G. R.
AVVERTENZA ALLA 3a EDIZIONE
Anche la 2a edizione si esaurì rapidamente. Questa 3a è uguale alla 2a quasi in tutto, essendovi stati corretti soltanto errori tipografici e alcune poche affermazioni isolate.
agosto 1941.
G. R.
AVVERTENZA ALLA 4a EDIZIONE
Per la 4a edizione devo ripetere quanto dissi per la 2a, alla quale è uguale in tutto. Temo soltanto che sia l'ultima edizione che per ora possa uscire in questa veste tipo­grafica, giacché i tempi di guerra non permetteranno forse di avere ancora carta e altro materiale uguali a questi. Si prolunga, insomma, l'agonia dell'ospedaletto da campo per l'umanità intera.
dicembre 1941.
G. R.
 AVVERTENZA ALLA 5a EDIZIONE
Anche per la 5a edizione, a cui con difficoltà si è potuto far fronte, sono costretto a ripetere con mesta monotonia ciò che dissi per la 4a edizione. L'agonia si prolunga ancora.
Pasqua 1942.
G. R.
AVVERTENZA ALLA 6a EDIZIONE
Questa 6a edizione appare mentre all'estero si preparano varie traduzioni del libro; essa è uguale alla precedente, salvo la correzione di pochi errori di stampa. E intanto l'agonia dell'umanità si prolunga.
dicembre 1942.
 
G. R. AVVERTENZA ALLA 7a EDIZIONE
Il movimento, invece di rallentarsi, s'accresce, perché la 6a edizione si è esaurita in un paio di mesi. Purtroppo non si esaurisce la furia sanguinaria dell'umanità. In questa 7a edizione sono stati corretti due o tre punti.
Pasqua 1943.
 
G. R. AVVERTENZA ALLA 9a EDIZIONE
L'8a edizione è apparsa e si è esaurita senza che io abbia potuto vederla per la nota divisione dell'Italia in due campi di battaglia; e per molti mesi il libro non è stato più in commercio. Adesso a guerra finita, se non a pace ritornata, esce questa 9a edizione che riproduce semplicemente l'8a; altro non si è potuto fare.
marzo 1946.
G. R.
AVVERTENZA ALLA 10a EDIZIONE
Questa 10a edizione, stampata a Roma, è stata interamente rifusa e le illustrazioni sono state tutte rinnovate: e ciò, insieme col miglior tipo di carta impiegato, contri­buirà a restituire al libro quel decoro tipografico che ebbe nelle prime quattro edizioni. Nel frattempo sono apparse o stanno preparandosi traduzioni in tredici lingue (spa-gnuolo, danese, francese, inglese, olandese, tedesco, portoghese, ceco, polacco, serbo, croato, arabo, cinese). Tuttavia, per la difficoltà delle relazioni internazionali, le re­censioni scientifiche straniere sono state pochissime: non ho potuto, quindi, usufruire dell'esperienza altrui per apportare modificazioni notevoli.
1947.
G. R.
 
AVVERTENZA ALLA  11a EDIZIONE
Anche questa edizione è stata migliorata sotto l'aspetto tipografico. Alle traduzioni si è aggiunta quella giapponese.
aprile 1948.

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06/08/2012 16:37
 
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Il paese di Gesù

§ 1. La regione ove Gesù visse è in sostanza quel tratto della costa mediterranea che unisce la Siria meridionale con l'Egitto. Lungo i secoli questa regione geografica fu chiamata con vari nomi e racchiu­sa entro differenti limiti; oggi è chiamata, come già in Erodoto, Pa­lestina, e i suoi limiti sono in parte naturali e in parte convenzionali. Ai suoi due fianchi la Palestina ha limiti naturali: ad occidente è limitata dal Mediterraneo, e ad oriente dal deserto siriaco-arabo. In alto e in basso i limiti naturali non sono cosi' precisi. Tuttavia, a settentrione, un distacco abbastanza netto è segnato dalla catena del Libano, che scende parallela al Mediterraneo e all'interno è fiancheggiata dall'Antilibano, al quale fa da avanguardia l'Hermon: la stretta fra l'Hermon e il Libano può considerarsi come il limite settentrionale della Palestina. A mezzogiorno il limite geografico è rappresentato genericamente dall'Idumea e dalle regioni desertiche che si estendono immediatamente sotto Beersheva e il Mar Morto. Sono i due limiti, settentrionale e meridionale, designati frequentemente nell'Antico Testamento con l'espressione da Dan fino a Beer­sheva, per comprendere la Palestina abitata dagli Ebrei. Questa striscia di costa mediterranea è dunque compresa fra i gradi 31-32,20 di latitudine nord, e 34,20-36 di longitudine Greenwich. La sua lunghezza, dalle falde meridionali del Libano (Nahr el-Qa­simijje) fino a Beersheva, è di circa 230 chilometri; la larghezza, dal Mediterraneo fino al fiume Giordano, va da un minimo di 37 chilometri a nord, fino a un massimo di circa 150 sotto il Mar Morto. La superficie della porzione di qua dal Giordano (Cisgiordania) è di 15.643 chilometri quadrati; quella della porzione di là dal Giordano (Transgiordania) di 9.481. La superficie totale della Palestina è dunque di 25.124 chilometri quadrati, cioè poco minore di quella della Sicilia (25.461 Km2.): la quale piccolezza materiale, sproporzionata all'importanza morale, già faceva esclamare a S. Gi­rolamo: Pudet dicere latitudineri terrae repromissionis, ne ethnicts occasionem blasphemandi dedisse videamur (Epist., 129, 4).

§ 2. L'intera regione è divisa, nelle due porzioni testé accennate, dal profondo avvallamento dentro cui scorre il Giordano e che è un fenomeno geologico unico sul globo. Questo avvallamento, prolun­gandosi giù dal Tauro attraverso la Celesiria, si deprime sempre più avanzandosi nella Palestina, raggiunge il suo punto più profondo dentro il Mar Morto, e continuando a oriente della penisola Sinai­tica raggiunge il Mar Rosso. Sopra a Dan il livello dell'avvalla­mento è ancora di 550 metri più alto del Mediterraneo; ma dopo una decina di chilometri, dov'era il lago di el-Hule, il livello è sceso a soli 2 metri sul mare, e dopo un'altra decina di chilometri, al lago di Tiberiade, il livello d'acqua è a 208 metri sotto il mare, mentre il fondo del lago è di 45 metri più in basso; infine, all'im­boccatura del Mar Morto il livello d'acqua è a 394 metri sotto il Mediterraneo, e dentro il Mar Morto il fondo è a 793 metri sotto il Mediterraneo, costituendo cosi la più profonda depressione continentale conosciuta sul globo. Questo singolare avvallamento è percorso in lungo dal solo fiume importante della Palestina, il Giordano, che nasce dall'Hermon e, dopo aver superato il lago di Tiberiade, si espande nel Mar Morto e ivi muore senza sboccare nel mare grande. Il che è espresso da Tacito con la sua solita maniera scultoria: Nec Jordanes pclago accipitur sed unum atque alterum lacurn (el-Hule e Tiberiade) in­teger perfluit, tertio retinetur (Mar Morto) (Hist., v, 6). Dalla confluenza delle sue varie sorgenti fino al lago di el-Hule il Giordano percorre una quarantina di chilometri. Il lago di el-Hule, ora prosciugato, aveva una lunghezza di circa 6 chilometri. Subito dopo il Giordano, percorsa una rapida discesa di 17 chilometri, for­ma il lago di Tiberiade, chiamato più anticamente di Gennesareth. Questo lago, di forma quasi ovale, ha la larghezza massima di 12 chilometri e la lunghezza di 21. Dall'uscita dal lago di Tiberiade fino all'entrata nel Mar Morto, il Giordano s'avanza per Km. 109, mentre il suo percorso reale è più del doppio a causa della tortuosità del letto; a principio ha una larghezza media di 25 metri con una profondità da 2 a 3 e si avanza tra rive coperte di lussureggiante vegetazione selvaggia, ma ad una decina di chilometri prima del Mar Morto la vegetazione va scemando, l'acqua diventa salmastra e la corrente si fa meno profonda e più larga (metri 75).

§ 3. La costa mediterranea, dalle falde meridionali del Libano fino al promontorio del monte Carmelo, ha un'ampiezza da 2 a 6 chi­lometri, a oriente dei quali sorgono le alture del retroterra. Questo tratto di costa, salvo Tiro al nord che anticamente era un'isola, non ha che due mediocri porti naturali sotto il Carmelo, cioè Akka (Tolemaide) e Haifa (Caifa), quest'ultimo recentemente ampliato dagl'Inglesi. La costa più in basso, dal Carmelo fin sotto Gaza, è uniforme e rettilinea con un'ampiezza che nella parte meridionale raggiunge anche i 20 chilometri; ricoperto dalle sabbie del Nilo, questo lido era per gli antichi un litus importuosum giacché non ha altri porti che quello assai scadente di Giaffa. Solo la tenacia e le ricchezze di Erode il Grande gli permisero di costruirvi l'eccel­lente porto di Cesarea marittima, ampiamente descritto da Flavio Giuseppe (Guerra giud., i, 408-415) e oggi ridotto a un grandioso ammasso di rovine. Il lido dal Carmelo a Giaffa era la pianura di Saron, celebrata dalla Bibbia per la sua amenità; il tratto da Giaffa in giù era propriamente la Filistea, o paese dei Pelishtim (Filistei), il cui nome si estese poi a tutta la Palestina. La Cisgiordania è divisa geologicamente in due parti dalla vallata di Esdrelon, che da sopra il Carmelo s'inoltra obliquamente verso il sud-est. Il territorio a settentrione di questa vallata è la Galilea, montagnosa a nord e un po' meno a sud; essa fu la patria di Gesù e la prima culla del cristianesimo, ma nella storia ebraica antica ebbe scarsa importanza perché la popolazione ebraica vi era piutto­sto rarefatta e troppo lontana dai centri importanti di vita nazionale che stavano a sud. Più in basso della vallata di Esdrelon si estendo­no prima la Samaria e poi la Giudea; ambedue collinose, declinano verso oriente in zone pianeggianti e deserte. Tutte e tre le regioni - Galilea, Samaria e Giudea sono descritte da Flavio Giuseppe (Guerra giud., ur, 35-58) secondo le condizioni in cui si trovavano appunto verso i tempi di Gesù.

§ 4. A quei tempi però, mentre la Giudea con la sua capitale Ge­rusalemme formava la vera roccaforte del giudaismo, la sovrastante Samaria rappresentava uno stridente contrasto etnicamente e reli­giosamente. I Samaritani, infatti, discendevano dai coloni asiatici importati in quella regione dagli Assiri sullo scorcio del secolo VIII av. Cr., e mescolatisi con i proletari israeliti lasciati ivi; la loro reli­gione, che dapprima era stata una sostanziale idolatria con una semplice coloritura di jahvismo, più tardi si purificò di grossolanità idolatriche e sullo scorcio del secolo IV av. Cr. ebbe anche un suo proprio tempio costruito sul monte Garizim. Naturalmente per i Samaritani il Garizim era il luogo del legittimo culto al Dio Jahvè, in contrapposto al tempio giudaico di Gerusalemme, e soltanto essi erano i genuini discendenti degli antichi patriarchi ebrei e i deposi­tari della loro fede religiosa. Di qui, ostilità continue e rabbiose fra Samaritani e Giudei, tanto più che la Samaria era un transito obbligatorio fra la sovrastante Galilea e la sottostante Giudea: le quali ostilità, mentre sono largamente attestate dagli antichi docu­menti, non sono ancora oggi cessate da parte dei miserabili avanzi di Samaritani dimoranti ai piedi del Garizim. La Transgiordania, generalmente collinosa e in antico ricca di bo­schi e ben irrigata, non fu occupata mai interamente dall'elemento ebraico. Prima dell'ellenismo vi erano numerosi insediamenti ara­maici, specialmente nella parte settentrionale; con la colonizzazione ellenistica vi si impiantò saldamente l'elemento greco, il quale ai tempi di Gesù era rappresentato specialmente dalla cosiddetta De­capoli. Era questo un gruppo di città ellenistiche o ellenizzate, forse colle­gate tra loro da una specie di confederazione, e di numero vario se­condo i tempi ma aggirantesi sul dieci: di qui il nome convenzionale del gruppo. Di queste città la sola Scitopoli (l'antica Bethshan, oggi Beisan) era situata di qua dal Giordano; tutte le altre erano in Transgiordania, e tra esse le più celebri erano Damasco a nord, Hippos sulla sponda orientale del lago di Tiberiade, Gadara, Gerasa, Pella, Filadelfia, ecc. Alcune di queste città erano state assoggettate dall'asmoneo Alessandro Janneo, ma Pompeo Magno verso il 63 av. Cr. le aveva nuovamente liberate. Ognuna di esse aveva attorno a sé un territorio autonomo più o meno grande, cosicché costituiva­no degli isolotti ellenistici su un territorio abitato in gran parte da Giudei e sottoposto a monarchi giudei.

§ 5. La Palestina è una regione subtropicale, e ha praticamente due sole stagioni: quella delle piogge o invernale, che va dal novembre all'aprile, e quella della siccità o estiva, che va dal maggio all'otto­bre. Le piogge estive sono rarissime; quelle invernali superano quasi dovunque la media di 600 millimetri. La temperatura varia a seconda dei luoghi. Nell'avvallamento del Giordano, chiuso e depresso, è sempre più elevata che nelle altre zone, e talvolta si avvicina anche ai 50 centigradi; lungo la costa mediterranea la media invernale è di 12 c., la primaverile di 18 c., l'estiva di 25 c., l'autunno di 22 c.; nelle regioni collinose dell'inter­no è alquanto più bassa. Gerusalemme, che è a circa 740 metri sul mare, ha una temperatura media di circa 16 c.; la media del gen­naio è di circa 10 c., e quella dell'agosto di circa 26 c., le temperature massime segnalatevi raggiungono raramente i 40 c., ma non di rado le minime scendono sotto zero. Nazareth, che è a circa 300 metri sul mare, ha una temperatura media annuale di circa 18 c.; la media del gennaio è di circa 11 c., e quella dell'agosto di circa 27 c.; le temperature massime segnalatevi superano spesso i 40 c., ma raramente scendono sotto zero. La neve è sempre rara e scarsa,, e cade per lo più nel gennaio; rare anche le notti di brina. Frequenti nella primavera e in autunno il vento caldo dell'est, lo sherqijje o scirocco, e quello del sud-est, il khamsin, o “simun”; grandemente dannosi all'agricoltura e anche alla sanità degli abitan­ti, questi venti erano stati raffigurati dagli Assiri come orridi mo­stri. Grandi differenze nel clima palestinese fra l'antichità e oggi, pare che non vi siano. L'abbandono dell'agricoltura e il sistematico di­boscamento infierirono a lungo sotto il dominio musulmano. Oggi rinasce l'antica ubertosità, ad esempio attorno a Cafarnao e a Tiberiade, lungo la sponda nord-ovest del lago, che è la regione de­scritta con tanta e giustificata ammirazione da Flavio Giuseppe (Guerra giud., itt, 516-521). Anche in altri luoghi, ove sono stati pro­mossi con mezzi razionali i lavori agricoli e di rimboschimento, riappare la fecondità dell'antica Terra Promessa, che fu già liricamente descritta come terra fluente di latte e di miele.

Erode il Grande
§ 6. Gesù, morto per l'imputazione di essersi proclamato re dei Giudei, nacque sotto un re dei Giudei che non era per sangue né re né giudeo. Erode il Grande, di cui Gesù nacque suddito, non era giudeo di sangue: sua madre Kypros era araba, suo padre Antipatro era idu­meo, e nessuno dei due era di stirpe regia. Figlio di tali genitori, Erode è giustamente chiamato da un suo contemporaneo un privato qualunque e idumeo, cioe' semigiudeo (Antichità giud., xrv, 403). Quel poco di giudaico che Erode aveva non era più che una vernice esteriore, già applicata ai suoi antenati con la violenza; infatti la razza degli Idumei, insediata a sud della Giudea, era rimasta pagana fin verso il 110 av. Cr., allorché Giovanni Ircano la giudaizzò a forza obbligandola ad accettare la circoncisione: ma, pur incorporati ufficialmente alla nazione giudaica, gli Idumei erano considerati co­me bastardi dai Giudei genuini ed erano disprezzati come razza tur­bolenta e disordinata, sempre proclive a sommosse e lieta di scon­volgimenti (Guerra giud., iv, 231); del resto, anche il contegno te­nuto dagli Idumei verso i cittadini di Gerusalemme durante la guer­ra contro Roma (cfr. Guerra giud., TV, 224-352) fu di una crudeltà tale, che non poteva essere alimentata se non da un odio invete­rato. Lo stesso nome di Erode «discendente da eroi » mostra quanto poco lo spirito del giudaismo fosse penetrato nel padre, che metteva quel nome della mitologia greca al suo circon­ciso figlio. E il figlio, in realtà, avverò in piu' maniere l'auspicio espresso dal padre col nome. Erode fu veramente un eroe d'operosità e di tenacia, un eroe di suntuosità e di magnificenza, e soprattutto un eroe di crudeltà e di brutalità: ma tutti questi suoi eroismi affondavano le loro radici in una smisurata ambizione, in una vera fre­nesia di dominio, che fu il primo movente di tutte le azioni di Erode.

Nota: Quasi tutte le notizie di Erode ci pervengono da Flavio Giuseppe che, a sua volta, le attinge dagli scritti perduti di Nicola di Damasco, ministro di Erode. Secondo Antichità giud., xv, 174, Erode scrisse le proprie Memorie, ma è assai incerto che Flavio Giuseppe le abbia consultate direttamente.

§ 7. Venendo su dal nulla e ostacolato da difficoltà enormi, egli riu­scì a fabbricarsi un trono a Gerusalemme, basandolo anzi sui rotta­mi di un altro trono, quello che i Maccabei, gli eroi della religione e della nazionalità giudaica, avevano fabbricato per i loro discen­denti Asmonei; ma questo trono giudaico, già sconquassato dagli in­trighi dell'idumeo Antipatro, fu abbattuto definitivamente dall'astu­zia e dall'energia del figlio Erode. Se poi costui nella sua impresa riuscì a trionfare degli Asmonei, e del popolo giudaico, e di Cleo­patra, e di tanti altri ostacoli frappostigli dalla sua condizione e dalla fortuna, lo dovette al sostegno morale e materiale ricevuto da Roma. Di Roma Erode fu sempre partigiano, perché essa era la piu' forte anche in Oriente, e tra i rappresentanti di Roma egli fu sempre par­tigiano del piu' forte: la sua realistica politica non seguiva ideolo­gie astratte ma solo il tornaconto pratico, ch'era rappresentato dallo Stato più forte e dagli uomini più forti in quello Stato. Da principio egli parteggiò per Giulio Cesare, ma senza essere cesariano; tant'è vero che, ucciso il dittatore, parteggiò subito per l'uccisore di lui Cassio, ma senza essere repubblicano; da Cassio passò al nemico di lui Antonio, e sconfitto Antonio si buttò col riivale di lui Otta­viano; da Ottaviano però non si staccò più, perchè questi divenne l'onnipotente Augusto. cioè l'inconcusso rappresentante dell'onnipo­tente Roma. La politica romanofila di Erode e la ragione del suo trionfo è tutta qui: Roma equivale per lui al trono di Gerusalem­me, ed Erode sta sempre con Roma e col più forte dei Romani, per­ché gl'importa, non già Roma, ma il suo proprio trono. Re, almeno nominale, fu egli proclamato a Roma nell'autunno del 40 av. Cr., sotto i consoli Domizio Calvinio e Asinio Pollione, per volere di Antonio e di Ottaviano; il suo primo atto, dopo questa proclamazione, fu di salire in mezzo ad Antonio ed Ottaviano sul Campidoglio per offrire a Giove Capitolino il rituale sacrifizio di ringraziamento. L'atto svela la religiosità dell'idumeo re dei Giudei ed è quasi un adombramento della successiva politica religiosa del suo lungo regno. Egli dovette salire al tempio di Giove in Roma con gli stessi sentimenti con cui più tardi salirà al tempio di Jahvè in Gerusalemme, giacché per lui personalmente l'un Dio valeva l'altro: intimamente scettico, egli tutt'al piu' considerava la religio­ne come un fenomeno sociale di cui bisognava tener conto nel cam­po politico.

§ 8. E’ appunto da astuto politico egli non urto' quasi mai il sentimento religioso dei Giudei, anzi si procurò di fronte ad essi il grande merito di aver ricostruito totalmente il Tempio di Gerusalemme, rendendolo uno dei più famosi edifici dell'Impero romano (§ 46). Questa sua impresa fu però motivata sia del desiderio di sedare al­quanto l'irritazione che i suoi sudditi avevano contro di lui, sia da quella passione per le grandi e suntuose costruzioni ch'era allora comune ai personaggi più potenti dell'Impero: ma un vero senti­mento di religiosità giudaica fu del tutto alieno dalla sua impresa, come appare anche dal fatto che, mentre la portava avanti, egli co­struiva templi pagani in onore della dea Roma e del divino Augu­sto a Samaria, a Cesarea, al Panion e altrove. Né mostrò maggior riguardo verso le persone più venerate dalla religiosità giudaica egli a suo arbitrio eleggeva i sommi sacerdoti e li faceva saltar via dal loro ufficio, come pure faceva saltar via la testa dalle spalle ad autorevoli Sinedristi, a Farisei e a dottori della Legge, quan­do quelle teste mostravano di pensare diversamente dal dispotico monarca. In questioni puramente religiose del giudaismo Erode non entrava né voleva entrare; ma le seguiva attentamente dal di fuori, sia per le ripercussioni che potevano avere nel campo politico, sia talvolta per un vago sentimento superstizioso, comune allora in tutto l'Impero e tanto più naturale in chi era stato educato ai margini del giudaismo. Cosi pure, per una accondiscendenza da scettico che ceda davanti ad esigenze sociali, non si rifiutava di seguire certe pre­scrizioni d'indole religiosa che non gli fossero troppo pesanti: ad esempio, nella ricostruzione del Tempio fece osservare puntualmente le complicate norme della Legge ebraica, ed egli stesso non si permise mai d'entrare nelle parti più interne dell'edificio, pur co­struito a sue spese, perché non era sacerdote e quindi non aveva il permesso d'entrarvi: inoltre, quasi tutte le monete da lui battute sono prive di raffigurazioni di esseri viventi in ossequio alla norma giudaica che le proibiva; giunse perfino a non acconsentire al matrimonio di sua sorella Salome con l'arabo Silleo, perchè costui rifiutò d'accettare per tale scopo la circoncisione. Ma queste ed altre piccole parvenze di religiosità giudaica erano sol­tanto effetto di accomodamenti pratici, non già di sentimenti inter­ni. La corte di Erode in Gerusalemme era in pratica una corte pa­gana, che per corruzione ed oscenità triviale superava di gran lunga molte altre corti orientali; il fasto poi di tale corte fu alimentato, fra altro, dai tesori della tomba di David in Gerusalemme, ove de penetrò segretamente di notte per dirigere in persona i lavori di rapina, si scarsa era la venerazione ch'egli sentiva per il veneratissimo fondatore del regno di Gerusalemme. Il popolo giudaico, ch'era in massima parte sotto l'influenza dei tradizionalisti Farisei, non poteva in nessun modo gradire un sovrano di tal genere, idumeo di razza e praticamente pagano; tanto più che la mano di lui era pesantissima in fatto di balzelli, con i quali do­vevano pagarsi la magnificenza delle sue scandalose costruzioni e il fasto della sua depravata corte. Erode sapeva benissimo che i sud­diti l'odiavano, e che puntualmente godevano quando qualche di­sgrazia di famiglia si rovesciava sulla corte; ma al mancato affetto dei sudditi egli suppliva con la coscienza della propria forza, e ad ogni manifestazione di rancore popolare rispondeva affilando sempre più la propria spada.

§ 9. E qui appare la vera caratteristica di Erode, sia come uomo, sia come monarca. La frenesia di dominio, che già dicemmo essere il movente di tutte le sue azioni, fu egregiamente favorita dalla sua inaudita crudeltà, con la quale soprattutto egli avverò l'”eroismo” annunziato dal suo nome personale. Rigorosamente esatta è la defi­nizione di Flavio Giuseppe, che lo chiama uomo crudele verso tutti indistintamente, dominato dalla collera (Antichità giud., XVII, 191); si immagina perciò facilmente a quali eccessi di brutalità potesse trascendere un uomo siffatto, ossessionato dall'idea di congiure e di minacce contro il suo trono. Senza punto esagerare si può affermare che Erode è uno degli uomini più sanguinari che la storia conosca, come si potrà concludere dal seguente incompleto florilegio. Nel 37 av. Cr., appena conquistata Gerusalemme con l'aiuto delle legioni romane, Erode vi mise a morte quarantacinque partigiani del suo rivale, l'asmoneo Antigono, e molti membri del Sinedrio. Nel 35 fece affogare in una piscina di Gerico suo cognato Aristo­buIo, ch'egli stesso aveva eletto poco prima sommo sacerdote - sebbene fosse sedicenne - e che era fratello della sua prediletta moglie Mariamme. Nel 34 fece uccidere Giuseppe, che era insieme suo zio e suo cognato avendo sposato Salome sorella di Erode. Nel 29 commise il suo delitto più tragico, che ricorda sotto vari aspetti l'uxoricidio di Otello. In quest'anno Erode, per semplici ca­lunnie ordite in corte, uccide l'asmonea Mariamme sua moglie, di cui è perdutarnente innamorato. Appena eseguita la sentenza, Erode sta per impazzire dal dolore e ordina ai servi di palazzo di chiamare ad alta voce la morta, come se fosse ancora viva. Pochi mesi dopo fa uccidere anche la suocera Alessandra, madre della morta Mariamme. Verso il 25 fece uccidere suo cognato Kostobar, nuovo marito di sua sorella Salome, e alcuni partigiani degli Asmonei. Dalla prediletta Mariamme erano nati ad Erode alcuni figli, da lui prediletti in ricordo della loro madre, e due di essi, Alessandro ed Aristobulo, furono inviati da lui per educazione a Roma, ove trova­rono benevola accoglienza nella corte di Augusto. Ma, tornati che furono a Gerusalemme, Erode uccise anche costoro, sebbene Au­gusto da Roma facesse di tutto per salvarli. Probabilmente questa fu l'occasione in cui l'arguto imperatore espresse quel suo parere, pro­nunziato certamente in greco e riportato da Macrobio (Saturnal., n, 4, 11), secondo cui era meglio essere un porco di Erode che un suo figlio. Erode infatti, come giudaizzato, non poteva man­giare porco e perciò non l'ammazzava; mentre di fatto ammazzava i propri figli. Insieme con Alessandro ed Aristobulo, Erode fece uccidere a furia di popolo trecento ufficiali, accusati di parteggiare per i due gio­vani. Nel 4 av. Cr., soltanto cinque giorni prima della morte, fece uccidere un altro suo figlio, il primogenito Antipatro, ch'egli già aveva desi­gnato erede al trono di questa morte fu cosi soddisfatto che, seb­bene si trovasse in condizioni disperate di salute, sembrò riaversi e migliorare.

§ 10. Quando poi fu proprio agli estremi, volle concludere la pro­pria vita con un atto che ne fu un degno riassunto. Egli prevedeva che la sua morte avrebbe prodotto vivissimo giubilo fra i suoi sud­diti, mentre desiderava molto d'essere accompagnato alla tomba fra abbendanti lacrime. A tale scopo chiamò da tutte le parti del regno a Gerico, ove giaceva ammalato, molti insigni Giudei, e giunti che furono li fece rinchiudere nell'ippodromo, raccomandando ansiosamente ai suoi familiari che subito dopo la sua morte se ne facesse macello là dentro all'ippodromo: cosi le desiderate lacrime per i suoi funerali sarebbero state assicurate, almeno da parte delle fa­miglie degli uccisi. Veramente qualche studioso moderno ha sospet­tato falsa questa notizia, ma in favore della sua esattezza sta la per­fetta corrispondenza tra l'abituale “eroismo” di crudeltà dimostrato dall'uomo in tutta la sua vita, e questo straordinario “eroismo” ri­serbato per il punto di morte. Del resto, proprio poco tempo prima, lo stesso Erode aveva fatto scannare nella vicina Beth-lehem alcune decine di bambini minori di due anni, da cui vedeva come al solito minacciato il suo trono (§ 256). Questo fatto, che corrisponde anch'esso in maniera perfetta al carattere dell'uomo, è narrato dal solo Matteo (2, 16), mentre il biografo di Erode, cioè Flavio Giuseppe, non ne dice nulla. Ma questo silenzio è spiegabilissimo: anche se il biografo ha trovato nei suoi documenti qualche notizia della strage di Beth-lehem (cosa tut­t'altro che certa), poteva egli forse intrattenersi presso a un mucchio di oscure vittime, figli di poveri pastori, quando vedeva tutta la lunga vita del suo biografato disseminata di mucchi molto più alti e formati da vittime molto più illustri? In realtà Matteo e Flavio Giuseppe, se dal punto di vista psicologico concordano mirabilmente, nel campo aneddotico si integrano a vicenda.

§ 11. Un'ultima considerazione merita la precisa condizione poli­tica di Erode di fronte a Roma, o più esattamente di fronte ad Au­gusto, giacché dopo la battaglia di Azio (2 settembre del 31 av. Cr.) Roma e l'impero furono in sostanza la persona di Augusto. Giuridicamente, di fronte a Roma, Erode era equiparato a un re “amico ed alleato”, benché a rigore egli non si trovasse in questa vera condizione; ma all'atto pratico, di fronte ad Augusto, egli non fu nulla più che un umile subalterno e un servile cliente. Questo suo contegno corrispondeva, del resto, al carattere di Augusto, mi­nuzioso amministratore che contava sulla devota cooperazione altrui: ed era un contegno ben ripagato, perché nel corso degli anni fruttò ad Erode accrescimenti di territorio e altri favori concessigli dal­l'arbitro dell'Impero. Il reame di Erode era esente da tributi verso l'Impero, e immune da albergare guarnigioni romane. Il re, nel suo territorio, godeva di pieni diritti nell'amministrazione delle finanze e della giustizia; ave­va anche il suo proprio esercito, formato in massima parte da merce­nari non Giudei, cioè da Siri, Traci, Germani e Galli. Tuttavia que­sto esercito poteva sempre essere impiegato dall'imperatore, quando ne avesse avuto bisogno. Nelle relazioni con altri Stati fuori dell'im­pero, Erode era obbligato a seguire le direttive di Roma, e partico­larmente non poteva muover guerra ad alcuno senza il permesso dell'imperatore. Anche più limitata era la sua potestà dinastica egli possedeva il trono soltanto per concessione ad personam fat­tagli da Augusto a Rodi, pochi mesi dopo la vittoria di Azio, ma non poteva disporne per dopo la sua morte, assegnandolo a qualche suo discendente, senza l'approvazione esplicita dell'imperatore. Con questa limitazione Erode, in sostanza, era un fiduciario ad nutum di Augusto, il quale poteva entrare come e quando volesse negli affari del regno. E in realtà troviamo che, verso gli anni 7-6 av. Cr., Erode chiese ai suoi sudditi il giuramento di fedeltà all'imperatore romano; ora, questa richiesta fu certamente effetto di ordini ve­nuti da Roma, perché altrettanto si stava facendo verso quegli anni in altre province dell'Impero. Erode non mancò di adulare il suo padrone di Roma in molte ma­niere, sia dedicando al nome dell'imperatore o di parenti di lui città intere create dalla sua passione di costruttore, quali Cesarea (§ 21), Sebaste, Agrippeion, ecc., sia tenendolo informato degli affari più minuti della propria famiglia, oppure aspettando da lui il permes­so d'ammazzare i propri figli (Alessandro, Aristobulo, Antipatro). Da parte sua Augusto in genere trattò Erode bene, ma sempre dall'alto in basso e senza lasciarsi incantare dalle sue adulazioni: soprattutto in fatto di dipendenza politica l'imperatore non tran­sigeva, ed il seguente episodio dimostra l'assoluta padronanza che egli intendeva esercitare su Erode e il suo regno. Verso l'8 av. Cr. Erode, disturbato da certe razzie di beduini alle sue frontiere, fece una breve campagna contro i Nabatei che fa­vorivano i razziatori; la campagna fu condotta con l'approvazione di Senzio Saturnino, legato romano in Siria, ma senza che Augu­sto a Roma ne fosse stato preavvertito e avesse concesso quell'auto­rizzazione ch'era necessaria ad Erode - come già vedemmo - per muover guerra. Quel fatto d'armi, in realtà, fu di scarsissima im­portanza, eppure la sua irregolarità bastò per accendere uno sdegno violentissimo in Augusto, quando ne ebbe notizia: scrisse egli ad Erode una lettera severissima in proposito, dicendogli fra l'altro che se nel passato lo aveva trattato da amico, adesso lo tratterebbe da suddito (Antichità giud., XVI, 290). Né fu uno sdegno passeggero, giacché un'ambasceria inviata premurosamente a Roma da Erode per discolpa non fu neppure ricevuta al Palatino; solo più tardi, dopo altre ambascerie e grazie a nuove circostanze favorevoli, Ero­de, che già s'era visto perduto, riottenne il favore d'Augusto e poté risdraiarsi tranquillamente sul suo trono.

§ 12. Dopo una malattia durata alcuni mesi con sofferenze atroci, Erode il Grande morì a Gerico in età di circa settant'anni, trentasette anni dopo ch'era stato proclamato re a Roma. Era l'anno 750 di Roma,, 4 av. Cr., in un imprecisato giorno tra gli ultimi di marzo e i primi di aprile. La sua salma, con solennissima pompa,, fu tra­sportata da Gerico all'Herodium, l'odierno Gebei Fureidis “mon­te del Paradiso”, ch'era una collina dove Erode già da tempo s'era preparata la tomba. Dall'alto di quella collina si scorgeva, a 6 chilometri di distanza in direzione di nord-ovest, la borgata di Bethlehem, ove un paio d'anni prima era nato Gesu'.

[Modificato da Caterina63 06/08/2012 16:37]

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I successori di Erode: Archelao – Antipa - Filippo

§ 13. Morto Erode, bisognava eseguire l'ultimo dei suoi tre testamenti, che aveva provveduto alla successione dinastica nella maniera seguente Archelao, figlio di Erode e della samaritana Malthake, era designato come erede al trono con dominio diretto sulla Giudea, Samaria e Idumea; l'altro figlio Antipa, fratello di Archelao anche per parte di madre, era designato come tetrarca della Galilea e Perea; infine Filippo, figlio di Erode e della gerosolimitana Cleopatra, era designato come tetrarca delle regioni settentrionali, la Traconi­tide, Gaulanitide, Batanea, Hauranitide (e Iturea). Ma questo testamento non poteva essere eseguito senza l'approva­zione di Augusto; d'altra parte, alla sua esecuzione si opponevano varie persone, e in primo luogo Antipa, che nel precedente testamento era stato designato, non già tetrarca, ma addirittura erede al trono: inoltre si opponevano anche molti autorevoli Giudei, che erano stanchi delle vessazioni del morto Erode e ne prevedevano delle peggiori dai successori suoi consanguinei, e perciò avrebbero preferito passare sotto il diretto governo di Roma. Per perorare la propria causa, partirono alla volta di Roma dappri­ma Archelao e poco dopo anche il suo rivale fratello Antipa: ambe­due, ma specialmente il primo, si ripromettevano di ottenere da Augusto l'investitura e di ritornare dalla lontana Roma con l'effet­tivo potere regale. A questo curioso viaggio per accaparrami un regno sembra alludere la nota parabola evangelica. (Luca, 19, 12 segg.). Ma i Giudei avversi in genere alla dinastia erodiana non rimasero inoperosi; sedate che furono dalle truppe romane alcune rivolte scoppiate a Gerusalemme, inviarono anch'es­si a Roma una delegazione di cinquanta membri, per chiedere che la monarchia erodiana fosse destituita e che i suoi territori fossero incorporati alla provincia della Siria, onde poter vivere tranquilla­mente secondo le tradizionali costumanze giudaiche sotto la pro­tezione di Roma. Anche a questa delegazione ostile sembra alludere la parabola evangelica (ivi, 19, 14) (§ 499). Fra tanti contendenti, l'accorto Augusto prese una decisione che sembrò andare contro il vantaggio diretto di Roma, pur mirando a conciliare i desideri dei principi rivali. Respinse egli senz'altro la richiesta dei cinquanta delegati giudei, che proponevano l'annes­sone all'Impero. Ad Archelao conferi il governo dei territori asse­gnatigli dal padre, senza però attribuirgli l'ambito titolo di re: per allora lo nominò soltanto etnarca, facendogli sperare di proclamarlo re più tardi se avesse dato buona prova di sé. Agli altri due eredi testamentari, Antipa e Filippo, concesse i rispettivi territori asse­gnati nel testamento col titolo di tetrarca. Tutto ciò avvenne nell'anno stesso della morte di Erode, 4 av. Cr. I peggio trattati nella decisione di Augusto furono dunque i delegati giudei, mentre essi chiedevano precisamente l'ampliamento dell'Impero. Ma Augusto era un uomo politico che sapeva prevedere ed attendere. Egli confermò in sostanza il testamento di Erode, respin­gendo la richiesta dei delegati, perché con i tre successori del suo defunto servitore egli voleva fare un esperimento: o essi si sareb­bero mostrati abili governanti e soprattutto obbedienti verso Roma come il loro padre, ed allora Augusto avrebbe continuato ad im­perare praticamente in Palestina come prima; oppure avrebbero tenuto un contegno diverso, ed allora l'arbitro di Roma si sarebbe sbarazzato di loro accogliendo generosamente la richiesta dei Giudei d'essere incorporati all'Impero.

§14. Gli avvenimenti successivi mostrarono che Augusto aveva visto giusto e aveva preso una decisione sagace. Archelao resse poco alla prova: col suo governo, crudele e tirannico, invece di ottenere l'aspet­tato titolo di re, ottenne la destituzione totale. Nel 6 dopo Cr. una nuova delegazione, composta questa volta di Giudei e Samaritani insieme, andò a Roma ad accusare l'etnarca presso l'imperatore. Au­gusto fece venire l'accusato per udirne le ragioni; ma, non soddi­sfatto di esse, applicò semplicemente il suo antico progetto, invian­do Archelao in esilio a Vienna nelle Gallie e annettendo all'Impero i territori di lui.

§ 15. Il tetrarca Antipa, ossia Erode Antipa, si resse più a lungo, ma per fare anch'esso la fine del fratello Archelao; quando salì al potere, nel 4 av. Cr., poteva avere un diciassette anni, e si mantenne in ca­rica fino al 40 dopo Cr. Era stato educato probabilmente a Roma, e dei figli di Erode fu quello che rispecchiò meglio il carattere del padre quanto a imperiosità ed amore al fasto, senza però averne l'operosità e l'energia fattiva. Verso l'imperatore usò, come suo pa­dre, l'adulazione di dedicare a lui o a suoi familiari le varie costru­zioni che andava innalzando nei propri territori: nella Perea meridionale, di fronte a Gerico, ricostrui totalmente una vecchia città a cui dette il nome della moglie di Augusto, Livia (che più tardi fu chia­mata anche Giulia, come la Città); in Galilea costrui di sana pianta un'altra città sulla riva occidentale del lago di Gennesareth, e dal no­me del nuovo imperatore la chiamò Tiberiade; anche Sefforis in Ga­lilea, vicina a Nazareth, fu da lui rafforzata ed abbellita, e ne ricevet­te un nome ufficiale che ricòrdava l'imperatore romano, forse quello di Cesarea divenuto poi Diocesarea. Ma, con Augusto, Antipa dovette incontrare poca fortuna; ne incontrò invece molta con Tiberio, giacché avendo capito dov'era il lato debole del nuovo imperatore, sospettoso e ombroso, sembra che si mettesse a fare la spia presso di lui a danno dei magistrati romani d'Oriente, mandando da laggiù informazioni: naturalmente la spia era odiata dai magistrati (§ § 26, 583), ma al delatore stava più a cuore il Tiberio lontano che questo o quel magistrato vicino. La cosa poté continuare finché continuò Tiberio, ma la fine di costui segnò naturalmente anche la fine di Antipa.

§ 16. Chi veramente scavò la fossa ad Antipa fu una donna, la famosa Erodiade. Poco prima dell'anno 28 Antipa fece un viaggio a Roma, probabilmente attiratovi dal suo ufficio d'informatore segre­to, e ivi fu ospitato da un suo fratello, per parte di padre soltanto, che da Flavio Giuseppe è chiamato Erode, mentre è chiamato Filip­po in Marco, 6, 17; questo Erode Filippo, che menava a Roma vita privata, aveva in moglie Erodiade la quale gli era anche nipote, essendo figlia di quell'Aristobulo figlio di Erode il Grande ch'era stato ucciso dal padre. La donna era ambiziosissima, e non riusciva a rassegnarsi a quella vita privata che menava a fianco a suo marito Erode Filippo; l'arrivo dell'ospite Antipa confermò un precedente progetto, perché l'autorevole fiduciario di Tiberio si era già mostra­to molto tenero per la donna. Veramente gli ostacoli per una sta­bile unione erano parecchi e gravi: in primo luogo l'ospite non era più un giovincello, giacché doveva essere sulla cinquantina, e inoltre aveva per legittima moglie la figlia di Areta IV re degli arabi Naba­tei; eppoi la donna era maritata - bene o male secondo la legge giudaica - con un suo zio, e nessuna interpretazione cavillosa le avrebbe permesso di passare ad un altro zio, vivente ancora il primo marito. Ma la passione da parte di lui e l'ambizione da parte di lei superarono tutti gli ostacoli: si promisero che egli ritornato nei suoi territori avrebbe ripudiato sua moglie, e che ella avrebbe abbandonato il vecchio marito a Roma per convolare presso il nuo­vo che l'aspettava assiso sul trono. Ma la legittima moglie di Antipa ebbe notizia in Palestina di quanto si era confermato a Roma; perciò, onde evitare l'umiliazione di un ripudio, si fece inviare da suo marito con un pretesto nella suntuosa fortezza di Macheronte, si­tuata sui confini tra il territorio di suo marito e quello di suo padre, e da lì fuggì presso il padre. Rimosso questo ostacolo, Erodiade venne da Roma presso Antipa trascinandosi appresso la figlia che aveva avuto dal suo primo marito, certa Salome, una ragazzetta di pochi anni ma che a Roma aveva imparato a ballare assai bene.

§ 17. Compiuto il misfatto, il re Areta non pensò che a vendicare l'oltraggio fatto alla propria figlia, mentre i sudditi di Antipa non fecero che mormorare sdegnati per la sfacciata violazione delle leg­gi nazionali e religiose: ma, sebbene cordiali e diffuse, le mormora­zioni erano soltanto segrete, perché nessuno ardiva affrontare diret­tamente la tracotanza del monarca e specialmente il geloso furore della sua adultera e incestuosa concubina. Una sola persona ebbe questo ardimento, e fu Giovanni il Battista, che godeva d'altissima autorità presso il popolo (Antichità giud., XVIII, 116 segg.) e anche d'una certa venerazione superstiziosa da parte d'Antipa. Giovanni fu messo in prigione a Macheronte: questo provvedimento fu cau­sato sia dalla sua franca riprovazione dello scandalo di corte, come apprendiamo dai vangeli, sia dalla sua autorità popolare che aveva destato sospetti in corte, come apprendiamo da Flavio Giuseppe; ma non è escluso che una spinta venisse anche da parte dei gelosi Farisei (§ 292). Giovanni rimase in prigione parecchi mesi, circa una decina. Questa prolungata permanenza non poteva esser gradita ad Erodiade, che avrebbe voluto disfarsi subito dell'austero e inflessibile censore: ma Antipa, avendolo ormai in catene, non era propenso a macchiarsi del suo sangue, sia per quel timore reverenziale ch'egli personal­mente ne aveva, sia per paura che il popolo insorgesse alla notizia che quell'uomo venerato era stato ucciso cosi ingiustamente e vigliaccamente. Ma Erodiade spiava l'occasione per ottenere il suo desiderio: l'occasione venne, la ballerina sua figlia le ottenne la testa mozzata del prigioniero, e quando l'incestuosa e adultera madre poté afferrare e palpeggiare quella testa si giudicò vendicata e vittorio­sa (§355). E invece cominciava la sua disfatta, giacché anche il re Areta spia­va l'occasione per vendicarsi. Nel 36 una contestazione di frontiere fra i due monarchi portò alla guerra, e Antipa rimase totalmente sconfitto. Allora il burbanzoso tetrarca supplicò umilmente il lon­tano Tiberio che l'aiutasse, e l'imperatore ch'era molto sensibile verso la sua spia di Galilea ordinò al legato di Siria, Vitellio, di muovere contro Areta e di mandare a Roma o l'audace arabo incatenato vivo. oppure la testa di lui morto (Antichità giud., XVIII, 115). Ma Areta non era Giovanni, né Vitellio era disposto a far la parte già fatta dalla figlia ballerina. Vitellio, che aveva vecchi rancori contro Antipa per le sue delazioni a Roma, si mosse a malincuore cercando tutti i pretesti per mandare la spedizione per le lunghe; la fortuna poi l'aiutò, perché quando giunse con l'esercito a Gerusa­lemme gli pervenne la notizia che Tiberio era morto (16 marzo del 37). Naturalmente la spedizione finì lì, Areta non fu disturbato, e la sconfitta di Antipa rimase invendicata.

§ 18. Il tracollo definitivo del tetrarca avvenne due anni dopo, e fu causato direttamente da Erodiade. La smaniosa donna s’arrovellò d'invidia quando, nel 38, si presentò in Palestina suo fratello Erode Agrippa I: costui, che fino a pochi mesi prima era stato un avven­turiero carico di debiti ed esperto anche di catene romane, aveva fatto a Roma una sbalorditiva fortuna con l'elezione del suo amico Caio Caligola, che oltre a colmarlo di favori d'ogni sorta l'aveva anche creato re, assegnandogli territori che confinavano a setten­trione con quelli di Antipa; e adesso il potente amico del nuovo imperatore veniva a prender possesso dei suoi dominii. Al vederlo salito a tanta altezza, Erodiade ripensò che il suo Antipa dopo tanti anni di servile operosità in pro della lontana Roma si trovava an­cora nella bassezza d'un semplice tetrarca, ed era tanto poco apprez­zato che i suoi nemici potevano sconfiggerlo senza che Roma ve­nisse in suo aiuto: indubbiamente, per far fortuna come Agrippa, bisognava come lui presentarsi nella capitale dell'Impero e là inge­gnarsi e sbrigare personalmente. Convintasi di ciò, la fremente donna tanto insistette presso il riluttante Antipa che lo indusse a recarsi a Roma, per ottenervi il titolo di re e altri eventuali favori. Accompagnato da Erodiade, Antipa si presentò a Caligola in Baia. Ma Agrippa, sospettoso dei due viaggiatori, li aveva fatti seguire da un suo liberto che recava lettere, a quanto pare calunniose, contro Antipa. Trovandosi inaspettatamente di fronte ad un'accusa di tra­dimento, invece che alla sperata proclamazione a re, Antipa non sep­pe dare chiare spiegazioni; perciò Caligola lo giudicò colpevole, lo destitui ed inviò in esilio a Lione nelle Gallie, ed assegnò i territori della sua tetrarchia all'accusatore Agrippa. Erodiade, che con la sua ambizione aveva causato questa rovina, segui spontaneamente nell'esilio lo spodestato tetrarca, sebbene Caligola avesse lasciato a lei come sorella dell'amico Agrippa, ampia libertà e il pieno godimento dei suoi beni. Ciò avvenne fra gli anni 30 e 40 dopo Cr.
§ 19. Il terzo degli eredi diretti di Erode il Grande, cioè il tetrarca Filippo, non figura direttamente nella storia di Gesu'. Governò i suoi territori fino alla sua morte, avvenuta nel 34 dopo Cr., e pare che fosse un principe equanime e d'indole tranquilla: ma ad un certo tempo dovette rammollirsi alquanto di cervello, perché nella sua maturità d'anni sposò la ballerina figlia di Erodiade, cioè Salome, che gli era pronepote ed aveva almeno trent'anni meno di lui. A Panion, presso le sorgenti del Giordano, egli ricostruì totalmente la precedente città e in onore di Augusto la chiamò Cesarea: ma co­munemente fu chiamata Cesarea di Filippo, per distinguerla dalla Cesarea sul mare edificata da Erode il Grande. L'antico nome di Panion (oggi Banias) proveniva da una grotta consacrata al dio Pan presso le sorgenti; ma alla ricostruzione totale della città un magnifico tempio marmoreo dedicato ad Augusto sorse presso la grotta, e troneggiando sulla cima d'una maestosa roccia era il pri­mo oggetto che attirasse lo sguardo di chi si avvicinava alla cit­tà (§396). Sulla riva settentrionale del lago di Gennesareth, poco ad oriente dallo sbocco del Giordano nel lago, Filippo ricostrui totalmente an­che la borgata di Bethsaida, e la chiamò Giulia in onore della fi­glia di Augusto.


I procuratori romani: Ponzio Pilato

§ 20. Quando l'etnarca Archelao fu deposto ed esiliato, Augusto annesse all'Impero i territori a lui sottoposti, cioè la Giudea, Samaria e Idumea: in tal modo egli appagò allora, che si era presentata l'oc­casione buona, il desiderio di quella delegazione di Giudei che dieci anni prima era venuta appositamente a Roma a chiedergli l'annes­sione della Palestina all'Impero (§ 13). Quando una regione passava sotto la diretta amministrazione di Roma, veniva eretta in provincia oppure veniva unita ad una delle province già esistenti. Nel 27 av. Cr. Augusto aveva spartito fra sé e il Senato le province: quelle di frontiera e meno sicure, presidiate da forti guarnigioni, le aveva tenute per sé; mentre quelle interne, tranquille e debolmente presidiate, le aveva lasciate al Senato. Di qui la divisione in province senatorie ed imperiali. Le senatorie era­no governate, come in antico, da proconsoli (legati pro consule) eletti di solito annualmente; per quelle imperiali, invece, fungeva da proconsole comune a tutte Augusto stesso, il quale però le governava inviandovi i suoi legati Augusti pro praetore designati da lui. Il legatus di provincia apparteneva sempre all'ordine dei se­nàtori. Ma in alcune province che esigevano particolare delicatezza di governo (ad esempio l'Egitto) Augusto spediva, non un legatus, ma un praefectus: così' pure in altre regioni annesse recentemente all'Impero, e che offrivano speciali difficoltà, era spedito un pro­curator il quale però apparteneva all'ordine dei cavalieri. Veramen­te la carica di procurator fu dapprima di natura finan­ziaria, ed esisteva anche nelle province senatorie; ma in pratica, specialmente dopo Augusto, il titolo di procurator sostitui' quello di praefectus nelle regioni recentemente annesse (salvo che in Egitto). I territori lasciati da Archelao furono annessi alla sovrastante pro­vincia della Siria, la quale era imperiale e fra le più importanti a causa della sua posizione geografica. Tuttavia non fu una annessione piena e totale, ma piuttosto una subordinazione di poteri; nei nuo­vi territori, cioè, fu inviato un procurator dell'ordine dei cavalieri, che doveva esserne il governatore diretto e ordinario; egli tuttavia era invigilato nel suo ufficio dal legatus della provincia di Siria, il quale aveva pure facoltà nei casi più gravi d'intervenire nei terriori del procurator. La notoria difficoltà di governare i Giudei aveva indotto il prudente Augusto a questa subordinazione di poteri, in maniera che la giurisdizione ordinaria del procuratore fosse coadiu­vata ed eventualmente rettificata dalla giurisdizione superiore del vicino legato.

§ 21. Il procuratore romano della Giudea risiedeva abitualmente a Cesarea marittima, la città recentemente Costruita con suntuosità da Erode il Grande, l'unica fornita di porto e giustamente chiamata da Tacito “capitale della Giudea” sotto l'aspetto politico; tuttavia spesso il procuratore si trasferiva a Gerusalemme, capitale religiosa e nazionale, specialmente in occasione di feste (ad es. la Pasqua), trovandosi ivi in miglior centro di vigilanza. Tanto a Ce­sarea quanto a Gerusalemme, i due rispettivi palazzi di Erode servivano da praetorium, com'era chiamata la residenza del procuratore: ma in Gerusalemme egli si serviva per il disbrigo di affari anche della potentissima e comoda fortezza Antonia, che sovrastava al Tem­pio (§ 49). Nell'Antonia aveva anche il proprio quartiere la guar­nigione militare di Gerusalemme. Quale comandante militare della regione, il procuratore aveva alle sue dipendenze non legioni romane, ch'erano composte di cives romani e stazionavano nella provincia della Siria, bensi' truppe au­siliarie reclutate di solito fra Samaritani, Siri e Greci, godendo i Giudei dell'antico privilegio di esenzione dal servizio miltare. Que­ste truppe erano di solito divise in “coorti” per la fanteria3 e in “ali” per la cavalleria. Le truppe della Giudea, a quanto sembra, erano costituite da cinque “coorti” e da una “ala”, raggiungendo complessivamente la forza di poco più di tremila uomini: una coorte era di stanza permanente a Gerusalemme. Quale capo amministrativo, il procuratore presiedeva alla esazione delle imposte e gabelle varie. Le imposte, di natura o fondiaria o personale o di reddito, erano dovute dalla regione in quanto tribu­taria di Augusto e perciò finivano nel fiscus o cassa imperiale (men­tre le imposte delle province senatorie finivano nell'aerarium o cassa del Senato): nel riscuotere queste imposte il procuratore si serviva di agenti statali, coadiuvati tuttavia dalle autorità locali. Le gabelle poi comprendevano diritti diversi, quali dazi, pedaggi, affitti di luo­ghi pubblici, mercati e altri; la loro riscossione, come nel resto dell'Impero, era data in appalto a ricchi imprenditori i pubbcani che pagavano al procuratore una certa somma, di cui si rifacevano con la riscossione di una determinata partita di ga­belle: gli impiegati dipendenti da questi appaltatori generali erano gli exactores o portitores. E’ superfluo dire quanto fossero odiati dal popolo tutti costoro, sia publicani sia exactores, e quanti soprusi ed estonsioni avvenissero, specialmente se gli appaltatori subaffittavano il loro appalto come spesso accadeva: tutto il peso di questo complicato bagarinaggio finiva col gravare sul contribuente.

§ 22. Quale amministratore della giustizia il procuratore aveva il suo tribunale, in cui esercitava il ius gladii con potestà di pronunziare sentenze capitali; chi godeva della cittadinanza romana poteva appellare dal suo tribunale a quello dell'imperatore a Roma, mentre per gli altri non esisteva appello. Ma per i casi ordinari continua­rono ad esistere e a funzionare liberamente in Giudea i tribunali lò­cali della nazione, e in primo luogo quello del Sinedrio a Gerusa­lemme (§ 57 segg.): esso aveva conservato anche autorità legislativa, sia in materia religiosa sia parzialmente in quella civile e tributaria, che si estendeva ai membri della nazione. Tuttavia al Sinedrio era stata tolta la potestà di pronunziare sentenze capitali (§ 59). In sostanza, sotto i procuratori, l'antico ordinamento nazionale del giudaismo era stato conservato. Il vero capo della nazione restava sempre il sommo sacerdote: in realtà la sua elezione e deposizione spettavano al procuratore e al legato di Siria, ma costoro procede­vano ad esse accordandosi con le più autorevoli famiglie sacerdotali, finché dall'anno 50 in poi rinunziarono anche a questi diritti ceden­doli ai principi della dinastia erodiana. A fianco al sommo sacerdote, dopo l'annessione all'Impero, stette il procuratore quale sorvegliante politico e rappresentante del fisco imperiale. Nel campo religioso le autorità romane, conforme alla loro antica tradizione, seguirono costantemente la norma del rispetto assoluto, non solo alle autorevoli istituzioni della nazione, ma spesso anche a pregiudizi e stravaganze; alcune volte, è vero, questa norma ebbe eccezioni più o meno gravi per colpa di singoli magistrati, ma presto queste imprudenze furono sconfessate con atti opposti. Si cercò an­che di associarsi in certi casi alle costumanze tradizionali, per mo­strare verso di esse non soltanto rispetto ma anche simpatia; ad esempio, giunsero più volte dalla famiglia imperiale di Roma offerte per il Tempio di Gerusalemme, e Augusto stesso volle che vi fossero sacrificati ogni giorno un bove e due agnelli per Cesare e per il popolo romano (cfr. Guerra giud., IT, 197) sostenendone la spesa - a quanto sembra - l'imperatore stesso (cfr. Filone, Lega. ad Caium, 23, 40).

§ 23. Molti furono i privilegi mantenuti o concessi da Roma alla nazione giudaica, anche sotto il regime dei procuratori. Per riguardo al riposo del sabbato i Giudei erano esenti dal servizio militare e non potevano essere citati in giudizio in quel giorno. Per riguardo alla norma giuridica che proibiva qualsiasi raffigurazione di esseri animati viventi, i soldati romani che entravano di presidio a Geru­salemme avevano ordine di non portare con sé i vessilli su cui era effigiato l'imperatore; per lo stesso motivo le monete romane co­niate in Giudea - le quali erano soltanto di bronzo - non avevano l'effigie dell'imperatore, ma solo il suo nome con simboli ammessi dal giudaismo: vi circolavano tuttavia anche monete d'oro e d'ar­gento che recavano la riprovata immagine, ma perché erano state coniate fuori della Giudea (§ 514). Tanto meno fu imposto nella Giudea il culto per la persona del­l'imperatore, che pure nelle altre province dell'Impero era un atto fondamentale d'ordinario governo: la sola eccezione a questo pri­vilegio fu tentata da Caligola nel 40, allorché lo squilibrato impera­tore si mise in testa di avere una propria statua eretta dentro il Tempio di Gerusalemme, ma il tentativo non riuscì per la fermezza. dei Giudei e per la prudenza di Petronio legato di Siria. In conclusione, la Giudea governata da procuratori romani non si trovò affatto in condizioni peggiori della Giudea governata da Erode il Grande o anche da taluni dei precedenti Asmonei. Naturalmen­te molto dipendeva dal senno e dalla rettitudine dei singoli procu­ratori: e qui in verità le deficienze furono numerose e gravi special­mente negli ultimi anni avanti alla guerra e alla catastrofe dell'anno 70, allorché a governare un popolo sempre più intollerante e far­neticante erano inviati procuratori sempre più venali e brutali.

§ 24. Dai primi procuratori della Giudea sappiamo poco o nulla che abbia diretta relazione con Gesù. Il primo fu Coponio che entrò in carica nell'anno 6 dopo Cr., cioè appena deposto Archelao; giunto sul luogo, egli insieme col legato di Siria, Sulpicio Quirinio, esegui' il censimento (§ 183 segg.) della regione nuovamente annessa, giacché secondo i principii romani soltanto un regolare censimento delle persone e dei beni poteva fornire la base della futura amministra­zione nonostante gravi difficoltà, il censimento fu portato a termi­ne. Coponio rimase in carica tre anni (6-9), e altrettanto i suoi suc­cessori Marco Ambivio (o Ambibulo) (9-12) e Annio Rufo (12-15), che fu l'ultimo eletto da Augusto. Il primo eletto da Tiberio fu Valerio Grato (15-26). Costui da prin­cipio ebbe difficoltà a trovare un sommo sacerdote con cui andasse d'accordo, giacché depose subito quello trovato in carica, cioè Anano (Anna), e in quattro anni gli dette quattro successori, cioè Ismaele, Eleazaro, Simone e Giuseppe detto Qajapha (Caifa): con quest'ul­timo pare che andasse d'accordo. A Valerio Grato successe Ponzio Pilato nell'anno 26.

§ 25. Di Pilato parlano, oltre ai vangeli, anche Filone (Legat. ad Caium, 38) e Flavio Giuseppe, e da tutte e tre le fonti il minimo che risulti è che Pilato era uno scontroso e un ostinato; ma il re Erode Agrippa I, che ne sapeva parecchie cose per esperienza per­sonale, lo dipinge anche come venale, violento, rapinatore, anga­riatore e tirannico nel suo governo (in Filone, ivi). Forse queste ac­cuse addotte dal re giudeo sono esagerate; ad ogni modo è certo che Pilato, come procuratore, dette cattiva prova nell'interesse stes­so di Roma. Per i suoi governati egli ebbe un cordiale disprezzo, non fece nulla per guadagnarsene l'animo, cercando piuttosto ogni occasione per stuzzicarli ed offenderli, e non soltanto li odiava, ma sentiva anche un prepotente bisogno di mostrare loro questo suo odio. Se fosse dipeso da lui, li avrebbe mandati volentieri tutti a la­vorare negli ergastula e ad metalla; ma c'era di mezzo l'imperatore di Roma, e anche il legato di Siria che sorvegliava e riferiva all'im­peratore, e perciò il cavaliere Ponzio Pilato doveva frenarsi e im­porre dei limiti agli sfoghi del suo astio. Tuttavia anche questo ti­more servile ebbe il suo contrapposto; infatti già nel 19 dopo Cr. Tiberio, avendo scacciato i Giudei da Roma, sembrava essere en­trato in un periodo d'ostilità contro il giudaismo in genere, e pro­prio durante questo periodo Pilato era stato inviato a governare la Giudea: egli quindi, specialmente nei primi anni, poté stimare che la sua avversione contro i pnopri governati ricopiasse con opportuna cortigianeria gli esempi che venivano dall'Italia.

§ 26. Probabilmente fin dal principio del suo procuratorato, egli, accoppiando i due sentimenti di cortigianeria verso l'imperatore e di disprezzo verso i Giudei, dette ordine ai soldati che da Cesarea salivano a presidiare Gerusalemme di entrarvi portando con sé, per la prima volta, i vessilli con l'effigie dell'imperatore; tuttavia, astu­tamente, fece introdurre i vessilli di notte, per non suscitare resi­stenze e per metter la città davanti al fatto compiuto. Il giorno appresso, costernati da tanta profanazione, molti Giudei corsero a Cesarea e per cinque giorni e cinque notti di seguito rimasero a supplicare il procuratore di rimuovere i vessilli dalla città santa. Pilato non cedette; anzi al sesto giorno, seccato dall'insistenza, li fece circondare in pubblica udienza dalle sue truppe, minacciando di ucciderli se non tornavano subito alle loro case. Ma qui, quei ma­gnifici tradizionalisti, vinsero il cinico romano; quando si videro circondati dai soldati, essi si prostesero a terra, si denudarono il collo, e si dichiararono pronti a farsi scannare piuttosto che rinunciare ai propri principii. Pilato, che non si aspettava tanto, cedette e fece ri­muovere i vessilli. Più tardi ci fu la questione dell'acquedotto. Per portar acqua a Ge­rusalemme, che ne aveva molto bisogno anche per i servizi del Tem­pio, Pilato decise la costruzione di un acquedotto che convogliasse le acque delle ampie riserve situate a sud-est di Beth-lehem (le cosiddette “vasche di Salomone” odierne), e a pagare tale lavoro destinò alcuni fondi del tesoro del Tempio. Questo impiego del de­naro sacro provocò dimostrazioni e tumulti da parte dei Giudei. Pilato allora fece sparpagliare fra i tumultuanti molti suoi soldati tra­vestiti da Giudei; al momento stabilito i travestiti estrassero i ran­delli che tenevano nascosti e si dettero a malmenare la folla, la­sciando sul terreno parecchi morti e feriti. In seguito il litigioso procuratore ripeté un tentativo analogo a quello dei vessilli militari, facendo appendere al palazzo di Erode in Geru­salemme certi scudi dorati recanti il nome dell'imperatore. Si è pen­sato che questo nuovo tentativo - di cui abbiamo notizia solo da Filone - possa essere uno sdoppiamento del precedente fatto dei vessilli: ma il dubbio non sembra fondato, sia per il carattere punti­glioso di Pilato, sia perché questo nuovo tentativo dovette avvenire molto più tardi dell'altro. Questa volta una delegazione inviata a Pilato, di cui facevano parte anche quattro figli di Erode il Grande, non ottenne la desiderata rimozione degli scudi; allora i Giudei si rivolsero a Tiberio stesso, e l'imperatore spedi l'ordine di trasportare i contrastati scudi nel tempio d'Augusto a Cesarea. Questa arrendevolezza di Tiberio induce a credere che il fatto sia accaduto dopo la morte di Seiano (31 dopo Cr.), ch'era stato onnipotente ministro di Tiberio e gran nemico dei Giudei. Del tutto occasionale è la notizia di fonte evangelica (Luca, 13, 1) secondo cui Pilato fece uccidere certi Galilei - che perciò erano sud­diti di Erode Antipa - mentre offrivano sacrifizi nel Tempio di Ge­rusalemme; ma non abbiamo particolari su questo fatto Possiamo invece sospettare che l'ostilità fra Pilato e Antipa, attestata dalla fonte evangelica (Luca, 23, 12), avesse come parziale motivo questa strage di sudditi di Antipa; ma un altro motivo fu, probabilmente, la parte di spia che Antipa faceva presso Tiberio a carico dei ma­gistrati romani (§ 15).
§ 27. Alla fine Pilato fù vittima del suo modo di governare. Nel 35 un falso profeta, che aveva acquistato gran nome in Samaria, promise ai suoi seguaci di mostrare gli arredi sacri dei tempi di Mosè che si credevano nascosti nel monte Garizim, vicino a Samaria. Ma, il giorno fissato, Pilato fece occupare dai soldati la sommità del mon­te: egli infatti voleva impedire l'assembramento, non tanto perché desse importanza alla vana promessa del falso profeta, quanto per­ché sapeva che i Samaritani erano stanchi delle oppressioni del procuratore e sospettava in essi propositi di rivolta. Formatosi ugual­mente un numeroso assembramento, i soldati lo assalirono: molti Samaritani rimasero uccisi, molti furono fatti prigionieri, e i più insigni di costoro furono poi messi a morte da Pilato. Di questa ir­ragionevole strage la comunità dei Samaritani presentò formale ac­cusa contro Pilato presso Vitellio, ch'era legato di Siria e munito di pieni poteri in Oriente; l'accusa fu accolta con premura, perché i Samaritani erano noti per la loro fedeltà a Roma, e Vitellio senz'al­tro destituì Pilato e l'inviò a Roma a rispondere del suo operato davanti all'imperatore. Era lo scorcio dell'anno 36. Quando Pilato giunse a Roma, trovò che Tiberio era morto (16 mar­zo del 37). In che maniera finisse il condannatore di Gesù, non è noto alla vera storia: è invece noto alla leggenda, che gli attribui mirabili avventure in questo e nell'altro mondo, e lo destinò tal­volta al fondo dell'inferno e talvolta invece al paradiso come vero santo.

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06/08/2012 16:39


Sadducei, Farisei, Scribi e altri gruppi giudaici

§ 28. Ai tempi di Gesù i Saduducei e i Farisei formavano, dentro il popolo giudaico, i suoi due principali raggruppamenti. I quali però non erano delle “sette” nel senso rigoroso della parola, perché non erano staccati dalla compagine morale della nazione; neppure erano confraternite religiose come gli Esseni (§ 44), quantunque i loro prin­cipii fondamentali fossero religiosi; e nemmeno mostravano quale prima nota caratteristica un dato atteggiamento politico come gli Erodiani (§ 45), sebbene avessero grande importanza anche nel cam­po politico e sociale. Erano invece due correnti o tendenze che par­tivano ambedue da principii solenni nella nazione giudaica, pur es­sendo fra loro in assoluto contrasto. Esaminandole contemporaneamente, il loro stesso contrasto giova a definirle con precisione. Si crede di solito che i Farisei rappresentassero la corrente conser­vatrice, e i Sadducei quella liberale e innovatrice: ciò potrà esser vero nel campo pratico, ma in quello giuridico-religioso la designa­zione dovrebb'essere inversa, perché i Sadducei dal loro punto di vi­sta si presentavano quali conservatori del vero patrimonio morale dei giudaismo, e respingevano come innovazioni le dottrine particolari ai Farisei. Le due correnti, infatti, sorsero dal diverso atteggiamento che i vari ceti della nazione presero di fronte all'ellenismo, quando questo venne in urto col giudaismo, cioè dall'epoca dei Maccabei (16 av. Cr.) in poi.

§ 29. L'insurrezione dei Maccabei, diretta contro la politica elleniz­zatrice dei monarchi Seleucidi, fu sostenuta specialmente da quei po­polani di basso ceto, cordialmente avversi a istituzioni straniere, che si chiamarono gli Asidei “pii”; al contrario, in seno alla nazione stessa, si mostrarono favorevoli all'ellenismo parec­chi altri Giudei ch'erano rimasti abbarbagliati dallo splendore di quel­la civiltà straniera, ed appartenevano specialmente a classi sacerdotali e facoltose. Rimasta però vincitrice l'insurrezione nazionale-religiosa, gli aristocratici fautori dell'ellenismo entro la nazione giudaica scom­parvero o tacquero. Tuttavia poco dopo, stabilitasi la dinastia nazio­nale degli Asmonei discendenti dai Maccabei, le due correnti ricomparvero apertamente, sebbene con provenienza alquanto mutata; avvenne, cioè, che proprio quei sovrani Asmonei che dovevano il loro trono ai popolani Asidei, si mettessero in contrasto con questi, e si appoggiassero invece sulle classi sacerdotali ed aristocratiche. La ragione del mutamento è chiara. L'ellenismo premeva dall'esterno cosi gravemente sullo Stato giudaico ricostituito, che i governanti Asmonei non potevano praticamente evitare ogni relazione politica con esso, né impedire numerose infiltrazioni di quella civiltà pagana nei loro territori; senonché quelle relazioni e infiltrazioni parvero sconfitte politiche e soprattutto apostasie religiose agli Asidei, che perciò si alienarono man mano dai già favoriti Asmonei e divennero ad essi ostili. Passando all'opposizione, essi si chiamarono i “Separati”: in ebrai­co Peruhzm, in aramaico Perishajja, donde Farisei. I loro avversari, in maggioranza di stirpe sacerdotale, si chiamarono Sadducei, dal nome di Sadoq antico capostipite d'un insigne casato sacerdotale.

§ 30. Ma da chi, o da che cosa, i Farisei si consideravano “sepa­rati”? Il criterio della loro separazione era soprattutto nazionale-religioso, e solo conseguentemente civile e politico: essi si tenevano separati da tutto ciò che non era giudaico e che per tal ragione era anche irreligioso ed impuro, giacché giudaismo, religione e purità legale erano concetti che praticamente non si potevano staccare l'uno dall'altro. Ma qui sorgeva il contrasto, anche dottrinale, con i Sadducei: qual era la vera norma fondamentale del giudaismo? quale il supremo e inappellabile statuto che doveva governare la nazione eletta? A questa domanda i Sadducei rispondevano che era la Torah, cioè la “Legge” per eccellenza, la “Legge scritta” consegnata da Mosè alla nazione come statuto fondamentale e unico. I Farisei invece rispondevano che la Torah, la “Legge scritta”, era soltanto una parte, e neppure la principale, dello statuto nazionale-religioso: in­sieme con essa, e più ampia di essa, esisteva la “Legge orale”, co­stituita dagl'innumerevoli precetti della “tradizione”. Questa Legge orale era costituita da un materiale immenso: essa comprendeva, oltre ad elementi narrativi e di altro genere, anche tutto un elaborato sistema di precetti pratici, che si estendeva alle più svariate azioni della vita civile e religiosa, e andava perciò dalle complicate norme per i sacrifizi del culto fino alla lavanda delle stoviglie prima dei pasti, dalla minuziosa procedura dei pubblici tribunali fino a decidere se era lecito o no mangiare un frutto caduto spontaneamente dall'albero durante il riposo del sab­bato. Tutta questa congerie di credenze e di costumanze tradizio­nali non aveva quasi mai un vero collegamento con la Torah scritta; ma i Farisei scoprivano spesso siffatto collegamento sottoponendo a un'esegesi arbitraria il testo della Torah: e anche quando non ri­correvano a tale metodo, si richiamavano al loro principio fondamentale che Dio aveva dato a Mosè sul Sinai la Torah scritta con­tenente solo 613 precetti, e inoltre la Legge orale molto più ampia ma non meno obbligatoria.

§ 31. Anzi, anche più obbligatoria. Troviamo infatti che con l'an­dar del tempo, man mano che i dottori della Legge o Scribi ela­boravano sistematicamente l'immenso materiale della tradizione, que­sto veniva ad assumere un'importanza pratica, se non teoretica, mag­giore della Torah scritta. Nel Talmud, che è in sostanza la tradizione codificata, sono contenute sentenze corne queste: Maggior forza hanno le parole degli Scribi che le parole della Torah; perciò anche è peggior cosa andar contro alle parole degli Scribi che alle parole della Torah (Sanhedrin, XI, 3); infatti le parole della Torah conten­gono cose proibite e cose permesse; precetti leggieri e precetti gravi: ma le parole degli Scribi sono tutte gravi (Berakoth pai., i, 3 b). E’ chiaro che, stabilito questo principio fondamentale, i Farisei erano in regola, e potevano legiferare quanto volevano estraendo ogni de­cisione dalla loro Legge orale. Ma appunto questo principio era re­spinto dai Sadducei, i quali non riconoscevano altro che la Legge scritta, la Torah, non accettando punto la Legge orale e la “tradi­zione” dei Farisei. Codeste cose - dicevano i Sadducei - erano tutte innovazioni, tutte deformazioni dell'antico e semplice spirito ebrai­co; essi, i Sadducei, erano i fedeli custodi di quello spirito, i veri “conservatori”, e perciò si opponevano agli arbitrari e interessati sofismi messi fuori da quei modernisti di Farisei. La risposta dei Sadducei era abile senza dubbio; tanto più che con quella parvenza di conservatorismo si evitavano legalmente i carichi pesanti (Matteo, 23, 4) imposti dai Farisei, e si lasciava una porta aperta per intendersi con l'ellenismo e la civiltà greco-romana. Perciò i Sadducei si appoggiarono sui ceti della nobiltà e di governo, che necessariamente dovevano mantenere relazioni con la civiltà straniera; i Farisei al contrario si appoggiarono sulla plebe, avversa a tutto ciò ch'era forestiero ed invece attaccatissima a quelle costu­manze tradizionali da cui i Farisei estraevano la loro Legge orale. Di qui anche il paradosso per cui i Sadducei erano giuridicamente conservatori ma praticamente lassisti; i Farisei invece apparivano come innovatori riguardo alla Torah scritta, mentre la loro inno­vazione voleva essere una salvaguardia e una protezione dell'an­tico.

§ 32. Le due correnti di Farisei e di Sadducei compaiono per la prima volta, già ben definite e in contrasto, al tempo del primo degli Asmonei, Giovanni Ircano (134-104 av. Cr.), ch'era anche figlio di Simone ultimo dei Maccabei: benché tale, egli era già in aperta ostilità con i Farisei. L'ostilità divenne furibonda sotto Alessandro Janneo (103-76 av. Cr.), e fra monarca e Farisei si ebbe una guerra di sei anni che fece cinquantamila vittime (Antichità giud., XIII, 376). Al contrario sotto il regno di Alessandra Salome (76-67 av. Cr.) i Farisei ebbero il loro periodo d'oro, poiché la regina lasciò fare ogni cosa ai Farisei, e comandò che anche il popolo obbedisse a loro...; ella quindi aveva il nome di regina, ma i Farisei avevano il potere (ivi, 408). Seguirono, naturalmente, le intemperanze della vittoria: gli sconfitti Sadducei, che avevano avuto fino allora la maggioranza nel consiglio del gran Sinedrio, vi rimasero per allora in minoranza esigua; gli antichi avversari dei Farisei o furono messi a morte o presero la via dell'esilio; si arrivò al punto che l'intero paese stava quieto, fatta eccezione dei Farisei (ivi, 410). Appunto da questo tem­po in poi il giudaismo fu sempre improntato dalle dottrine fari­saiche. Una certa reazione da parte dei Sadducei si ebbe sotto Aristobulo Il, per cui essi parteggiavano, mentre per il suo rivale fratello Ircano Il parteggiavano i Farisei: ma in seguito la massa del popolo divenne dominio quasi assoluto dei Farisei, i quali contavano taluni se­guaci anche fra i bassi ceti sacerdotali; cosicché, negli ultimi tempi prima del 70, i Sadducei restrinsero la loro autorità al Tempio ed alle grandi famiglie sacerdotali o facoltose accentrate attorno ad esso.

§ 33. Con la catastrofe dell'anno 70 i Sadducei scomparvero dalla storia, e naturalmente il giudaismo posteriore, dominato totalmente dai Farisei, conservò un pessimo ricordo dei Sadducei. Ecco come, sul finire del secolo I dopo Cr., si giudicavano i grandi casati sa­cerdotali che negli ultimi tempi prima della catastrofe erano stati più famosi: Guai a me dal casato di Boeto, guai a me dal loro scudiscio! Guai a me dal casato di Cantharos, guai a me dal loro calamo! Guai a me dal casato di Anna, guai a me dal loro sibilo! Guai a me dal casato d'Jsmael pglio di Fiabi, guai a me dal loro pugno! Sommi sacerdoti sono essi, tesorieri i loro figli; magistrati del Tempio i loro suoceri, i loro servi vengono con mazze a randellarci! E questo documento (Tosefta Menahoth, XIII, 21; non è solitario nei testi rabbinici: inoltre violenze e rapine compiute dall'alto sacerdozio a danno del clero inferiore sono ricordate anche da Flavio Giuseppe (Antichità giud., XX, 179-181).

§ 34. Quanto alle dottrine delle due correnti, ecco come si esprime il loro più antico storico, Flavio Giuseppe: (I Farisei) hanno fama d'interpretare con accuratezza le leggi e dirigono la setta principale; attribuiscono ogni cosa al Destino e a Dio, (ri­tenendo che) l'operare giustamente o no dipende in massima parte dall'uomo, ma il Destino coopera in ciascuna (azione); ogni anima e incorruttibile, ma soltanto quelle dei malvagi sono punite con un castigo eterno. I Sadducei invece, che sono il secondo gruppo, sopprimono assolutamente il Destino, e pongono Dio fuori (della possibilità) di fare alcunché di male o (anche solo) di scorgerlo; essi dicono che e' in potere dell'uomo la scelta del bene e del male, e che secondo la decisione di ciascuno avviene la sopravvivenza dell'anima, come pure la punizione e i premi giu' nell'Ade. I Farisei sono affezionati fra loro, e promuovono il buon accordo con la co­munità; i Sadducei invece sono piuttosto rudi per abitudine anche tra loro, e nelle relazioni con i (loro) simili sono scortesi come con gli stranieri. Si vedono chiaramente, in questi due sistemi di dottrine, le conseguenze del criterio principale che divideva i Sadducei dai Farisei. I primi accettavano la sola Legge scritta: e poiché in essa non tro­vavano chiaramente formulata una dottrina sulla resurrezione o sull'oltretomba, negavano questi punti; secondo Atti, 23, 8, essi non ammettevano neanche l'esistenza degli angeli e degli spiriti. Quanto al Destino che i Sadducei negavano secondo Flavio Giuseppe, è da vedersi piuttosto la Provvidenza o la Grazia divina. In sostanza, i Sadducei filosoficamente si rassomigliavano agli Epi­curei e teologicamente ai Pelagiani. Nel campo pratico la rudezza, attribuita loro dallo storico, doveva essere effetto della loro arro­ganza aristocratica; ma ci si dice pure che essi, nei giudizi forensi, erano rigorosissimi a differenza dei Farisei che inclinavano alla mitezza.

§ 35. I Farisei estraevano dalla “tradizione” le dottrine respinte dai Sadducei; e poiché lo studio della Legge, specialmente di quella orale, era il dovere più stretto e l'occupazione più nobile per ogni Giudeo, essi si dedicavano totalmente a questo studio. Fu detto, fra l'altro, che è maggiore lo studio della Torah che la costruzione del Tempio, anzi che è maggiore della venerazione per il padre e per la madre (ivi), e che l'uomo non deve ritrarsi dalla casa di studio (della Legge) e allontanarsi dalle parole della Torah neppure all'ora della morte; inoltre la To­rah e' maggiore del sacerdozio e della regalità, perché la regalità esige 30 requisiti, il sacerdozio 24, mentre la Torah si acquista con 48, e segue l'enumerazione dei 48 requisiti. Né è da credere che queste norme rimanessero lettera morta per­ché moltissimi sono gli esempi di Farisei che consacrarono tutta la loro vita allo studio della Legge trascurando ogni altra occupazione, salvo forse l'esercizio di un mestiere manuale per poche ore al gior­no, tanto per procurarsi da vivere. Cotesti studiosi della Legge erano consci della loro grandezza: la Legge infatti era l'armamentario da cui doveva estrarsi ogni norma per la vita pubblica e privata, religiosa e civile; quindi essi, custodi di quell'armamentario, erano dappiù del sacerdozio e della regalità. In una nazione ove la massa del popolo accettava pienamente l'idea teocratica, siffatto ragiona­mento era perfetto; e perciò i Farisei sentivano che la loro forza poggiava, non sulle classi aristocratiche o dell'alto sacerdozio o della corte, bensì' sulla massa del popolo.

§ 36. Lo studio farisaico della Legge verteva su tre argomenti prin­cipali, che erano il riposo del sabbato (§ 70), il pagamento delle decime e la purità rituale (§ 72): ma, oltre a questi, moltissimi altri argomenti formavano oggetto di lunghe investigazioni. Il metodo di studio si basava in primo luogo sulla conoscenza delle sentenze già emanate dalla tradizione, e secondariamente sull'applicazione estensiva e sull'ulteriore sviluppo di esse. Il contenuto del Talmud, che fissò in iscritto ciò che per secoli avevano trasmesso a memona i dottori della Legge, non è in massima parte che una raccolta di tali sentenze (§ 87). Era evidente, in siffatto metodo, il pericolo del formalismo e della casistica, infarciti di sottigliezze ma privi di spirito; e nel pericolo si cadde in massima parte. Chi si trasferisca nell'ambiente storico d'allora, non rimarrà tanto meravigliato di trovare un trattato del Talmud intitolato dai Nidi degli uccelli, e un altro dai Vasi, e un altro dai Picciuoli delle frutta, e altri ancora da argomenti meno decorosi e puliti (§ 72); si domanderà piuttosto su quale impalca­tura spirituale poggiava tutto questo immenso scenario giuridico che sembrerebbe campato in aria. L'impalcatura, in realtà, esisteva: era costituita dal sedimento che nell'animo della nazione aveva depositato la predicazione degli an­tichi profeti, tutta di altissima moralità e di intima religiosità, la quale nei secoli passati era risonata fra il popolo ed anche allora era riecheggiata dalle Scritture sacre lette nelle sinagoghe. Ma trop­po poco si badava allora al valore spirituale di quella predicazione, e invece troppi gingillamenti si facevano attorno alla materialità della sua applicazione. Il profluvio dell'ispirazione divina finiva nel­la morta gora della casistica umana: alla sorgente d'acque vive si preferivano cisterne screpolate che non serbano acqua, come già aveva detto Geremia (2, 13), il quale però aveva anche gridato il rimprovero (8, 8): Come potete dire: “Sapienti noi siamo, e la Torah di Jahve' con noi? Ecco, invero, a menzogna l'ha ridotta lo stilo menzognero degli scribi!

§ 37. Sarebbe falso ed ingiusto dire che tutta l'elaborazione della Legge compiuta dai Farisei fosse menzogna: ma moltissimo ciar­pame era certamente. In un mare di futilità e di pedanterie erano contenute vere perle preziose, che rappresentavano l'eredità dello spirituale insegnamento profetico: ma troppa sproporzione correva tra l'ampiezza del mare e la scarsità delle perle, tra lo smisurato scenario giuridico e l'esigua impalcatura spirituale, cosicché l'utile restava affogato fra tanto disutile. Ad esempio, sentenza senza dub bio sublime è quella attribuita al celebre Hillel, anteriore a Gesù di pochi anni, il quale ad un pagano, che gli aveva chiesto d'insegnargli tutta la Legge nel breve tempo che fosse riuscito a reggersi su un piede solo, rispose: Ciò che non desideri per te, non fare al prossimo tuo. Questa e' tutta la Legge; il Testo e' solo commento. Va' e impara (Shabbath, 31 a). Ma sta di fatto che il commento, qui collocato giustamente in seconda linea, in pratica passava in prima linea, e faceva dimenticare la Legge stessa. Peggio ancora: talvolta il commento contraddiceva alla Legge. E’ noto che Gesù in un determinato caso rimproverò ai Farisei: Trasgredite il precetto d'iddio per la tradizione vostra (Matteo, 15, 3, 6; Marco, 7, 9 estendendosi poi dal caso singolo all’abitudine generale, aggiunse: E cose simili di tal genere fate molte (Marco, 7, 13). Le prove di queste trasgressioni si tro­verebbero facilmente negli antichi scritti rabbinici; ma è importan­te rilevare come, appunto riguardo allo studio della Legge, fu sen­tenziato: Un pagano che si occupa dello studio della Torah e' degno di morte, ciò che non era né nella lettera né nel­lo spirito della Legge, ma solo nella gelosia nazionalistica dei Farisei considerata come elemento di “tradizione”.

§ 38. Anche riguardo alla condotta pratica dei Farisei non si po­trebbe dare un giudizio valevole per tutti. Oltre a maestri veramen­te insigni, quali Hillel, Gamaliel il Vecchio (cfr. Atti, 5, 34 segg.) che fu maestro di S. Paolo (ivi, 22, 3), e altri, non erano pochi gli onesti ed i sinceri anche fra le persone oscure. Anche da parte cristiana troviamo Gesù in relazioni amichevoli con Farisei, quali Simone, Nicodemo, Giuseppe di Arimatea; perfino S. Paolo, mentre proclama l'abolizione della Legge ebraica, si afferma Ebreo da Ebrei, secondo la Legge Fariseo (Filipp., 3, 5). Tuttavia le invettive più severe di Gesù sono dirette appunto contro i Farisei, non già contro i Sadducei, come appunto nei Farisei egli trovò gli oppositori più tenaci alla sua missione. Il cap. 23 di Matteo è tutto una formale accusa di Gesù contro i Farisei, con allegazione di fatti ben precisi (§ 518). Ma se ciò non sorprende da parte di Gesù, è storicamente impor­tante trovare che accuse simili sono rivolte ai Farisei anche da parte rabbinica. Il Talmud enumera sette tipi diversi di Fariseo che denomina con i precisi termini seguenti il «Fariseo-Sichem », ossia chi è Fariseo per vantaggi materiali (allude al fatto di Sichem, narrato in Genesi, 34); il « Fariseo-niqpi», cioè quatto-quatto, che con la maniera stentata di camminare fa mostra affettata di umiltà; il «Fariseo-salasso », che si procura frequenti emorragie battendo la testa contro i muri, per non guardare donne; il « Fariseo-pestello », che cammina tutto curvo nella persona da sembrare un pestello nel mortaio; il “fariseo-qual-è-il-mio-dovere-perch’io-lo-faccia?”, cioè colui che non già si esibisce pronto a compiere tutti i suoi doveri, bensi afferma di non poterne compiere altri essendo già occupatissimo; il «Fariseo-per-amore», che opera per amore interessato del­la mercede, non già per devozione verso Dio; il «Fariseo-per-timo­re», che opera per timor di Dio, ossia per vero sentimento religioso (Sotah, 22 b, Bar.). Dei sette tipi, dunque, solamente l'ultimo merita lode, e certamente ogni tipo era rappresentato da numerosi indi­vidui. Questo elenco tuttavia, per quanto sarcastico, non è violento. Invece già verso il 10 dopo Cr., cioè prima ancora che Gesù pronun­ziasse le sue invettive contro i Farisei, poté essere scritto da un anonimo Fariseo il seguente passo, la cui violenza non è certo inferiore a quella usata da Gesù: Sorgeranno su essi (sugli Israeliti) uomini perversi ed empi, che si proclameranno giusti. Essi ecciteranno lo sdegno dei loro amici perché saranno uomini menzogneri, viventi solo per piacere a se stessi, camuffati in tutte le guise, banchettanti volentieri ad ogni ora del giorno e tracannando con la gola... ai poveri (?) divorando i beni, asserendo d'agire per compassione... re­pellenti, litigiosi, ingannatori, nascondendosi per non lasciarsi cono­scere, empi, colmi di delitto e d'iniquità, ripetenti da mane a sera: “ Vogliamo aver gozzoviglie ed opulenza, mangiare e bere... ed at­teggiarci a principi!”. Le mani e i cuori loro tratteranno cose impure, la bocca loro proferirà cose superbe, eppure diranno: “Non mi toccare, ché tu mi rendi impuro!“. Assai probabilmente il disilluso Fariseo che dipinge questo quadro impiega tinte più scure del giusto; ma l'amarezza d'animo, che gli fa scegliere queste tinte, doveva ben essere stata cagionata da fatti reali. Ad ogni modo le invettive di Gesù si riferivano alla condotta pratica dei Farisei più che alle loro dottrine, almeno considerate ge­nericamente; sono chiare in tal senso le sue parole: Sulla cattedra di Mose si sedettero gli Scribi ed i Farisei. Perciò, tutte quante le cose che vi dicano, fate ed osservate, ma conforme alle opere loro non fate (Matteo, 23, 2-3).

§ 39. Quanto alla numerosità dei Farisei, da un passo di Flavio Giuseppe (Antichità giud., XIII, 383) sembra risultare che si aggi­rassero sugli 8000 ai tempi del re Alessandro Janneo: circa un se­colo più tardi, sotto Erode il Grande, si parla di piu' che 6000 (ivi, XVII, 42) che dovrebbero essere tutti i Fatisei d'allora. Ma probabilmente queste cifre non sono esatte, come spesso avviene in Flavio Giuseppe, e dovranno essere alquanto aumentate. Provenienti dalle varie classi sociali, e in piccola parte anche da quella sacerdotale meno alta, i Farisei erano stretti fra loro con vincoli ben saldi, che miravano al grande scopo di osservare la purità legale e mantenersi “separati” (§ 29) dall'impuro. Tra loro si chiamavano haberim, cioè etimologicamente “collegati”, e l'associazione era una haberuth ossia “colleganza”. I membri dell'associazione, poveri o ricchi che fossero, dovevano essere di un rigore minuziosissimo nell'osservare i tre gruppi principali di precetti, cioè il riposo del sabbato, le nor­me di purità legale e le leggi del culto (decime, ecc.): chi poi aveva anche una cultura sufficiente per discutere su questioni legali, era un hakam, cioè un “dotto”, mentre chi non l'aveva era un privato qualsiasi.

§ 40. Tutti gli altri Giudei, che non appartenevano alla ”colleganza” dei Farisei, erano chiamati da costoro il “popolo della ter­ra”. Il termine era dispregiativo, ma anche più di­spregiativo era il contegno tenuto dai Farisei verso questi loro con­nazionali. Anche qui le testimonianze, da parte tanto cristiana quanto giu­daica, sono concordi. In Giovanni, 7, 49, i Farisei esclamano: Que­sta folla, che non conosce la Legge, sono maledetti; ove la folla designa i non Farisei, cioè il “popolo della terra”, il quale non conosce la Legge ed è tutto di maledetti. I documenti giudaici, Poi, confermano questa maledizione. E’ sentenza appunto del grande Hiilel che nessun tanghero teme il peccato, e il popolo della terra non e' pio: ove tanghero è sinonimo di chi appartenga al popolo della terra. Quindi un vero Fariseo non doveva avere alcun contatto col “popolo della terra”, bensi mostrarsi fariseo cioè “separato” nei riguardi di esso. Per questa ragione un rabbino sentenziava: Partecipare ad un'assemblea del popolo della terra produce la morte (ivi, III, 10); il celebre Giuda il Santo si rammaricava: Ahime'! Ho dato del pane a uno del po­polo della terra! e Rabbi Eleazar prescriveva: E’lecito trafiggere uno del popolo della terra anche nel giorno del Kippur che cadesse di sabbato. In molti altri passi è proibito al Fariseo di vendere frutta a uno del “popolo della ter­ra”, di dargli ospitalità o riceverne, di contrarre parentela matri­moniale con lui, e simili (Demai, Il, 3; ecc.). E’ superfluo dire che, agli occhi dei Farisei, poteva essere “tanghero” e “popolo della terra” anche un Giudeo aristocratico e facoltoso, o un membro dell'alto sacerdozio: il criterio per giudicarlo era la pratica e la conoscenza della Legge secondo i principii farisei, e l'appartenenza alla eletta casta dei “separati”. Solo raramente a siffatto disprezzo di casta si rispondeva da parte degli estranei col disprezzo e con l'ostilità. Il popolino, specialmente nelle città e soprattutto le donne, stavano cordialmente per i Fa­risei tanta potenza hanno sulla folla, che pure se dicano alcunché contro il re o contro il sommo sacerdote sono immediatamente cre­duti (Antichità giud., XIII, 288). Siffatta base democratica era la vera forza di cotesti aristocratici dottrinali.

§ 41. Resta da esaminare il preciso concetto di Scriba, e le sue relazioni con quello di Fariseo. I vangeli accomunano spessissimo Scribi e Farisei, e giustamente sotto l'aspetto della realtà contem­peranea; ma in teoria non tutti gli Scribi erano Farisei, come in pratica non ogni Fariseo era Scriba perché poteva non averne la scienza necessaria, ossia non essere un hakam (§ 39). Il concetto di Scriba era quello di essere per eccellenza l'uomo del­la Legge, astraendo dalla sua condizione sacerdotale o laica e dai suoi principii sadducei o farisei; ma in pratica, ai tempi di Gesù, solo pochissimi Scribi erano di condizione sacerdotale e di principii sadducei, mentre la stragrande maggioranza era costituita da laici di principii farisei. Di qui il pratico pareggiamento di Scribi e Fa­risei presso i vangeli. Quando nell'esilio di Babilonia il popolo giudaico si trovò privato di tutti i suoi beni materiali e morali salvo che della Legge (Torah), già allora - prima cioè che esistessero le due correnti di Sadducei e Farisei - vi furono uomini che consacrarono tutta l'operosità e la vita loro all'unico bene superstite, alla Legge, onde conservarlo con ogni cura, trasmetterlo con tutta esattezza, investigarlo ed appli­carlo con la più scrupolosa indagine. Un uomo siffatto fu per ec­cellenza l'uomo del libro (sepher), non soltanto perché ne era il dligentissimo scriba, ma soprattutto perché ne era nel più ampio senso il maestro. Egli fu dun­que il legista e a lui fu riserbato il ti­tolo onorifico di Rab, Rabbi (« grande », mio grande »). Grandissima era l'autorità dello Scriba già verso il 200 av. Cr., come appare anche dal lirico encomio che ne fa il Siracida (Ecclesiastico, capp. 38-39); ma più tardi essa crebbe ancora, fino a diventare un vero trono di gloria contrapposto al trono del sacerdozio. Ai tempi di Gesù, infatti, il sacerdozio aveva bensi conservato il suo ufficio liturgico e il suo grado gerarchico nella costituzione teocratica del giudaismo, tuttavia esso aveva perduto quasi ogni efficacia sulla formazione spirituale delle masse il vero « padre spirituale » del popolo, il suo catechista, la sua guida morale, non era più il sa­cerdote ma lo Scriba. Man mano che il sacerdozio si era disinteressato della Legge, il laicato lo aveva sostituito nella direzione spi­rituale del giudaismo; mano mano che il sacerdozio si era imme­desimato con la corrente sadducea, il laicato legista era diventato sempre più fariseo: cosicché a un certo tempo l'azione del sacer­dozio rimase circoscritta alla liturgia del Tempio e ai maneggi della politica, mentre lo Scriba laico s'assise quale maestro nelle scuole della Legge, predicò quale rappresentante di Mosè nelle sinagoghe, s'aggirò quale modello di santità nelle vie e nelle case della vene­rabonda plebe. Scriba poteva divenire qualunque discendente d'Abramo, ma la via per toccare la mèta era lunga. Spesso si cominciava fin dalla puerizia a percorrerla, istruendosi - come fece S. Paolo (Atti, 22, 3) – “ai piedi” di qualche autorevole maestro (che insegnava seduto, mentre i discepoli si accoccolavano ai suoi piedi). Difficilmente un discepolo aveva percorso tutta la sua via ed era in grado a sua volta d'insegnare, prima che fosse in età di quaranta anni e in tutto questo tempo egli, quasi sempre povero, aveva esercitato un mestiere manuale per vivere (§ 167). Ma quando l'amore per la conoscenza della Legge era entrato nel cuore di uno di questi uo­mini, non si badava a privazioni d'ogni genere, a veglie diuturne, a tirocini laboriosi, a esercitazioni mnemoniche estenuanti, pur di possedere la Legge. Il possessore di questo tesoro era più ricco d'ogni ricchissimo, più glorioso d'un re e d'un sommo sacerdote, come già vedemmo a proposito dei Farisei (§ 35).

§ 42. Della corrente dei Farisei, secondo ogni verosimiglianza, sono derivazioni le correnti degli Zeloti e dei Sicari. Flavio Giuseppe, troppo incline a ravvicinare il mondo giudaico a quello greco-romano, presenta la corrente degli Zeloti come una quarta filosofia (Antichità giud., XVIII, 9), dopo le tre degli Esseni, Farisei e Sadducei; ma in realtà gli Zeloti, oltre a non rappresentare una filosofia, non formavano neppure una quarta corrente, perché erano sostanzialmente Farisei. Lo stesso Flavio Giuseppe afferma poco appresso che gli Zeloti in tutto il resto s'accordano con l'opi­nione dei Farisei, solo che hanno un ardentissimo amore per la li­bertà e ammettono come unico capo e signore Dio; non badano punto a subire le morti piu' straordinarie e punizioni di parenti e d'amici, pur di non riconoscere come signore alcun uomo (ivi, 23). E’ evidente in questo atteggiamento l'adesione al principio nazio­nale-teocratico, ch'era essenziale nel fariseismo: ma la divergenza avveniva nella pratica, perché i Farisei comuni non applicavano quel principio nel campo politico, mentre gli Zeloti ve l'applicavano con rigore fino alle ultime conseguenze. E perciò si chiamarono “Zeloti”, ossia zelanti applicatori della Legge nazionale-religiosa. Il termine era stato impiegato già da Mat­tatia, padre dei Maccabei, il quale in punto di morte aveva racco­mandato ai suoi figli: “E ora, figli, siate gli zelanti della Torah e date le vostre vite per l'alleanza dei nostri padri” (i Macc., 2, 50). Infatti i cinque figli del morente finirono tutti uccisi per la causa nazionale-religiosa; e proprio dalla vittoria di questa causa uscirono gli Asidei, dai quali discesero i Farisei (§ 29). Ora, gli Zeloti ri­presero in pieno il programma del padre dei Maccabei: vollero essere Farisei integralisti in ogni campo, anche in quello politico.

§ 43. E in realtà fu un' occasione politica che fece sorgere gli Ze­lotL Quando nell'anno 6 dopo Cr., Sulpicio Quirinio iniziò il cen­simento della Giudea testé annessa all'Impero romano (§ 24), il popolo vide nel censimento la prova tangibile che la nazione eletta dai Dio Jahvè era sottoposta sacrilegamente al dominio di impuri stranieri; tuttavia la gran massa, persuasa anche da insigni sacer­doti, si sottomise e si lasciò censire, e altrettanto fece la maggior parte dei Farisei. Resistette invece un certo Giuda di Gamala, detto il Galileo, che, unitosi con un autorevole Fariseo di nome Sadduc, indusse i paesani a ribellione insultandoli se... avessero tollerato, dopo Dio, padroni mortali. La rivolta fu do­mata dai Romani, e una trentina d'anni appresso il Fariseo Gama­liel la ricordava ancora come un episodio celebre (Atti, 5, 37). Tuttavia, con questa prima sconfitta, gli Zeloti non cedettero. Di­spersi ed occulti davanti alle autorità romane, essi mantennero sem­pre vivo lo spirito d'implacabile avversione politica contro gli stra­nieri, che poi divampò apertamente nella rivolta finale. Con ciò essi si distinsero sempre più dai Farisei comuni, che di fronte ai Romani si mostravano passivi e cedevoli. Più tardi, anzi, gli Zeloti fecero un ulteriore passo sulla via della ribellione operosa. Quando l'esperienza dimostrò che ogni sollevazione in massa non aveva al­cuna probabilità di prevalere Contro i Romani, i dissimulati Zeloti ricorsero alle congiure contro individui isolati e ai colpi di mano contro luoghi determinati, per toglier di mezzo i singoli domina­tori se non l'intero dominio straniero, rimanendo essi stessi nell'om­bra. In tali imprese l'arma più adoperata era il corto pugnale che i Romani chiamavano sica: perciò questi Zeloti si chiamarono “Sicari”. Se dunque gli Zeloti furono i Farisei intransigenti anche nel campo politico, i Sicari alla loro volta possono considerarsi come le squadre volanti, le avanguardie d'assalto, mandate avanti dagli Zeloti. Supponendo al centro la massa del giudaismo comune, alla sua destra stavano schierati sempre più in là dapprima i tradizionalisti Farisei, poi gl'intransigenti Zeloti, infine gli aggressivi Sicari. Ma Zeloti e Sicari, che furono i principali responsabili dell'insurrezione degli anni 66-70, ne furono anche le vittime, perché scomparvero quando i Romani debellarono gli ultimi focolai della rivolta e specialmente la fortezza di Masada, la cui tragica fine è narrata con somma precisione archeologica da Flavio Giuseppe. Invece i Farisei, loro padri spirituali, superarono la grande prova: il giudaismo superstite, riordinato secondo i principii del­le scuole rabbiniche, fu genuina opera loro, e tale è rimasto fino ad oggi. Fra i discepoli di Gesù, l'apostolo Simone è chiamato lo Zelota (Luca, 6, 15; Atti, I, 13) o anche il Cananeo (Matteo, 10, 4; Marco, 3, 18). Questo secondo termine non proviene dal nome degli antichi abitatori della Palestina, i Cananei, bensi è la forma ara­maica, qan'ana; e significa “zelante” ossia Zelota. I Sicari, nel Nuovo Testamento, sono menzionati solo inci­dentalmente in Atti, 21, 38.

§ 44. Sia nel Nuovo sia nell'Antico Testamento non sono mai nominati gli Esseni, di cui parla a lungo Flavio Giuseppe oltre a Filone, a Plinio ed altri. Gli Esseni formavano una vera associazione religiosa, ch'esisteva già verso la me­tà del secolo II av. Cr. in vari luoghi della Palestina, ma col suo centro principale nell'oasi di Engaddi sulla sponda occidentale del Mar Morto. Erano in tutto circa 4000. Le regole principali di questa associazione, molto simile agli ordini monastici del cristianesimo, erano le seguenti. Per esservi ammessi bisognava fare un noviziato di un anno, alla fine del quale si rice­veva un battesimo; seguivano altri due anni di probandato, dopo dei quali avveniva l'affiliazione definitiva mediante solenni giuramenti. Tra gli affiliati e i novizi esisteva gran differenza quanto a di­gnità e a purità legale, tantoché se un novizio toccava per caso un affi­liato, costui contraeva una certa impurità da cui doveva mondarsi. I beni materiali erano posseduti in comunismo perfetto ed amministrati da ufficiali eletti a tale scopo; tutti lavoravano, specialmente nell'agricoltura, e i proventi andavano nel fondo comune. Erano proibite la mercatura, la fabbricazione d'armi, la schiavitù. Il celi­bato era lo stato normale: il solo Flavio Giuseppe dà notizia di un particolare gruppo di Esseni che contraevano matrimonio sotto condizioni speciali, ma il fatto non è ben certo, e ad ogni modo non sarà stato che una limitata ecce­zione alla norma comune: secondo Plinio gli Esseni sono una gens... in qua meno nascitur (in Natur. hist., v, 17). Questa mancanza di procreazione faceva si che accettassero a scopo di proselitismo an­che fanciulli, come probabili candidati all'associazione. La gionnata era divisa fra il lavoro e la preghiera. Di prima mat­tina una preghiera comune era rivolta al Sole. I pasti, consumati in comune, avevano un carattere di cerimonià sacra, perché erano primi in luogo speciale, dopo aver praticato particolari abluzioni e indossato abiti sacri, ed erano preceduti e seguiti da particolari preghiere anche i cibi, semplicissimi, erano preparati da sacerdoti secondo regole speciali In tutta la giornata si osservava abituale silenzio. Il rispetto per il riposo del sabbato era di un rigore singolare: tanto che per questo rispetto, come pure per un accresciuto riguardo alla purità legale, in detto giorno non si soddisfaceva alle necessità cor­porali maggiori (§ 70). Per Mosè si aveva somma venerazione e chi ne bestemmiava il nome era punito di morte. Di sabbato si leggeva in comune la Legge di lui, e se ne facevano spiegazioni; ma oltre ai libri di Mosè l'associazione usava altri libri segreti, ch'e­rano studiati egualmente di sabbato. D'altra parte non tutte le pre­scrizioni di Mosè erano praticate, perché al Tempio di Gerusalem­me gli Esseni inviavano offerte di vario genere, ma non sacrifizi cruenti d'animali. Salvo il giuramento per l'affiliazione ogni sorta di giuramento era rigorosamente proibita; ci si dice infatti Ogni loro detto ha piìi forza d'un giuramento; ma dal giurare si astengono considerandolo peggiore dello spergiuro, giacché dicono che risulta già condannato colui che non e creduto senza un appello a Dio; probabile che nelle consuetudini degli Esseni e nelle loro dottrine, il cui fondo principale proveniva certamente dal patrimonio ebrai­co, si fossero infiltrati elementi stranieri: tali ad esempio la dot­trina loro attribuita della preesistenza delle anime, ignota all'ebrai­smo, e la pratica del celibato giammai tenuto in onore presso gli Ebrei. Ma la precisa provenienza di questi elementi non ebraici rimane dubbia, nonostante le molte congetture che si sono fatte in proposito. Sembra che gli Esseni esercitassero un influenza scarsissima sul re­stante del giudaismo contemporaneo, dal quale erano segregati an­che materialmente da tante norme di vita pratica. Essi dovevano apparire come un hortus con clusus, che si ammirava volentieri ma ri­manendone al di fuori; tuttavia, oltre a coloro che entravano sta­bilmente nell'associazione, v'erano taluni che ne seguivano solo per qualche tempo il tenore di vita mossi da un vago desiderio ascetico, come narra d'aver fatto nella prima giovinezza Flavio Giuseppe (Vita, 10-12). Di questioni politiche gli Esseni ordinariamente non si occupavano, mostrandosi ossequenti verso le autorità costituite. Tuttavia nella grande rivolta contro Roma, alcuni di essi si lasciarono vincere dal­l'entusiasmo e presero le armi: un Giovanni Esseno è ricordato con funzioni di comando tra i Giudei insorti (Guerra giud., II, 567; III, 11,19). Dai vincitori Romani essi ebbero a soffrire gravissimi tormen­ti (ivi, ri, 152-153), ma non per questo violarono i giuramenti della loro associazione. Dopo questo tempo scompaiono del tutto dalla storia.
§ 45. Nei vangeli sono nominati anche gli “Erodiani” (Marco, 3, 6; 12, 13; Matteo, 22, 16). Questi tuttavia non costituivano un vero e proprio partito politico, e tanto meno un'associazione o una corrente religiosa; piuttosto dovevano essere Giudei che apertamen­te sostenevano la dinastia degli Erodi in genere e particolarmente il suo più autorevole rappresentante d'allora, ch'era il tetrarca Erode Antipa (§ 15 segg.), seppure non erano proprio gente di sua corte. Numerosi non potevano essere, e neppur godere di gran credito sul popolo.

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06/08/2012 16:41


Tempio e sacerdozio

§ 46. Il giudaismo, conservando anche sotto la dominazione di Roma il suo ordinamento teocratico-nazionale, continuò ad avere il suo centro spirituale in Gerusalemme: ivi, infatti, stava l'unico Tem­pio eretto legittimamente a Jahvè, il Dio della Nazione, ed in quel Tempio ministrava la gerarchia sacerdotale ch'era al vertice del­l'ordinamento teocratico. La nazionalità giudaica implicava la religione giudaica: la religio­ne richiedeva il Tempio di Gerusalemme: il Tempio esigeva il sa­cerdozio. Non solo da tutta la Palestina, ma anche dalle regioni vicine e lontane su cui si era riversata mediante la Diaspora la na­zione di Jahvè, si guardava a Gerusalemme e al sommo sacerdote, come al luogo più santo e all'uomo più vicino a Dio. Il Tempio frequentato da Gesù fu quello di Erode il Grande. Era dunque, materialmente, il terzo Tempio; il primo infatti, quello costruito da Salomone, era stato distrutto da Nabucodonosor quan­do aveva espugnato Gerusalemme nel 586 av. Cr.; il secondo, ri­costruito dai reduci dell'esilio babilonese e inaugurato nel 515 av. Cr., era durato fino a Erode; costui lo aveva demolito totalmente per costruire il terzo. Tuttavia i rabbini chiamavano « secondo tem­pio » anche quello di Erode, considerandolo moralmente tutt'uno col Tempio costruito dai reduci dell'esilio. Erede cominciò i lavori del Tempio l'anno 180 del suo regno, cioè nel 20-19 av. Cr.; già da prima, per dimostrare al popolo le sue serie intenzioni, egli aveva accumulato materiali in quantità enor­me, aveva impegnato diecimila operai che lavorassero alle parti esterne, e aveva fatto imparare l'arte muraria a mille sacerdoti che lavorassero nelle parti interne del Tempio inaccessibili ai laici se­condo la Legge ebraica. I lavori per le parti interne, costituenti il vero « santuario », durarono un anno e mezzo; quelli per le parti esterne, costituenti gli amplissimi atrii, durarono otto anni: durante i lavori il servizio liturgico non vi fu mai interrotto, perché man mano che si demoliva una parte dell'edificio interno si procedeva subito alla sua ricostruzione. Dopo nove anni e mezzo dall'inizio dei lavori, Erode celebrò la dedicazione del ricostruito Tempio nell'anniversario della sua salita al trono; tuttavia, come avviene d'or­dinario nelle grandi costruzioni, i lavori di rifinitura si prolunga­rono ancora per molti anni (cfr. Giovanni, 2, 20) e non termina­rono del tutto se non ai tempi del procuratore Albino (anni 62-64), cioè poco prima che il Tempio fosse distrutto dai Romani.

§ 47. Nel Tempio di Erode il “santuario” interno era in tutto analogo a quello del Tempio di Salomone, ma con elevazione mag­giore; al contrario, le costruzioni esterne che circondavano il ”san­tuario” furono ampliate grandemente. Poiché l'antico Tempio sor­geva sulla collina orientale della città, il piano superiore della col­lina fu dilatato quasi del doppio per mezzo di costruzioni compiute ai suoi fianchi: sullo spazio cosi ottenuto sorsero tre portici o atrii, ch'erano uno più elevato dell'altro, procedendo dalla periferia verso il “santuario” interno. Il primo e più periferico era accessibile a chiunque, e perciò era chiamato “atrio dei gentili”, potendo esser frequentato anche dai pagani; ma, procedendo verso l'interno, ad un certo punto quest'atrio era sbarrato da una balaustra di pie­tra che segnava il limite accessibile ai pagani: iscrizioni greche e latine, ivi apposte, ricordavano a costoro la proibizione di passare oltre sotto pena di morte (una di queste iscrizioni, in greco, fu ri­trovata nel 1871). Oltrepassata la balaustra e saliti più in là alcuni gradini, si entrava nell'” atrio interno”, protetto da grossissimi muri e suddiviso in due parti: la parte più esterna era detta “atrio delle donne”, perché fin li potevano penetrare le donne israelite, e la più interna era detta “atrio degli Israeliti”, accessibile ai soli uo­mini. Procedendo e salendo ancora, veniva l'”atrio dei sacerdoti”, ove stava l'altare degli olocausti a cielo scoperto; infine, dopo altri gradini, si giungeva al vero “santuario”. Il “santuario” aveva sul davanti un vestibolo, e internamente era diviso in due parti. Quella anteriore era chiamata il “santo”, e conteneva l'altare d'oro per i profumi, la mensa per i pani della proposizione e il candelabro d'oro a sette bracci. La parte posteriore era il “santo dei santi”, perché considerata dimora del Dio d'Israe­le e quindi il luogo “santissimo” di tutta la terra. Ivi, nel Tempio di Salomone, era stata l'Arca dell'Alleanza; ma, distrutta questa, il “santo dei santi” del nuovo Tempio rimase una stanza miste­riosamente oscura e vuota. Pompeo Magno, che vi penetrò nel 63 av. Cr., vi trovò nulla intus deum effigie vacuam sedem et mania arcana (Tacito, Hist., v, 9). Nel “santo dei santi” entrava sol­tanto il sommo sacerdote un solo giorno all'anno, nella ricorrenza del Kippur o Espiazione (§ 77); secondo una tradizione rabbinica il sommo sacerdote entrato colà, deponeva il turibolo su una pietra alta tre dita che ricordava il posto ove anticamente era stata l'Arca.

§ 48. L'”atrio dei gentili” era fiancheggiato, a oriente e a mez­zogiorno, da due famosi portici. L'orientale, che guardava dall'alto sopra il torrente Cedron, era chiamato comunemente ma senza ra­gione archeologica “portico di Salomone” (Giovanni, 10, 23; Atti, 3, li; 5, 12); il meridionale, chiamato ”portico regio”, toccava con i suoi due capi la valle del Cedron a oriente, e la valle del Tyropeon a occidente. Questo “portico regio” era costruzione vera­mente insigne, degna di stare a fianco delle più famose di Atene e di Roma, ma mostrava carattere totalmente greco e non aveva nulla di ebraico: era formato da centosessantadue grandi colonne sormontate da finissimi capitelli corinti e disposte in quadruplice fila in modo da costituire una triplice navata. L'”atrio dei gentili” era il gran luogo di convegno per chi abitava o si trovava di passaggio a Gerusalemme. I pagani vi andavano per trattare i loro affari, come nelle loro città sarebbero andati al foro; i Giudei vi si recavano per udire famosi dottori della Legge, che circondati dai loro discepoli tenevano scuola o disputavano fra loro, e più genericamente vi erano attirati dalle mille curiosità del luogo frequentatissimo e dalle notizie d'ogni sorta che vi si pote­vano raccogliere. Specialmente in occasione delle grandi feste ebraiche l'” atrio dei gentili” diventava un pubblico mercato. I venditori, istallatisi sotto i portici o nel piazzale scoperto, offrivano ai pellegrini giunti dalla Palestina e dall'estero buoi, pecore, ed ogni altra cosa necessaria per i sacrifizi liturgici, mentre i cambiavalute tenevano esposti su banchetti improvvisati i vari tipi di monete palestinesi, pronti a cambiarle con moneta straniera ai pellegrini venuti dall'estero. Sol­tanto dopo aver oltrepassato quest'inferno di clamore e di fetore, si giungeva al purgatorio, ove al solo Israelita era lecito purgarsi dei suoi peccati davanti a Dio, nel silenzio e nella preghiera.

§ 49. All'angolo nord-ovest del Tempio, e congiunta con esso, s'al­zava la fortezza Antonia, anch'essa costruita totalmente da Erode sul posto d'una precedente torre. La grandiosa potenza di questa costruzione fu dimostrata all'atto pratico nella guerra contro Roma, allorché Tito trovò in essa un enorme ostacolo alla conquista del Tempio e della città; Flavio Giuseppe, che ne dà una minuta de­scrizione, termina con queste importanti notizie archeologiche: Dal­le parti ove (la fortezza) si ricongiungeva con i portici del Tempio, aveva in ambedue i lati delle scale per le quali discendevano le guardie - giacché in essa risiedeva sempre una schiera di Romani - e si distribuivano con le armi lungo i portici durante le festività, vi­gilando che il popolo non tramasse innovazioni. Infatti, alla città sovrastava, come presidio, il Tempio, e al Tempio (sovrastava) l'An­tonia; ma in questa stavano le guarnigioni di tutti e tre (i luoghi: città, Tempio e Antonia) (Guerra giud., v, 243-245). Per questo motivo pratico come anche per la sua vicinanza al Tempio, l'An­tonia serviva spesso al procuratore romano - come già accennammo (§ 21) - per il disbrigo d'affari di governo, specialmente se richie­devano un diretto contatto con masse di popolo: in tali casi il pa­lazzo reale di Erode, più lontano dal Tempio e più aristocratico, si prestava meno bene.

§ 50. Nel Tempio dominava il sacerdozio levitico, che aveva a capo il sommo sacerdote: perciò, in forza dell'ordinamento teocratico, il sommo sacerdote era anche il capo di tutta la nazione giudaica, e riuniva in sé la suprema autorità religiosa e anche quella civile. Cosi era in teoria: ma in pratica, specialmente ai tempi di Gesù, il potere effettivo del sommo sacerdote era assai minore. Gli Asmonei, discendenti dei Maccabei, erano stati nello stesso tem­po sommi sacerdoti e re, attuando nuovamente l'antichissimo ideale d'Israele, pur non discendendo essi dalla stirpe di David; ma privati gli Asmonei del trono, i sommi sacerdoti furono eletti, quasi sempre, tra i membri di talune famiglie sacerdotali che avevano particolare influenza e costituivano dentro al ceto sacerdotale una casta d'aristocratici privilegiati. Inoltre il sommo sacerdote era eletto a vita, e solo eccezionalmente nei tempi antichi era stato deposto; ma dai tempi di Erode il Grande l'eccezione era diventata invece un uso comune, e ben raramente i sommi sacerdoti, morivano in carica. Dagli inizi di Erode il Grande fino alla morte di Gesù, che sono circa 65 anni, si contarono una quindicina di sommi sacerdoti, di cui parecchi rimasero in carica un anno e anche meno. I deposti, insieme con gli altri membri delle loro privilegiate famiglie, costi­tuirono quella classe che i vangeli e Flavio Giuseppe chiamano dei “sommi sacerdoti”. Se questa instabilità noceva molto alla carica del sommo sacerdote, anche più noceva alla sua dignità l'accaparramento che le suaccen­nate famiglie avevano fatto sia di quell'ufficio sia delle altre cariche più lucrose del Tempio. In occasione delle elezioni pare che abitual­mente corresse denaro, e un detto rabbinico mette appunto in relazione l'instabilità dell'ufficio con la sua venalità: Siccome sommi sacerdoti compravano il loro ufficio, così i loro giorni furono dimi­nuiti (Levit. Rabba, 120 c; cfr. Joma pal., j, 38 c).

§ 51. Eletto che fosse, il sommo sacerdote era il primo ministro del culto e il capo di tutti i servizi del Tempio. A lui personalmente spettava di celebrare soltanto la liturgia nel giorno del Kippur o Espiazione (§ 77), ma talvolta officiava anche in altre feste più solenni, ad esempio nella Pasqua. Nel campo civile il sommo sacerdote agiva specialmente come capo del Sinedrio (§ 58), la cui presidenza gli spettava di diritto. Ma, qui soprattutto, il suo potere effettivo diminui dopo la scomparsa degli Asmonei: il loro successore, Erode il Grande, accennava con la sua spada il cammino che il capo del Sinedrio doveva seguire; i procuratori romani non furono cosi brutali, ma sorvegliavano attentamente la sua condotta e rivedevano le sue decisioni più importanti, anche per fargli comprendere che se egli portava ancora l’infula pontificale non aveva più la corona regale. Anzi gli stessi indumenti pontificali del sommo sacerdote erano custoditi nella fortezza Antonia per una disposizione che risaliva a Erode il Grande o era forse anteriore, e che fu mantenuta in seguito anche dai procuratori: di là erano tolti in occasione delle principali festività, per esservi subito appresso restituiti; tuttavia nell'anno 36, dopo la destituzione di Ponzio Pilato, i Romani rinunziarono a questo diritto, odioso alla sensibilità religiosa dei Giudei. In linea di fatto, poi, il credito morale dei sommi sacerdoti, se non proprio la loro autorità ufficiale, si era molto abbassato ai tempi di Gesù anche per la ragione che essi appartenevano sempre alla corrente dei Sadducei: questa aristocratica corrente non solo era invisa al popolo, ma il suo indirizzo dottrinale era esplicitamente combattuto dai popolari Farisei, e quindi dagli Scribi che appartene­vano in massima parte alla corrente dei Farisei. Ora, sulla cattedra di Mosè avrebbe dovuto assidersi il sommo sacerdote, come supremo moderatore ed interprete della Legge teocratica: e questa norma era stata sancita espressamente anche dal pagano Giulio Cesare in favore del sommo sacerdote (in Antichita giud., xiv, 195). Ma in realtà sulla cattedra di Mose' si sedettero gli Scribi ed i Farzsez (Matteo, 23, 2), i quali, in altre parole, eressero una controcattedra di fronte a quella del sommo sacerdote e distolsero dal suo seguito le masse popolari, lasciandogli soltanto i suoi interessati Sadducei.

§ 52. I sommi sacerdoti che entrano direttamente nella storia di Gesù sono due, Anna e Caifa. Il nome Anna, grecizzato in Anano da Flavio Giuseppe, era una abbreviazione dell'ebraico Hananjah, ossia Anania. Flavio Giuseppe (Antichita' giud., xx, 198) presenta quest'uomo come lelicissimo per due ragioni, perché egli stesso tenne il sommo sacerdozio per lun­ghissimo tempo e perché in quella dignità ebbe come successori ben cinque figli; ma avrebbe potuto aggiungere che, oltre ai cinque figli, ebbe per successore nella sua carica anche un genero, cioè Giuseppe detto Caifa, cosi' sarebbe risultato anche meglio il pratico monopolio che del sommo sacerdozio avevano fatto le influenti famiglie cui già accennammo (§§ 33, 50). Stando a Flavio Giuseppe, Anna fu elet­to da Quirinio subito dopo la destituzione dell'etnarca Archelao, cioè nel 6 dopo Cr.; ma non è improbabile che lo storico giudeo prenda qui un abbaglio (come gli accade sovente altrove), e che Anna diventasse sommo sacerdote anche prima, perché fu deposto certamente dal procuratore Valerio Grato nell'anno 15, cosicché avrebbe pontificato solo nove anni, che non è un lunghissimo (tem­po) come egli stesso dice. Checché sia di ciò, anche dopo la sua deposizione Anna conservò grandissima autorità, perché i pontificati dei cinque figli e del genero furono regolati, segretamente o anche palesemente, sempre da lui. I figli pontificarono negli anni qui ap­presso indicati, ma non si sa se Anna fosse ancora in vita durante il pontificato dell'ultimo figlio a lui omonimo: Eleazaro, nell'anno l6-17; Jonathan, nell'anno 36-37; Teofilo, negli anni 37-41; Mattia, nell'anno 42-43; Anano (Anna), nell'anno 61. Costui fu ucciso nel 67, durante la guerra contro Roma, dagli insorti antiromani. L'immediato predecessore di Jonathan figlio di Anna fu il genero dello stesso Anna, cioè detto Qajapha (Caifa): quest'ultimo nome è di significato incerto. Caifa fu eletto nell'anno 18 da Valerio Gra­to, lo stesso procuratore che aveva deposto suo suocero, e rimase in carica fino al 36: era dunque sommo sacerdote allorché Gesù fu condannato ed ucciso, sebbene in tale occasione la realtà del potere fosse esercitata più dal suocero che da lui.

§ 53. Sotto l'alta direzione del sommo sacerdote ministravano neI Tempio i discendenti della tribù di Levi, che rimanevano distinti nelle due antiche categorie di sacerdoti e di semplici Leviti: i sacer­doti compievano le funzioni liturgiche ordinarie, sia quelle di culto pubblico ufficiale, sia quelle richieste dalla pietà dei singoli fedeli; i semplici Leviti coadiuvavano i sacerdoti nella preparazione ed ese­cuzione delle funzioni, e generalmente erano incaricati dei servizi secondari del Tempio. I Leviti non sacerdoti erano dunque il clero inferiore, e fuori del Tempio non avevano particolare importanza nella vita sociale e cul­turale della nazione. Il loro stato economico, che secondo gli antichi statuti si basava sulla rendita delle decime, non era florido, sia per­ché le decime erano spesso aleatorie, sia perché ai Leviti ne andava quella parte che si degnavano di lasciar loro i sacerdoti, non senza le eventuali rapine che già ricordammo (§ 33).

§ 54. I sacerdoti erano raggruppati in 24 classi, le quali s'avvicen­davano ogni settimana nel ministero del Tempio. Ciascuna classe aveva a capo un sacerdote da cui prendeva il nome, e i suoi dipen­denti erano designati alle singole incombenze del ministero per mez­zo delle sorti (cfr. Luca, 1, 5-9). I più dei sacerdoti dimoravano in Gerusalemme stessa o nei suoi immediati dintorni; ma taluni risie­devano in borgate piuttosto distanti, ove ritornavano terminata che fosse la loro muta di servizio in Gerusalemme: altrettanto facevano i semplici Leviti (cfr. Luca, 1, 23; 10, 31-32). L'ufficio proprio ai sacerdoti era quello liturgico. Conoscere esat­tamente i requisiti necessari in un animale da offrirsi in sacrifizio, la misura di una data libazione sacra, i riti preparatori ed esecutivi di certe oblazioni, le prescrizioni da osservarsi in determinate funzioni, e in genere tutte le norme scritte o tradizionali riguardanti la mate­rialità della liturgia, costituiva la scienza di cui andava fiero il sa­cerdote. Nella società teocratica egli eseguiva con esattezza quelle uccisioni d'animali, quegli spargimenti di sangui, quei bruciamenti d'incensi, che Dio stesso aveva prescritti e richiesti: con ciò il sacer­dote aveva compiuto il suo ufficio, rendendosi benemerito verso la società più d'ogni altra persona, perché con quei sangui e con quegli incensi aveva placato Dio e ne aveva assicurato la protezione sulla collettività. La partecipazione dello spirito alla materialità del rito era stata bensì' oggetto della predicazione degli antichi profeti, ma di fatto entrava ben poco nelle attribuzioni della “professione” esercitata dal sacerdote ebraico. Alle discussioni in voga fra Scribi e Farisei, la maggior parte dei sacerdoti restava aliena. Per il “pro­fessionista” sacro esisteva la Legge scritta, quella da cui i suoi privi­legi sacri erano garantiti, e cercare più in là sarebbe stato perdita di tempo; ché se qualche raro sacerdote prendeva parte a tali di­scussioni, era solo per impugnare e respingere quanto andavano affermando quei petulanti e plebei di Farisei, verso i quali non nu­triva che altezzoso disprezzo. E questa attitudine d'aristocratica su­periorità era mantenuta tanto più da quei sacerdoti che, dopo il sommo sacerdote, occupavano gli uffici più alti del Tempio, come quelli di capitano del tempio (Atti, 4, 1; 5, 24-26), di tesoriere, e altri onorifici e lucrosi; già udimmo da fonte rabbinica che tali uffici erano accaparrati abitualmente da membri delle “famiglie di sommi sacerdoti”.

§ 55. Sarebbe certamente falso credere che questa combriccola pa­rentale, formatasi sul vertice, fosse degna rapprentante di tutti coloro che stavano più in basso, o anche che i discendenti di Levi fossero indistintamente ottusi mestieranti di liturgia, privi di religio­sità vera: al contrario, soprattutto fra il basso clero costituito dai Leviti e anche fra i sacerdoti di famiglie meno cospicue e meno ur­banizzate, dovevano essere numerosi gli spiriti profondamente reli­giosi, che segretamente ripensavano agli antichi benefizi fatti da Dio ad Israele e aspettavano ansiosamente quelli promessi per il futuro. Per citare un solo esempio, da una di queste famiglie rurali di sa­cerdoti era stato iniziato nel 166 av. Cr. il risorgimento nazionale dei Maccabei, che aveva richiamato a nuova vita il giudaismo in for­za di principii nazionali-religiosi. Ad ogni modo, questa porzione buona e sana del levitismo era - come avviene sempre - la meno vistosa e rumorosa, la meno atta a far parlare di sé nelle ordinarie vicende della vita sociale : gli occhi del popolo erano attirati, invece, da quei fastosi ed altezzosi sacerdoti che spadroneggiavano nel Tem­pio e che si spartivano la direzione degli affari pubblici col procura­tore romano, col quale s'intendevano abbastanza bene; cotesti pezzi grossi della finanza e della politica - se non della religione - erano agli occhi della plebe il sacerdozio pratico, i discendenti effettivi di Levi e di Eli.
§ 56. Era quindi naturale che la plebe non li amasse. Una tradizio­ne rabbinica riferisce che una volta il popolo esasperato urlasse nel­l'atrio del Tempio: Uscite via di qua, uscite via di qua, figli di EliI Avete insozzato la casa del nostro Dio! (Sukkah, pal., iv, 54 d). I figli di Eli erano i legittimi sacerdoti di Dio Jahvè, che dal popolo non erano dunque graditi; ma saranno stati essi graditi dal loro stesso Dio Jahvè? A questo proposito abbiamo notizia di un fatto straordinario, che merita di essere ricordato sia per il singolare momento storico in cui sarebbe avvenuto, sia perché la sua notizia è trasmessa concordemen­te dal giudeo Flavio Giuseppe e dal pagano Cornelio Tacito. Narra lo storico giudeo che, in uno degli ultimi anni prima della catastro­fe nazionale e dell'incendio del Tempio, nella festa che si chiama Pentecoste, essendo giunti i sacerdoti nel tempio interno - com'era loro costume per gli uffici liturgici - aflermarono che dapprima ave­vano avvertito una scossa ed un colpo, e poi una voce collettiva “Noi ce ne partiamo di qua”. Colui che abi­tava in permanenza nel Tempio di Gerusalemme e in quel momento se ne partiva, era Jahvè, Dio d'Israele, che qui parla in prima per­sona plurale (come già in Genesi, 1, 26, allorché crea l'umanità). In questa stessa maniera intende il fatto anche lo storico pagano. Accettando come vero questo fatto, bisognerebbe concludere che, non avendo i figli di Eli abbandonato il Tempio alle grida del po­polo esasperato, Dio stesso lo abbandonò lasciando ai sacerdoti un Tempio che era ormai vuoto di Dio. E allora quel Tempio crollò per sempre.


Il gran Sinedrio

§ 57. Dopo il sommo sacerdozio l'istituzione massima del giudaismo ai tempi di Gesù era il gran Sinedrio, supremo consesso nazionale-religioso. Sebbene la tradizione rabbinica ne attribuisca la fondazione a Mosè, le sue vere origini non risalgono più in su del secolo II av. Cr., allor­ché i monarchi Seleucidi che dominavano in Palestina sancirono an­che in Gerusalemme la forma di governo locale già in vigore in mol­te città ellenistiche: attribuirono, cioè, autorità legale al consiglio degli anziani che presiedeva agli affari della città, riconoscendo ad esso la potestà di legiferare in materia civile e religiosa subordina­tamente al supremo potere monarchico; quindi le decisioni di quel consiglio, come della città principale del giudaismo, ebbero valore normativo anche per altri centri giudaici della monarchia Seleu­cida, sebbene questi avessero e conservassero i loro consigli locali chiamati anch'essi “sinedri” (cfr. Matteo, 10, 17; Marco, 13, 9). Il gran Sinedrio, dunque, sorse come forma di governo limitatamen­te autonoma concessa da monarchi stranieri: era perciò inevitabile che la sua autorità effettiva diminuisse, qualora sorgessero o una monarchia nazionale o un potere dispotico interno. Così difatti av­venne dapprima sotto i nazionali Maccabei-Asmonei, allorché il gran Sinedrio godé di vera potenza nei periodi in cui declinava quella della monarchia, e più tardi sotto il dispotico Erode, allorché al gran Sinedrio non rimase che un'ombra di potere. Al contrario, sotto i procuratori romani l'autorità del gran Sinedrio crebbe grandemente; i Romani infatti, seguendo anche in Palestina la loro norma costante di lasciare ai popoli soggetti una libertà ch'era piena nel campo religioso e subordinata in quello degli affari civili interni, trovarono che al gran Sinedrio di Gerusalemme si po­teva opportunamente affidare l'amministrazione di questa doppia libertà; inoltre il gran Sinedrio era composto in prevalenza di tre menti aristocratici, che nelle province erano graditi ai Romani ben più degli innovatori rappresentanti del basso popolo.

§ 58. Il gran Sinedrio era composto di settantun membri, compreso il presidente ch'era il sommo sacerdote. I membri si spartivano in tre gruppi. Il primo gruppo era formato dai « sommi sacerdoti », e comprendeva sia coloro che erano già stati insigniti di tale ufficio, sia i membri principali delle famiglie da cui erano stati estratti i sommi sacerdoti; era dunque il gruppo dell'aristocrazia sacerdotale, seguace di principii sadducei, e il più potente ai tempi di Gesù. Il secondo gruppo era formato dagli Anziani, rappre­sentanti l'aristocrazia laica; erano quei cittadini che, per il loro censo o per altre ragioni, avevano acquistato un'autorità eminente nella vita pubblica e quindi potevano recare un contributo efficace nella direzione degli affari. Anche costoro appartenevano alla cor­rente sadducea. Il terzo gruppo era quello degli Scribi, o Dottori della Legge: for­mato in massima parte da laici e da Farisei (§ 41), contava tuttavia fra i suoi membri taluni sacerdoti e Sadducei. Era il gruppo popolare e dinamico per eccellenza, di fronte agli altri due aristocratici e statici: per conseguenza, con la catastrofe dell'anno 70, gli altri due gruppi scomparvero travolti dalla reazione popolare, e il gran Sine­drio restò costituito da soli Scribi. La giurisdizione del gran Sinedrio s'estendeva, in teoria, sul giudai­smo di tutto il mondo: in pratica, ai tempi di Gesù, la sua autorità era ordinaria ed efficace in Palestina, straordinaria e fiacca nelle co­munità giudaiche che stavano fuori della Palestina, e risultava tan­to più debole quanto più queste comunità erano esigue o lontane. A quel supremo consesso nazionale i Giudei lontani ricorrevano solo eccezionalmente, di solito quando non potevano ottener giusti­zia dai consessi o sinedri locali.

§ 59. Qualsiasi causa religiosa e civile, avente attinenza con la Leg­ge giudaica, poteva essere giudicata dal gran Sinedrio; ma, nelle varie epoche, avvennero in pratica le limitazioni di potere che già rilevammo. All'epoca dei procuratori romani le sentenze del gran Sinedrio avevano senz'altro valore esecutivo, e potevano essere applicate anche con ricorso alle forze di polizia giudaica o romana: soltanto un caso Roma aveva sottratto alla potestà esecutiva del gran Sinedrio, ed era il caso di sentenza capitale, la quale poteva ben­sì essere pronunziata da quel consesso, ma non già eseguita se non fosse stata individualmente confermata dal magistrato rappresentante di Roma. Del resto era una solenne norma giudiziaria di evitare il più possibile sentenze capitali, e sembra che effettivamente questa norma fosse seguita e che condanne a morte fossero rarissime; rabbini affermarono che un Sinedrio era troppo severo e rovinoso se prenunziava una sentenza capitale ogni sette anni, anzi secondo Rabbi Eleazar figlio d'Azaria ogni settanta anni, mentre Rabbi Tarphon e Rabbi Aqiba asserivano: Se noi fossimo membri del Sinedrio, nessuno mai verrebbe messo a morte (Makkoth, 1, 10). Il Sinedrio era convocato dal sommo sacerdote, e teneva le sedute in un luogo chiamato l'”aula della pietra squadrata”, ch'era situato presso l'angolo sud-occidentale del Tempio interno, quello accessibile ai soli Israeliti (§ 47); da quell'aula, verso l'anno 30 dopo Cr., si sarebbe trasferito in un luogo chiamato “ta­verna” , ma della situazione di questo luogo non si sa nulla e forse la notizia è inesatta. In casi speciali d'urgenza il Sinedrio poteva essere convocato anche nella dimora del suo presidente, il sommo sacerdote. Nei giorni di sabbato o di festività non si tenevano sedute.

§ 60. Ecco poi alcune notizie rabbiniche circa le usanze delle sedute e le norme dei processi. lì Sinedrio sedeva a semicerchio, in modo che (i suoi membri) si potevano vedere fra loro. Il presidente sedeva nel centro e gli an­ziani sedevano (per anzianità) a destra e a sinistra di lui (Tosefta Sanhednn, viii, 1). Qualche studioso moderno ha sostenuto che anche sotto i procuratori il Sinedrio potesse eseguire le proprie sentenze capitali, ma le ragioni addotte hanno convinto ben pochi. Il Talmud si contraddice su questo punto: nega tale potestà al gran Sinedrio. Due segretari dei giudici sedevano dinanzi a loro, uno a destra e l'altro a sinistra, e raccoglievano i voti di coloro che pronunciavano assoluzione e di coloro che pronunciavano condanna. Rabbi Giuda diceva che ce n'erano tre; (oltre ai due) ce n'era un terzo che rac­coglieva i voti di chi assolveva ed anche di chi condannava. La corte dell'aula della pietra squadrata, sebbene fosse composta di settantun membri, non ne aveva (mai presenti) meno di ventitré. Se qualcuno doveva uscire, dava prima uno sguardo: se erano in venti­tré, usciva; altrimenti non usciva fino a che fossero in ventitré. Sedevano essi dall'”olocausto perenne” del mattino fino all’”olocau­sto perenne” della sera (che si offrivano nel Tempio circa alle 9 antimeridiane e alle 4 pomeridiane). Le cause civili possono iniziarsi con la difesa o con l'accusa; le cause penali possono aprirsi solo con la difesa. Nelle cause civili e' suffi­ciente la maggioranza di uno, sia per l'attore sia per il convenuto; nelle cause penali la maggioranza di uno assolve, ma per condanna­re e' necessario la maggioranza di due. Nelle cause civili i giudici possono rivedere la sentenza in favore sia dell'attore sia del conve­nuto; nelle cause penali possono rivedere la sentenza per assolvere non per condannare. Nelle cause civili i giudici possono tutti [con­cordemente] addurre argomenti in favore sia dell'attore sia del con­venuto; nelle cause penali possono addurre argomenti per l'assoluzzo­ne, non per la condanna. Nelle cause civili il giudice che adduce argomenti a carico del convenuto può addurre a carico dell'attore, e viceversa; nelle cause penali il giudice che ha addotto argomenti per la condanna può in seguito addurne per l'assoluzione, ma chi ne ha addotti per l'assoluzione non può disdirsi e addurne per la condanna. Le cause civili si discutono di giorno e si concludono di notte; le cause penali si discutono di giorno e si concludono di giorno. Le cause civili possono essere concluse lo stesso giorno, sia con una sentenza di assoluzione sia con una condanna; le cause penali pos­sono essere concluse il giorno stesso purché la sentenza non sia di condanna; se la sentenza e' di condanna, il giorno seguente: per questa ragione non si discutono la vigilia del sabbato e delle fe­ste. Nelle cause civili e nelle questioni di punta' e impurita' ritua­le i giudici esprimono la loro opinione cominciando dal piu' anziano; nelle cause penali cominciando dai lati ov'erano i più giovani, affin­ché su essi non influisse la sentenza dei più anziani (Sanhedrin, iv, i segg). I testimoni erano interrogati su sette qunti: (Il fatto avvenne) in quale ciclo sabbatico? In quale anno? In quale mese? In quale giorno del mese? In quale giorno della settimana? In quale ora? In quale luogo?... Riconosci tu quest'uomo? Lo preavvisasti?... (E­scussi poi i vari testimoni, i giudici) ascoltano pure l'accusato che aflermi d'avere alcunché da dichiarare in sua difesa, purché nelle sue parole vi sia qualche fondamento. Se i giudici lo riconoscono innocente, lo liberano; altrimenti rimandano la sentenza al giorno appresso. Si uniscono a due a due, prendono parco cibo senza bere vino per l'intero giorno, e discutono nell'intera notte; il mattino appresso vanno di buon'ora al tribunale. Chi e' per l'assoluzione dice: “Ero per l'assoluzione e rimango nella stessa opinione”. Chi e' per la condanna dice: “Ero per la condanna e rimango nella stessa opi­mone”. Il giudice che già sostenne la colpabilità dell'accusato può adesso sostenere l'innocenza, ma non viceversa. Se commettono un errore nell'opinione che esprimono (affermando il contrario di quan to hanno affermato prima), i due scrivani dei giudici li correggono. Se dodici assolvono e undici condannano, l'accusato e' dichiarato in­nocente. Se dodici condannano, e undici assolvono; come pure se undici assolvono, undici condannano, e uno si astiene; ovvero se ventidue assolvono e condannano, e uno si astiene: si aumenti il numero dei giudici. Fino a che numero? Per coppia fino a set­tantuno in tutto (il numero del gran Sinedrio in pieno). Se trentasei assolvono e trentacinque condannano, si dichiara innocente; se tren­tasei condannano e trentacinque assolvo no, discutono fino a che uno dei propensi a condannare muti sentenza (Sanhedrzn, v, 1-5). Queste, e molte altre norme, valevano in teoria, e ad Ogni modo furono messe in iscritto molto dopo l'epoca di Gesù. All'atto pratico, e all'epoca di Gesù, si può ben credere che le cose andassero diversamente, specie in tempi turbinosi, o anche in tempi normali quando i giudici erano sotto l'influenza di passioni varie. Per i tempi turbi­nosi abbiamo l'esempio del beffardo processo svoltosi, sulla fine del 67 dopo Cr., contro Zacharia figlio di Baris (Baruch) davanti ad un burlesco tribunale di settanta membri adunato nel Tempio; nel Tempio stesso l'imputato, sebbene dichiarato innocente, fu ucciso (Guerra giud., Iv, 335-344). Per i tempi normali abbiamo l'esempio del processo di Gesù.
§ 61. Oltre al gran Sinedrio di Gerusalemme esistevano i sinedri minori, propri alle singole comunità giudaiche di Palestina e dell'este­ro. Ogni comunità ben costituita doveva averlo. Ne facevano parte i Giudei più eminenti del luogo, sotto la presidenza dell'archisi­nagogo. Questo sinedrio locale provvedeva all'amministrazione degli affari particolari alla sua comunità, applicando però le norme generali sta­bilite dal gran Sinedrio di Gerusalemme. Poteva anche costituirsi in tribunale, giudicando cause di minor importanza riguardanti i soggetti di sua giurisdizione: il giudizio poteva concludersi con con­danne a multe pecuniarie o anche a pene corporali, quali la flageilazione fino a trentanove colpi (cfr. li Gorinti, il, 24). Chi si fosse ribellato alla sentenza del sinedrio locale, era escluso dalla comunità per un tempo più o meno lungo; l'esclusione perenne, pronunziata in realtà assai raramente, importava la maledizione ufficiale del con­dannato e la sua esclusione dal giudaismo.

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06/08/2012 16:42


La sinagoga

§ 62. L'edificio chiamato oggi “sinagoga” fu essenzialmente un luo­go di preghiera e d'istruzione religiosa: giustamente i pagani usa­vano chiamare questo edificio, che ai tempi di Gesù si era largamente diffuso nelle loro regioni, col nome di “oratorio”. La funzione della sinagoga fu della massima importanza nella storia del giudaismo. Il suo scopo non fu già quello di sostituire l'unico Tempio israelitico, bensi di confermare ed estendere la sua efficacia quando esso esisteva ancora e di compensarla parzialmente dopoché fu distrutto. La sinagoga dunque non fu un contraltare al Tempio: ne fu piuttosto quasi un pronao spirituale e una cappella sussidiana. La liturgia sacrificale al Dio d'Israele non si poteva compiere legittimamente se non nel Tempio di Gerusalemme, e tale norma ri­mase sempre inconcussa per gli Israeliti ortodossi. Ma sta di fatto che quell'unico Tempio era troppo distante per molti Israeliti della Palestina stessa, e tanto più divenne remoto e difficilmente accessibile quando la nazione giudaica con la sua Diaspora cominciò a scia­mare dalla Palestina e ad inserirsi nelle varie regioni straniere; que­sti lontani fedeli avranno potuto inviare frequentemente pensieri af­fettuosi ed offerte preziose al loro unico santuario, ma piuttosto ra­ramente potevano visitarlo di persona e risentirne direttamente l'ef­ficacia spirituale. Bisognava quindi estendere sempre più quell'efficacia fra i Giudei sia della Palestina sia della Diaspora, e inoltre trovare ad essa, quando eventualmente mancava, un qualche com­penso che fosse compatibile con la più stretta ortodossia. Per tali ragioni sorse la sinagoga. Le sue prime origini, infatti, vanno ricercate fra i Giudei esuli in Babilonia, allorché il Tempio di Gerusalemme non esisteva affatto perché distrutto. A quei tempi certamente non si poté avere la sinagoga vera e propria (come pretenderebbe la tradizione rabbi­nica), tuttavia le varie riunioni che gli esuli facevano presso Eze­chiele ed altri insigni personaggi lasciano intravedere già il nucleo della sinagoga futura. Ma in seguito, anche dopo la ricostruzione del Tempio, i Giudei sia fuori che dentro la Palestina usarono sem­pre piu riunirsi in determinati luoghi o in appositi edifici, per pra­ticarvi quella preghiera ed istruzione religiosa ch'era impossibile pra­ticare nel lontano Tempio ed era meno opportuno praticare in un qualsiasi posto comune. Cosi nacque e prese fisionomia ben distinta l'istituto sinagogale. Già al secolo III av. Cr. si hanno sicure attestazioni archeologiche di edifici sinagogali, e nei secoli seguenti essi si moltiplicano a dismi­sura dentro e fuori la Palestina. Ai tempi di Gesù si può ritenere per certo che in Palestina nessun centro abitato, anche se di scarsa im­portanza, fosse sprovvisto di sinagoga; sarà poi una leggenda l'affer­mazione rabbinica che in Gerusalemme si contassero quattrocen­tottanta sinagoghe di cui una nel recinto del Tempio stesso, tuttavia la leggenda nacque da una buona dose di realtà. Fuori della Pale­stina, nelle varie regioni dell'Impero romano, sono noti circa cento-cinquanta centri abitati provvisti di sinagoga: la sola Roma nel secolo i dopo Cr. ha fornito la prova di tredici distinte comunità giudaiche, ciàscuna delle quali aveva certamente almeno una sina­goga, ma in tutto le comunità dovevano essere più numerose di quelle oggi attestate.

§ 63. Sotto l'aspetto architettonico la sinagoga era essenzialmente costituita da una sala, che di solito era rettangolare e disposta in mo­do che i convenuti fossero rivolti con la faccia verso Gerusalemme e il suo Tempio: in Galilea, paese di Gesù, quasi tutte le sinagoghe di cui rimangono ruderi hanno l'ingresso al lato meridionale, cioè ver­so Gerusalemme, e perciò i convenuti erano rivolti verso l'ingresso. La sala poteva essere divisa in navate da colonne, e sopra queste po­teva poggiare alla periferia un'impalcatura elevata, riservata forse alle donne (matroneo); talvolta avanti all'ingresso della sala s'apriva un atrio con una vasca in mezzo per le abluzioni, e ai lati dell'edi­ficio erano addossate stanze minori destinate a scuola dei fanciulli e ad ospizio dei pellegrini. La sala poteva essere decorata con pittu­re e mosaici; i motivi ornamentali nei templi più antichi si limita­vano alla raffigurazione di esseri inanimati (palme, candelabro a sette bracci, stella a cinque o a sei punte, ecc.), ma più recentemer­te rappresentarono anche animali e uomini (Mosè, Daniele, ecc.), contro la nota proibizione in vigore ai tempi di Gesù. Nell'interno della sala l'oggetto principale era l'armadio sacro, ove si custodivano i rotoli delle Scritture sacre; era collocato in una specie di cappelletta, protetto da un velo, e davan­ti ad esso sembra che ardessero una o più lampade. La sala era anche provvista di un pulpito, mobile o fisso, su cui saliva il lettore della Scrittura e poi il successivo oratore; lo spazio rimanente della sala era occupato da sgabelli, la cui prima fila era oggetto di comuni ambizioni da parte dei frequentatori come più onorifica: talvolta seggi speciali erano disposti a parte, fra l'armadio sacro e il pulpito, e destinati a personaggi insigni.

§ 64. L'edificio sinagogale era affidato a un archisinagogo scelto fra gli anziani della comunità locale; egli curava sia la buona con­servazione degli oggetti sia il regolare svolgimento delle adunanze. Alle sue dipendenze stava un “ministro”, quasi un sacre­stano, che accudiva a varie faccende materiali, come sonar la trom­ba al principio ed alla fine del sabbato, estrarre i rotoli della Scrittu­ra dall'armadio, eseguire la flagellazione di qualche colpevole con­dannato dal sinedrio locale (§ 61), e simili; talvolta questo sacresta­no faceva anche da maestro di scuola per i fanciulli, che si aduna­vano in una stanza attigua.

§ 65. Nella sinagoga le adunanze si tenevano in tutti i sabbati mat­tina e pomeriggio, e negli altri giorni festivi, ma, oltre a queste adunanze di prescrizione, se ne potevano tenere altre specialmente il lunedi' e il giovedi, e in occasioni particolari. La sinagoga, infatti, divenne sempre più la roccaforte spirituale del popolo in essa si ravvivavano continuamente quei principii nazionali-religiosi che do­vevano distinguere Israele da tutte le altre nazioni; in essa si legge­vano quelle Scritture, si ricordavano quelle tradizioni, si recitavano quelle preghiere che sono rimaste, ancora oggi, il principale patri­monio morale del giudaismo; in essa si cementava l'unione, sia tra i Giudei di una stessa comunità, sia tra le varie comunità di una data regione e anche di tutto il mondo, la quale unione fu la massi­ma forza del giudaismo specialmente dopo la catastrofe del 70. Perché un'adunanza fosse regolare dovevano essere presenti non me­no di dieci uomini: per essere sicuri di tale numero, in tempi assai posteriori, si sussidiarono dieci Giudei della comunità affinché, an­che fuori del sabbato e dei giorni festivi, si tenessero liberi da altre occupazioni onde intervenire alle adunanze.

§ 66. L'adunanza s'iniziava con la recita del tratto scritturale chia­mato, dalla parola con cui comincia, Shema’ “Ascolta...”. Era un tratto composto da tre passi del Pentateuco, nel primo dei quali (Deuteronomio, 6, 4-9) si comanda l'amore di Dio, nel secondo (Deuter., 11, 13-21) l'osservanza dei comandamenti di Dio, e nel terzo (Numeri, 15, 37-41) s'impone che anche le frange delle vesti rammentino i comandamenti di Dio. Questo tratto scritturale era come il primo e fondamentale atto religioso dell'Israelita, l'atto di fede con cui egli affermava solennemente di credere nel Dio unico e di amarlo: non diversamente Gesù, allo Scriba che gli aveva do­mandato quale fosse il primo dei comandamenti, rispose citando appunto l'inizio dello Shema’ (Marco, 12, 29). Dopo lo Shema’ si recitava lo Shemòne esré “Diciotto”, cioè una serie di diciotto brevi preghiere esprimenti adorazione, sudditanza e speranza verso il Dio d'Israele. E’ molto probabile che questa serie di preghiere fosse recitata nelle sinagoghe già ai tempi di Gesù; ma in tal caso essa doveva essere alquanto differente e più breve della recensione (babilonese) oggi ufficialmente in uso, la quale consta in realtà di diciannove preghiere ed è posteriore di molto alla cata­strofe del 70, a cui pure allude. Più antica è un'altra recensione (palestinese) ritrovata da alcune decine d'anni, ma anch'essa non può risalire ai tempi di Gesù, perché la dodicesima preghiera contiene un'imprecazione contro i cristiani in questi termini: Per gli apostati non vi sia speranza, e il regno superbo (certamente l'Impero romano) sradica Tu ben tosto ai nostri giorni! E i nazareni (cristiani) e gli eretici periscano all'istante: siano essi cancellati dal libro della vita, e insieme con i giusti non siano iscritti. Benedetto sii Tu, o Jahve', che curvi i superbi! Questa maledizione diretta espressamen­te contro i cristiani è scomparsa nella recensione posteriore (babi­lonese), in cui è stata sostituita con una maledizione contro i superbi e gli empi in genere; tuttavia l'impiego della formula di maledizione contro i cristiani è attestato ancora al secolo IV da S. Girolamo. Probabilmente la formula fu introdotta ai tempi di Rabbi Gamaliel Il verso l'anno 100 (cfr. Beratòth, 28 b), mentre il testo complessivo presumibilmente in uso ai tempi di Gesù ne era evidentemente privo.
§ 67. Dopo lo Shemòne esre si procedeva alla lettura delle Scrittu­re sacre. Si cominciava con la Torah (Pentateuco), la quale era divisa in 154 sezioni (eccezionalmente anche di più), in modo che la sua lettura continuativa si compiva interamente in tre anni; seguiva la lettura dei libri chiamati “Profeti” nel canone ebraico cioè i libri da Giosue' fino ai Profeti minori - la quale era fatta con una certa libertà di scelta e di ampiezza. I testi si leggevano nella lingua originale ebraica: ma poiché ai tem­pi di Gesù il popolo parlava aramaico e ben pochi comprendevano l'ebraico, i singoli passi letti erano man mano tradotti in aramaico. Queste traduzioni, che già ai tempi di Gesù avevano assunto una forma tipica tradizionale, furono più tardi messe in iscritto e costi­tuirono i Targum (im) biblici. Terminata la doppia lettura con traduzione, seguiva un discorso istruttivo che si aggirava su qualche tratto della lettura fatta, spie­gandolo e traendone insegnamenti pratici. Questo discorso poteva essere tenuto da chiunque dei presenti; di solito l'archisinagogo in­vitava a tale incombenza i presenti da lui giudicati più adatti, ma chi lo desiderasse poteva anche offrirsi spontaneamente: in pratica gli oratori erano ordinariamente persone versate nella conoscenza delle Scritture e tradizioni sacre, cioè Scribi e Farisei. L'adunanza terminava con la benedizione sacerdotale contenuta in Numeri, 6, 22 segg. Se tra i presenti si trovava un sacerdote, egli recitava la benedizione e gli altri rispondevano Amen; altrimenti era recitata a guisa d'implorazione da tutti i presenti.


Pratiche e credenze del giudaismo

§ 68. Fra tutte le prescrizioni esterne della religione giudaica le due principali ai tempi di Gesù erano il rito della circoncisione e l'osservanza del sabbato. Specialmente contro questi due pilastri del giudaismo aveva indi­rizzato la sua violenza la persecuzione scatenata in Palestina da Antioco IV Epifane nel 167 av. Cr.; ma i pilastri, sebbene scalfiti, avevano resistito. Succeduta la pace religiosa e l'autonomia nazio­nale, i due pilastri non solo furono anche più rafforzati, ma per naturale reazione furono fatti scendere tali quali dal cielo. Poco prima del 100 av. Cr. un Giudeo palestinese, molto zelante e forse Fariseo, l'autore dell'apocrifo Libro dei Giubilei, era in grado d'in­formare che gli angeli in cielo osservano ambedue queste prescri­zioni del giudaismo, perché sono circoncisi (XV, 27) e rispettano il sabbato; anzi il sabbato è osservato in cielo da Dio stesso (II, 19, 21). La successiva tradizione rabbinica s'inoltrò su questa strada. Si affermò che nel mondo di là Abramo sederà all'ingresso della Gehenna e non permetterà che vi discenda alcun Israelita cir­conciso; tuttavia, qualora ad Abramo si presenti tale Israelita che in vita sua sia stato un insigne furfante, il patriarca degli Ebrei pri­ma gli cancellerà miracolosamente le tracce della circoncisione, e solo dopo ciò lo caccerà nella Gehenna (Genesi Rabba, XLVII, 8): con la circoncisione, insomma, non si entrava nella Gehenna, e al­trettanto - a quanto pare - si otteneva mediante l'osservanza del sabbato. Si tratta evidentemente di speciali credenze più o meno diffuse fra dotti e plebei, ma che ad ogni modo sono segnalazioni importanti di un dato stato d'animo.

§ 69. La circoncisione era il segno d'appartenere alla nazione prediletta del Dio Jahvè, l'attestato di partecipazione alla discendenza spirituale di Abramo e ai vantaggi dell'alleanza da lui stretta con Jahvè (Genesi, 17, 10 segg.). Perciò il massimo obbrobrio dei pagani, agli occhi di un Israelita, era quello di essere incirconcisi, e con questo appellativo erano essi chiamati quando si voleva infliggere loro la massima umiliazione. Il bambino riceveva la circoncisione l'ottavo giorno dalla sua na­scita: l'operazione poteva essere compiuta da qualunque Giudeo, preferibilmente dal padre del bambino, e di solito si praticava in casa. In questa occasione s'imponeva ufficialmente il nome al bambino.

§ 70. L'osservanza del sabbato era soggetto di minutissime prescrizioni da parte dei rabbini: se ne può avere un concetto da molti passi del Talmud, e specialmente dai suoi due trattati Shabbath e Erubin, dedicati quasi esclusivamente a quest'argomento. Il precetto del sabbato, applicato in tutto il suo rigore, avrebbe im­portato l'astensione da qualsiasi lavoro d'ogni genere: quindi anche l'astensione dal difendere la propria vita minacciata a mano ar­mata, come non la difesero parecchi Giudei durante la persecuzione di Antioco IV Epifane (I Maccabei, 2, 31-38), e inoltre l'astensione da tutto ciò che è necessario per soddisfare le necessità corporali, come se ne astenevano gli Esseni (Guerra giud., n, 147); (§ 44). Ma, evidentemente, siffatto rigore non poteva conciliarsi con le esigenze della vita sociale: di qui le numerose norme rabbiniche, che cerca­vano di mantenere per quanto era possibile il principio teoretico pur non escludendo le urgenze pratiche. Sono elencati 39 gruppi di azioni con cui, secondo i rabbini, si violava il sabbato (Shabbath, VII, 2); tali erano i casi di sciogliere o stringere un nodo di fune, di spegnere una lampada, di eseguire due punti di cucito (numericamente due), di scrivere due lettere (d'alfa­beto), ecc. Tuttavia la casuistica degli stessi rabbini alleggeriva spesso il rigore delle norme generiche: cosi, riguardo alla proibizione di sciogliere un nodo di fune, ad esempio della cavezza d'un cavallo, Rabbi Meir sentenziò che se un camelliere poteva scioglierlo con una sola mano, non c'era violazione del sabbato; parimente era proibito stringere un nodo per calare una secchia nel pozzo, ma fu sentenziato che se il nodo era fatto non con una fune ma con una benda qualsiasi, non c'era violazione del sabbato. E i casi d'interpretazione benigna si moltiplicarono grandemente. Ad essi è dedicato specialmente il trattato Erubin, che mediante artificiosità giuridiche mira a rendere lecito il trasporto fuor della pro­pria casa o terra di un dato oggetto, mentre ogni trasporto sarebbe stato proibito anche se si trattava di un fico secco (Shabbath, vii, 3 segg.); Io stesso trattato mira anche ad aumentare la misura del passeggio o cammino permessi di sabbato, che regolarmente non doveva superare i 2000 cubiti, cioè circa 900 metri.

§ 71. Il sabbato giudaico cominciava, conforme al computo del calendario ebraico, dal tramonto del nostro venerdì e durava fino al tramonto del nostro sabbato. Il pomeriggio del venerdì era chiamato “vigilia del sabbato” o anche “parasceve” cioè “preparazione”; quest'ultimo appellativo era dovuto al fatto che in quel pomeriggio si preparava tutto l'occorrente per l'inoperoso sab­bato, a cominciare dai cibi, giacché una delle 39 azioni proibite di sabbato era quella d'accendere il fuoco. Il rigore del riposo sabbatico poteva bensì cedere a ragioni di natu­ra superiore, ma anche qui continuava la minuziosità casuistica dei rabbini. Di sabbato, quindi, era permessa la circoncisione, ma con talune limitazioni riguardo agli atti accessori; era lecito preparate il sacrificio della Pasqua, ma tralasciando ciò che non era stretta­mente necessario; il sacerdote di servizio nel Tempio poteva com­piere gli atti materiali della liturgia prescritta, e se si feriva un dito poteva medicarselo dentro il Tempio stesso, ma non già fuori. Riguardo all'assistenza sanitaria si era stabilita la norma che il ri­poso del sabbato era superato dal pericolo di vita, ma come al solito la norma riceveva precisazioni di vario genere: il Talmud permette a chi abbia dolor di denti di sciacquarseli con aceto, purché dopo lo inghiottisca (giacché ciò è prender cibo), ma non gli permette di risputarlo fuori (giacché ciò sarebbe prendere una medicina) (Tosefta Shabbath, XII, 9): parimente permette a chi abbia la mano o il piede lussati di bagnarli nell'acqua fredda come al solito (lavanda quotidiana), ma non già di agitarveli dentro (Shabbath, XXII, 6). Astrazione fatta da questa soffocante legislazione, il sabbato era per il giudaismo giorno di letizia e di religiosa spiritualità. Il Talmud stesso prescrive di riserbare a questo giorno i cibi migliori, preparati però alla vigilia; si usavano anche ornamenti e vesti festive. Buona parte del tempo si impiegava in pratiche religiose alla sinagoga o in casa propria, o in pie letture favorite anche dalla forzata inope­rosità.

§ 72. Se la circoncisione riguardava il Giudeo una sola volta nella vita e il sabbato una sola volta la settimana, esisteva un complesso di leggi che non lo lasciavano immune giammai, accompagnandolo in ogni sua azione e in ogni ora del giorno e della notte: erano le leg­gi sulla purità e l'impurità. Per il Giudeo la macchia morale del peccato non avveniva senza una specie di macchia anche fisica, come per contrario il contatto fisico con determinati oggetti ch'erano effetto di peccato o in qual­che maniera rispecchiavano il peccato, produceva in chi li tocca­va una minorazione spirituale, una specie di macchia morale. I casi erano innumerevoli, e ben più del riposo del sabbato fornirono ar­gomento inesauribile alla legislazione rabbinica. Dei sei “ordini” o grandi sezioni in cui è divisa la Mishna - cioè la parte fondamentale del Talmud e commentata da esso - un in­tero ordine, Tohoroth “ purità”, composto di 12 trattati, tratta di questo argomento. Per avere una vaga idea del contenuto, basterà citare i nomi dei trattati. Kelzm, “vasi”; sui vasi e altri oggetti di famiglia e la loro purità. Ohalòth, “tende”; sulla purità delle abitazioni specialmente in caso della presenza d'un cadavere. Ne­gaim, “piaghe”; sulle manifestazioni della lebbra. Parah, “vacca”; sulla vacca rossa (cfr. Numeri, 19). Tohornth, “purità”; sulle impurità che cessano col tramontar del sole. Miqwaoth, “bagni”; sui requisiti dei serbatoi d'acqua. Niddah, “mestruazione”>; su tale ar­gomento. Makshirin, “preparazioni”; sui liquidi che comunicano impurità. Zabin, “effondenti”; su uomini affetti da perdite sessua­li. Tebuljòm, “immerso nel giorno”; su chi ha subito l'immersione purificatrice, ma non è puro fino al tramonto. Jadajim, “mani”; sulle purità delle mani. Uqszn, “picciuoli”; sui picciuoli delle frut­ta come trasmettitori d'impurità. Ognuno di questi 12 trattati, con­tenenti da un minimo di 3 capitoli a un massimo di 30, scende a tale minuziosità di casi e di relativi precetti, che è impossibile rias­sumerli anche sommariamente. Nè è da credere che siffatta congerie di prescrizioni fosse suggerita da mire semplicemente igieniche, o si potesse prendere alla leggiera; al contrario, lo spirito che le dettava era strettamente religioso e chi non le avesse osservate avrebbe violato precetti sacri. Troviamo in­fatti sentenze rabbiniche di questo genere: Chi mangia pane senza lavarsi le mani, e' come uno che frequenta una meretrice; ...chi trascura di lavarsi le mani, sarà sradicato dal mondo (Sotah, 4 b). Al­trove si domanda chi sia uno del “popolo della terra”, cioè uno di coloro che secondo il grande Hillel non temevano il peccato e non erano pii (§ 40), e si risponde che è tale chi mangia il suo cibo pro­fano non in stato di purità, cioè senza lavarsi le mani (Berakhòth, 47 b). Altrove ancora sono riportate sentenze di scomunica pronun­ziate contro chi trascurava di lavarsi le mani prima del pasto (Be­rakhòth, 19 a; Edujjòth, v, 6). Si estendano queste prescrizioni, e le loro relative sanzioni, dalla lavanda delle mani alle varie specie di cibi puri o impuri, e alle mille altre azioni della vita quotidiana contemplate nei suddetti 12 trat­tati, e si avrà una qualche idea della rigidissima clausura che la Ca­suistica dei rabbini imponeva alla vita sociale in forza d'un principio religioso. Su tutta quella fioritura di sentenze si adagiavano come su un letto di rose i legisti Farisei, i quali invitavano il pio Israelita a fare altrettanto se voleva osservare davvero i comandamenti del Dio Jahvè; ma il pio Israelita, che provava effettivamente ad ada­giarvisi, ci si ritrovava come su un letto di spine, le quali laceravano ogni momento la sua ansiosa coscienza senza dargli alcun refrigerio di religiosità intima.

§ 73. Ciò avveniva nell'enorme maggioranza dei casi, in cui non si andava più in là del puro formalismo. Tuttavia non mancarono spiriti eletti che, scendendo più profondamente, raggiunsero la spi­ritualità religiosa da cui avrebbero dovuto essere animate le osser­vanze di quella purità legale che già era stata stabilita nell'Antico Testamento. In tal senso un maestro di poco posteriore a Gesù, cioè Johanan ben Zakkai morto verso l'80 dopo Cr. poté ammonire i suoi discepoli: Nella vostra vita né il morto rende impuro, né l'acqua rende puro, bensì è la prescrizione del Re dei re; Iddio ha detto: “Io ho stabilito una norma, io ho imposto una prescrizione; nessun uomo ha il diritto di trasgredire la mia prescrizione” (Pesi qta, 40 b). Disgraziatamente perle siffatte sono estremamente rare nell'ocea­no della causistica rabbinica.

§ 74. Oltre al sabbato, festa settimanale, il giudaismo osservava al­tre feste periodiche, di cui le principali erano la Pasqua, la Penteco­ste e i Tabernacoli. Queste tre erano chiamate “feste di pellegri­naggio”, perché ogni Israelita maschio giunto a una certa età (nel fissar la quale non erano ben d'accordo i rabbini) era obbligato a re­carsi al Tempio di Gerusalemme. La solennità della Pasqua si celebrava nel mese chiamato Nisan, che andava circa dalla metà del nostro marzo alla metà di aprile. La Pasqua cadeva la sera del giorno 14 di detto mese, ma si riconnet­teva immediatamente con “la festa degli azimi” che si celebrava nei sette giorni seguenti (15-21 Nisan); perciò praticamente questi otto giorni (14-21) erano chiamati sia Pasqua sia Azimi. Fin dalle ore 10 o lì del giorno 14 Nisan ogni minimo frammento di pane fermentato era fatto scomparire da tutte le case giudaiche, essendo di stretto rigore per il resto di quel giorno e per tutti i sette giorni seguenti l'uso del pane azimo. Nel pomeriggio dello stesso giorno 14 avveniva l'immolazione delle vittime pasquali, cioè degli agnelli. L'immolazione era fatta nell'atrio interno del Tempio, dal capo dì famiglia o di gruppo che recava l'agnello; il sangue delle vittime era raccolto e quindi consegnato ai sacerdoti, i quali lo spargevano pres­so l'altare degli olocausti; subito dopo l'immolazione, nell'atrio stesso del Tempio la vittima era spellata e privata di alcune parti interne, e dopo questa preparazione era riportata nella famiglia o nel grup­po a cui apparteneva. In quel pomeriggio del 14 Nisan gli atrii del Tempio diventavano necessariamente tutto un carnaio sanguinolento. Enorme, infatti, era l'affluenza di Giudei provenienti sia dalla Palestina sia dalla Dia­spora, e non potendo l'atrio del Tempio contenere tutti insieme co­loro che vi venivano a scannare l'agnello, si stabilivano da circa le 2 pomeridiane in poi tre turni d'accesso, e fra un turno e l'altro si chiudevano le porte d'entrata. Flavio Giuseppe ci fornisce occasio­nalmente un computo preciso fatto nell'interesse delle autorità ro­mane ai tempi di Nerone, probabilmente nell'anno 65, da cui risulta che nel solo pomeriggio pasquale di quell'anno furono scannate ben 255.600 vittime; un gregge siffatto, benché di agnelli, era bastevole a produrre come un lago di sangue da far rosseggiare tutti i lastricati e i muri del Tempio.

§ 75. Riportato in famiglia, l'agnello immolato era arrostito la sera stessa per il banchetto pasquale. Questo cominciava dopo il tramonto del sole per prolungarsi regolarmente fino alla mezzanotte, ma talvolta anche oltre. A ciascuna mensa partecipavano non meno di dieci persone e non più di venti, che prendevano posto su bassi divani sdraiandovisi per lungo in maniera concentrica alla tavola delle vivande. Era di prescrizione che vi circolassero almeno quattro coppe di vino rituali, tuttavia anche altre non rituali potevano cir­colare prima della terza rituale, ma non già fra la terza e la quarta: non nsulta con sicurezza se tutti i commensali bevessero a una stessa coppa, d'ampie dimensioni, ovvero ciascuno avesse la propria; forse ambedue le usanze erano ammesse. Si cominciava mescendo la prima coppa e recitando una preghiera, con cui si benediceva in primo luogo la giornata festiva e poi il vino (o viceversa, secondo un'altra scuola rabbinica). Quindi si re­cavano in tavola, insieme con il pane azimo, erbe agresti e una salsa speciale (haroseth) nella quale s'intingevano le erbe; dopo ciò, si recava l'agnello arrostito. Si mesceva allora la seconda coppa, e il capo famiglia, di solito dopo una domanda convenzionale del figlio, faceva un piccolo di­scorso per spiegare il significato della festa, ricordando i benefizi del Dio Jahvè verso la prediletta nazione e la liberazione di questa dal­l'Egitto. Si consumava quindi l'agnello arrostito insieme con l'erbe agresti, mentre circolava la seconda coppa. Si passava poi a recitare la prima parte dell'Hallel, inno costituito dai Salmi ebraici 113-118 (Vulgata 112-117); dopo di che si recitava una benedizione con cui cominciava un vero banchetto, preceduto dalla usuale lavanda di mani ma non regolato da particolari cerimonie e costituito da vi­vande varie. Si mesceva quindi la terza coppa, e si pronunziava una preghiera di ringraziamento; poi si recitava la seconda parte del­l'Hallel, e infine si mesceva la quarta coppa. Questo è il rito della Pasqua giudaica qual è descritto, pur con ta­lune imprecisioni, dalla tradizione rabbinica si può ritenere che esso rispecchi, almeno nelle linee generali, l'uso seguito ai tempi di Gesù dalla corrente dei Farisei, e perciò anche dalla gran maggioranza del popolo che le andava appresso.

§ 76. La festa successiva alla Pasqua era quella detta delle (sette) Settimane, o Pentecoste quest'ultimo appellativo è greco “cinquantesima giornata” e designa, come il precedente, lo spazio di tempo che divideva la Pentecoste dalla Pasqua. La festa durava un sol giorno, in cui si offrivano al Tempio i nuovi pani della messe testé compiuta, insieme con sacrifizi speciali; non era festa di carat­tere molto popolare, tuttavia era assai frequentata da Giudei che venivano dalle varie regioni lontane della Diaspora, cadendo la festa nella stagione propizia alla navigazione e ai lunghi viaggi. Circa sei mesi dopo la Pasqua veniva la festa detta dei Tabernacoli o delle Capanne, che cadeva ai 15 del mese Tishri, cioè tra la fine di settembre e il principio di ottobre, e durava otto giorni. Era festa gaia e popolarissima, e poiché ricordava la dimora degli antichi Ebrei nel deserto e insieme celebrava la fine della vendemmia e delle raccolte agricole, il popolo sulle piazze e sulle terrazze costruiva con verdi rami capanne a guisa di tabernacoli, e ivi s'intratteneva: donde il nome della festa. Inoltre si andava al Tempio recando con la ma­no destra un fascetto di palma con mirto e salice (il Lulab o Lolab, frequentemente raffigurato nelle catacombe giudaiche), e con la si­nistra un frutto di cedro. Nella notte del primo giorno della festa il Tempio era illuminato sfarzosamente, e nelle mattine dei primi sette giorni un sacerdote spandeva sull'altare una piccola quantità d'acqua attinta processionalmente alla fonte di Sibe.

§ 77. Ai 10 dello stesso mese Tishri cadeva la solennità dell'Espia­zione o del Kippur, ch'era di riposo e di digiuno assoluto. In essa officiava il sommo sacerdote in persona, che entrava questa sola volta in tutto l'anno - nel « santo dei santi » del Tempio (§ 47), e compieva la simbolica liturgia del capro espiatorio (Levitico, 16; Ebrei, 9, 7). Feste di carattere popolare erano anche altre due. Quella delle Encenie o della Dedicazione, che cadeva ai 25 del mese Kislew (fine di dicembre), durava otto giorni e ricordava la riconsacrazione del Tempio fatta da Giuda Maccabeo nel 164 av. Cr.: si chiamava an­che « festa dei lumi », per le grandi luminarie che vi si accendevano, ed aveva l'indole di un trionfo nazionalistico. La festa dei Purim “sorti”, che scadeva ai 14 e 15 del mese Adar (febbraio-marzo), ricordava la liberazione dei Giudei per mezzo delle sorti ai tempi di Esther. Sebbene solo in occasione del Kippur fosse d'obbligo il digiuno per ogni Giudeo, tuttavia si osservavano anche altri digiuni pubblici o privati. Molti digiunavano spontaneamente quando cadevano gli an­niversari di calamità passate, ad esempio della distruzione di Ge­rusalemme fatta da Nabucodonosor nel 586 av. Cr.; ma digiuni pubblici potevano essere anche prescritti dal gran Sinedrio in occa­sione di calamità presenti, come epidemie, siccità e simili. Frequenti erano anche i digiuni fatti per devozione privata; specialmente i Fa­risei tenevano molto al digiuno del lunedì e del giovedì.

§ 78. I concetti religiosi del giudaismo ai tempi di Gesù sono stati oggetto di ampi ed accurati studi recenti, i quali giustamente hanno messo a profitto i vari scritti apocrifi e rabbinici che nel passato erano di solito trascurati. Si ritrova pertanto che in quei concetti i principii fondamentali dell'antica religiosità ebraica sono general­mente conservati, ma spesso sono stati modificati, talvolta anche tra­visati, e soprattutto hanno ricevuto applicazioni e sviluppi di cui non esiste traccia negli antichi scritti dell'ebraismo. Esamineremo brevemente alcuni di quei concetti che abbiano più attinenza con la vita di Gesù. La fede nel mondo degli spiriti è assai più sviluppata che ai tempi immediatamente successivi all'esilio di Babilonia e più ancora che ai tempi ad esso anteriori. Occasione a questo sviluppo fu il contatto avuto durante e dopo l'esilio con i Persiani, il cui mazdeismo aveva un'ampia angelologia tuttavia la fede giudaica negli spiriti si con tiene sempre dentro l'ortodossia di un rigoroso monoteismo, perché ignora il principio dualistico del mazdeismo, considera tutti gli spi­riti come essen subordinati all'unico Dio, nè estende agli spiriti il culto proprio alla Divinità. Innumerevoli sono gli spiriti e distinti in due categorie, buoni e cat­tivi: i primi sono ministri particolari della Divinità e amici dell'uo­mo, i secondi sono subordinati alla potenza divina ma ostili ad essa e nemici dell'uomo. Gli uni e gli altri, benché spirituali, non sono to­talmente immateriali, bensi provvisti come d'una sostanza eterea e fluente, che è luminosa od opaca a seconda delle qualità buone o cattive dei singoli spiriti. Specialmente gli scritti apocrifi, che rappresentano spesso le creden­ze più divulgate e popolari, sono informatissimi circa il mondo degli spiriti. Di quei buoni, alcuni sono chiamati “angeli della Faccia”, perché stanno perennemente dinanzi alla faccia di Dio, altri sono gli “angeli del Ministero”, perché inviati per ministero presso gli uo­mini. Di questi ultimi, una parte è addetta al governo degli astri e della terra, un'altra a quello delle varie stirpi e nazioni umane o anche dei singoli individui; taluni fanno da guida alle anime dei morti nel loro cammino d'oltretomba, altri hanno l'incarico di tor­mentare i demonii. Esiste anche una gerarchia fra gli spiriti buoni: oltre alle classi dei Seraphim e dei Kerubim, già note all'antico ebraismo, appare la classe degli Ophanim, i quali non dormono mai facendo la guardia al trono della maestà (divina) (Henoch, 71, 7 segg.). Sette particolari spiriti si tengono sempre alla presenza della Divinità, e quattro di essi sono Michele, Rafaele, Gabriele e Uriel: quest'ultimo è scam­biato spesso con Fanuel (cfr. Henoch, 9, 1; 20, 1-8; 40, 9-10; ecc.). Ordinariamente Michele è il vindice della gloria di Dio; Rafaele è l'angelo delle guarigioni corporali; Gabriele è l'angelo delle rivela­zioni particolari; UrieI è il conoscitore dei fatti occulti. Si era incerti a quale dei sei giorni della creazione assegnare la crea­zione degli angeli: taluni l'assegnavano al primo giorno, altri al se­condo, altri al quinto. Incerta era anche l'origine degli spiriti cat­tivi: secondo alcuni, essi erano gli spiriti dei “giganti”, nati dal commercio di alcuni angeli che si lasciarono sedurre dalle figlie de­gli uomini (cfr. Genesi, 6, 1 segg.); ma più attestata è l'altra opinione secondo cui gli spiriti cattivi sono antichi angeli decaduti dal loro stato di gloria. Loro capo è un essere che dapprima era stato chia­mato con appellativo comune il satan, cioè “l'accusatore”, “l'avversario”, sempre preceduto dall'articolo: più tardi, invece, questo appellativo divenne nome proprio, perdendo l'articolo, Satan; altri suoi appellativi più recenti sono quelli di Beliai (Beliar), Beelzebul (Beelzebub), Asmodeo, Mastema, e qualche altro di provenienza varia. Gli spiriti cattivi vagano negli strati aerei più bassi, o dimorano in luoghi deserti, fra ruderi, nelle tombe, in altri luoghi impuri, tal­volta anche in edifici abitati dall'uomo: spesso prendono sede nel corpo stesso dell'uomo, impossessandosi di lui. Dentro e fuori queste dimore agiscono essi, a preferenza di notte, sempre per insidiare e danneggiare gli uomini. I mali, fisici o morali, sono causati o fa­voriti da essi, che arrecano malattie, infortuni, demenza, scandali, discordie, guerre: essi tentano i giusti, guidano gli empi, diffondono l'idolatria, insegnano la magia, si oppongono insomma sistematicamente alla Legge del Dio d'Israele.

§ 79. Non meno dell'angelologia sono sviluppate, ai tempi di Ge­sù, le credenze nell'oltretomba. Su questo argomento l'antico ebrai­smo - stando almeno ai documenti pervenuti fino a noi si era man­tenuto in una grande imprecisione di concetti, sebbene qua e là alcune affermazioni solitarie inducano a sospettare che il relativo pa­trimonio concettuale fosse in realtà più ricco di quanto risulti a noi; ad ogni modo i concetti fondamentali dell'oltretomba erano stati anticamente i seguenti. La dimora dei morti era chiamata Sheol, sempre femminile, immaginata quale immensa caverna posta nei sotterranei del co­smo. Ivi i trapassati, i Rephaim “spossati”, “assopiti” vagavano come ombre su una terra di tenebre e di oscurita, terra di buio e di caligine (Giobbe, 10, 21-22), sebbene altrove si parli di quelle ombre come tuttora animate da passioni umane (Isaia, 14, 9 segg.) e suscettibili di entrare in comunicazione con i viventi per mezzo dell'evocazione necromantica (I Samuele, 28, 8 segg.). Dalla Sheol nessuno, che vi sia disceso, può mai risalire (Giobbe, 7, 9-10; 10, 21; tuttavia cfr. il celebre e disputato passo di 19, 23-27). Nessuna san­zione morale di premio o di pena per gli abitatori della Sheol, quale conseguenza della condotta tenuta durante la vita terrena, è attestata in maniera ben chiara e con precisione inequivocabile nei documen­ti più antichi.

§ 80. Questi concetti vaghi ed incerti si mantennero a lungo an­che dopo l'esilio di Babilonia, e li ritroviamo espressi ancora a pnn­cipio del secolo il av. Cr. da un dotto Scriba quale il Siracida (Eccle­siastico, testo greco, 17, 22-23 al. 27-28; 41, 4 al. 6-7); tuttavia già nell'esilio erano stati sparsi i germi di un nuovo fermento, che do­veva man mano trasformare l'aspetto della questione richiedendone una soluzione più adeguata ai tempi nuovi. Nell'esilio Ezechiele (18, 1 segg.) aveva asserito nel campo della mo­rale il principio della retribuzione individuale, in contrapposto alla retribuzione collettivo-nazionale che aveva regolato l'antico ebrai­smo; e questo nuovo principio doveva necessariamente ripercuotersi anche nella questione dell'oltretomba. Un ignoto solitario di mente elettissima aveva agitato nell'intero libro di Giobbe la questione dei rapporti fra la bontà morale e la felicità terrena, ma era giunto ad una conclusione più negativa che positiva, perché riscontrando che fra i due termini non esiste sempre un collegamento infallibile aveva finito per rifugiarsi in un atto di fede nella somma giustizia di Dio. Tuttavia il fermento lavorava occultamente, e spingeva sempre più a congiungere la questione della retribuzione morale con quella dell'oltretomba, e a chiedersi se dopo la presente vita ottenebrata dall'ingiustizia non ne venisse un'altra illuminata dalla piena giu­stizia: in altre parole, dalla Sheol non si sarebbe un giorno usciti nuovamente attraverso una resurrezione che avrebbe riparato le in­giustizie presenti? Presso il giudaismo di Alessandria, ch'era in abituali relazioni con la platonizzante filosofia ellenistica, si fece a meno di ricorrere alla resurrezione dei morti: nella vita presente il corpo corruttibile era co­me una pesante catena imposta all'anima prigioniera (Sapienza, 9, 15), e quindi con la morte l'anima del giusto era liberata dal suo carcere e tornava a Dio presso cui trovava il meritato premio (ivi, 3, 1 segg.). Ma per il giudaismo palestinese, ignaro di platonismo e invece abituato a vedere nel composto umano un quid unum, era necessaria una soluzione che corrispondesse compiutamente a siffatta visione unitaria dell'individuo umano, e che di questo investisse tanto l'anima quanto il corpo. Già nel passato si erano avute affer­mazioni della resurrezione dei morti3 ma piuttosto d'indole poetica (Isaia, 26, 19) o simbolica (Ezechiele, 37, 1-14); in seguito essa è affermata nettamente (Daniele, 12, 1-3), e da parte dei Farisei si so­sterrà in polemica contro i Sadducei che è utile pregare per i morti nella sicura attesa della loro resurrezione (II Maccabei, 12, 43-46; cfr. 7, 9). Ai tempi di Gesù la fede nella resurrezione era generale nel giudaismo palestinese, con la sola eccezione dei Sadducei (§ 34), ed è nettamente attestata sia presso vari apocrifi composti dal secolo I av. Cr. in poi, sia presso scritti rabbinici. Tuttavia nelle partico­larità di questa fede esistevano divergenze: ad esempio, sembra che parecchi negassero la resurrezione degli empi, i quali invece sareb­bero stati annientati. Negli stessi apocrifi troviamo divergenze anche più numerose quan­do passano a descrivere, con minuziosità interminabile, la topografia e l'apparato materiale dell'oltretomba, sia che trattino degli scom­partimenti riservati ai giusti sia di quelli degli empi: ma, quasi in compenso, si assiste ad una vera fantasmagoria di labirintiche co­struzioni innalzate dall'immaginativa di generazioni intere. Antichis­simi concetti cosmologici sono confluiti in tali descrizioni, mentre poi molti loro elementi si trasmetteranno costantemente in seguito fino ad essere inclusi anche nella Divina Commedia.

§ 81. Ma il giudaismo palestinese insegnava che prima dell'oltretomba dovevano accadere due grandi fatti: la venuta del Messia e il dramma dei tempi estremi. Spessissimo poi i due fatti, che per sé apparivano distinti, furono congiunti e mescolati insieme, ed offri­rono inesauribile materia alla letteratura apocalittica che fiori in pieno a quei tempi. Il grande Eletto in greco “un­to”, ch'era stato promesso dagli antichi profeti come liberatore e glorificatore d'Israele, era atteso nei due secoli anteriori e in quello posteriore a Gesù in maniera ansiosissima. La sua venuta era messa in relazione con le condizioni in cui si trovava la nazione. Questo Messia avrebbe dovuto instaurare in Israele un'epoca di felicità, la quale sarebbe stata anche una giusta ricompensa per le tante umi­liazioni fino allora sofferte; il Dio Jahvè, liberando per mezzo del Messia la sua prediletta nazione e facendola trionfare di tutti i suoi nemici, avrebbe procurato anche il suo proprio trionfo: il dominio d'Israele su tutte le nazioni pagane sarebbe stato anche il dominio del vero Dio su tutti i figli dell'uomo, il Regno di Dio sulla terra. Perciò tutti gli sguardi erano protesi verso quel grande Venturo: si speculava sul tempo della sua venuta, sul modo della sua azione, sulle sue gesta fra le nazioni pagane, e anche sui rapporti che il regno messianico avrebbe avuto col mondo fisico odierno e con le leggi che lo governano. Ai tempi di Gesù si ritiene concordemente che il Messia discenderà dalla stirpe di David, come ha affermato l'antica tradizione; spesso lo si chiama “figlio d'uomo”, come è stato chiamato in Daniele, 7, 13. Se quattro grandi regni si sono succeduti nel passato crollando tutti successivamente, il regno del Messia che sarà il quinto permar­rà in eterno (Daniele, 2); se nel passato quattro regnanti in forma di quattro grandi fiere sono sorti dal mare e un corno della quarta fiera (Antioco IV Epifane) ha fatto strage dei santi dell'Altissimo, tutte queste forze ostili a Dio saranno distrutte da Uno che è “come figlio d'uomo”, che riceve in cielo ogni potenza dall'”Antico dei giorni“, e scende poi sulla terra a stabilirvi vittoriosamente il suo regno imperituro in cui domineranno i santi dell'Altissimo, e rice­veranno l'omaggio di tutti gl'imperi (Daniele, 7). Su questi fonda­mentali temi biblici ricamano i vari scritti apocrifi, intrecciandovi molti altri elementi.

§ 82. Di particolare importanza è quella sezione del Libro di He­noch designata come “Libro delle parabole” (capp. 37-71), che fu scritta probabilmente verso l'80 av. Cr. Il Messia è l'Eletto di Dio, e presso Dio attualmente egli dimora; il nome del “figlio dell'uo­mo” è pronunziato davanti al Signore degli spiriti (cioè il Messia - esiste effettivamente davanti a Dio) prima che siano creati il sole e le stelle. Egli sarà bastone di sostegno per i giusti, lume delle na­zioni; davanti a lui si prostreranno tutte le genti (48, 2 segg.), in lui dimora lo spirito di sapienza e lo spirito che rischiara, lo spirito di scienza e di forza, e lo spirito di coloro che si sono addormentati nella giustizia (49, 3; cfr. Isaia, 11, 2); egli giudicherà tutte le genti, ripagando coloro che hanno oppresso i giusti, e alla sua venuta risorgeranno i morti (51, i segg.; 62), cielo e terra si trasmuteranno, e i giusti rimarranno insieme con lui nella vita eterna diventando angeli celestiali. Di poco posteriori a Henoch sono i cosiddetti Salmi di Salomone, i quali contemplano il Messia sotto una luce un po' meno celestiale e un po' più terrena. Essi, specialmente il XVII e il XVIII, pregano Dio d'inviare ad Israele il suo “re, figlio di David”, affinché regni su di esso, schiacciando i dominatori ingiusti, purificando Gerusalemme dai pagani, mettendo in fuga le nazioni; dopo di ciò egli racco­glierà Israele, governandolo in pace e con giustizia, e allora tutti i pagani verranno dall'estremità della terra a contemplare la gloria di Gerusalemme. Egli è “puro da peccato”, e ”Dio lo renderà forte per mezzo dello Spirito santo”. Concetti analoghi si ritrovano nei Testamenti dei XVI Patriarchi, nel IV Esdra (cap. 13), nell'Apocalisse di Baruch (39, 7 segg.; 70, 2 segg.), ecc.

§ 83. In queste elucubrazioni si ritrovano i tradizionali temi mes­sianici dei profeti, ma adattati alle diverse circostanze storiche e ten­denze spirituali. Lo speculativo scrittore di Henoch li impiega per dar corpo alla sua costruzione mistico-escatologica; il Fariseo autore dei Salmi di Salomone, che scrive sotto gli ultimi decadenti Asmo­nei, vi ricerca una specie di rivincita religioso-nazionale fra lo sban­damento dello Stato e dopo la conquista di Gerusalemme fatta da Pompeo nel 63 av. Cr. Da quel tempo, infatti, si pensò sempre più al Messia come a un vindice nazionale e a un conquistatore politico. Gli stessi Zeloti (§ 42), nel suscitare e condurre avanti la paradossale insurrezione degli anni 66-70 contro Roma, non furono sostenuti da speranze umane, bensi da quella del Messia, invincibile condottiero che sarebbe apparso improvvisamente a sbaragliare i Romani, per poi assidersi glorioso sul trono di Gerusalemme. A qualcosa di simile sembra che pensasse anche la madre dei due discepoli di Gesù, quando voleva assicurare ai suoi figli i due migliori posti, uno a si­nistra e l'altro a destra di lui (Matteo, 20, 21). Lo stesso alessandri­no Filone pare che abbia condiviso, al­meno parzialmente, l'idea del Messia conquistatore politico, senza però giungere all'aberrazione di Flavio Giuseppe; costui, nel suo servilismo verso i Romani, affermò che le sacre Scritture ebraiche, parlando del futuro Messia, avevano alluso all'imperatore Vespasiano. E’ superfluo dire che della febbrile aspettativa comune s'approfitta­rono, ai tempi di Gesù e dopo, moltissimi ciurmadori ricordati occa­sionalmente da Flavio Giuseppe, i quali si spacciavano alle ansiose plebi come inviati di Dio. I loro tentativi finivano naturalmente in maniera o tragica, sotto le spade dei Romani, o ridicola, tra le beffe dei connazionali eppure, tanta era la fiducia riposta in essi dal po­polino, che perfino quando Gerusalemme era già invasa dai Romani e il Tempio era già in fiamme, cotesti falsi profeti messianici trova­vano seguaci disposti a credere imminente l'intervento taumaturgico di Dio (cfr. Guerra giud., VI, 285-288). Diffondendosi ulteriormente, il messianismo nazionalistico invase an­che il campo dell'escatologia, e intrecciandosi più o meno stretta­mente con le credenze dei tempi estremi offrì ampio materiale alla letteratura apocalittica contemporanea.

§ 84. L'apocalittica è una particolare forma letteraria che si presen­ta - come dice il suo nome (da “svelo cose segrete” da parte di Dio) - quale rivelatrice difatti futuri, specialmente delle ul­time sorti dell'umanità intera e d'Israele. Ha perciò molte analogie con la letteratura “profetica”, ma ha pure rilevanti divergenze da essa. L'apocalittica fu in realtà un succedaneo allo scritto “profe­tico”, e mirò anch'essa ad assicurare il trionfo finale del bene sul male e d'Israele sulle nazioni pagane; ma si ritrovò in altre circostanze storiche, ed impiegò artifizi letterari differenti. L'antico profetismo si era proposto di correggere la nazione con­temporanea, riferendosi ai tempi presenti e preparando i futuri: l'apocalittica invece fu più radicale, e con un pessimismo fonda­mentale proclamò il fallimento di tutto il mondo contemporaneo, che doveva essere rinnovato ab imis e attraverso una palingenesi doveva far posto a nuovi cieli e nuova terra, in cui finalmente avrebbero trionfato il bene e Israele. Il profetismo aveva bensi appellato all'epoca messianica ma in funzione correttiva dei tempi presenti, pre­sentandola quale condizionato premio del rinsavimento d'Israele: l'apocalittica, al contrario, ne parlò incondizionatamente come di oggetto d'un assoluto decreto divino, e soprattutto contemplò quell'epoca come affatto indipendente dalla condotta attuale d'Israele. Siffatto atteggiamento, cosi sfiduciato del presente e cosi proteso verso il futuro, era conseguenza sia delle sciagure politiche, le quali dai tempi dei Seleucidi in poi si erano rovesciate periodicamente sulla nazione, sia della progressiva decadenza interna cagionata dal dilagante ellenismo. Evidentemente, un mondo - o come si diceva un “secolo” - cosi tenacemente iniquo non poteva sussistere più oltre; doveva ben ve­nire dies irae, dies illa (Sofonia, 1, 15), che solvet saeculum in favilla, e appunto questa conflagrazione cosmica sarebbe stata l'inizio dell'auspicata palingenesi! Ma quanto alla data di questa palingenesi, l'apocalittica andò spesso a ritroso all'ansiosa attesa diffusa, rele­gando il solenne avvenimento in un vago ma remoto futuro; si mo­strava con ciò nuovamente il pessimismo cagionato dalle circostanze storiche contemporanee, ma insieme la fiducia che le antiche pro­messe non sarebbero fallite.

§ 85. Letterariamente, l'apocalittica non inventò di sana pianta le sue forme, ch'erano già state impiegate parzialmente da precedenti scritti, ma le sviluppò ed accrebbe grandemente. Essa attribuisce quasi sempre le proprie rivelazioni a venerati personaggi dell'anti­chità (Henoch, Mosè, Elia, ecc.), e fa annunziare da essi in forma profetica avvenimenti apparentemente futuri, i quali sono in realtà avvenimenti passati per il vero compositore dell'apocalisse: questa falsa attribuzione era una commendatizia per lo scritto, concilian­dogli in parte quell'autorità che non si poteva più avere dopo il tra­monto del profetismo. Artifizi letterari frequentissimi dell'apocalittica sono la “visione” e il simbolo, che spesso si fingono rimanere in­compresi dagli uditori a cui si rivolge il personaggio che parla (in Zacharia, cap. 4 segg., un angelo funge da interprete dei simboli), mentre per i contemporanei del vero autore sono allegorie ben chia­re di avvenimenti passati. Le descrizioni escatologiche sono minuziose, e il “secolo futuro” è analizzato nelle minime particolarità. Assai sviluppata è pure l'angelologia, e gli spiriti buoni o cattivi ap­paiono in funzioni di cooperatori o di avversari di Dio nella sua lot­ta contro il male, che finirà sconfitto. I temi più frequenti, entro il gran quadro degli avvenimenti messianici, sono la lotta degli imperi pagani contro Dio e contro Israele, l'adunata delle dodici tribù di­sperse, il cataclisma dell'intero cosmo, il trionfo dei giusti nel re­gno del Messia, la resurrezione dei morti e il giudizio di tutto il ge­nere umano, lo stato finale dei giusti e degli empi.
§ 86. Crediamo opportuno, per dare un'idea concreta, aggiungere qui un riassunto del più ampio e antico scritto apocalittico apocrifo gia più volte allegato, l'etiopico Libro di Henoch. è non di getto ma di compilazione, nella quale sono confluiti vari scrit­ti precedenti, sorti fra il II e il I secolo av. Cr. in Palestina, in lingua ebraica o aramaica: l'intera compilazione fu poi tradotta in greco, e di qui in etiopico verso il secolo V. Servi da repertorio a scrittori di apocalissi posteriori Libro dei Giubilei; Testamenti dei XII Pa­triarchi; ecc.), fu allegata con venerazione da Padri cristiani, ed ha pure stretta parentela con un passo del Nuovo Testamento (cfr. Giuda, vers. 14-15, con Henoch, 1, 9). Eccome il riassunto. CAPP. 1-5: Servono da introduzione. Il protagonista Henoch descrive il giudizio futuro, secondo notizie comunicategli dagli angeli con l'incarico di trasmetterle agli uomini; nel giudizio si assegnano pene agli angeli prevaricatori e agli uomini empi, e premi ai giusti. -capp. 6-16: Duecento angeli prevaricano avendo commercio con le figlie degli uomini, e svelano ad esse gran quantità di segreti magici, terapeutici, ecc.; perciò sono puniti. capp. 17-36: Henoch viaggia nel cosmo superiore e inferiore, guidato da un angelo che spiega le cose misteriose: fra altro, egli vede in alto i magazzini delle varie meteore, le camere degli astri, ecc.; visita il paradiso terrestre e il luogo dei dannati; conosce i nomi e gli uffici dei sette arcangeli, il peccato delle sette stelle incatenate per diecimila secoli, ecc. - CAPP. 37-71: E il “Libro delle parabole”. La prima descrive la lotta fra il mondo superiore e quello inferiore, che rimane sopraflatto nel giorno del giudizio quando si rivela il Regno dei santi; la seconda presenta l'avvento e il trionfo del « figlio dell'uomo » e la vittoria messianica sugli empi; la terza parabola descrive la beatitudine degli eletti dopo l'attuazione del Regno messianico; infine (CAPP. 70-71) Henoch e' assunto in cielo ad ammirare le meraviglie. - CAPP. 72-82: E’ il cosiddetto “Libro astronomico”, che tratta del moto degli astri, delle varie leggi cosmiche e fisiche, ecc. - CAPP. 83-90: Vi si conten­gono visioni avute in sogno: la prima tratta del diluvio universale; l'altra presenta personaggi e periodi della storia ebraica, da Adamo fino a Giuda Maccabeo, sotto simboli di animali: il Messia e' simbo­leggiato in un toro bianca con grandi corna, emblema di potenza. - CAPP. 91-105: Vi e' contenuta dapprima (con alcuni spostamenti) una visione di dieci settimane corrispondenti a dieci periodi della storia del mondo, quindi una serie di esortazioni e minacce rivolte da Henoch ai suoi figli.

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LE FONTI

§ 87. Di Gesù parlano numerosi scritti antichi, che spontaneamente si raggruppano in due categorie: scritti non cristiani, e scritti cri­stiani. Questo criterio morale di raggruppamento ha un'evidente im­portanza scientifica, per valutare l'imparzialità delle rispettive testi­monianze; tuttavia non può essere l'unico, perché insieme con esso dovrà anche applicarsi il criterio cronologico, secondo il quale una testimonianza è di solito tanto più autorevole e preziosa, quanto più è antica e vicina ai fatti attestati. Nel caso nostro è praticamente più agevole seguire il criterio morale, che lascia campo a poche contestazioni, mentre l'assegnazione cronologica dei vari scritti implica questioni numerose assai dibattute: naturalmente di tali questioni bisognerà tener conto anche seguendo la ripartizione fra scritti non cristiani e cristiani.

[SM=g27998] FONTI NON CRISTIANE.

I Giudei, conterranei e coetanei di Gesù, dovrebbero offrirci riguar­do a lui le prime testimonianze; ma purtroppo non è così, giacché le fonti giudaiche, pur non essendo del tutto mute in proposito, sono taciturne e avare di notizie attendibili, quasi quanto le fonti pagane.

Giudaismo ufficiale.

Con la distruzione di Gerusalemme e dello Stato giudaico avvenuta nel 70 dell'Era Volgare, cioè un quarantennio dopo la morte di Gesù, la vita spirituale del giudaismo palestinese rimase rappresen­tata esclusivamente dalla corrente dei Farisei; i quali, conforme ai loro principii, si dedicarono totalmente a raccogliere e perpe­tuare la “tradizione” orale che, insieme con la Bibbia, formava ormai l'unico patrimonio morale del giudaismo. I dottori farisei, datisi a questo lavoro lungo i secoli I-III, furono chiamati i Tannaiti, e ad essi tennero dietro gli Amorei, che operarono fino al termine del secolo V. Ai Tannaiti è dovuto il codice della Mishna; agli Amorei, il commento alla Mishna; dall'unione della Mishna col suo com­mento è sorto il Talmud, nella doppia recensione palestinese e ba­bilonese. Ma il Talmud, pur contenendo materiali che possono ri­salire a prima della distruzione di Gerusalemme, non fu messo definitivamente in iscritto che tra i secoli V e VI, giacché in prece­denza il suo contenuto era stato trasmesso solo oralmente, affidato alla memoria dei vari dottori, benché con fedeltà verbale. Il Talmud, così redatto, divenne la roccaforte spirituale del giudaismo e ricevette, insieme con la Bibbia, carattere ufficiale. Ma contemporaneamente al Talmud si elaborava altro materiale, che parimenti fu messo in iscritto soltanto dopo una lunga trasmissione esclusivamente orale, sebbene i suoi primi elementi possano risalire all'epoca dei Tannaiti. Gli scritti così sorti, fra cui primeggiano per estensione e numero i vari Midrashim, non rivestirono carattere ufficiale come il Talmud, tuttavia ricevettero un valore subordinato e complementare.

§ 88. Troviamo pertanto che, in questi scritti del giudaismo uffi­ciale, la persona e l'opera di Gesù sono certamente note, sebbene spesso si alluda ad esse solo indirettamente ed in maniera anonima e velata. Riunendo poi i dati precisi che se ne possono estrarre, si trova che essi non hanno riscontro in nessun altro documento an­tico, e non senza contraddizioni e incongruenze se ne ottiene il seguente schema biografico. Gesù il Nosri (Nazareno) nacque da una pettinatrice di nome Ma­ria; il marito di questa donna è chiamato talvolta Pappos figlio di Giuda e talvolta Stada, sebbene si trovi anche la donna stessa chiamata col nome di Stada. Il vero padre di Gesù fu un certo Pantera; i perciò si trova che Gesù è chiamato tanto figlio di Pan­tera, quanto figlio di Stada. Recatosi in Egitto, Gesù studiò colà magia sotto Giosuè figlio di Perachia. Quanto alla cronologia è da rilevare che, mentre questo Giosuè fiorì verso l'anno 100 avanti l'Era Volgare, il suddetto Pappos fiorì circa 230 anni più tardi. Tornato in patria e respinto dal suo maestro, Gesù esercitò la ma­gia traviando il popolo. Per tali ragioni fu giudicato e condannato a morte. Prima che la condanna fosse eseguita, si attesero quaranta giorni durante i quali un araldo invitava la gente a esporre qual­siasi giustificazione in favore del condannato. Non essendosi pre­sentato alcuno, il condannato fu lapidato e poi appeso al patibolo a Lydda, il giorno di preparazione alla Pasqua. Al presente egli si trova nella Gehenna, immerso in una melma bollente. In relazione con questi dati, e specialmente con la maniera velata con cui sono esposti, si trova che Gesù è designato con l'indicazione di un tale, o con l'epiteto di Balaam (l'antico mago di Numeri, 22 segg.), e con gli appellativi di pazzo, di bastardo, e con un altro anche più obbrobrioso.

NOTA: Di questo strano nome, che appare anche sotto le varianti di Pantri, Pan­tori, Pandera, è stata data la seguente spiegazione. Dopo il definitivo distacco del cristianesimo dal giudaismo, i Giudei udivano dai cristiani di lingua greca asserire che Gesù era figlio di “parthènou”, ossia d'una vergine; e quindi il nome comune fu creduto nome proprio, e da appellativo della madre divenne nome personale del padre illegittimo. Questa spiegazione è molto verosimile, e dimostrerebbe una volta di più che il giudaismo non ebbe un suo particolare patrimonio di notizie riguardo a Gesù, ma le prese dal cristianesimo deformandole tendenziosamente.


§ 89. Il seguente aneddoto può essere un esempio di come si allu­deva a fatti e dottrine di Gesù in maniera anonima, ma non per questo meno precisa. A Rabbi Giosuè figlio di Anania, che fiorì verso l'anno 90 dell'Era Volgare, fu chiesto in Roma da alcuni sapienti: Raccontaci qualche cosa di favoloso! - Egli disse: Ci fu una volta una mula che fece un figlio; a questo fu appesa un'etichet­ta su cui era scritto che esso doveva ereditare dalla famiglia paterna 100.000 “zuz” (una moneta). - Gli fu risposto: Ma una mula può partorire? - Quello disse: Appunto si tratta d'una favola! - (Poi gli fu chiesto:) Se il sale diventa insipido, con che cosa si dovrà salarlo? - Quello rispose: Con la placenta d'una mula. - (Gli si disse:) Ma una mula (sterile qual e') ha la placenta? - (Quello rispose:) E il sale può diventare insipido? In questo aneddoto è evidente l'allusione al detto di Gesù: Se il sale sia diventato insi­pido, con che si salerà? (Matteo, 5, 13), di cui si vorrebbe far rile­vare l'insensatezza; ma è anche chiaro che i due animali sono un beffardo adombramento di Maria e Gesù, e che tutto l'aneddoto vuol mostrare come il giudaismo sia il genuino sale che non di­venterà mai insipido, e come ad ogni modo Gesù meno di ogni altro avrebbe potuto rendergli il naturale sapore. Anche fuori degli scritti giudaici, questi dati sono attestati par­zialmente come provenienti dal giudaismo. A metà del secolo II il palestinese Giustino martire, nel suo Dialogo col (giudeo) Trifone, vi accenna più d'una volta, accusando i dottori giudei di diffondere ovunque calunnie e bestemmie a carico di Gesù. Più nettamente si ritrovano gli stessi dati impiegati dal pagano Gelso nel suo Discorso veritiero scritto poco prima dell'anno 180, di cui si tratterà in seguito (§ 195); sembra certo che Celso abbia attinto questi dati ad una fonte scritta.
Finalmente, ampliati sempre più, gli stessi dati costituirono il libello intitolato Toledoth Jeshua, «Generazioni (cioè, Storia) di Gesù», che circolava in varie recensioni già verso i se­coli VIII-IX, e che per il giudaismo rimase quale ufficiosa biografia di Gesù fino a poche decine d'anni addietro. Ora, tutte queste affermazioni potranno attestare le disposizioni d'a­nimo che il giudaismo aveva verso Gesù nei primi secoli cristiani; ma non sarebbe cosa né seria scientificamente né dignitosa moral­mente anche solo discuterli quali autorevoli documenti per la biografia di Gesù. Del resto la discussione sarebbe oggi inutile: ormai gli stessi Israeliti dotti e coscienziosi considerano questi elementi co­me del tutto leggendari; altrettanto fanno dal canto loro gli stu­diosi razionalisti, che di solito aggiungono allo stesso verdetto parole molto severe, come ad esempio il Renan che definisce l'insieme di questi racconti una leggenda burlesca ed oscena.



Flavio Giuseppe

§ 90. Giuseppe, sacerdote gerosolimitano, figlio di Mattia, nacque tra il 37 e il 38 dell'Era Volgare. Scoppiata nel 66 la rivolta della sua patria contro Roma, egli fu a capo delle truppe insorte che per prime si scontrarono con i Romani nella Galilea; dopo alcune sconfitte ricevute, si consegnò al generale nemico, il futuro impe­ratore Vespasiano, del quale rimase poi sempre fedele servitore. Distrutta Gerusalemme sotto i suoi occhi, Giuseppe venne a Roma insieme col vincitore Tito, figlio di Vespasiano, e alla loro gens Flavia - il cui nome egli, come liberto, aveva aggiunto al suo di Giuseppe - prestò i propri servizi di stipendiato storico aulico. Fra gli anni 75 e 79 Giuseppe pubblicò la Guerra giudaica, ove nar­ra le vicende precedenti e tutto lo svolgimento della guerra di cui era stato attore e spettatore; la quale opera, pur essendo macchiata di moltissimi e gravissimi difetti, è insostituibile e di singolare uti­lità per conoscere lo sfondo storico dei tempi di Gesù. Fra gli anni 93 e 94 Giuseppe pubblicò le Antichità giudaiche, ove narra la sto­ria della nazione ebraica dalle origini fino allo scoppio della guerra contro Roma, ricollegandosi perciò a questo punto con lo scritto precedente. Poco dopo l'anno 95 pubblicò il Contra Apionem ch'è uno scritto polemico in difesa del giudaismo, e dopo l'anno 100 pubblicò la Vita (propria) ch'è un'apologia della sua condotta po­litica. In tutti questi scritti Giuseppe, benché parli moltissimo di persone del mondo giudaico o romano nominate anche nei vangeli, non nomina mai né Gesù né i cristiani, salvo in tre passi. In uno parla con onore di Giovanni il Battista e della sua morte (Antichità giud., XVIII, 116-119); in un altro riferisce, egualmente con onore, la mor­te violenta di Giacomo fratello di Gesù, chiamato il Cristo (ivi, XX, 200): e sull'autenticità di questi due passi, nonostante l'incertez­za di pochi studiosi moderni, non vi sono ragionevoli dubbi.

§ 91. Diversamente stanno le cose riguardo al terzo passo ch'è il seguente, reso in traduzione letterale: Ora, ci fu verso questo tempo Gesù, un uomo sapiente, seppure bisogna chiamarlo uomo: era infatti facitore di opere straordinarie, maestro di uomini che accol­gono con piacere la verità. E attirò a sé molti Giudei, e anche molti dei Greci. Costui era il Cristo. E avendo Pilato, per denunzia degli uomini principali fra noi, punito lui di croce, non cessarono coloro che da principio lo avevano amato. Egli infatti comparve loro al terzo giorno nuovamente vivo, avendo già detto i divini profeti queste e migliaia d'altre cose mirabili riguardo a lui. E ancora adesso non e' venuta meno la tribù di quelli che, da costui, sono chiamati i Cristiani (Antichità giud., XVIII, 63-64). Questo passo, conosciuto comunemente come testimonium fiavia­num, è contenuto in tutti i codici delle Antichità giudaiche, e nel secolo IV era già noto ad Eusebio che lo cita più d'una volta (Hist. cccl., i, Il; Demonstr. evang., III, 3); né, fino al secolo XVI, alcuno studioso dubitò mai della sua autenticità. In quel tempo furono mossi i primi dubbi, ma fondati soltanto su ragioni interne, in quan­to cioè sembrava che il giudeo e fariseo Giuseppe non potesse par­lare in modo cosi onorifico di Gesù: si concluse, quindi, che il passo era stato interpolato da un'ignota mano cristiana. La questione si è prolungata fino ai nostri giorni, e oggi esistono sia fautori sia avversari dell'autenticità in ogni campo: ad esempio, il razionalista Harnack ha difeso l'autenticità, mentre il cattolico Lagrange ha supposto l'interpolazione. Una soluzione incontrastabile non si troverà probabilmente mai, sia per mancanza di documenti, sia perché le ragioni addotte contro l'autenticità sono soltanto di ordine morale e quindi variamente giudicabili. Non essendo qui il caso di sottoporre a nuovo esame i vari argomenti, rimandiamo il lettore a quello che ne facemmo noi stessi altrove, limitandoci a riportare qui il periodo finale: «In conclusione, a noi sembra che il testimonium com'è oggi possa es­sere stato interpolato da mano cristiana, benché il suo fondo sia certamente genuino; tuttavia la stessa possibilità, e anche una mag­giore probabilità, concediamo all'altra opinione secondo cui esso sarebbe integralmente genuino e vergato, cosi come oggi, dallo stilo di Giuseppe» (Flavio Giuseppe tradotto e commentato, voi. I, pag. 185).


Scrittori romani ed altri

§ 92. Nel secondo decennio del secolo Il tre scrittori romani par­lano di Cristo e dei cristiani. La celebre lettera scritta verso il 112 da Plinio il Giovane all'imperatore Traiano (Epist., X, 96) non dice nulla circa la persona di Gesù; attesta soltanto che nella Bitinia, governata da Plinio, erano molto diffusi i cristiani, i quali erano soliti stato die ante lucem convenire carmenque Christo quasi deo dicere. Poco anteriori all'anno 117 sono gli Annali di Tacito, che è il meno avaro sull'argomento. Trattando di Nerone e dell'incendio di Ro­ma dell'anno 64, egli dice che quell'imperatore, per dissipare le voci che l'incendio fosse stato comandato, ne presentò come rei e colpì con supplizi raffinatissimi coloro che il volgo, odiandoli per i loro delitti chiamava Cristiani. L'autore di questa denominazione, Cristo, sotto l'impero di Tiberio era stato condannato al supplizio dal procuratore Ponzio Pilato; ma, repressa per il momento, l'esi­ziale superstizione erompeva di nuovo, non solo per la Giudea, ori­gine di quel male, ma anche per l'Urbe, ove da ogni parte confluiscono e sono esaltate tutte le cose atroci e vergognose (Annal., XV, 44); segue poi la descrizione dei supplizi usati contro i cristiani nella persecuzione neroniana. Come appare subito, questa testimo­nianza pagana della lontana Roma conferma alcune fondamentali notizie della vita di Gesù che circolavano in Palestina già nel secolo precedente. Qualche anno dopo, verso il 120, Svetonio conferma genericamente che sotto Nerone furono sottoposti a supplizi i Cristiani, razza d'uo­mini d'una superstizione nuova e matefica (Nero, 16); ma, quando tratta del precedente impero di Claudio, fornisce una notizia nuo­va, riferendo che costui espulse da Roma i Giudei i quali, ad im­pulso di Cristo, facevano frequenti tumulti (Claudius, 25). Questa espulsione, confermata da quanto dicono gli Atti, 18, 2, avvenne fra gli anni 49 e 50. Non si può ragionevolmente dubitare che l'ap­pellativo di Cristo di Svetonio sia il termine greco « christòs », traduzione etimologica del termine ebraico “messia” (§ 81); tanto più che, come ha già fatto Tacito nel passo qui sopra riportato, anche in seguito i cristiani saranno chiamati cristiani (Tertulliano, Apolog., 3). Si può concludere quindi che a Roma, circa un ven­tennio dopo la morte di Gesù, i Giudei ivi dimoranti avevano assi­dui e clamorosi contrasti riguardo alla qualità di “Cristo”, o Mes­sia, attribuita allo stesso Gesù, la quale evidentemente da alcuni gli era riconosciuta e da altri negata: i primi erano senza dubbio i cristiani, specialmente quelli convertiti dal giudaismo. Svetonio, che scrive 70 anni dopo gli avvenimenti ed è ben poco informato del cristianesimo, s'immagina che il suo Cristo sia stato presente personalmente a Roma e vi abbia provocato i tumulti. Dell'imperatore Adriano abbiamo una lettera indirizzata verso l'an­no 125 al proconsole d'Asia, Minucio Fundano, e conservataci da Eusebio (Hist. eccl., IV, 9): vi si impartiscono solo norme per i processi contro i cristiani. Allo stesso imperatore è attribuita una lettera indirizzata verso il 133 al console Serviano (Flavio Vopisco, Quadrigee tyrannorum, 8, in Script. Hist. Aug.), ove sono inciden­talmente nominati Cristo e cristiani. Si noti pertanto come questi scrittori romani non riportino mal il nome di Gesu', ma solo quello di Cristo (Cresto).

§ 93. Da scrittori non romani dei primi due secoli non si ricava di più. Il sarcastico Luciano, semita ellenizzato, beffeggia spesso i cristia­ni, ma fa rare allusioni a Gesù: le più sicure sono quelle contenute nel Peregrino (11 e 13), di circa l'anno 170, ove si ricorda che il primo legislatore dei cristiani, sofista e mago, fu crocifisso in Palestina. Di un altro semita, Mara figlio di Serapione, abbiamo una lettera in siriaco, indirizzata a suo figlio Serapione, che contiene un'allu­sione a Gesù (in Cureton, Spicilegium syriacum, pag. 43 segg.); in­sieme con Socrate e Pitagora vi è nominato, in maniera onorifica, un sapiente re dei Giudei messo a morte dalla propria nazione, la quale perciò è stata punita da Dio con la distruzione della capitale e con l'esilio. E’ chiaro, dunque, che la lettera fu scritta dopo gli avvenimenti palestinesi del 70; ma è impossibile una datazione più precisa della lettera, che può essere benissimo del secolo II molto inoltrato, come neppure risulta con sicurezza se l'autore sia un cri­stiano dissimulato oppure un pagano stoico ammiratore del cristianesimo.

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[SM=g27998] FONTI CRISTIANE

Documenti estranei ai Nuovo Testamento


§ 94. Di Gesù trattano molti scritti cristiani composti nei primi secoli, ma che non fanno parte del Nuovo Testamento: essi talvolta si presentano sotto forme analoghe a quelle del Nuovo Testamento, come Vangeli, Atti, Lettere, Apocalissi, costituendo i cosiddetti libri Apocrifi, talvolta sotto forma di scritti ecclesiastici, come Costitu­zioni, Canoni, ecc., costituendo i cosiddetti libri Pseudo-epigrafi; tal­volta, infine, consistono in piccoli detti o fatti attribuiti a Gesù i quali, senza aver riscontro nel Nuovo Testamento, si ritrovano in maniera staccata o in opere di antichi Padri, o in codici particolari del Nuovo Testamento, oppure in frammenti di papiri antichi re­centemente scoperti, e tali minime particelle sono designate con nomi di Agrafa o di Logia. Gli studiosi recenti si sono molto occupati di queste diverse serie di scritti, ai quali invece nel secolo passato si prestava scarsa atten­zione; ma queste nuove indagini, se hanno indubbiamente contri­buito a far conoscere sempre meglio i vari ceti cristiani che pro­dussero quegli scritti, hanno messo in luce sempre più chiara la deficienza d'autorità storica ch'è alla base degli scritti apocrifi, e per contrapposto la sodezza su cui poggiano quelli del Nuovo Testamento. Fra le due categorie di scritti, in realtà, c'e un abisso, come già ai suoi tempi giudicò il Renan; il quale, istituendo un con­fronto fra esse sotto l'aspetto puramente storico, trovava che i van­geli apocrifi sono volgari e puerili amplificazioni fatte sulla trama dei vangeli canonici, senza aggiungervi alcunché di serio. Né a questo antico giudizio hanno apportato alcuna modificazione so­stanziale gli studi recenti.

§ 95. In generale i vangeli apocrifi devono la loro origine al de­siderio o di presentare alcune particolari dottrine come giustificate dalla vita e dall'insegnamento di Gesù stesso, oppure di accrescere con altri particolari biografici le notizie che i vangeli canonici co­municano su Gesù, e che alle plebi cristiane sembravano troppo parsimoniose; nel primo caso si hanno gli scritti d'origine eretica o almeno tendenziosa, che sono i più numerosi: nel secondo i rac­conti di carattere popolare, amanti del meraviglioso. I due casi spesso si fondono insieme, senza che oggi si possano separare con certezza. Occasione a coteste fantastiche costruzioni era fornita sia dalle ammonizioni di uno degli stessi vangeli canonici, il quale avverte che molti altri fatti di Gesù non sono contenuti in esso (Gio­vanni, 20, 30) e che a contenerli sarebbero necessari infiniti altri libri (ivi, 21, 25), sia anche dall'aver osservato che S. Paolo in un suo discorso riporta un aforisma di Gesù non contenuto in nessuno dei vangeli canonici (Atti, 20, 35). Questo ampio ricamo immaginativo cominciò ben presto, già nel secolo II, per accrescersi sempre più in seguito e prolungarsi fino al Medioevo; ma a noi ne è pervenuta solo una minor parte, della quale spesso è difficile definire, oltreché la tendenza dottrinale, an­che il tempo preciso. Essendo pertanto inutile scendere a molti par­ticolari, ci limiteremo a brevi cenni sulle più antiche di queste composizioni.

§ 96. Di un Vangelo secondo gli Ebrei parlano vari scrittori anti­chi, che ce ne hanno pure trasmesse alcune poche citazioni ma per questa scarsezza e per confusioni sorte più tardi è difficile farsi un concetto approssimativo dello scritto. Certamente era redatto in aramaico, e doveva circolare già nel secolo I. Pare che avesse stretta affinità col vangelo canonico di Matteo, se pure non era in sostanza questo stesso vangelo rimanipolato in varie maniere, con accorciamenti e con aggiunte di provenienza incerta. Una di que­ste aggiunte, ad esempio, diceva che Gesù era stato trasportato, sospeso per uno dei suoi capelli, al monte Tabor per opera di sua madre, che sarebbe stato lo Spirito santo: in aramaico, infatti, “spirito” è voce di genere femminile, come giustamente ricorda S. Girolamo, il quale riporta l'aggiunta dopo Origene. Non risulta con sicurezza se recensione particolare di questo apocrifo, ovvero opera ben diversa, fosse il Vangelo dei Nazarei o Nazorei, ch'erano membri di una comunità giudeo-cristiana accentrata attorno a Berea (Aleppo). Il Vangelo degli Ebioniti era particolare a questa setta, di cui propugnava idee e norme, ad esempio quella del vegetarianismo. Fu composto nel secolo II, ma ne rimangono pochi frammenti in cita­zioni di Epifanio. Era chiamato dagli Ebioniti Vangelo secondo gli Ebrei, ma pare che fosse ben diverso dal precedente: ad ogni modo era certamente anch'esso una tenderiziosa rimanipolazione del Mat­teo canonico. Il Vangelo degli Egiziani era usato dagli eretici Encratiti, Valen­tiniani, Naasseni e Sabelliani. Fu composto in Egitto, verso la metà del secolo II; dai pochissimi frammenti superstiti si rileva che l'istituzione del matrimonio vi era condannata, conforme ai principii degli Encratiti. Il Vangelo di Pietro, già noto agli antichi e del quale nel 1887 fu ritrovato un esteso tratto relativo alla morte e resurrezione di Gesù, sembra che fosse composto in Siria verso l'anno 130 o poco dopo. L'autore si serve sostanzialmente dei vangeli canonici, né appare con sicurezza che mirasse a propugnare idee eretiche; tuttavia cade in er­rori storici grossolani (ad es. fa condannare e condurre al patibolo Gesù da Erode) e aggiunge vari particolari chiaramente fantastici.

§ 97. Assai importante ed uscito da ambiente ortodosso è il Pro­tovangelo di Giacomo, che risale a circa la metà del secolo II. Si diffonde molto sui fatti di Maria e dell'infanzia di Gesù nel ciclo liturgico della Chiesa sono tuttora rispecchiati taluni fatti da esso narrati, quale la presentazione di Maria al Tempio, di cui i vangeli canonici non fanno parola. La trama fondamentale della narrazio­ne è quella dei vangeli canonici, ma arricchita specialmente da gran quantità di prodigi, sempre inutili, spesso anche indecorosi; ad esempio, si finge che la perpetua verginità di Maria, che l'orto­dosso autore vuol mettere in sommo rilievo, sia sottoposta ad una prova tanto decisiva quanto sconveniente (cap. 20). Questo apo­crifo fu molto diffuso nella Chiesa antica, e in tempi più recenti ricevette varie rimanipolazioni, quali lo pseudo Vangelo di Matteo, del secolo VI, e il Libro della natività di Maria, del secolo IX. Di un Vangelo di Tommaso parlano antichi scrittori, segnalandolo come opera di eretici gnostici, composto verso la metà del secolo II. Ma le due recensioni che sono pervenute a noi di questo scritto - una più ampia, l'altra meno - non mostrano alcuna idea gnostica, e contengono solo numerosi miracoli, quasi tutti puerili, attribuiti appunto alla puerizia di Gesù dall'età di cinque anni in su. Più recenti, ma non più autorevoli, sono altri apocrifi non sempre bene noti che basterà nominare: il Vangelo di Filippo, del seco­lo III; il Vangelo di Bartolomeo, del secolo IV; gli Atti di Pilato, in parte anteriori al secolo IV, che si presentano come un resoconto del processo e della resurrezione di Gesù; le Lettere tra Abgar re di Edessa e Gesu' (in Eusebio, Hist. eccì., I, 13), e la Dottrina di Addai, d'origine siriaca, del secolo IV; altre narrazioni scendono dal secolo V in giù. Numerosi scritti apocrifi, sotto la denominazione di Atti, Lettere, Apocalissi, oppure di Costituzioni, Canoni, Dida­scalie, si riportano direttamente ai vari Apostoli più che a Gesù stesso; ma di lui parla molto la cosiddetta Lettera degli Apostoli, che contiene dialoghi di Gesù con i discepoli e che, scritta in greco nel secolo II, è giunta a noi in una recensione copta ed una etio­pica (quest'ultima è incorporata nell'apocrifo Testamento di nostro Signore Gesu' Cristo).

Escludendo già anticamente dal canone delle Scritture sacre questa congerie di scritti apocrifi e pseudo-apocrifi, la Chiesa ha fatto un'opera eccellente anche dal semplice punto di vista della scienza storica; in essi infatti, anche quando non si riscontrano concetti aper­tamente ereticali o tendenziosi, si ritrovano quelli che già S. Giro­lamo chiamava i sogni degli apocrifi.

§ 98. Una classe particolare, che può richiedere un giudizio parti­colare, è costituita da quei brevissimi scritti che sopra chiamammo Agrafa o Logia. Per amor d'esattezza bisogna distinguere. Stando al significato delle rispettive parole gli Agra fa, cioè i “non scritti”, sono quei brevi detti o aforismi attribuiti a Gesù che si ritrovano trasmessi fuori della sacra Scrittura (Grak'), o, secondo un'altra norma, fuori dei soli quattro vangeli canonici. I Logia, cioè i “det­ti”, sono egualmente brevi sentenze attribuite a Gesù e tutte appartenenti alla classe degli Agrafa; ma oggi questo termine è con­venzionalmente riservato a designare quelle sentenze che si vengono man mano scoprendo, da un quarantennio in qua, nei frammenti di antichi papiri ricuperati nell'inesauribile Egitto. Gli Agrafa in­vece si ritrovano in altri documenti antichi, anche fuori della let­teratura apocrifa, come in opere di taluni Padri e in qualche sin­golare codice del Nuovo Testamento. Poiché S. Paolo stesso cita come parole di Gesù la sentenza ignota ai vangeli: E’ cosa piu beata dare che ricevere (Atti, 20, 35), non è astrattamente impossibile che altre di siffatte brevi sentenze si siano conservate a lungo oralmente nella Chiesa antica, per poi esser fissate in iscritto lungo i primi secoli del cristianesimo. Ve­nendo poi al caso pratico, si riscontrano in realtà citazioni di questo genere in antichi Padri, lontani tra loro per tempo e per luogo. Cosi troviamo che, nel secolo I, Clemente romano attribuisce a Gesù il detto: “.... Come farete, cosi sarà fatto a voi; come darete, cosi sarà dato a voi; come giudicherete, cosi sarete giudicati; come sarete benigni, cosi si sarà benigni con voi” (I Corinti, 13); nel se­colo II, il palestinese Giustino martire gli attribuisce la sentenza: In quali (opere) io vi sorprenderò, in quelle vi giudicherò (Dialog. cum Tryph., 47); nel secolo III, l'alessandrino Origene gli assegna l'aforisma: Chi è vicino a me, e' vicino al fuoco; chi e' lungi da me, e' lungi dal regno (in Jer., xx, 3), aforisma che nel secolo suc­cessivo si ritrova in Didimo il cieco, egualmente alessandrino; e ancora nel secolo IV il siro Afraate, il “Sa­piente Persiano”, presenta come detta da Gesù la seguente ammo­nizione: Non dubitate, si che affondiate dentro il mondo, a somiglianza di Simone che dubitando cominciò ad affondare dentro il mare (Demonstr., I, 17). E le citazioni, che talvolta contengono an­che piccole particolarità della biografia di Gesù, potrebbero esten­dersi ad altre epoche e regioni. Che pensare di questi Agrafa di antichi scrittori cristiani?

§ 99. Un giudizio generale non si potrebbe dare, ed è necessario riportarsi a singoli casi. Molto spesso si tratta certamente di cita­zioni di vangeli canonici fatte, non con quell'aderenza letterale che oggi sarebbe di rigore, bensì in maniera larga e oratoria, si da mi­rare al concetto sostanziale più che alla parola materiale. Altre volte sembra che la citazione, specialmente se contiene una parti­colarità biografica, sia tolta da qualche scritto privato di edifica­zione, o anche da qualche apocrifo perduto. In altri casi potrà dipendere da una tradizione soltanto orale, senza però che oggi si possa decidere se quella tradizione risalisse veramente alle origini oppure fosse una pia elaborazione cristiana. In conclusione, pur rimanendo la possibilità astratta che taluni Agrafa siano autorevoli, la rispettiva dimostrazione è assai difficile a raggiungersi. Questa generica diffidenza è giustificata anche di fronte a taluni brevi tratti particolari, contenuti solo in qualche codice del Nuovo Testamento ma ignoti a tutti gli altri antichi documenti. Ad esem­pio, il codice D detto di Beza, del secolo VI, al passo di Luca, 6, 4, soggiunge questo tratto: In questo stesso giorno, avendo (Gesù) visto un tale che lavorava di sabbato, gli disse: Uomo, se tu sai ciò che lai, sei beato; se poi non lo sai, sei maledetto e trasgressore della Legge. Tanto caratteristica è l'idea qui espressa, quanto è singo­lare il tratto che l'esprime, ignoto a tutti gli altri codici. Un'altra celebre aggiunta, caratteristica e del tutto solitaria, è quella con­tenuta nel manoscritto W (Freer) e messa appresso a Marco, 16, 14. Anche per questi tratti speciali di solitari codici, in forza delle stesse ragioni accennate sopra, sarà ben arduo dimostrare che l'autenti­cità astrattamente possibile debba considerarsi nei singoli.

§ 100. Una messe abbondante è fornita anche dai Logia, che si stanno ricuperando da un quarantennio e talvolta raggiungono una notevole ampiezza. Se ne ritrovarono già a Banhesa, l'antica Ossirinco (pubblicati da Grenfeli e Hunt nella collezione Oxyrhynchus Papyri, dal 1897 in poi); in seguito l'Egitto ha largheggiato, oltreché con antichissimi papiri (Chester Beatty) strettamente neotestamentari, an­che con altri che contengono sia brevi sentenze staccate, sia passi più ampi e ben connessi. Quest'ultimo è il caso del papiro (Egerton) pubblicato come ”frammenti di un Vangelo sconosciuto” da Idris Belì e Skeat nel 1935, e che risale ad un'antichità eccezio­nale, essendo certamente non posteriore e forse anteriore alla metà del secolo II. Gli altri Logia si distribuiscono in genere fra i seco­li Il e III, ma sono costituiti da sentenze staccate e brevi che di solito cominciano con le parole: “Dice Gesu'...” E’ stato supposto che il papiro (Egerton) del “Vangelo sconosciuto” contenga una parte dell'apocrifo Vangelo degli Egiziani (§ 96); l'o­pinione è discutibile, mentre è certo che il suo contenuto dipende più o meno direttamente dai quattro vangeli canonici, e special­mente da Giovanni. I restanti comuni Logia, invece, sono avanzi del naufragio che ha sommerso antiche raccolte di detti di Gesù: i cristiani dei primi secoli componevano quelle raccolte a proprio uso privato, estraendone il materiale da varie parti, anche dai vangeli apocrifi, non senza adattarlo e modificarlo secondo le attitudini e gli scopi personali. Quando i primi di tali Logia cominciarono a tornare alla luce, pa­recchi studiosi li giudicarono reliquie di antichi repertori anteriori ai vangeli canonici, e da cui questi dipenderebbero: credettero quin­di d'entrare in possesso parziale o dei Logia di Matteo, di cui parlerebbe Papia (§ 114 segg.), o degli scritti di quei molti che secondo Luca (1, 1-4) avevano narrato prima di lui i fatti di Gesù.
Ma, purtroppo, quella rosea ipotesi e l'entusiasmo che l'accompagnava non erano giustificati. Oggi, che il materiale è notevolmente cre­sciuto e si può giudicare con migliore cognizione di causa, l'opi­nione quasi unanime è che la relazione fra i due gruppi di scritti sia l'inversa a quella allora supposta, ritenendosi cioè che questi Logia siano posteriori e dipendano dai vangeli canonici, oltreché da altre fonti.

§ 101. Diamo come saggio il primo frammento di papiro pubbli­cato nel 1897 (in Oxyrhynchus Papyri, I, n. 1), ricordando a fianco ai singoli detti i luoghi dei vangeli canonici da cui dipendono: (Dice Gesu':) ... e allora tu vedrai bene d'estrarre la pagliuzza che e' nell'occhio del tuo fratello (cfr. Matteo, 7, 5; Luca, 6, 42). Dice Gesu': Se non digiunate dal mondo, non troverete il regno di Dio; e se non sabbatizzerete il sabbato (cioè, se non santificherete tutta la settimana) non vedrete il Padre. (Il concetto di digiunare dal mondo ritorna in Clemente Alessandrino, Stromata, in, 15, 99; al concetto del sabbato spirituale allude Giustino, Dialog. cum Tryph., 12). Dice Gesu': Stetti in mezzo al mondo e apparvi ad essi nella carne; e li trovai tutti ubriachi, e nessun assetato trovai fra loro; e l'ani­ma mia e' afflitta a causa dei figli degli uomini, perché sono ciechi nel loro cuore e non vedono... (?) e la povertà. Dice Gesu': Ove siano (due, essi non) sono senza Dio, e ove sia uno soltanto, dico che io sono con lui. Solleva la pietra, e là mi troverai; spacca il legno, e io sono colà (cfr. Matteo, 18, 20). Dice Gesu': Non c'é profeta accetto nella patria sua, nè un medico opera guarigioni fra quei che lo conoscono (cfr. Matteo, 13, 57; Marco, 6, 4; Luca, 4, 23-24; Giovanni, 4, 44). Dice Gesu': Una città costruita su cima d'alto monte e raffarzata, non può crollare né restare occulta (cfr. Matteo, 5, 14). Dice Gesu': Tu ascolti con uno dei tuoi (orecchi), ma (l'altro tieni serrato?). In ultima conclusione, le fonti cristiane estranee al Nuovo Testa­mento siano esse scritti apocrifi, o Agrafa, o Logia - sono prive nella loro enorme maggioranza di autorità storica riguardo alla biografia di Gesù.
In qualche caso può rimanere una certa pos­sibilità in loro favore: ma tali casi sono cosi rari, e la dimostra­zione della loro autorità effettiva è cosi difficile, che praticamen­te non se ne può trarre alcun vantaggio apprezzabile. Questo van­taggio, nella migliore delle ipotesi, equivarrebbe ad una coppa d'ac­qua aggiunta in un lago: cioè, quand'anche i pochissimi passi me­glio accreditati si potessero accettare come sicuramente autentici, acquisteremmo qualche decina di righe da aggiungere come appendice ai vangeli canonici, senza per altra che tal minuscola appendice modificasse il contenuto di quelli o ne accrescesse notevolmente il patrimonio biografico o concettuale.


Il Nuovo Testamento fuor dei Vangeli

§ 102. Passando agli scritti del Nuovo Testamento che non siano i vangeli, l'orizzonte si allarga: ma anche qui non troviamo modo di accrescere le nostre notizie, salvo che con taluni solitari precetti dottrinali conservatici in casi rarissimi. In realtà, notizie stretta­mente biografiche su Gesù non mancano, ma esse confermano solo alcuni pochi, sebbene importanti, dati offerti dai vangeli, senza ag­giungerne di nuovi. Ad ogni modo questa conferma è preziosissi­ma, specialmente se provenga da fonte che sia cronologicamente anteriore ai nostri vangeli canonici e indipendente da questi. Tale è il caso di S. Paolo. Poco più d'un ventennio dopo la morte di Gesù cominciano le Let­tere di S. Paolo, e si susseguono per un quindicennio, occupando il periodo approssimativo dall'anno 51 al 66, che è il periodo o di pubblicazione o di preparazione dei nostri vangeli sinottici. Abbia­mo perciò, in queste Lettere, documenti che sono senza dubbio let­terariamente indipendenti dai vangeli sinottici e in massima parte anteriori ad essi. Ora, queste Lettere sono scritti del tutto occasio­nali: con esse S. Paolo si rivolge ai vari destinatari mirando a scopi contingenti al suo ministero apostolico, ma non si propone mai in nessun modo di narrare una biografia di Gesù, né compiuta né parziale, perché parla a cristiani ch'egli conosce già edotti circa la vita di Gesù. Solo incidentalmente egli ricorda fatti e parole di Gesù, se questo ricordo serve all'argomento di cui sta trattando, come quando narra l'istituzione dell'Eucaristia (I Corinti, 11), per­ché colà egli mira a stabilire il buon ordine nelle adunanze reli­giose. Eppure, spigolando queste sparse notizie occasionali, si ottie­ne un manipolo non scarso: il Renan stesso riconosceva che si po­trebbe ottenere una piccola « Vita di Gesù » ricavandone i dati dalle sole lettere ai Romani, Corinti, Galati ed Ebrei. Qualche altra spiga si può raccogliere dagli altri scritti del Nuovo Testamento, specialmente dagli Atti degli Apostoli, i quali però hanno per autore un evangelista sinottico, cioè Luca.

§ 103. Riassumendo schematicamente il tutto, otteniamo questa pic­cola “Vita di Gesù” extra-evangelica. Gesù fu, non già un eone celestiale, bensì “un uomo” (Romani, 5, 15) “fatto da donna” (Galati, 4, 4), discendente da Abramo (Gal, 3, 16) per la tribù di Giuda (Ebrei, 7, 14) e per il casato di David (Rom., 1, 3). Sua madre aveva nome Maria (Atti, 1, 14); egli era chiamato Nazareno (Atti, 2, 22) “quello da Nazareth” (Atti, 10, 38) (§ 259, nota seconda), e aveva dei “fratelli” (I Corinzi, 9, 5; Atti, 1, 14) di cui uno chiamato Giacomo (Gai., 1, 19) (§ 264). Fu povero (I Cor., 8, 9,) mansueto e dimesso (II Cor., 10, 1). Ricevette il battesimo da Giovanni Battista (Atti, 1, 22). Rac­colse discepoli con cui visse in relazione assidua (Atti, 1, 21-22); dodici di essi furono chiamati “apostoli”, ed a questo gruppo ap­partennero fra altri Cefa, ossia Pietro, e Giovanni (I Cor., 9, 5; 15, 5-7; Atti, 1, 13. 26). In vita sua operò molti miracoli (Atti, 2, 22) e passò beneficando (Atti, 10, 38). Una volta apparve ai suoi di­scepoli gloriosamente trasfigurato (II Pietro, 1, 16-18). Fu tradito da Giuda (Atti, 1, 16~19). Nella notte del tradimento istitui l'Eucaristia (I Cor., 11, 23-25), agonizzò pregando (Ebrei, 5, 7), fu oltraggiato (Rom., 15, 3) e posposto ad un assassino (Atti, 3, 14); pati sotto Erode e Ponzio Pilato (I Timoteo, 6, 13; Atti, 3, 13; 4, 27; 13, 28). Fu crocifisso (Gai., 3, 1; I Cor., 1, 13. 23; 2, 2; Atti, 2, 36; 4,10) fuori della porta della città (Ebrei, 13, 12); fu sepolto (I Cor., 15, 4; Atti, 2, 29; 13, 29). Risorse dai morti il terzo giorno (i Cor., 15, 4; Atti, 10, 40); quindi apparve a molti (I Cor., 15, 5-8; Atti, 1, 3; 10, 41; 13, 31) ed ascese al cielo (Rom., 8, 34; Atti, 1, 2. 9-l0; 2, 33-34).

§ 104. Se confrontiamo questa ristretta biografia di Gesù extra­evangelica con quella ampia offerta dai vangeli, troviamo bensì una differenza quantitativa ma non una divergenza qualitativa. Nella biografia ristretta c'è già l'impalcatura di quella ampia: impalca­tura tenue e lineare nel primo caso, variamente arricchita e colorita nel secondo, ma in entrambi i casi costruita secondo un solo di­segno e ripartita in piani architettonici eguali. In altre parole il cristianesimo delle prime generazioni non ha avuto tipi differenti di biografie di Gesù, ma un solo tipo; e ciò è tanto più importante, in quanto i documenti di quelle generazioni, con­fluiti nel Nuovo Testamento, provengono da persone che furono distanti fra loro per tempo e per luogo, e che rispetto alle informazioni in questione furono in massima parte indipendenti fra loro.

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06/08/2012 16:51


[SM=g27998] I VANGELI

§ 105. La parola “evangelo” significò originariamente la ricompensa data a un messaggero che rechi una buona novella, o anche la buona novella in se stessa; il cristianesimo, fin dai suoi primi tempi, impiegò questa parola per designare la piu' importante e preziosa “buona novella”, quella annunziata da Gesù all'inizio del suo ministero, allorché venne Gesu' nella Galilea annunziando la “buona novella” d'iddio e dicendo: Si è compiuto il tempo e si è avvicinato il regno d'iddio; pentitevi e credete nella “buona novella” (Marco, 1, 14-15). Quindi, la “buona novella” annunziata in principio da Gesù fu essenzialmente questa: Si e' avvicinato il regno di Dio. Ma a questo primo annunzio segui uno sviluppo, il quale tradusse in atto il contenuto della “buona novella” mediante gli insegna­menti, la vita e la morte redentrice di Gesù. Quindi, a tutto questo complesso di fatti che costituivano la salvezza apprestata da Gesù al genere umano fu in seguito applicata la designazione di “buona novella”, in quanto era annunzio della salvezza già attuata e com­piuta. In questo senso S. Paolo si presenta come ministro... della “buona novella” (Colossesi, 1, 23; ecc.), in corrispondenza all'e­spressione usata dal suo discepolo Luca, che parla di inservienti della parola (Luca, 1, 2); egualmente in questo senso fu scritto in prin­cipio ad uno dei vangeli canonici: inizio della “buona novella”di Gesu' Cristo (Marco, 1, 1).

§ 106. Quest'ultimo esempio già prelude ad un'applicazione ulte­riore che ricevette più tardi la parola. Per alcuni anni dopo la morte di Gesù la diffusione della “buona novella” avvenne in maniera esclusivamente orale; il quale metodo era quello stesso seguito da Gesù, che aveva soltanto parlato senza lasciare alcun scritto, ed era anche conforme a quello dei dottori giudaici contemporanei, le cui sentenze furono tramandate oralmente ancora per molto tempo fino a quando furono messe in iscritto neI Talmud (§ 87). Era il metodo chiamato dai cristiani “catechesi”, ossia “risonanza” perché con­sisteva nel “far risonare” (greco katecheo) la voce alla presenza dei discepoli; di guisa che il discepolo, che avesse compiuta la sua istru­zione, era il “risonato”, ossia il “catechizzato” (Galati, 6, 6; Luca, 1 4; Atti, 18, 25). Senonche la rapida e vasta diffusione della “buo­na novella” non poteva permettere, praticamente, che questa re­stasse affidata per lungo tempo soltanto alla viva voce. Lo sprigio­narsi della “buona novella” dalla Palestina e dal mondo giudaico; il suo penetrare in regioni d'altri linguaggi, come nella Siria, nell'Asia Minore e fino in Italia e a Roma; il suo irrompere nelle accademie e negli altri cenacoli del mondo greco­romano; e infine l'effettuarsi di questa avanzata trionfale nel giro di pochi anni, richiesero entro bre­ve tempo che la viva voce fosse corroborata dallo scritto per raggiun­gere più facilmente e più efficacemente nuove mete. Sappiamo infatti che, già lungo il sesto decennio del secolo I, circolavano scritti con­tenenti la “buona novella”, e che tali scritti erano molti (Luca, 1, 1-4). Questo nuovo sussidio, fornito al diffondersi del messaggio cristiano, fu come una seconda strada aperta parallelamente alla prima: da allora la “buona novella” s'avanzò su ambedue le stra­de, la catechesi risonante e la catechesi scritta. Ciò appunto spiega l'ulteriore applicazione che ricevette la parola. Da questo tempo “buona novella” fu, non soltanto l'annunzio del­la salvezza umana, ma anche lo scritto che conteneva quell'annun­zio: il contenente fu designato col nome del contenuto, cioè fu chiamato “vangelo”. Ad ogni modo, anche se la “buona novella” orale aveva perduto la sua sonorità materiale diventando vangelo scritto, l'una e l'altro rimanevano in sostanza una catechesi: non altramente le orationes di Cicerone, essenzialmente orali, rimasero orationes anche quando circolarono in iscritto.

§ 107. E’ però di somma importanza rilevare che la “buona no­vella” scritta non pretese mai né di soppiantare né di sostituire adeguatamente la “buona novella” orale; e ciò, oltreché per altre ragioni morali, anche perché la “buona novella” orale era molto ricca e conteneva assai più elementi di quella fissata in iscritto. Abbiamo su questo proposito una preziosa testimonianza di Papia di Jerapoli, il quale, scrivendo verso l'anno 120, afferma di aver ricer­cato ansiosamente ciò che avevano insegnato di viva voce gli Apo­stoli e gli altri discepoli immediati di Gesù, ch'egli nomina indivi­dualmente, apportando infine questa ragione: Giudicavo infatti che le cose contenute nei libri non mi avrebbero giovato tanto, quanto le cose (comunicate) da una voce viva e permanente (in Eusebio, Hist. eccl., III, 39, 4). E parlando di libri e di voce allude indub­biamente alle fonti della vita e della dottrina di Gesù, perché poco dopo tratta espressamente dei vangeli di Marco e di Matteo. Presso gli scrittori cristiani del secolo II l'uso del termine « vange­lo » è ancora promiscuo. Talvolta conserva il senso più antico, e perciò designa la « buona novella » in sé, ossia la salvezza umana operata da Gesù, come si ritrova ancora presso Ireneo (Adv. har., iv, 37, 4); ma già lo stesso Ireneo (ivi, III, lì, 8; ecc.); e anche prima di lui Giustino (Apol., I, 66), impiegano il termine per designare determinati scritti, cioè i nostri vangeli. Anche l'eretico Marcione, verso il 140, prefisse il titolo di « vangelo » al suo scritto derivato dal terzo dei vangeli canonici ed accomodato conforme alle dottrine di lui (Tertulliano, Adv. Marcion., iv, 2).

§ 108. Qual era il primo e principale argomento della catechesi, orale o scritta che fosse? Su ciò non può esservi dubbio. Se la fede cristiana aveva per suo fondamento la persona di Gesù, il primo passo sulla strada di questa fede doveva necessariamente essere la conoscenza dei fatti di Gesù; ci viene infatti attestato esplicitamente che si cominciava con l'istruirsi o con l'istruire sulle cose riguardo a Gesìi (Atti, 18, 25; cfr. 28, 31) come pure ci vengono occasional­mente comunicati brevi abbozzi di catechesi che comprendono ap­punto i fatti di Gesù (Atti, 1, 22; 2, 22 segg.; 10, 37 segg.). E in realtà un cristiano non sarebbe stato cristiano se non avesse saputo che cosa aveva fatto il Cristo, ossia Gesù, quali dottrine aveva insegnate, quali stabili riti aveva istituiti, quali prove avevano dimo­strato l'autorità della sua missione, insomma se non possedeva una notizia almeno sommaria della biografia di lui: senza questa notizia la « buona novella » non poteva diffondersi, giacché gli uomini co­me invocherebbero colui nel quale non credettero? e come crede­rebbero in colui che non udirono? e come udirebbero senza un ban­ditore? (Romani, 10, 14).

§ 109. Ora, fra i banditori orali della « buona novella » vi fu una classe speciale, a cui sembra che fosse affidata in modo particolare la missione di trasmettere la narrazione e testimonianza dei fatti di Gesù: per conseguenza questi particolari banditori furono desi­gnati, con termine spontaneo, come i « buoni-novellisti» ossia gli « evangelisti » (Efesi, 4, II; II Timoteo, 4, 5; Atti, 21, 8). Senza dubbio la catechesi in genere, che mirava alla edificazione e forma­zione spirituale dei credenti, era favorita indistintamente da tutti quei carismi di cui parla più volte S. Paolo esaltando la loro effi­cacia parenetica (I Cor., 12, 8-10. 28-30; 14, 26; Rom., 12, 6-8; ecc.); tuttavia il carisma dell'”evangelista”, insieme con quello del­l'”apostolo”, era all'avanguardia ed apriva la strada agli altri carismi, appunto perché gettava il primo seme della fede in Gesù e narrando la biografia di lui. Ecco pertanto come la missione degli « evangelisti » è descritta da Eusebio: Essi avevano il primo ordine nella successione degli apo­stoli. Essendo discepoli meravigliosi di tali maestri, essi costruivano sopra i fondamenti delle chiese che erano stati dapprima gettati in ogni luogo dagli apostoli, dilatando sempre piu' il messaggio ) e disseminando la salutare semenza del regno dei cieli in largo su tutta la terra... Usciti di patria, compivano l'opera di evangelisti ansiosi di bandire il messaggio a coloro che non avevano udito affatto nulla della parola della fede e di trasmettere la scrit­tura dei divini vangeli. Essi, dopo aver gettato solo i fondamenti della fede in taluni luoghi stranieri, vi stabilivano altri pastori ai quali affidavano la cura di coloro ch'erano stati testé introdotti: di nuovo, poi, si trasferivano in altre contrade e nazioni con la grazia e cooperazione di Dio (Hist. eccl., III, 37). Questa descrizione è opportunamente provocata dalla menzione di Filippo, che è il solo « evangelista » nominato nel Nuovo Testamento (Atti, 21, 8) e che difatti aveva evangelizzato Samaria (Atti, 8, 5 segg.) e altre regioni (Atti, 8, 40).

§ 110. Con ciò siamo penetrati in quella miniera da cui estrassero i loro materiali quei molti scrittori che, come vedemmo sopra (§ 106), avevano composto narrazioni dei fatti di Gesù già nel sesto decen­nio del secolo I, e la cui opera fu o contemporanea o anche par­zialmente anteriore alla composizione dei vangeli canonici. Quella grande miniera comune si chiama « catechesi »; e la catechesi sen­za dubbio era sostanzialmente unica, sebbene potesse venir presen­tata sotto forme o tipi alquanto differenti che mettessero capo ai vari e più autorevoli banditori della «buona novella». D'altra parte la Chiesa primitiva non si è curata di tutti indistinta­mente i molti scritti apparsi lungo il secolo I, ma solo di quattro fra essi: degli altri si è disinteressata, e perciò sono andati perduti, men­tre i quattro prescelti divennero le quattro colonne basilari dell'edi­ficio della fede. Ad essi soli la Chiesa attribui un valore di storio­grafia ufficiale; in essi ella riconobbe l'ispirazione di Dio, e perciò li incluse nell'elenco di Scritture sacre chiamato Canone: sono ap­punto i quattro vangeli canonici, ossia le quattro « Buone novelle» del Nuovo Testamento. Ma la Chiesa non perse mai di vista l'o­rigine unitaria dei suoi quattro vangeli. Se gli scritti erano quattro, la fonte era una sola, cioè la catechesi. Onde, con perfetta aggiu­statezza storica, nel secolo Il Ireneo parla di un solo vangelo qua­driforme, come nel secolo seguente Origene afferma che il vangelo, certamente attraverso quattro, e' uno solo, ai quali, ancora nel secolo IV, fa eco S. Agostino parlando dei quattro libri d'un solo vangel.

§ 111. E dell'antico sentimento della Chiesa circa questa comune origine dei quattro vangeli si ha una riprova nei titoli sotto cui essi sono giunti fino a noi. I titoli suonano in greco Marco, Luca, Giovanni, le quali espressioni si trovano trasportate di peso in latino da scrittori del secolo II, come Cipriano, e da antichi codici latini, ove si legge cata Matteo, cata Marco, ecc., pur conservandosi il significato originario di secondo Matteo, secondo Marco, ecc. Questi titoli non provengono certo dai rispet­tivi autori, benché designino coloro che secondo la tradizione erano gli autori; ad ogni modo negli antichi codici il titolo di Vangelo si trovava originariamente una sola volta, cioè in cima alla colle­zione di tutti e quattro insieme, mentre in cima ai singoli si trovava il rispettivo titolo di secondo Matteo, secondo Marco, ecc. Questa norma pratica fu dettata dall'idea che il Vangelo era in realtà uno solo, quello estratto dalla catechesi, sebbene tale unità apparisse sot­to quattro forme, quella secondo Matteo, quella secondo Marco, ecc. I precedenti rilievi sono della massima importanza per comprendere quale fosse per i cristiani la vera base su cui poggiava l'autorità storica dei vangeli. Quella base era l'autorità della Chiesa, della cui catechesi era genuino e diretto prodotto l'unico quadriforme van­gelo. I singoli autori delle quattro forme del vangelo in tanto vale­vano, in quanto erano rappresentanti della Chiesa, dalla cui autorità essi erano adombrati ma credendo ai quattro autori, il cristiano credeva in realtà all'unica Chiesa, mentre se attraverso ad essi il cristiano non fosse potuto giungere fino alla Chiesa, non avrebbe creduto al loro vangelo. Tutto ciò è espresso nitidamente da S. Agostino col suo celebre aforisma: Ego vero evangelio non crede­rem, nisi me catholic Ecclesia' commoveret auctoritas (Contra epist. Manich., v, 6). In conclusione, il processo storico dell'origine dei vangeli fu il se­guente. La “buona novella” orale fu più antica e più ampia della « buona novella » scritta: l'uno e l'altra furono produzioni della Chiesa, e dall'autorità di questa furono adombrate. Il che equivale a dire che il vangelo scritto presuppone la Chiesa e si basa su essa.

§ 112. Questa conclusione è in assoluto contrasto con l'antico con­cetto che la Riforma luterana si fece dei vangeli canonici, e taluno potrebbe forse sospettare che sia una conclusione ispirata da mire polemiche più che fondata sulla pura documentazione storica. Se­nonché alla stessa conclusione sono giunti recentemente anche stu­diosi che, non solo non hanno alcuna preoccupazione di apologia cattolica, ma sono invece seguaci dei metodi più radicali e più de­molitori riguardo alla critica dei vangeli. Basterà riportare il giu­dizio di uno solo fra essi: In seguito alla fissazione del canone del Nuovo Testamento alla fine del secolo II si fini per dimenticare che i nostri Vangeli hanno una preistoria importantissima e che bisogna collocarli, non già all'inizio, ma al termine di un lungo processo anteriore. Perciò nella sua nozione della tradizione il cattolicismo si e' sempre guardato da una considerazione esagerata ed esclusiva della lettera scritta... Con la Riforma il nostro concetto sull'origine dei Vangeli venne falsato. La Riforma tirò le ultime conseguenze dalla canonizzazione del Nuo­vo Testamento, facendo dell'ispirazione verbale il suo dogma essen­ziale. Mentre il cattolicismo non dimenticò mai completamente che la tradizione precede la Scrittura, i teologi sorti dalla Riforma non tennero piu' alcun conto del fatto che, fra l'epoca in cui e' vissuto Gesù e quella della composizione dei Vangeli, corre ”Vita di Ge­su'” scritta. E’ strano rilevare che proprio i teologi piu' liberali della seconda metà del secolo XIX hanno subito inconsciamente l'influenza della teoria dell'ispirazione verbale, non badando che alla lettera scritta, senza preoccuparsi dell'importante periodo in cui il Vangelo non esisteva che sotto forma di parola viva; in Revue d'histoire et de philosophie relig., 1925, pagg. 459-460).
§ 113. Di quale ampiezza, e anche di quale particolare indole, fos­sero gli scritti andati perduti fra i molti che circolavano lungo il sesto decennio del secolo I, non possiamo dire con sicurezza. E’ ben verosimile che in massima parte fossero d'ampiezza assai limitata, minore anche di quella di Marco che è il più breve dei nostri van­geli. Quanto all'indole, dovevano essere di tipo vario: pur trattando tutti della vita di Gesù, taluni potevano occuparsi specialmente dei fatti, altri specialmente degli insegnamenti e delle parole; tra gli scritti sui fatti, chi prendeva di mira specialmente il ministero in Galilea, chi il ministero in Giudea, chi gli avvenimenti della passio­ne e morte, qualcuno anche i fatti dell'infanzia precedenti al ministero pubblico; tra gli scritti sugli insegnamenti, uno preferiva le parabole, un altro i comandamenti fondamentali della nuova Legge (quali si ritrovano nel Discorso della montagna), un terzo le profezie sulla fine di Gerusalemme e del mondo intero, e così' di seguito. Riscontriamo, pertanto, che questi elementi sparsi si ritrovano tutti complessivamente nei nostri tre primi vangeli chiamati Sinottici (Gio­vanni, sotto questo aspetto, fa parte a sé), come pure troviamo che i Sinottici alla loro volta mostrano una trama generica comune. Le linee costanti di questa trama sono: il ministero di Giovanni il Bat­tista e il battesimo di Gesù; il ministero di Gesù in Galilea; il mi­nistero di Giudea; la passione, morte e resurrezione. A queste linee costanti può esser premessa la narrazione, più o meno ampia, dei fatti dell'infanzia, come in Matteo e Luca: ad ogni modo tale nar­razione serve quasi da preambolo alla trama costante, mentre il vero corpus del racconto comincia col ministero di Giovanni il Battista. Pronunciando queste parole (Atti, 1, 21-22), sembra che Pietro abbia delineato un programma generico; egli stesso mostra di attenersi a tale programma, giacché in un suo di­scorso segue sommariamente le quattro linee della suddetta trama, incipiens a Galilea post baptismum quod predicavit Joannes e fi­nendo con le apparizioni di Gesù dopo la resurrezione (Atti, 10, 37-41). Siffatta corrispondenza fra il programma e l'azione di Pietro (cfr. anche Atti, 2, 22-24), e inoltre il posto sovreminente da lui te­nuto fra i primissimi banditori della “buona novella”, rendono legittima la supposizione che appunto a Pietro risalga la trama di quella catechesi le cui linee generali si ritrovano complessivamente seguite dai nostri tre primi vangeli, come dovevano esser seguite isolatamente dal più dei molti scritti andati perduti. Chi fossero poi gli autori degli scritti perduti, noi non sappiamo affatto. Poterono benissimo appartenere al numero di coloro ch'e­rano insigniti dal carisma dell'”evangelista”; taluno poté anche es­sere testimone personale dei fatti narrati, in quanto era stato disce­polo immediato di Gesù morto un ventennio prima: tuttavia dal confronto di Luca, 1, 1 con 1, 2, sembra risultare una contrappo­sizione tra scrittori e testimoni, per cui i primi dipenderebbero dai secondi e non sarebbero - almeno nella maggioranza - testimoni essi stessi. Quanto agli autori dei vangeli canonici, e al tipo di catechesi da cui ciascuno di essi dipende, non resta che ricercare le testimonianze della tradizione, passando cosi dal periodo di preparazione a quello di composizione dei quattro vangeli.



[SM=g27998] Matteo

§ 114. Il primo vangelo è attribuito all'apostolo Matteo, chiamato anche Levi e già pubblicano (§ 306), da una costante tradizione che risale al principio del secolo II. Il già allegato Papia di Jerapoli, che verso l'anno 120 scrisse cinque libri di Spiegazione dei detti del Signore, affermava in essi che: Matteo in dialetto ebrai­ cocoordinò i detti ciascuno poi li interpretò com'era capace (in Eusebio, Hist. eccì., III, 39, 16). Altre testimo­nianze successive - quali quelle di Ireneo, di Tertulliano (Adv. Marcion., IV, 2), di Clemente Alessandrino (Stro mata, 1, 21), ecc. - confermano più o meno esplicitamente la no­tizia di Papia. E’ anche certo che tutta l'antichità cristiana, in una gran quantità di attestazioni che sarebbe inutile elencare, ha attri­buito a Matteo precisamente il primo dei nostri vangeli canonici e non un altro scritto. Che cosa esattamente afferma Papia dello scritto di Matteo? Egli dice che in esso Matteo coordinò i detti di Gesù: ossia che, non solo raccolse insieme i detti in questione. Gli antichi, infatti, badavano molto in un'opera letteraria all'”ordinamento”: secondo essi uno scrittore doveva in primo luogo provvedere al ritrovamento di un soggetto, quindi sottoporre il soggetto all'«ordinamento»; que­sto ordinamento, poi, non era sempre quello cronologico, bensì pres­so gli stessi storici era sovente l'ordinamento logico, fondato o sul­l'analogia delle varie trattazioni, o sulla congiunzione di causa ed effetto, o sull'unità di luogo e di persone, e simili. E che Papia abbia qui di mira questo ordinamento letterario, risulta da quanto egli ha detto immediatamente prima circa il vangelo di Marco (ci­teremo l'intero passo al § 128), ove afferma che Marco scrisse esat­tamente, ma non già con ordinamento; al contrario, nello scritto di Matteo egli ritrova con soddisfazione questo “ordinamento”.

§ 115. Ora, quali sono i detti contenuti nello scritto di Matteo? Etimologicamente il termine greco significa detti (sentenze, oracoli); ma particolarmente, presso scrittori giudei e cristiani, si­gnificava anche passi in genere della sacra Scrittura, che contenes­sero indifferentemente sia sentenze sia fatti. Papia stesso usa altrove il termine in questo secondo senso più ampio: nel già accennato passo ove parla del vangelo di Marco, dice che questo contiene le cose o pronunzsate o operate da Gesù; eppure, immediatamente appresso, egli designa questo complesso narrativo come detti di Gesù. Inoltre la stessa opera scritta da Papia era bensì intitolata Spiegazione dei detti del Si­gnore, ma dagli accenni e citazioni che ne rimangono risulta che essa trattava, oltreché delle sentenze, anche dei fatti di Gesù e del­l'età apostolica. Per conseguenza, non solo l'antichità cristiana, ma anche tutti gli studiosi indistintamente fino al secolo XIX inoltrato, ritennero che questi detti attribuiti da Papia a Matteo designino il primo dei nostri vangeli canonici: tanto più che di un'opera as­segnata a Matteo o ad altri Apostoli, conteneva solo sentenze di Gesù, non esiste né attestazione né traccia alcuna trasmessa dall'antichità. Se poi passiamo a confrontare questi dati, strettamente positivi, con il contenuto del nostro primo vangelo, troviamo una adeguata cor­rispondenza alle due caratteristiche rilevate da Papia: quella del­l'appellativo di detti, e quella dell'”ordinamento” letterario.

§ 116. E in primo luogo, fra i vangeli sinottici, Matteo è quello che concede il più ampio spazio alle parole di Gesù, le quali occu­pano circa tre quinti dell'intero scritto: perciò con particolare ra­gione esso poteva esser designato come una raccolta di detti, pur conservandosi a questa parola il significato usuale meno rigoroso che includeva anche la narrazione di fatti. Inoltre, la raccolta dei discorsi di Gesù ivi riferiti è stata ripartita in cinque gruppi, secondo quella norma di “ordinamento” lette­rario che stava a cuore a Papia. Il primo gruppo contiene ciò che si potrebbe definire lo statuto del regno fondato da Gesù, cioè il Discorso della montagna (Matteo, capp. 5-7); il secondo contiene le istruzioni date agli Apostoli per diffondere il regno (cap. 10); il terzo, le parabole del regno (cap. 13); il quarto, i requisiti morali per appartenere al regno (cap. 18); il quinto, il perfezionamento del regno e la sua consumazione nei fini estremi (capp. 23-25). Notevole è che ognuno di questi gruppi è preceduto da poche parole d'introduzione, ed è poi seguito da una conclusione, la quale tutte le volte è, con minime mutazioni, questa: E avvenne che, quando Gesu' ebbe terminato o questi discorsi o queste parabole, ecc. (7, 28; 11, 1; 13, 53; 19, 1; 26, 1). Notevole è anche che siffatto “ordi­namento” in cinque gruppi, certamente non fortuito, corrisponde numericamente ai cinque libri in cui Papia aveva diviso la sua opera di Spiegazione dei detti del Signore; il che potrebbe far sospettare, benché la cosa non sia punto certa, che Papia avesse seguito nella sua opera l'”ordinamento” da lui segnalato nello scritto di Matteo, se in essa egli si era occupato soprattutto dei discorsi di Gesù.

§ 117. L'antico pubblicano Matteo, quando mise mano a questa sua opera, era certamente uomo abituato da gran tempo a scrivere, perché senza la quotidiana scrittura non avrebbe potuto nel passato tenere in bell'ordine nel suo tavolo da gabelliere le note dei paga­menti; al contrario gli altri Apostoli, sebbene non fossero privi di lettere, dovevano avere in genere più familiarità con remi e reti da pescatori che non con pergamene e calami da scrittori (salvo forse i due benestanti figli di Zebedeo), e ciò specialmente subito dopo la morte di Gesù quando iniziarono da soli la loro missione. Testi­moni oculari delle azioni di Gesù erano stati tutti egualmente, ma l'abilità scritturale di Matteo era un vantaggio tecnico su altri Apo­stoli, e questo dovette far sì che fosse assegnato di preferenza a lui l'incarico di mettere in iscritto la catechesi orale degli stessi Apo­stoli. Quando Matteo si mise all'opera è possibile, sebbene non dimo­strato, che già circolasse qualche scritto contenente detti o fatti di Gesù; ma anche se ciò potesse dimostrarsi, si tratterebbe certamente di saggi ancora scarsissimi sia per numero sia per contenuto, com­posti inoltre per iniziativa privata e privi d'ogni carattere ufficiale. Al contrario, l'incarico dato a Matteo rispondeva all'opportunità che la catechesi orale degli Apostoli fosse ampiamente e ufficial­mente riecheggiata in un documento scritto, ricevendone quel sus­sidio pratico che era richiesto, come vedemmo (§ 106), dalla cre­scente diffusione della buona novella. Il tipo di catechesi da met­tersi in iscritto non poté essere se non quello già collaudato dalla pratica della Chiesa, e le cui linee maestre erano state tracciate da chi aveva la sovreminenza sui banditori ufficiali della buona novel­la: fu perciò il tipo di catechesi che metteva capo a Pietro (§ 113), senza però escludere il sussidio di altri elementi provenienti dal col­legio apostolico che non entravano ordinariamente nel quadro di quella predominante catechesi. In conclusione lo scritto riassunse il pensiero dell'intero collegio apostolico, pur attenendosi alle linee principali della catechesi di Pietro.

§ 118. Un documento quale quello di Matteo, composto da un te­stimone dei fatti, garantito e sussidiato da altri testimoni, inquadrato entro le linee maestre di un insegnamento ufficiale, esteso su un'am­piezza che non fu mai più raggiunta da scritti dello stesso genere, era destinato immancabilmente ad acquistare un valore singolare. Troviamo infatti che il vangelo di Matteo, come ci viene presentato dalla concorde antichità quale primo in ordine di tempo, cosi è primo quantitativamente per impiego fattone fin dai primi tempi: basti ricordare che, da parte cattolica, Giustino martire a mezzo il secolo IIimpiega il nostro Matteo non meno di centosettanta volte, e che prima di lui gli antichissimi eretici Ebioniti impiegavano il solo vangelo di Matteo, a detta di Ireneo, ma probabilmente alterato.

§ 119. Tuttavia, da principio, all'impiego e all'ampia diffusione del­lo scritto di Matteo si opponeva il grave ostacolo della lingua in cui era stato composto. La notizia già comunicataci da Papia, che Mat­teo scrisse in dialetto ebraico - è in realtà confer­mata da altri antichi - quali Ireneo, Origene, Eusebio, Girolamo i quali egualmente parlano di lingua ebraica o paterna: quasi cer­tamente il termine ebraico designa qui l'aramaico (come nel con­temporaneo Flavio Giuseppe, Guerra giud., vi, 96; cfr. v, 272, 361; ecc.), giacché ai tempi di Matteo in Palestina si parlava aramaico; ad ogni modo, ebraico o aramaico che fosse, la lingua primitiva semitica era inaccessibile ai cristiani di stirpe non giudaica e anche a moltissimi altri provenienti dal giudaismo della Diaspora, i quali non conoscevano altro che il greco. Ma l'ostacolo fu superato, bene o inale, nella maniera accennata dallo stesso Papia: i detti, nel loro testo originale semitico, andarono in mano ai vari lettori e catechizzatori, ciascuno poi li inter­pretò com'era capace. Le quali parole lasciano intravedere un ampio lavorìo sorto ben presto attorno a un testo cosi opportuno e autorevole: alcuni catechizza­tori ne avranno tradotto oralmente, in maniera estemporanea, que­gli squarci che volta per volta occorrevano al loro ministero; altri avranno anche apprestato traduzioni scritte, e queste poterono essere sia parziali sia, più raramente, totali; non dovettero anche mancare scritti che, come la Spiegazione dello stesso Papia, erano piuttosto di esegesi illustrativa che di semplice traduzione. Ma l'osservazione di Papia, che ciascuno interpretò com'era capace, fa anche com­prendere che in tutto quel lavorio la buona volontà spesso non era accompagnata da un'adeguata perizia, soprattutto riguardo alla co­noscenza della lingua da cui si traduceva o anche in cui si tradu­ceva. E’ anche del tutto possibile che i molti, che nel sesto decennio del secolo I avevano gia scritto sui fatti di Gesù (§ 110), usufruissero ampiamente della composizione di Matteo, pur unendola con altri elementi desunti dalla tradizione di testimoni o di loro discepoli.

§ 120. Ma la Chiesa, che aveva adombrato della sua autorità la catechesi scritta in semitico da Matteo, dovette a un certo punto estendere la sua vigilante cura anche alle traduzioni del testo origi­nale, per timore che quell'autorità ufficiale fosse indebitamente in­vocata ad adombrare traduzioni che non meritavano tanto onore. Ciò che precisamente avvenisse non ci è noto, ma le conseguenze sono chiare ed eloquenti. Le traduzioni puramente orali ed estem­poranee dovettero sempre più diminuire, col diminuire dei catechizzatori ch'erano in grado di intendere l'originale semitico; le tradu­zioni scritte, parziali o totali che fossero, rimasero nell'ombra, cioè nell'uso privato e non ufficiale, e perciò destinate prima o dopo a perdersi. Una sola traduzione non andò perduta e giunse fino a noi, ma appunto perché fu adottata ufficialmente dalla Chiesa in sostituzione del troppo arduo testo semitico originale: è il testo greco del nostro Matteo canonico. Da chi sia stata fatta questa traduzione noi non sappiamo, come ai suoi tempi confessava di non saperlo S. Girolamo. Certamente fu oompiuta qualche decennio dopo ch'era apparso lo scritto di Matteo, quando cioè effondendosi sempre più il cristianesimo fuori della Palestina, diventava sempre meno usabile il testo originale semi­tico: risulta anche, da accurati raffronti letterari, che la traduzione fu compiuta dopo ch'erano apparsi gli altri due vangeli sinottici, delle cui espressioni letterarie essa risente. Il traduttore, infatti, non limitò il suo lavoro ad una semplice trasposizione delle parole da una lingua all'altra: bensi, oltre a ricercare una certa spigliatezza letteraria e quindi a non seguire servilmente la lettera anche per questa ragione, egli nello stesso tempo ebbe di mira la catechesi pratica. Poiché nel frattempo erano apparsi i due vangeli di Marco e di Luca, scritti originariamente in greco e rispecchianti in manie­ra più diretta le catechesi rispettivamente di Pietro e di Paolo, il traduttore li tenne sott'occhio durante il suo lavoro, e nel rendere il testo semitico si avvicinò per la scelta delle espressioni a quelle che trovava già impiegate in passi paralleli dei due nuovi vangeli greci: con ciò egli volle imprimere una certa uniformità letteraria a quei tre documenti, che rispecchiavano la catechesi fondamental­mente unica.

§ 121. La stessa mira della catechesi influì anche in altre maniere sulla traduzione. Trasportato in greco, lo scritto di Matteo allar­gava enormemente il suo campo d'azione e poteva raggiungere let­tori non giudei, cioè non abituati a idee ed espressioni tipicamente semitiche; d'altra parte il testo semitico di Matteo doveva avere (co­me risulta dal confronto con gli altri due Sinottici) talune espres­sioni che potevano o essere fraintese o suscitare meraviglia presso gli accennati lettori. Perciò il traduttore, per adattare meglio lo scritto al nuovo campo di catechesi, rimosse queste occasioni di errore e di meraviglia, e pur conservando il senso fondamentale attenuò la forza di certe frasi. Sembra anche probabile che egli abbia spostato taluni passi del testo originale raggruppandoli diffe­rentemente, conforme ai modelli di Marco o di Luca, ancora per­ché questo nuovo raggruppamento gli parve opportuno per l'uso catechetico. Questi criteri larghi non erano affatto inconciliabili con l'idea di «traduzione» presso gli Ebrei, come appare chiaramente da vari casi dell'Antico Testamento; per limitarsi al solo Ecclesiastico, le antiche versioni di questo libro fatte direttamente dal testo ebraico originale (sia esso, o no, quello ritrovato un quarantennio addietro) mostrano che i vari traduttori seguirono criteri d'una libertà estre­ma. Molto più discreto di essi fu invece il traduttore di Matteo; egli seguì criteri che, pur non essendo i rigorosi odierni, s'ispirano a quella libertà ch'era vantaggiosa allo scopo supremo della catechesi. Ma il fatto stesso che la Chiesa approvò e adottò la traduzione da lui apprestata, e che i più antichi scrittori ecclesiastici la impiega­rono come testo di vangelo canonico, dimostra che quella traduzione riproduceva in maniera “sostanzialmente identica” l'originale semitico. Troppo gelosa era la vigilanza della Chiesa per tollerare che il maestoso nome assegnato alla più antica e autorevole scrit­tura del suo insegnamento ufficiale, venisse attribuito a una tradu­zione che di quella scrittura fosse soltanto un evanescente simu­lacro; il rigore usato più tardi dalla stessa Chiesa contro gli scritti apocrifi, i quali parimenti si rifugiavano sotto gloriosi ma mentiti nomi e talvolta erano perfino libere rimanipolazioni di libri cano­nici, conferma la suddetta vigilanza abituale ed è una garanzia an­che per quanto riguarda la traduzione greca di Matteo.

§ 122. L'indipendenza da un servilismo verbale, testé rilevata nel traduttore di Matteo, offre anche occasione a metter bene in luce un principio importantissimo per l'interpretazione dei racconti evan­gelici in genere. Troviamo, cioè, che un'eguale indipendenza dal servilismo verbale è mantenuta dagli evangelisti stessi nelle loro nar­razioni, sì, da discordare verbalmente fra loro anche nel riferire testi rigorosamente fissati alla lettera ovvero parole di specialissimo valore dottrinale. Ad esempio, la tavoletta di condanna fatta apporre da Pilato sulla croce di Gesù recava senza dubbio un testo rigorosa­mente fissato alla lettera; eppure quest'unico testo è riportato con le seguenti divergenze verbali: Gesù1il Nazareno, il re dei Giudei (Giovanni, 19, 19); Costui e' Gesù, il re dei Giudei (Matteo, 27, 37); Il re dei Giudei, costui (Luca, 23, 38); Il re dei Giudei (Marco, 15, 26). Più grave ancora è il caso dell'Eucaristia, istituita una sola volta da Gesù e con parole ben precise; eppure anche qui se con­frontiamo la materialità delle parole, riferite sia dai tre Sinottici sia da S. Paolo (I Corinti, Il), troviamo nette divergenze. Ora, tutto ciò dimostra che la preoccupazione della catechesi antica, e quindi anche degli evangelisti canonici che dipendono da essa, era la fe­deltà sostanziale non già quella grettamente verbale, e che essi ri­cercavano l'adesione alla verità del senso non già alla materialità della lettera. Il culto della lettera materiale apparirà solo 16 secoli più tardi, quando la Riforma protestante dimenticherà che i van­geli dipendono dalla catechesi e li giudicherà basati in maniera autonoma sulla pura lettera; ma gli evangelisti stessi, con la loro indipendenza della lettera, danno una formale smentita storica al giudizio della Riforma, e il traduttore greco di Matteo conferma questa smentita imitando gli evangelisti nella libertà verbale.

§ 123. Riguardo al tempo in cui Matteo scrisse in semitico il suo vangelo, abbiamo un solo argomento ben certe, ma oltre a questo soltanto delle probabilità. La certezza è data dalla uniforme e co­stante attestazione degli antichi documenti, secondo cui Matteo fu cronologicamente il prirno evangelista canonico: è quindi anteriore a Luca che fu scritto non dopo l'anno 62, come pure è anteriore a Marco scritto poco prima di Luca. Più in su di questo estremo li­mite abbiamo solo delle probabilità: se i molti che scrissero circa i fatti di Gesù lungo il sesto decennio trassero parecchio del loro ma­teriale dall'opera di Matteo, come sopra supponemmo (§ 119), questa autorevole fonte deve risalire ai primi anni di quel decennio, ossia circa al 50-55. A questa conclusione sembra opporsi il noto passo di Ireneo (Adv. haer., III, 1, 1), che nel testo greco (in Eusebio, Hist. eccl., V, 8, 2) suona letteralmente cosi: Matteo fra gli Ebrei nella propria lingua di essi produsse anche una scrittura di vangelo, evangelizzando Pie­tro e Paolo in Roma e fondando la chiesa; quindi, dopo la dipar­tita di costoro, Marco, il discepolo e l'interprete di Pietro, ci tra­smise anch'egli per iscritta le cose predicate da Pietro, ecc. Il tratto che riguarda Matteo contrappone la pubblicazione del suo scritto semitico alla evangelizzazione di Pietro e Paolo a Roma, e sembra ben supporre che i due fatti fossero contemporanei: quindi Matteo avrebbe scritto dopo l'inizio dell'anno 61, nel qual tempo Paolo giunse a Roma secondo il noto racconto degli Atti, 28, 14 segg. Si è tentato spiegare questo tratto supponendo che Ireneo non s'oc­cupi ivi della cronologia, ma solo contrapponga l'operosità anche letteraria di Matteo in Palestina a quella soltanto orale di Pietro e Paolo a Roma: tuttavia la spiegazione non ha persuaso, special­mente per le limitazioni cronologiche che seguono (dopo la dipar­tita di costoro; ecc). D'altra parte Ireneo, ottimo conoscitore del Nuovo Testamento e delle sue origini, non poteva ignorare che an­che prima dell'arrivo di Paolo esisteva a Roma una fiorente chiesa, come risulta sia dagli Atti (ivi) sia dall'anteriore lettera di Paolo ai Romani; perciò la menzione di Paolo, a proposito della fondazione della chiesa di Roma, non può essere interpretata nel senso di una rigorosa simultaneità cronologica. Ciò probabilmente offre la chiave di spiegazione. Ireneo, che abi­tualmente considera la chiesa di Roma come una fondazione col­lettiva di Pietro e di Paolo insieme, la ricorda come tale anche nel nostro passo, astraendo dalla esatta precedenza dell'uno sull'altro; egli perciò fissa la simultaneità cronologica tra la fondazione, presa in se stessa, e la composizione dello scritto di Matteo. In questa interpretazione il periodo degli anni 50-55, che assegnammo allo scritto di Matteo, sarebbe confermato, essendo appunto quello il periodo di pieno stabilimento e sviluppo della chiesa di Roma.

§ 124. L'esame interno dello scritto di Matteo conferma e schiari­sce le notizie trasmesse dalla tradizione. Minuziosi e lunghi confronti, fatti recentemente e che sarebbe qui fuor di luogo riprodurre, hanno messo in luce i molti elementi tipicamente semitici, sia stilistici sia lessicali, che sono passati dal testo originale nella versione greca. Principale fra tutti è l'espressione regno dei cieli, che si ritrova soltanto in Matteo e certamente riproduce alla lettera la formula usata da Gesù in aramaico: questa espressione era sorta per la preoccupazione rabbinica di evitare l'impiego del nome di Dio, ed era perciò una sostituzione dell'espressione equivalente regno di Dio, che è la sola usata dagli altri evangelisti.

§ 125. Che Matteo si rivolga a cristiani provenienti dal giudaismo, risulta anche dall'indole della sua trattazione. Senza dubbio la sua mira è storica, volendo egli riferire circa la dottrina e i fatti di Gesù; tuttavia egli fa ciò nel modo che gli appare più efficace ed appropriato per lettori che già ebbero fede in Mosè. Nel vangelo di Matteo, più che in ogni altro, Gesù appare come il Messia pro­messo nell'Antico Testamento e che ha realmente adempiuto in se stesso le profezie messianiche: di qui l'assidua cura dell'evangelista di concludere molte narrazioni con l'avvertimento che ciò anvenne affinché si adempisse quello ch'è detto, ecc., riferendosi a qualche passo dell'Antico Testamento (cfr. Matteo, 1, 22-23; 2, 15. 17.23; ecc.). Anche la dottrina di Gesù è presentata con riguardo speciale alle sue relazioni sia con l'Antico Testamento, sia con le dottrine e lo spirito dei predominanti Farisei. Riguardo all'Antico Testamento la nuova dottrina è, non già un'abrogazione, bensì un perfezionamento e una integrazione: solo Matteo riporta le affermazioni di Gesù ch'egli non sia venuto a disfare la Legge e i Profeti bensì a com­pierli e che non passi dalla Legge un solo jota o un apice fino a che tutto s'adempia (ivi, 5, 17-18). Riguardo alle dottrine dei Fari­sei, quella di Gesù è in antitesi perfetta: non soltanto la minaccia Guai a voi (Scribi e Farisei ipocriti!)... è ripetuta per ben sette volte in un solo capitolo (cap. 23; il vers. 14 è un riporto fatto da al­trove), ma in tutto il resto di questo vangelo l'abisso che separa le due dottrine è messo in luce più che negli altri Sinottici. Parimente soltanto Matteo fa notare che la missione personale di Gesù era rivolta direttamente alla sola nazione d'Israele (ivi, 15, 24; cfr. 1, 21), come pure che la missione preparatoria degli Apo­Istoli mirava al solo Israele con precisa esclusione dei pagani e dei Samaritani (ivi, 10, 5-6). Perfino la designazione dei pagani gentili, dell'Antico Testamento, risente ancora nelle espressioni di Matteo di quell'inveterato disprezzo che il giudaismo aveva decre­tato ai non giudei, per cui « gentile » era praticamente sinonimo dell'aborrito « pubblicano » (ivi, 5, 46-47; 18, 17) e la condizione di un gentile in confronto con quella di un giudeo era come quella di un cane di casa in confronto con quella di un figlio del padrone (ivi, 15, 24-27) le quali espressioni o saranno attenuate o scompa­riranno presso i successivi Sinottici, che s'indirizzeranno specialmen­te a cristiani provienti dal paganesimo. Tuttavia, oltrepassata questa scorza giudaica, il vangelo di Matteo si manifesta come rigorosamente universalistico: esso è, più che ogni altro, il Vangelo della Chiesa, come già apparve al Renan. La pa­rola « Chiesa » è impiegata, fra gli evangelisti, dal solo Matteo (16, 18; 18, 17); e questa istituzione di Gesù è, non già riservata ai soli Giudei, ma aperta a tutte le genti che vi accorreranno numerose dall'Oriente e dall'Occidente per assidersi a mensa insieme con Abra­mo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli (ivi, 8, 11), e i confini di questo regno saranno i confini stessi del mondo (ivi, 13, 38) anzi i pagani gentili sostituiranno praticamente gli Israeliti nel possesso del regno di Dio (ivi, 21, 43).
§ 126. L'ordine seguito da Matteo nella sua composizione è, come già sappiamo, l'«ordinamento» sistematico gradito da Papia (§ 114). Scrivendo per lettori educati nel giudaismo, e avendo a loro riguar­do uno scopo ben definito, Matteo subordina spesso a quell'«ordi­namento» la consecuzione cronologica, e ricorre a procedimenti letterari ch'erano comuni nelle scuole rabbiniche e miravano spe­cialmente a una utilità pratica mnemonica. Come egli raccoglie nei 5 grandi gruppi gia visti i detti di Gesu' (§ 116), così altrove riunisce in gruppi di 5, o di 7 o di 10, ma soprattutto di 3, le sin­gole sentenze o i singoli fatti. Frequente è pure l'applicazione della legge del «parallelismo», fon­damentale nella poesia ebraica, e specialmente del «parallelismo antitetico», per cui a una data affermazione si fa seguire, a guisa di conferma, la negazione del suo contrario. L'intero Discorso della montagna (capp. 5-7), cioè proprio il primo dei 5 gruppi di detti, è tutto una concatenazione di tali procedimenti letterari (§ 320).


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06/08/2012 16:52


[SM=g27998] Luca

§ 135. Il terzo vangelo è attribuito a Luca: nome che forse è una abbrevazione di Lucano. Nel cristianesimo della prima generazione, Luca appare come un sa­tellite dell'astro di Paolo, che lo chiama il caro medico (Coloss., 4, 14). Originario d'Antiochia, non giudeo ma ellenista di stirpe e d'e­ducazione, Luca era entrato nel cristianesimo parecchio prima del­l'anno 50, sebbene certamente non fosse stato discepolo di Gesù e non l'avesse mai veduto. Poco dopo il 50 egli è a fianco a Paolo nel suo secondo viaggio missionario (Atti, 16, 10 segg.), probabilmente anche per prestare la sua opera di medico a causa della recente malattia dell'apostolo (cfr. Galati, 4, 13, con Atti, 16, 6); da quel tempo Luca riappare in quasi tutte le peregrinazioni di Paolo come l'ombra di lui, salvo un distacco probabilmente lungo dopo la co­mune permanenza a Filippi (cfr. Atti, 16, 40, con 20, 5). Ricongiun­tosi con Paolo di nuovo a Filippi durante il terzo viaggio dell'apo­stolo, verso il 57, lo accompagnò nel resto del viaggio fino a Geru­salemme (Atti, 21, 15). Durante il biennio passato da Paolo in prigione a Cesarea (anni 58-60), sembra che Luca non potesse restargli vicino; ma lo accompagnò amorevolmente nel suo viaggio a Roma, partecipando sulla stessa nave alle fortunose peripezie del passaggio (Atti, 27, 1 segg.). Nella prima prigionia dell'apostolo a Roma, Luca gli stava dappresso: più tardi, fedele fino alla morte, lo assisté an­che nella seconda prigionia romana meritandosi da Paolo, in quella lettera ch'è quasi il testamento del declinante apostolo, la commo­vente attestazione: Il solo Luca e' con me (II Tim., 4, 11). Scrivendo ai Corinti, sul finire dell'anno 57, Paolo allude, senza nominarlo, ad un fratello la cui lode e' nel vangelo per tutte le chiese (II' Cor., 8, 18). Insieme con altri antichi, S. Girolamo stimò che questo inno­minato fratello sia appunto Luca, e soggiunge anche l'opinione di altri secondo i quali ogni volta che Paolo nelle sue let­tere dice “secondo il mio vangelo”, alluda al volume di Luca. Se quest'ultima opinone è del tutto infondata, la prima non è molto at­tendibile qualora si riferisca al vangelo scritto da Luca, essendo som­mamente improbabile che questo vangelo fosse già redatto quando Paolo scriveva la lettera in questione: tanto più che giammai altro­ve, nelle Lettere di Paolo, il termine “vangelo” designa un deter­minato scritto, ma solo l'annunzio della “buona novella” (§ 105 segg.). Al contrario, l'identificazione dell'ignoto fratello con Luca può avere un serio grado di probabilità, qualora nel “vangelo” attribui­togli si scorga, non già un determinato scritto, ma l'operosità di chi era “evangelista” nel senso primitivo che già vedemmo (§ 109), ossia propagatore orale della “buona novella”. In tal caso Luca, an­che prima di ricorrere alla scrittura, avrebbe diffuso largamente nel­le chiese dell'apostolato di Paolo una determinata catechesi orale; della quale, nel frattempo, lo stesso Luca riesaminava il contenuto diligentemente (cfr. Luca, 1, 3), per arricchirlo di altri elementi e disporlo in un conveniente “riordinamento” (cfr. in Luca, 1, 1), finché poi giudicò opportuno fissarlo in iscritto. Questa interpretazione appare tanto più verosimile, quanto più pro­babile risulta da recenti studi che Paolo stesso seguisse nel suo apostolato una determinata forma di catechesi, non soltanto orale, ma anche parzialmente scritta. Perciò il fedele Luca sarebbe giusta­mente il più insigne rappresentante, dopo Paolo, di questa catechesi, ossia sarebbe il fratello la cui lode é nella “buona novella” diffusa da Paolo in tutte le chiese da lui fondate.

§ 136. Comunque si giudichi questa ipotesi, a Luca è attribuito sia il terzo vangelo, che mostra spiccata affinità con gli scritti di Paolo, sia il libro degli Atti di (meglio che degli) Apostoli, che tratta in gran parte delle vicende di Paolo e contiene ampi tratti in cui il narratore parla in prima persona plurale, svelandosi perciò anch'egli presente alle vicende narrate. Tale attribuzione a Luca, confermata dall'identità di autore che risulta dai prologhi dei due scritti (cfr. Luca, 1, 1-4, con Atti, 1, 1-2), non solo è concorde presso gli antichi scrittori, ma trova consenzienti - cosa piuttosto rara - anche la massima parte dei più autorevoli studiosi moderni. Le testimonianze, tuttavia, sono posteriori a quelle riguardo a Mat­teo e a Marco, giacché non risalgono più in su della seconda metà inoltrata del secolo Il. Il cosiddetto Frammento Muratoriano, cioè un catalogo dei libri sacri ammessi dalla chiesa di Roma che fu com­posto verso l'anno 180 e scoperto da L. A. Muratori nella Biblioteca Ambrosiana di Milano, cosi si esprime nel suo orrido latino (qua e là corretto): Tertium evangelii librum secundum Lucam. Lucas iste medicus, post ascensum Christi cum eum Paulus quasi ut iuris stu­diosum secum adsumpsisset nomine suo cx opinione conscripsit; Do­minum tamen nec ipse vidit in carne, et ideo prout asse qui potuit, ita et a nativitate Johannis incepit dicere. - Verso lo stesso tempo, Ireneo afferma: Anche Luca, seguace di Paolo, compose in un libro il vangelo predicato da quello. Alla fine del secolo II risalgono anche i vari Prologhi, greci o latini, premessi al terzo vangelo, che vanno sempre più accrescendosi di no­tizie con lo scendere lungo i secoli, pur concordando nella sostanza; di questa può essere un saggio il prologo detto Monarchiano, che dice: Luca Siro, di nazione Antiocheno, medico di professione, discepolo degli Apostoli, piu' tardi fu seguace di Paolo fino alla confessione (martirio) di lui servendo Dio senza delitto. Poiché, non avendo avu­to moglie mai né figli, di anni 74 (altri 84) morì in Bitinia (altri Beozia) pieno di Spirito santo. Costui, essendo già stati scritti i van­geli di Matteo in Giudea e di Marco in Italia, per impulso dello Spirito santo nelle parti di Acaia scrisse questo vangelo, mostrando anch'egli a principio che dapprima erano stati scritti gli altri; ecc. Le successive testimonianze non fanno che confermare questi punti principali (Tertulliano, Adv. Marcio n., jv, 5; Clemente Aless., Stro­mata, I, 21, 145; Origene, in Matt., toin. I, in Migne, Patr. Gr., 13, 830; ecc.): merita tuttavia di essere citato Eusebio, a guisa di ri­capitolatore della tradizione: Luca, ch'era per discendenza di Antio­chia e per arte medico, restò congiunto il piu' a lungo con Paolo, ma anche con gli altri apostoli trattò non incidentalmente Della scienza di guarire le anime ch'e gli aveva appresa da costoro, ci lasciò la pro­va in due libri divinamente ispirati: (in primo luogo) il Vangelo, che egli attesta di aver composto secondo le cose che gli tramandarono coloro che dall'inizio furono testimoni oculari e inservienti della pa­rola, ed alle quali tutte egli dice pure di essere riandato appresso dal principio (cfr. Luca, 1, 1-4); e (in secondo luogo) gli Atti degli Apo­stoli, che egli coordinò per informazione non già di udito ma di ve­duta. Ha il suo peso anche la notizia dataci da Ireneo e da Tertulliano, secondo cui l'eretico Marcione, verso l'anno 140, accet­tava dei vangeli canonici solo quello di Luca, sebbene lo mutilasse adattandolo alle sue dottrine.

§ 137. Le qualità di Luca, ellenista, medico, discepolo di Paolo, si riscontrano abbastanza chiare nel suo vangelo. Il letterato ellenista appare fin dalle prime linee del suo primo scritto le quali, in contrasto con l'uso seguito in tutti gli altri libri del Nuovo Testamento ma conforme all'uso ellenistico, contengono un elaborato prologo questo, inoltre, mostra sorprendenti rassomi­glianze di espressioni e di ripartizioni col prologo che al suo libro Sulla materia medica premetteva quel Pedanio Dioscuride che era non solo collega per professione e contemporaneo per età con Luca, ma essendo nativo della regione di Tarso, era anche conterraneo di Paolo. Il greco di Luca, poi, non è certo quello classico dell'Attica, tuttavia mostra una raffinatezza non comune per uno scrittore elle­nistico: il lessico è ricco e spesso letterario, la frase di solito tornita e dignitosa, cosicché i moderni filologi, proclamando il suo stile su­periore a quello degli altri vangeli, concordano in sostanza con S. Girolamo per il quale Luca inter omnes evangelistas greci eruditis­simus fuit, quippe ut medicus. Non mancano tuttavia i semitismi di costruzione e anche di lessico; i quali sono numerosi specialmente nei due primi capitoli che contengono la narrazione dell'infanzia di Gesù, mostrandosi cosi ivi una più stretta dipendenza del narratore da documenti semitici relativi a quell'argomento. Che lo scrittore del terzo vangelo sia stato un medico, non si potreb­be certamente provare dal semplice esame del suo scritto: tuttavia parecchi sono i tratti che servono da ottima conferma alla primitiva tradizione che lo presenta qual medico. Pazienti ricerche moderne hanno segnalato numerosi termini tecnici impiegati da Luca che hanno riscontro negli scritti di Ippocrate, Dioscuride, Galeno e altri medici greci; è vero che siffatti termini possono riscontrarsi anche presso scrittori profani che affettino occasionalmente conoscenza di materie mediche (ad esempio, presso Luciano), ma il caso di Luca è diverso, giacché egli non aveva motivi particolari per introdurre quella terminologia tecnica nelle narrazioni comuni agli altri Sinot­tici, salvo la ragione d'essere egli stesso medico. Si può anche scoprire che una specie di “occhio clinico” guida il narratore in talune sue descrizioni, specialmente se si confrontino con quelle parallele di Marco: la semeiotica è curata in modo partico­lare nei racconti della suocera di Pietro malata (4, 38-39), dell'inde­moniato dei Geraseni (8, 27 segg.), della donna con profluvio di san­gue (8, 43 segg.), del giovanetto indemoniato (9, 38 segg.), della don­na ricurva (13, li segg.). Il solo Luca narra il sudore di sangue sof­ferto da Gesù nel Gethsemani (22, 44). Nel caso poi della donna con profluvio di sangue è palese in Luca una benigna preoccupazione pro domo sua in favore della classe dei medici; infatti Marco (5, 25-26) rudemente annunzia che la don­na era malata da dodici anni e molto aveva sofferto da parte di molti medici, e dopo aver consumato tutte le sue sostanze non aveva tratto alcun giovamento, ma piuttosto era andata peggio: Luca al con­trario (8, 43, testo greco) omette siffatte notizie, che non potevano esser gradite dai suoi colleghi di professione, e si limita a dire che la donna era malata da dodici anni, né era stata potuta curare da alcuno.

§ 138. Infine il calamo di Luca, più che quello degli altri evangeli­sti, si diletta a delineare Gesù come supremo medico, sia dei corpi sia delle anime. Luca solo lo fa chiamare dai suoi compaesani medico (4, 23) in atto di sfida: ma poco appresso. quasi in risposta alla sfida, ricorda che una potenza emanava da lui e medicava tutti (6,19; cfr. 5, 17). Spiritualmente, poi, il Gesù tratteggiato da Luca è il misericordioso curatore dell'umanità languente, il pio conforta­tore degli afflitti, il mansueto che perdona ai più traviati: onde con ogni appropriatezza storica Dante Alighieri definisce Luca, pur sen­za nominarlo, come lo scriba mansuetudinis Christi (De monarchia, I, 16). Non meno chiaramente appare nello scritto di Luca il discepolo di Paolo. Una specie di parentela spirituale riannoda il suo scritto con le Lettere di Paolo: molti vocaholi, circa un centinaio, si ritrovano soltanto presso Luca e presso Paolo in tutto il Nuovo Testamento; non rare sono anche frasi tipiche, particolari ai due autori. Ma, più che dalla veste letteraria, la parentela è dimostrata dal pensiero, che insiste sui grandi principii della catechesi di Paolo, quali l'uni­versalità della salvezza operata da Gesù, la “bontà e filantropia”(Tito, 3, 4) di lui, il pregio dell'umiltà e della povertà, la potenza della preghiera, il gaudio di spirito proprio ai fedeli, e altri. Certa­mente questi principii non sono espressi letteralmente conforme a parole di Paolo, giacché Luca non era riguardo a costui quell'e inter­prete che Marco era stato riguardo a Pietro; essi sono tuttavia i lu­minosi fari che dirigono la navigazione di Luca, secondo l'immagine usata già da Tertulliano che vide Luca e illuminato » da Paolo.

§ 139. Quando scrisse Luca il suo vangelo? Certamente dopo gli altri due Sinottici, come afferma la quasi costante tradizione antica che assegna Luca al terzo posto nella serie cronologica dei vangeli: dunque dopo Marco, che non è posteriore all'anno 61. D'altra par­te Luca ha scritto il vangelo prima degli Atti degli Apostoli, i quali nel prologo stesso si richiamano esplicitamente al precedente vangelo (Atti, 1, 1). Alla loro volta gli Atti, secondo ogni verosimiglianza e conforme al parere largamente predominante fra gli studiosi mo­derni, sembrano scritti avanti alla liberazione di Paolo dalla sua pri­ma prigionia romana (cfr. Atti, 28, 30), e quindi anche avanti alla grande persecuzione di Nerone del 64, cioè, tutto considerato, fra gli anni 63 e 64. Anteriore agli Atti, sebbene di poco tempo, sarebbe dunque il vangelo di Luca. E’ assai probabile che il vangelo ricevesse forma definitiva e vedesse la luce in Roma, piuttosto che in Acaia, o in Egitto, o altrove, come vorrebbero altre oscillanti tradizioni antiche. Pare certo, infatti, che Luca abbia conosciuto ed impiegato il vangelo di Marco, comparso a Roma poco prima che Luca vi giungesse insieme col prigioniero Paolo (cfr. Coloss., 4, 10. 14; Filem., 24). D'altra parte Luca da lungo tempo stava preparandosi alla composizione del suo vangelo e andava raccogliendo materiali per esso, come risulta dal prologo. La sua assistenza al venerato prigioniero, prolungatasi non meno d'un biennio, e la conoscenza del recente scritto di Marco cordialmente accolto dalla cristianità di Roma, dovettero essere due opportune occasioni per Luca onde colorire il suo antico disegno, spingendolo a scrivere in Roma stessa il suo vangelo.

§ 140. Luca indirizza il suo vangelo a una determinata persona, Teofilo, a cui in seguito indirizzerà anche gli Atti; era un attestato di deferenza dedicare uno scritto ad un uomo insigne, e l'uso sarà seguito un trentennio più tardi in Roma stessa anche da Flavio Giu­seppe, che dedicherà ad Epafrodito le sue Antichita giudaiche (1, 8) e il suo Contra Apionem. Il Teofilo di Luca è chiamato, che può equivalere al nostro “eccellentissimo” e designerebbe il grado insigne dell'uomo: ma altro non sappiamo di lui, nonostante le molte congetture antiche e moderne. Ad ogni mo­do, se lo scritto è dedicato a Teofilo, Luca scorge anche dietro a costui molti altri lettori ai quali egualmente s'indirizza. Il prologo a Teofilo, dando occasione a Luca d'esporre le circostan­ze, lo scopo e il metodo del suo scritto, è di sommo valore storico; si può ben chiamare il più importante documento che riguardi diretta­mente il periodo di composizione dei vangeli sinottici. E’ quindi op­portuno riportarlo per intero in traduzione che sia fedele, per quanto è possibile, anche etimologicamente (Luca, 1, 1-4): Poiché molti misero mano a riordinare una narra­zione circa i fatti compiutisi fra noi, secondo che tramandarono a noi coloro che dall'inizio furono testimoni oculari e inservienti della parola: parve bene anche a me, che sono riandato appresso dal principio (o anche da lungo tempo) a tutte le cose diligen­temente, scrivere a te secondo consecuzione, eccellentis­simo Teofilo, affinché tu riconosca la stabilita' dei discorsi circa i quali fosti catechizzato. Non torniamo sopra alcune notizie che già estraemmo da questo passo: fra cui, che già prima di Luca molti avevano scritto sui fatti di Gesù; che siffatti scritti dipendevano dalla trasmissione orale dei testimoni oculari e degli inservienti della parola, ossia dalla primitiva catechesi della Chiesa (§ 106 segg.). Qui, come fatti nuovi, rileviamo che Teofilo già era stato edotto in quella catechesi, e forse in ma­niera compiuta (come sembra indicare 1'aoristo fosti catechizzato): e perciò, probabilmente, già era battezzato. Inoltre Luca, per for­nire a Teofilo una conferma ed una conoscenza più profonda dei discorsi in cui è stato catechizzato, gli offre il suo scritto, frutto di ricerche che sono state fatte diligentemente su tutte le cose trattate e che sono state condotte fin dal principio dei fatti (o almeno da lungo tempo). Infine la narrazione dei fatti sarà condotta secondo consecuzzone. I molti che hanno preceduto Luca non possono essere due soltanto, cioè Matteo e Marco noti a noi: il termine molti può far pensare, all'ingrosso, anche a una decina di scritti, benché in questo numero possano benissimo esser compresi anche i due noti a noi. Ma, anche fra questa abbondanza, Luca ha creduto di poter esser utile con un nuovo scritto: egli non è stato testimonio dei fatti, ma le diligen­ti e lunghe ricerche che ha condotte nell'unica miniera di notizie, cioè la trasmissione dei testimoni oculari e degli inservienti della pa­rola, gli fanno sperare che il suo nuovo scritto gioverà ad altri per approfondire la stabihtà dei discorsi catechetici. Il tipo di catechesi seguito da Luca è, come già sappiamo, quello di Paolo. Perciò egli aggiungerà qualche cosa al quadro ordinario della catechesi di Pietro, che cominciava col battesimo di Gesù da parte di Giovanni il Battista; e poiché è riandato appresso dal prin­cipio agli avvenimenti, premetterà la narrazione dell'infanzia di Ge­sù, come già aveva fatto in misura minore anche Matteo. Tutta l'esposizione, poi, sarà secondo consecuzzone, comprendendo in questa parola - a quanto pare - sia la connessione cronologica dei singoli fatti tra loro e con altri fatti più eminenti nella storia profana, sia anche la connessione logica tra cause ed effetti e tra argomenti af­fini. Per quanto possiamo comprendere noi oggi, con la nostra men­talità e con le scarse informazioni che abbiamo, Luca si è attenuto effettivamente a questo suo programma.

§ 141. Egli solo, fra tutti gli evangelisti, ha cura di riconnettere la narrazione con le principali date della storia profana contemporanea (cfr. 2,1-2; 3, 1-2), inquadrando il fatto cristiano nella visione del­l’umanità intera. In ciò egli si dimostra d'ampia visione, che acu­tamente percepisce come il cristianesimo apra una nuova epoca nelle vicende dell'umanità: nella stessa guisa, già due secoli prima, Poli­bio aveva fatto rilevare proprio al principio delle sue Storie come il dominio di Roma iniziasse un nuovo periodo nella storia della civiltà. Ma, insieme, Luca si dimostra nuovamente discepolo di quel Paolo, che nell'espansione della “buona novella” fra tutte le genti aveva scorto il mistero occultato ai secoli ed alle generazioni, ma che adesso e' stato svelato ai santi (Coloss., 1, 26). Quanto alla serie cronologica dei fatti in se stessi Luca segue di so­lito Marco, tanto da sembrare che il brevissimo scritto di Marco sia servito a Luca come trama generale: infatti, circa i tre quinti di Marco si ritrovano in Luca. Tuttavia, pur seguendo la trama di Marco, Luca vi opera talune trasposizioni ed omissioni, e soprattutto vi apporta ampie aggiunte: infatti, circa la metà di Luca è propria a questo vangelo, né si ritrova negli altri due Sinottici. In queste aggiunte sono inclusi sette miracoli e una ventina di parabole che non hanno riscontro negli altri vangeli, e soprattutto il racconto della nascita e infanzia di Gesù ch'è diverso da quello di Matteo. Evidentemente queste novità sono frutto delle diligenti ricerche a cui Luca allude nel prologo: ma donde ha egli ricavato tali notizie?

§ 142. Lo stesso prologo indica come fonte la tradizione, senza però specificare; non è difficile tuttavia scorgere, fra i testimoni oculari e gli inservienti della parola, in primo luogo il venerato maestro Pao­lo, e poi anche altre insigni persone che Luca, viaggiando con Paolo, può avere incontrato ad Antiochia, in Asia Minore, in Macedonia, a Gerusalemme, a Cesarea e a Roma: fra questi autorevoli infor­matori non è arrischiato annoverare gli apostoli Pietro e forse anche Giacomo (cfr. Atti, 21, 18), nonché l'”evangelista” Filippo presso cui in Cesarea dimorò Luca (cfr. Atti, 21, 8); non sono esclusi anche altri, circa i quali tuttavia sarebbe inutile perdersi in semplici congetture. Notevole è la menzione particolareggiata di donne: avevano seguito Gesù talune donne ch'erano state curate da spiriti maligni e infer­mità, Maria quella chiamata Magdalena, dalla quale erano usciti sette demoni, e Giovanna moglie di Chuza sovrintendente di Erode, e Susanna e molte altre, le quali ministravano ad essi dalle loro proprie sostanze (Luca, 8, 2-3; cfr. 24, 10). Né Giovanna nè Susan­na sono nominate da altri evangelisti, benché fossero donne di alto grado sociale e facoltose; probabilmente Luca, menzionandole, vuole con discrezione indicare una fonte delle sue informazioni. Non meno discreta, ma assai più precisa, è l'allusione a un'altra donna d'incomparabile dignità e importanza, cioè alla stessa madre di Gesù. Di parecchi fatti narrati da questo vangelo circa il concepi­mento, la nascita e l'infanzia di Gesù, soltanto sua madre Maria po­teva essere testimone ed informatrice; ed ecco che Luca durante quella narrazione, per due volte, e a breve distanza, e quasi con gli stessi termini, ammonisce che Maria conservava tutte queste parole, convolgendole nel suo cuore (2, 19), e poco appresso che la madre di lui serbava tutte le parole nel suo cuore (2, 51). Questa insistenza di pensiero e di espressione è eloquente nella sua ponderata discre­zione. Se Luca abbia conosciuto o no Maria personalmente, non risulta: ma anche nel caso che non le abbia parlato, precise infor­mazioni fornite da lei gli possono essere peivenute attraverso l'apo­stolo Giovanni, il figlio adottivo assegnato a Maria da Gesù moren­te e nella cui casa ella dimorò dopo la morte del figlio vero (Gio­vanni, 19, 26-27). Una tardiva tradizione, non attestata prima di Teodoro il Lettore (secolo vVI, presenta Luca come pittore d'un ri­tratto di Maria, il quale dalle leggende posteriori fu largamente moltiplicato: ma il ritratto della madre di Gesù fu in realtà dipinto dal calamo, non dal pennello, di Luca nella sua descrizione dell'in­fanzia di Gesù, che si svolse sotto lo sguardo della madre sua e i cui vari episodi divennero più tardi temi classici dei pittori cristiani. E’ inoltre assai probabile che per il racconto dell'infanzia, il quale contiene fra altro carmi metrici, Luca si sia servito anche di docu­menti ebraici o aramaici; la sua stretta dipendenza da essi spiegherebbe adeguatamente la straordinaria frequenza di semitismi nel greco di questo racconto. Ma pure sull'indole e provenienza di questi documenti. nulla si può affermare di sicuro, oltre a ciò che Luca stesso dice vagamente nel prologo; né le varie congetture moderne possono supplire a questa mancanza di dati antichi.

§ 143. Luca non scrive soltanto per Teofilo, ma anche per i cristia­ni che si trovano più o meno nelle condizioni di spirito del destina­tario. Sono i cristiani delle chiese fondate da Paolo, composte in pre­valenza da fedeli provenienti dal paganesimo; del resto già Origene aveva notato che il vangelo di Luca era per quelli (provenienti) dai gentili. Aggiunge infatti spiegazioni che sarebbero state superflue per lettori giudei, ad esempio che la festa giudaica degli Azimi si chiamava Pasqua (Luca, 22, 1); e invece tralascia cose che sarebbero state fraintese da chi proveniva dal gentilesimo, come il precetto dato da Gesù agli Apostoli di non andare per la via dei gentili (Matteo, 10, 5: precetto non riportato neppure da Marco, per la stessa ragione di Luca). Altre volte attenua espressioni che sonavano troppo dure per gentili, come quando invece di dire non fanno ciò anche i gentili? (Matteo, 5, 47) dice fanno ciò anche i peccatori (Luca, 6, 33); per la stessa preoccupazione di delicatezza aggiunge, invece, fatti partico­lari che risultavano a onore dei gentili, come la buona accoglienza fatta da Giovanni il Battista ai soldati (3, 14), la generosità del cen­turione verso di Giudei (7, 4-5), e perfino la carità e la gratitudine che si potevano ritrovare presso gli aborriti Samaritani (10, 33-35; 17, 15-18). Soprattutto poi, lo scritto di Luca vuol essere la “buona novella” della bontà e della misericordia. Il discepolo di Paolo, che si rivolge ai cristiani di Paolo, dipinge Gesù non solo come salvatore di tutti gli uomini indistintamente, ma come amico in modo particolare dei piu' traviati, dei più umili e diseredati sulla terra. Se questa presen­tazione di Gesù quale supremo medico spirituale indusse Dante a designare Luca quale scriba mansuetudinis Christi (§ 138), indusse pure il Renan a definire questo vangelo il piu' bel libro che esista: nella quale definizione l'iperbole abituale nello scrittore francese ha molto minor parte che in altri giudizi di lui. La parabola del figliuol prodigo, miracolo letterario di potenza psicologica, è riferita dal solo Luca. Soltanto Luca fa che il pastore si metta proprio sulle spalle la ritrovata pecora perduta e giunto a casa ne faccia gran festa con gli amici (15, 5-6; mancante in Matteo, 18, 13); come pure soltanto Luca parla della donna che ritrova la dramma perduta, e che se ne rallegra con le amiche come si fa gaudio al cospetto degli angeli d'iddio per un solo peccatore che si penta (Luca, 15, 8-10). Non altri che Luca riporta le parole di Gesù morente Padre, perdona loro, perché non sanno che cosa fanno!, e subito appresso quelle altre con cui il morente promette il paradiso al ladrone pen­tito che gli agonizza a fianco (23, 34.43).

§ 144. Anche da un altro aspetto appare l'indole vera dello scritto di Luca. Si ripensi qual era, nella sua realtà, la società in mezzo a cui vivevano i lettori di questo vangelo. A Roma stessa insieme con Luca abitava Seneca, il quale tranquilla­mente affermava che la donna impudens animai est et... ferum, cu­piditatum incontinens (De constantia sapientis, xiv, 1); un altro con­temporaneo abitante dell'Urbe era Petronio l'Arbitro autore di quel Satiricon che, se è il libro piu' cinicamente osceno trasmessoci dalla romanità classica, è anche fedele specchio del fasto orienta­lesco riserbato in quella società ad alcuni pochi, fra moltitudini sterminate di proletari e di schiavi. Eccezioni non saranno mancate: ma non potevano esser molte, e ad ogni modo erano più teoretiche che pratiche. Appunto il “Seneca morale”, mentre ragionava egre­giamente di virtù civili ed umane, definiva la donna nella maniera testé vista; e mentre dettava la sentenza di sapore cristiano parem autem deo pecunia non faciet: deus nihil habet... nudus est (Epist., 31, 10), confessava davanti a Nerone di possedere immensam pecunium e di fare l'usuraio, dimostrando di non avere alcuna voglia di restar nudo come il suo Dio. Era insom­ma la società esattamente riassunta da quel Claudio Secondo, che aveva scritto sulla propria tomba: Balnea vina venar corrumpunt corpora nostra, sed vitam faciunt bainea vina venus. Era la società in cui imperava, quasi assoluto, il binomio “lussuria e lusso”. In antitesi perfetta all'indole di quella società è l'indole dello scritto di Luca, che è il vangelo di esaltazione per la donna, di encomio per la povertà, di laude per la giocondità della vita semplice ed umi­le: uno scritto che si può riassumere nel binomio “purità e po­vertà”, non senza aggiungervi quello spirito di perfetta letizia che si sarebbe tentati di definire francescano, se già dapprima non fosse stato tipicamente lucano. Le donne del vangelo di Luca, mentre hanno una probabile parte come informatrici, ne hanno certamente una molto onorevole come attrici. Oltre a figure di primo piano, quali Maria madre di Gesù ed Elisabetta madre di Giovanni il Battista, il solo Luca presenta la profetessa Anna (2, 36-38), la vedova di Naim (7, i 1 segg.), la peccatrice anonima (7, 37 segg.), la donna ricurva (13, 10 segg.), l'altra donna che proclama beata la madre di Gesù (2, 27-28), la massaia Marta (10, 38 segg.), le donne della via dolorosa (23, 27 segg.): i quali ritratti femminili saranno di molto accresciuti nei successivi Atti, costituendo nell'insieme una pinacoteca che mette la donna in una luce affatto diversa da quella della contemporanea società pagana.
§ 145. Insieme con la purità, il vangelo di Luca esalta la povertà. Mentre il Discorso della montagua in Matteo ripete nove volte la felicitazione Beati...!, Luca la ripete solo quattro volte, ma in com­penso aggiunge quattro volte la maledizione Guai...!, che è indirizzata tutte e quattro le volte ai ricchi e gaudenti (6, 20-26); cosi pure, mentre la prima felicitazione è rivolta in Matteo ai poveri in ispirito, da Luca è. rivolta ai poveri semplicemente. In armonia con ciò il solo Luca ricorda espressasnente la bassezza della madre di Gesù (1, 48) e la povertà della sua of­ferta al Tempio (2, 24), la squallida nascita di Gesù a Beth-lehem e la miseria dei garzoni di greggi che furono i suoi primi adoratori; dal solo Luca è riferito che Gesù, parlando nella sinagoga di Na­zareth, applicò a se stesso le parole di Isaia: “Lo spirito del Signore e' su me: perciò mi unse per evangelizzare ai poveri” (4, 18); e se Luca riporta insieme con Matteo le parole di Gesù: Le volpi hanno le tane... ma il figlio dell'uomo non ha dove posare il capo (9, 58), egli solo ci dice che alcune facoltose donne gli apprestavano il ne­cessario dalle proprie sostanze (8, 3). Anzi nello scritto di Luca af­flora cosi frequentemente l'esaltazione della povertà, che qualche studioso moderno ha creduto riscontrarvi l'influenza della antica setta degli Ebioniti (“poveri”), costituita da cristiani provenienti dal giu­daismo; ma appunto tale provenienza basterebbe ad escludere quel­l'influenza da uno scritto come questo, del tutto alieno dallo spirito giudaico e animato invece da spirito universalistico, mentre l'avversione alle ricchezze è adeguatamente spiegata dalla reazione al­l'indole della contemporanea società pagana. Conseguenza della predilezione per la purità e per la povertà sem­bra essere quello spirito di giocondità serena, quasi poetica, che aleggia su questo vangelo. Già S. Paolo aveva raccomandato ai suoi fedeli: Gioite nel Signore sempre; nuovamente dico: Gioite! (Filipp., 4, 4), tornando anche altrove con parole identiche o equivalenti sulla stessa raccomandazione: Gioite sempre! (I Tessal., 5, 16; cfr. Romani, 12, 12; ecc.). La ragione di questa gioia era che il regno di Dio... e giustizia e pace e gaudio nello Spirito santo (Rom., 14, 17), e che il frutto dello Spirito e' amore, gaudio, pace, ecc. (Galati, 5, 22). Anche in ciò il discepolo va appresso al maestro. Il vangelo di Luca, nei due primi capitoli, contiene singolari espressioni di questo gaudio spirituale, cioè quattro composizioni metriche (Magnificat; Benedictus; Gloria in altissimis; Nunc dimittis) non reperibili negli altri vangeli; infine tutto lo scritto termina narrando come gli Apo­stoli, dopo aver assistito all'ascensione di Gesù, tornarono a Gerusalemme con gaudio grande, e stavano del continuo nel tempio benedicendo iddio (24, 52-53). E cosi' lo scriba mansuetudinis Christi diventa anche il giullare di Dio nella perfetta letizia.

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06/08/2012 16:56


La questione sinottica

§ 146. I tre vangeli fin qui visti, Matteo, Marco e Luca, sono chia­mati fin dal principio del secolo XVIII sinottici, per la ragione che, se i loro testi siano disposti in colonne affiancate, se ne possono scor­gere subito con uno sguardo collettivo (“smossi”) le moltissime somiglianze che li collegano fra loro, pur non essendo testi identici. Insieme con le somiglianze, infatti, vi si ritrovano anche discrepanze; le quali tuttavia non riescono a cancellare l'impressione di una so­stanziale uguaglianza, cosicché in complesso viene piuttosto da pen­sare ad una concordia discors. La concordia dei Sinottici si rileva sia dagli argomenti trattati, sia dall'ordine nel trattarli, sia anche dalle parole ed espressioni impie­gate. L'argomento comune dei Sinottici è costituito dall'inaugura­zione della vita pubblica di Gesù, dal suo ministero prima in Galilea suo centro a Cafarnao e poi in Giudea, e dagli avvenimenti del­l'ultima settimana della sua vita comprese la morte e la resurrezio­ne (§ 113); a questo fondo comune Matteo e Luca premettono i fatti dell'infanzia, su cui Marco tace del tutto. Anche nell'ordine con cui sono presentati i singoli fatti del fondo comune, esiste una certa concordia, riscontrandosi una generica cor­rispondenza fra le rispettive sezioni di quel fondo, specialmente fra Marco e Luca, mentre Matteo spesso offre raggruppati fatti e sen­tenze che gli altri due offrono separati. Infine frequenti sono i passi in cui tutti e tre i testi procedono con le stesse identiche parole, di guisa che, letto uno di essi, si sono letti gli altri due; e ciò anche in casi in cui occorrono vocaboli rari (Matteo, 19, 23; Marco, 10, 23; Luca, 18, 24) o impiegati in accezioni rare in senso di rattoppo; Mt., 9, 16; Mc., 2, 21; Lc., 5, 36), ovvero com­paiono frasi peregrine (figli della camera nuziale, cioè paraninfi; Mt.,93 15; Me., 2, 19; Lc., 5, 34) o altre espressioni singolari; talvolta Stutti e tre, in piena concordia fra loro, citano qualche passo del­l'Antico Testamento in forma tale che discorda sia dal testo ebraico sia da quello greco dei Settanta.

§ 147. Ma questa concordia fondamentale è nello stesso tempo di­scors in molti particolari. Anche prescindendo dai passi propri a un solo Sinottico, troviamo che talvolta due trattano in maniera del tutto diversa uno stesso argomento, ad esempio l'infanzia di Gesù (Matteo, 1, 18 - 2, 23; Luca, I, 5 - 2, 52) e la genealogia di lui (Matteo, 1, 1-17; Luca, 3, 23-38); lo stesso Discorso della montagna, lunghissimo in Matteo (capp. 5-7) e molto più breve in Luca (6, 20-49), ha divergenze fin dal principio con l'enumerazione delle bea­titudini. Anche nell'ordine di narrazione, pur astraendo dalla diversità di raggruppamento di fatti e sentenze, compaiono discordanze diffi­cili a spiegarsi: ad esempio, mentre nella narrazione della passione la corrispondenza delle parti è quasi costante, subito appresso com­paiono divergenze circa l'ordine delle apparizioni di Gesù risorto. Frequenti sono pure i casi di divergenze fra passi in tutto il resto paralleli. Queste divergenze possono essere soltanto verbali, come quando in una narrazione che procede assolutamente identica presso tutti e tre, uno di essi sopprime una o più parole, oppure le aggiunge, oppure le sostituisce con altre quasi sinonime: valga come esempio, fra molti altri, la narrazione della visita fatta a Gesù dai suoi parenti: Matteo, cap. 12 Marco, cap. 3 Luca, cap. 8 Ancora parlando egli alle folle ecco la madre e i fra­telli di lui stavano fuori, cercando di parlargli. Ora, uno disse a lui: Ecco la madre tua e i fratelli tuoi fuori stanno cercando di parlare a te. Ma egli rispondendo disse a chi gli parla­va: Chi è la mia madre e chi sono i fratelli miei? E stendendo la mano sua sui discepoli suoi, disse: Ecco la madre mia e i fratelli miei! E vengono la madre di lui e i fra­telli di lui, e fuori stando mandarono a lui chia­mandolo. E sedeva attorno a lui folla; e dicono a lui: Ecco la madre tua e i fratelli tuoi (e le sorelle tue) fuori cercano te. E rispondendo loro di­ce: Chi è la madre mia e i fratelli? E guardato attorno a quelli che attorno a lui in circolo sedevano, di­ce: Ecco la madre mia e i fratelli miei! Ora, si presentò a lui la madre e i fratelli di lui, e non potevano congiungersi con lui per la folla. Ora, fu annunziato a lui: La madre tua e i fratelli tuoi stanno fuori volendo vedere te. Ma egli rispondendo disse verso quelli: Madre mia e fratelli miei Chiunque infatti faccia la volontà del Padre mio ch'è nei cieli egli è mio fratello e sorella e madre. Chi faccia la volontà d'Iddio, costui è fratello mio e sorella e madre. costoro sono, che la parola d'Iddio ascoltano e fanno. Ma talvolta le divergenze non sono soltanto di parole, bensì si estendono anche al pensiero: come quando in Matteo (10, 10) e Luca (9, 3) Gesù proibisce agli Apostoli di portare in viaggio alcun­ché neppure il bastone, mentre in Marco (6, 8) proibisce di portare alcunché salvo il bastone soltanto; oppure come quando, nella re­gione dei Gadareni o dei Geraseni, sono liberati due indemoniati secondo Matteo (8, 28-34), ma uno solo secondo Marco (5, 1-20) e Luca (8, 26-39); e parimente sono due i ciechi sanati presso Gerico secondo Matteo (20, 29-34), ma è uno solo di nuovo presso Marco (10, 36-52) e Luca (18, 3543); ai quali esempi, di divergenze concettuali, se ne potrebbero aggiungere vari altri. Ecco, dunque, la questione: è da spiegarsi come sia sorta questa concordia la quale, se talvolta è discors nel suo interno, appare tanto più concors vista dall'esterno, se si confronta con l'unico vangelo non sinottico, Gio­vanni, ch'è di tutt'altra indole e di tenore ben diverso.

§ 148. La questione è dibattutissima, e si può dire che da più di un secolo sia il principale problema su cui si sono concentrate le in­vestigazioni degli studiosi del Nuovo Testamento. Le soluzioni e le ipotesi che ne sono scaturite sono moltissime, e a presentarle e di­scuterle tutte sarebbe necessario un ampio studio speciale: il quale, poi, avrebbe un valore quasi soltanto retrospettivo, giacché la massi­ma parte di quelle soluzioni sono oggi abbandonate. Fino a pochi anni addietro la soluzione più in voga, ritenuta come un assioma della cosiddetta Scuola liberale (§ 203 segg.), era che i tre Sinottici dipendano da due documenti scritti: il primo sarebbe una raccolta contenente soltanto “detti” o “discorsi” di Gesù, e precisamentte la raccolta che Papia chiama dei Logia e at­tribuisce all'apostolo Matteo (§ 114); il secondo documento sareb­be il vangelo di Marco, o in una forma primitiva o in quella nostra odierna, contenente in prevalenza miracoli e altri fatti di Gesù. Con ciò, l'origine di Matteo è indipendente; l'origine degli odierni van­geli di Matteo (che non sarebbe di questo apostolo) e di Luca è spiegata come una doppia fusione della massima parte dei Logia con parte dei fatti narrati da Marco, pur ammettendosi che nochi altri elementi siano stati desunti altrove, e che nella scelta dei ma­teriali ciascun evangelista si sia lasciato guidare dallo scopo par­ticolare a cui mirava. Oggi questa soluzione, pur avendo tuttora largo seguito, non è cosl incontrastata come nell'addietro. Il nuovo indirizzo dato dal cosid­detto Metodo della storia delle forme (§ 217), che ha avuto il me­rito di richiamare l'attenzione sull'importanza del periodo prepara­torio dei vangeli canonici (§ 110 segg.), trova che la suddetta soluzione è troppo semplice ed elementare essendo insufficienti due soli documenti a rappresentare l'ampia produzione di quel periodo, e che ad ogni modo accanto a tutta una serie di documenti scritti si deve supporre tutta una serie di testimonianze orali.

§ 149. In realtà, quasi tutte queste varie soluzioni, piu' che ispirarsi alle attestazioni pure e semplici dei documenti antichi, sono guidate da principii aprioristici moderni, e tradiscono la preoccupazione di adattare forzatamente quelle attestazioni a questi principii. Scendendo al caso pratico, i Logia di Papia non sarebbero affatto il nostro Matteo. Ora, questo assioma, fondamentale nella teoria dei due documenti, non solo non è stato mai dimostrato con argomenti storici, ma ha contro di sé tutta l'attestazione dell'antichità, la quale ha sempre ritenuto che ai Logia corrisponda il nostro Matteo: ciò fino al mese di ottobre del 1832, allorché per la prima volta lo Schle­iermacher negò questa corrispondenza, non però in forza di testi­monianze storiche nuovamente scoperte, bensi in forza dei suoi parti­colari principii filosofici. Un altro criterio fondamentale per la suddetta teoria è che Marco, brevissimo fra tutti i vangeli, deve essere il primo e più antico, per­ché i racconti d'argomento religioso tenderebbero sempre ad aumen­tare il patrimonio delle loro narrazioni, non già a diminuirlo. Ma anche questo è un principio aprioristico, e lo troviamo nettamente smentito proprio dai documenti giudaici (per tralasciare quelli di altre nazioni). Perché Marco non poté essere un riassunto di altro scrit­to - come già apparve a S. Agostino (De consensu evangel., 1, 2, 4) - se già le ebraiche Cronache erano state un riassunto dei precedenti libri di Samuele-Re e di altri documenti, e se il libro Maccabei era stato un riassunto dei cinque libri di Giasone di Cirene? Nello stesso campo del Nuovo Testamento, non avviene forse che l'ultimo dei Sinottici, Luca, benché tante volte aggiunga, molte altre volte invece riassume? Se infine i cristiani dei primi due secoli compone­vano per uso privato quegli estratti di sentenze evangeliche, di cui ci sono pervenuti frammenti nei papiri d'Egitto (§ 100), non poteva anche Marco compiere un estratto alquanto più ampio, da lui giu­dicato opportuno per un determinato ceto di cristiani? Risparmiando perciò le congetture avventurose e le adattazioni for­zate, vediamo brevemente fino a qual punto le testimonianze anti­che e i rilievi moderni possano far luce in questa intricatissima que­stione.

§ 150. Le testimonianze storiche ci hanno già detto che dei Sinottici è cronologicamente primo lo scritto semitico di Matteo, corrispon­dente sostanzialmente al nostro Matteo greco, e che il secondo è Marco e il terzo Luca. Ma vedemmo anche che questi tre scritti hanno una preistoria, rappresentata da quel venticinquennio circa in cui dominava la catechesi orale, e che di quella catechesi i tre scritti sono sotto diversi aspetti uno specchio (§ 110). Rilevammo anche che l'ultimo dei Sinottici ha trovato prima di sé molti altri scritti sullo stesso argomento, dei quali anch'esso si è servito, pur volendo aggiungere alcunche al contenuto di quelli (§ 140): c'erano infatti tuttora altre notizie extravagantes, giacché qualche decennio dopo che erano apparsi i tre Sinottici e i molti scritti anonimi, fu composto il vangelo di Giovanni, che dà moltissime informazioni nuove. Ora da questo mare, per noi cosi poco esplorato, come mai è avvenuto che i tre Sinottici abbiano estratto quasi sempre le me desime perle, e non altre, allineandole per di più in una serie quasi sempre uguale? Jn altre parole, donde la concordia dei tre scritti? Presso i Semiti aveva parte principalissima nell'insegnamento, spe­cialmente religioso, la memoria, alla quale unicamente restò affidato per molto tempo un ampio materiale didattico che solo più tardi fu messo in iscritto: fra molti esempi che si potrebbero recare, basti qui ricordarne uno non ebraico, ma classico nel campo semitico e po­steriore all'epoca dei vangeli, cioè il Corano; il quale non fu messo in scritto da Maometto, ma restò per circa una generazione affidato unicamente alla memoria dei suoi discepoli, pur conservandosi con fedeltà verbale. Si è quindi pensato che qualcosa di simile sia avve­nuto per i Sinottici: essi dipenderebbero tutti e tre da un corpo d'insegnamenti orali fissati alla lettera, ossia dalla catechesi aposto­lica, che sarebbe stata messa in iscritto più o meno ampiamente da ognuno di essi sempre con fedeltà verbale, in maniera analoga a quanto avvenne per il Talmud (§§ 87, 106). Senonché, pur essendo innegabile l'importanza della memoria sia presso i Semiti in genere sia nella primitiva catechesi cristiana, la suddetta spiegazione appare troppo elementare e meccanica. Secondo essa bisognerebbe supporre - si permetta il ricorso ad un paragone moderno - un'ampia serie di immateriali dischi fonogralici corrispondenti ciascuno a un tratto speciale della catechesi, e che sarebbero stati fatti funzionare di volta in volta sempre con precisione meccanica. E chi avrebbe preparato questa impalpabile discoteca? Certamente il collegio degli Apostoli. E in quale lingua? Certamente in aramaico, allora corrente in Pa­lestina. Ma è dimostrato tutto ciò?

§ 151. Checché sia della possibilità astratta, se ci volgiamo ai fatti concreti, cioè ai documenti, apprendiamo che una raccolta di tal genere fu bensì preparata dal collegio degli Apostoli, ma essa non consiste in una discoteca immateriale, bensì in una scrittura reale, cioè nello scritto di Matteo (§ 117). Questo documento ufficiale non assorbì certamente tutta la catechesi orale, la quale continuò a vivere con largo e fondamentale impiego della memoria; ma nes­suna prova abbiamo per asserire che la catechesi orale avesse una forma cosi precisa verbalmente, cosi stereotipata, com'è la forma di una scrittura: anzi siamo indotti a pensare proprio il contra­rio da quelle libertà avvenute nella traduzione dal testo semitico di Matteo, e da quelle divergenze verbali dei vangeli greci, che già rilevammo (§§ 121-122). Se dunque i Sinottici sono concordi perché dipendono da una forma di catechesi fissata a parola, tale fissazione non deve essere stata orale bensi scritta. A questa conclusione conducono anche i rilievi letterari fatti con­frontando il testo dei Sinottici (§ 146). Senza dubbio la primissima catechesi orale degli Apostoli fu in lingua aramaica: ma allora come mai almeno Marco e Luca, che hanno scritto originariamen­te in greco, tradurrebbero da quel fluttuante patrimonio verbale con tanta concordia di vocaboli, di espressioni, di costruzioni gramma­ticali, anche in cose minutissime? E come mai, al contrario, discor­dano inaspettatamente in cose di particolare importanza, quali le parole dell'Eucaristia e quelle della tavoletta di condanna apposta sulla croce di Gesù (§ 122)? Dunque, almeno questi due Sinottici presuppongono un testo scritto, da essi in parte impiegato e in parte abbandonato; e questo testo scritto, nuovamente, non può essere al­tro che quello di Matteo, nella sua originale interezza oppure in estratti e rifacimenti di vario genere.

§ 152. Messi al sicuro questi punti che risultano dagli antichi docu­menti, vediamo come essi possano inquadrarsi nelle altre notizie che la tradizione già ci ha dato riguardo all'origine di Marco e di Luca. Il testo semitico di Matteo circolava già con somma autorità, per la sua origine apostolica e per il suo carattere ufficiale, ma anche con una possibilità d'impiego diretto sempre più scarsa, man mano che la “buona novella” s'estendeva fra popolazioni che non intendeva­no lingue semitiche. Tuttavia quel testo poteva sempre essere im­piegato da molti “evangelisti” orali che lo intendevano, e ad ogni modo sorsero ben presto quelle sue traduzioni totali o parziali a cui allude Papia (§ 119). Questo attaccamento alla composizione di Matteo appare naturalissimo a motivo del credito che la circondava: essa nel campo della “buona novella” scritta rappresentò quasi una praeoccupatio, che non poté esser trascurata dagli scrittori successi­vi. Prescindendo pertanto dai molti che scrissero prima di Luca, sui quali possiamo far solo congetture, sappiamo che Marco scrisse se­condo la catechesi di Pietro, e Luca secondo quella di Paolo. Che valore ha questa doppia notizia antica in relazione con il documento semitico di Matteo? I due ultimi Sinottici hanno Gli studiosi moderni, in massima parte, rispondono negativamente. Coloro per cui il Matteo semitico equivale ai Logia di Papia ma non al Matteo greco, ritengono che Marco non ha conosciuto i Logia, mentre Luca li ha conosciuti; quanto alle relazioni fra Marco e Luca c’è un generico consenso nell'affermare che il primo è stato impie­gato dal secondo. Ma chi giudica storicamente infondata una sostanziale differenza tra il Matteo semitico (ossia i Logia) e il Matteo greco, può ancora distinguere tra l'originale semitico e la sua tradu­zione greca, a cagione di quelle modificazioni operatevi dal tradut­tore alle quali già accennammo (§ 120 segg.); è infatti sempre pos­sibile che, se l'originale semitico è stato in qualsiasi maniera impiega­to da Marco e Luca, questi due alla loro volta siano stati impiegati dal nostro traduttore greco di quell'originale. Gli studiosi moderni hanno raccolto le prove più sottili e sfuggevoli per dimostrare le rispettive tesi. Con lavori pazientissimi, degni della piu' sincera ammirazione, essi hanno rilevato che, se Marco avesse conosciuto Matteo, non avrebbe sconvolto il “ccordinamento” caratteristico di lui, né tralasciato tali o tali narrazioni, o sentenze, o parole; cosi pure, se Luca avesse conosciuto Matteo, non avrebbe narrato con tante divergenze da costui la storia dell'infanzia, e quel­la della resurrezione, e la genealogia di Gesù, e le beatitudini, né avrebbe preferito la serie di fatti seguita da Marco: e tante altre sagacissime ragioni, ritrovate nel confronto dei testi.

§ 153. Ma, disgraziatamente, questi testi sono pochi, tre soltanto; noi invece sappiamo che anticamente essi erano molti, e ciò anche prima di Luca, ossia quando i nostri testi erano due soltanto (§ 140): anzi neppure due completamente, perché il nostro Matteo non rap­presenta con assoluta fedeltà verbale il Matteo semitico. Ecco la grande lacuna di cui non bisogna dimenticarsi in questi confronti dei Sinottici, la lacuna dei molti che noi più non abbiamo. Se poi si ha presente che questi molti, come già congetturammo, di­pendevano in gran parte dal Matteo semitico; che essi, pur essendo di varia ampiezza, potevano benissimo aver aggiunto talune notizie non contenute nel Matteo semitico; che, contemporaneamente a questa nuova “buona novella” scritta continuava a risonare l'antica orale degli “evangelisti” la quale riecheggiava sostanzialmente il contenuto di quella: si comprenderà bene quanto più complicato sia il problema delle dipendenze letterarie dei nostri Sinottici, e quanto le conclusioni tratte dai confronti dei testi odierni possano esser insufficienti per insufficienza degli stessi testi, ossia per la mancanza dei testi antichi.
§ 154. Riassumendo, si può tracciare la seguente genealogia dei no­stri Sinottici, la quale tiene conto dei dati di fatto messi in luce dalle investigazioni letterarie moderne, mentre non perde di vista le attestazioni precise dell'antichità. Primo di tutti fu il Matteo semitico, che conteneva sia discorsi sia fatti di Gesu'; esso fu anche la sorgente principale, se non unica, dei molti fiumicelli e rigagnoli che scorrevano ai tempi di Luca. Marco fu indotto a scrivere in Roma, per il motivo e nelle circostanze che già sappiamo. Scrivendo, egli riprodusse la catechesi orale di Pietro; la quale non era però né remota né estranea allo scritto di Matteo, bensì costituiva gran parte del suo fondo. Perciò Marco, mettendo mano al suo lavoro, trovò che la sua impresa sarebbe sta­ta, non solo agevolata, ma anche indirettamente garantita, se avesse preso come punto di riferimento lo scritto che in qualche modo poteva riportarsi a Pietro stesso, cioè il documento di Matteo. Ma sotto quale forma questo documento pervenne nelle mani di Marco? Nel suo testo originale intero, oppure in un estratto parziale? Oppure anche in una di quelle traduzioni di cui parla Papia? E se pervenne tradotto, qual era la sua indole e ampiezza? e quale la sua rassomi­glianza all'odierno Matteo greco? Ecco altrettante domande a cui non siamo in grado di rispondere. Supposto però che questo documento non meglio definibile sia stato a disposizione di Marco, il suo lavoro personale si spiega agevolmen­te come una fusione delle due fonti, quella della sua memoria e quella del documento che aveva sott'occhi quando la stessa notizia ve­niva concordemente dalle due parti, egli seguiva genericamente il documento; quando c'era divergenza, egli metteva in iscritto la cate­chesi di Pietro conservata nella sua memoria. Questa spiegazione sembra dar ragione sia della concordia discors fra i due primi Si­nottici, sia della costante attestazione dell'antichità secondo cui Mar­co è “interprete” di Pietro. Il caso di Luca è piu' complicato, non solo perché prima di lui esi­stevano Matteo, Marco e i molti da lui investigati diligentemente, ma anche perché egli riecheggia la catechesi di Paolo: quindi le sue dipendenze si moltiplicano, e per noi d'oggi si perdono in una neb­bia d'ignoranza. Si è Luca servito del Matteo semitico? Si dice che l'esame dei testi odierni non possa dimostrarlo con certezza; ma senza volersi addentrare in tale questione, Luca per lo meno deve essersi servito di qualche documento che era come un largo estratto del Matteo semitico, forse anche tradotto in greco, e che entrava certa­mente nel numero dei molti: le numerosissime identità o analogie fra i nostri Luca e Matteo non lasciano alcun dubbio su questo punto. E anche generalmente ammesso, come già vedemmo, che Luca si sia servito di Marco, specialmente nell'ordinamento cronologico dei fatti. Se quindi si accetta l'ipotesi di un'origine romana del vangelo di Luca, possiamo concludere che egli si servisse di Marco come di trama generica per il proprio scritto; ma su questa trama egli la­vorò lungamente e l'ampliò fino a raddoppiarla, con l'aggiungervi quei moltissimi fili ch'era andato raccogliendo diligentemente sia dai molti scritti precedenti, sia dalla tradizione orale e specialmente dal suo maestro Paolo. Terzo per forma, non per contenuto, viene il nostro Matteo greco, che è una versione sostanzialmente identica al Matteo semitico: ma la sua forma letteraria greca risente di Marco e di Luca, per le ra­gioni e nella misura già viste. In quella genealogia dei Sinottici, la loro concordia è data dal fondo comune a tutti e tre, che è o diret­tamente o indirettamente lo scritto originale di Matteo, cioè la catechesi degli Apostoli e specialmente di Pietro; la loro concordia diventa discors, quando i singoli autori secondo le mire personali o abbreviano, o spostano, oppure anche aggiungono altri elementi, i quali in massima parte provengono egualmente dalla catechesi apo­stolica, sebbene per altre vie.

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06/08/2012 16:56


[SM=g27998] Giovanni

§ 155. I tre vangeli sinottici non contengono alcuna designazione diretta dei propri autori; al contrario nel IV vangelo, unico non sinottico, siffatta designazione è contenuta, sebbene in maniera velata, dicendosi alla fine dello scritto: Costui e' il discepolo che testimonia circa queste cose e scrisse queste cose (Giovanni, 21, 24); nella quale proposizione il pronome costui si riferisce a un discepolo che Gesù amava, e di cui si è trattato poco prima (21, 10). Questa dichiarazione conclusiva di tutto il libro, se non è una palese firma dell'autore, ne è come una velata sigla. Come interpretare que­sta sigla? Chi è l'anonimo discepolo che Gesu' amava? La stessa designazione affettiva ritorna altre volte (13, 23; 19, 26; 20, 2; 21, 7.20), ma solo da quando la biografia di Gesù volge alla conclusione entrando nel periodo più tragico e più patetico, cioè dall'ultima cena in poi (13, 23): prima di questo periodo, quella designazione affettiva non compare. Ma compare un discepolo di Gesù, egualmente innominato, che è tra i primi a seguire Gesù, e che passa a lui, dopo essere stato alla sequela di Giovanni il Battista, insieme con Andrea di Bethsaida, fratello di Simone Pietro (1, 35-44). Compare anche nel processo di Gesù un innominato discepolo il quale, essendo conosciuto dal sommo sacerdote, si serve di questa conoscenza per far entrare Simone Pietro nell'atrio del sommo sa­cerdote (18, 15-16). Ora, questo discepolo anonimo e il discepolo che Gesu' amava sono in realtà una sola e identica persona. Dai Sinottici, infatti, appren­diamo che i discepoli prediletti da Gesù erano gli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni: dunque, ragionevolmente, fra questi tre deve stare il discepolo che Gesu' amava. Ma costui certamente non è Pietro, il quale più d'una volta è nettamente distinto dal nostro ricercato (13, 23-24; 18, 15; 20, 2; ecc.); ma neppure è Giacomo, per le seguenti ragioni. Il Giacomo in questione è Giacomo il Maggiore, che aveva per pa­dre Zebedeo e per madre Salome, ed era perciò fratello dell'apostolo Giovanni: essendo questi due fratelli nativi di Bethsaida, si com­prende facilmente che fossero amici degli altri due fratelli Andrea e Simone Pietro, ch'erano della stessa borgata (1, 35-44; cfr. Marco, 1, 16-20). Senonché questo Giacomo fu ucciso da Erode Agrippa I assai presto (Atti, 12, 2), nell'anno 44, quando nessuno dei nostri vangeli era scritto, tanto meno dunque il IV e ultimo, che è appunto attribuito al prediletto discepolo che ricerchiamo. Costui dunque deve essere l'altro fratello, cioè l'apostolo Giovanni, figlio di Ze­bedeo. Vari rilievi confermano questa conclusione. L'amicizia particolare che esisteva fra i compaesani Simone Pietro e Giovanni di Zebedeo, esisteva anche fra Simone Pietro e il discepolo che Gesu' amava (13, 24-26; 18, 15-16; 20, 2 segg.; 21,7. 20 segg.). Inoltre mentre Simone Pietro è nominato in questo vangelo ben una quarantina di volte, e spesso anche altri Apostoli, soltanto i fratelli Giacomo e Gio­vanni non vi sono giammai nominati, e solo una volta vi sono desi­gnati appellativamente come quelli di Zebedeo (21, 2); perché mai questa ignoranza, se specialmente Giovanni risulta dagli Atti come persona di somma autorità, e dallo stesso Paolo è ricordato subito dopo Pietro come una delle colonne della Chiesa (Galati, 2, 9)? E’ dunque un'ignoranza fittizia, dettata da modestia: è un riserbo si­mile a quello per cui Marco, “interprete” di Pietro, omette volen­tieri nel suo vangelo i fatti onorifici a Pietro (§ 134). Si vedrà in seguito se, ai caratteri dell'autore cosi svelato, corrispon­dano le qualità interne dello scritto. Adesso, invece, ascoltiamo che cosa l'antica tradizione dice di lui.

§ 156. Ai piedi della croce di Gesù, insieme con Maria madre di lui, stava Giovanni, e da quell’ora la prese il discepolo in (casa) sua (Giov., 19, 27). Dopo la Pentecoste, Giovanni appare a fianco a Pietro in Gerusalemme (Atti, 3, 1 segg.) e poi in Samaria (ivi, 8, 14). Recandosi Paolo nell'anno 49 a Gerusalemme, per partecipare al concilio apostolico, vi trova Giovanni (Gal., 2, 9; cfr. Atti, 15, i segg.). Dopo ciò il custode della madre di Gesù non compare più in Palestina; probabilmente ne era partito prima dell'anno 58, al­lorché tornando Paolo a Gerusalemme non si fa menzione di Giovanni (Atti, 21, 15 segg.). La successiva tradizione addita Giovanni in Asia Minore, ad Efeso, sul finire del secolo I Durante la perse­cuzione, mossa insieme contro Giudei e cristiani da Domiziano negli ultimi due anni del suo impero (anni 81-96), Giovanni fu relegato nell'isola di Patmos, ove scrisse l'Apocalisse. Morto Domiziano, tornò ad Efeso, ove visse durante l'impero di Nerva (anni 96-98) e una parte di quello di Traiano; morì vecchissimo, forse nell'anno settimo di Traiano, cioè nel 104, di morte naturale. La sua tomba era ve­nerata ad Efeso. Su questo fondo costante della tradizione si sovrapposero ben presto leggende e amplificazioni, favorite certo da quell'aura d'arcano pro­digio che doveva aver circonfuso, già nella sua longevità, colui ch'era stato il prediletto amico di Gesù e il suo spirituale biografo. Una traccia di siffatte leggende si ritrova in fondo allo stesso vangelo, ove sta scritto: Usci' pertanto tra i fratelli questa parola “Quel di­scepolo non muore”. Tuttavia Gesu' non gli disse “non muore”, bensi “Se io voglio ch'egli rimanga finché io vengo, che importa a te (Pietro)?” (21, 23). Dunque, fra gli ammiratori del vegliardo erano alcuni i quali credevano ch'egli, non tocco da morte, sarebbe rimasto unico superstite dei discepoli di Gesù fino alla nuova venuta gloriosa di lui: credenza pia ed affettuosa, ma che lo scrittore provvede a dissipare. Recentemente invece, si è fatto il tentativo inverso, essendosi ordita una regolare congiura per far morire Giovanni prima del tempo; alcuni studiosi, infatti, hanno supposto che egli sia stato ucciso nel 44 insieme con suo fratello Giacomo, o almeno in un anno imprecisato di poco posteriore. Questa sconcertante ipotesi, che merita appena d'esser presa in speciale considerazione, adduce come prove un passo evangelico interpretato arbitrariamente e un paio di testi incertissimi e tardivi, mentre a cuor leggiero respinge una con­gerie di testimonianze nettissime ed antiche; ma quei testi sono in realtà dei pretesti, mentre il vero motivo dell'ipotesi è di rendere impossibile l'attribuzione del IV vangelo a Giovanni l'apostolo.

§ 157. Ecco pertanto le più antiche attestazioni circa la presenza di Giovanni e il suo vangelo. Anche qui primo in ordine di tempo è Papia, sebbene la sua testimonianza questa volta sia più indiretta del solito e soltanto riassunta. La notizia che il vangelo fu pubblicato da Giovanni adhuc in corpore constituto, mentre smentisce, a morte avvenuta, la leggenda del­l'immortalità di Giovanni, vuole rilevare che lo scritto non fu pub­blicato postumo, come forse si potrebbe erroneamente concludere dalla sua finale. Verso l'anno 180 Ireneo, dopo aver parlato dei tre primi vangeli, soggiunse: Quindi Giovanni, il discepolo del Signore, quello che ri­posò pure sul petto di lui, anch'egli pubblicò il vangelo, dimorando in Efeso d'Asia; testo greco in Eusebio, Hist. eccl., v, 8, 4). Non vi può esser ragionevole dubbio che per Ireneo questo Giovanni, discepolo del Signore, sia l'apostolo che nell'ultima cena riposò sul petto di Gesu' (Giov., 13, 23); ma il valore singolare d'Ireneo come testimonio su tale questione è dato dalla circostanza che egli da giovanetto, in Asia Minore, era stato uditore di Policarpo di Smirne, morto quasi novantenne nel 155, il quale a sua volta era stato uditore di Giovanni: cosicché da Ireneo si risale a Giovanni per il solo intermediario di Policarpo.

§ 158. Ma qui è da accennare ad una celebre questione, suscitata da un passo di Papia e dal commento che vi aggiunge Eusebio nel riportare il passo: cioè, se Ireneo non abbia confuso l'apostolo Giovanni con un suo omonimo. Papia dunque, volendo a principio del suo scritto manifestare la provenienza dei suoi insegnamenti, cosi' si esprime: Se mai fosse venuto taluno ch'era stato al seguito dei presbiteri (o anziani) io interrogavo sui detti dei presbiteri, che cosa Andrea o che cosa Pietro disse, o che cosa Filippo, o che cosa Tommaso o Giacomo, o che cosa Giovanni o Matteo, o alcun altro dei discepoli del Signore, inoltre quelle cose che Aristione e il presbi­tero Giovanni, discepoli del Signore, dicono. Alla quale citazione di Papia (tradotta con fedeltà meticolosa) Eusebio fa seguire questo commento: Qui e' anche opportuno rilevare che egli due volte enu­mera il nome di Giovanni, il primo dei quali egli cataloga insieme con Pietro e Giacomo e Matteo e gli altri apostoli, mostrando aper­tamente (che e') l'evangelista: invece l'altro Giovanni egli colloca - facendo una distinzione nel ragionamento - tra gli altri fuor del nu­mero degli apostoli, mettendo avanti a lui Aristione e apertamente chiamandolo presbitero. Cosicché, pure da tali cose, e' dimostrata vera l'informazione di coloro che hanno detto esservi stati due omo­nimi in Asia ed esistere in Efeso due tombe, dette anche adesso am­bedue di Giovanni. E’anche necessario fare attenzione a queste cose, poiché se taluno non ammette che sia stato il primo, e' verosimile che sia stato il secondo, colui che ha contemplato l'Apocalisse che va in giro sotto il nome di Giovann; di qui Eusebio conclude che Ireneo, affermando che Papia è stato l'uditore di Giovanni e compagno di Policarpo, abbia scambiato Giovanni il Presbitero con Giovanni l'apostolo (ivi, 1-2). Infinite sono state le discussioni su questi testi, a cominciar da quella sull'esattezza della loro trasmissione. Prima di Eusebio, a quanto ci risulta, nessuno pensò all'esistenza di due Giovanni, salvo Dionisio d'Alessandria a mezzo il secolo III; il quale tuttavia attribuisce il vangelo all'apostolo e non al Presbitero (ivi, vii, 25, 7-16), come del resto fa pure Eusebio. Cedendo alla prima impressione che fanno le nude parole di Papia, verrebbe certo spontanea la distinzione di due Giovanni: ma questa prima impressione potrebbe anche esser fal­lace, per varie ragioni che sarebbe qui fuor di luogo ricordare. Ad ogni modo, anche se si preferisce distinguere due Giovanni, l'attri­buzione del vangelo a Giovanni l'apostolo non resta minimamente pregiudicata, come appare già dall'opinione di Dionisio e di Eusebio, il quale ultimo aveva sott'occhio l'intero scritto di Papia. Quand'anche si dimostrasse con certezza che Ireneo abbia confuso due Gio­vanni diversi, altrettanto non si potrebbe davvero dire di Policarpo ch'era stato in relazioni personali con Giovanni; come d'altra parte all'apostolo Giovanni, indipendentemente dall'esistenza di un altro Giovanni, è attribuito il vangelo dalle attestazioni di altre chiese d'Asia e d'Occidente, le quali - checché si sia congetturato recentemente - non sono in alcuna maniera sotto l'influenza di Ireneo.

§ 159. Non è sotto tale influenza la testimonianza di Policrate che, non solo era vescovo di Efeso e scriveva a nome di altri vescovi d'Asia, ma era egli stesso l'ottavo vescovo di sua famiglia, e perciò erede di antiche tradizioni. Egli dunque, scrivendo al papa Vittore in Roma (anni 189-199), ricorda Giovanni, quello che riposò sul pet­to del Signore, che fu sacerdote portante il “petalon”, e martire e maestro: costui s'addormentò in Efeso (in Eusebio, Hist. eccl., v, 24, 3). L'accenno al petalon è un'applicazione simbolica della veste li­turgica riservata nell'Antico Testamento al sommo sacerdote (cfr. Esodo, 28, 36; 39, 30); il resto è chiaro, anche il termine martire impiegato in senso largo, come già accennammo (§ 156, nota) e come è confermato dal seguente s'addormentò. Veramente si è asserito che anche Policrate abbia confuso i due Giovanni, ma l'asserzione non è stata in alcun modo provata. In Occidente, la tradizione della chiesa di Roma è rappresentata specialmente dal Frammento Muratoriano (§ 136), che sul IV van­gelo si diffonde più che sugli altri scritti. Eccone il passo relativo, corretto anche questa volta dagli errori più grossolani: Quantum evangeliorum Johannis ex discipulis. Cohortantibus condisci pulis et episcopis suis dixit: Conieiunate mihi hoc triduo, et quid cui que 'uerit revelatum, alterutrum nobis enarremus. Eadem nocte revela­tum Andrea' ex apostolis, ut reco gnoscentibus cunctis Johannis suo nomine cuncta describeret. Et ideo, licet varia singulis evangeliorum libris princi pia doceantur, nihil tamen diflert credentium fidei, cum uno ac principali Spiritu declarata sint in omnibus omn... Quid ergo mirum” si fohannes tam constanter singula etiam in epistulis suis pro fert, dicens in semetipsum “Qua' vidimus oculis nostris, et auribus audivimus, et manus nostra' palpaverunt, hac scripsimus vobis” (cfr. I Giov., 1, 1)? Sic enim non solum visorem se et audito­rem, sed et scriptorem omnium mirabilium Domini per ordinem profitetur. In questa testimonianza si ritrovano elementi certo leg­gendari - come il patto fra Giovanni e i discepoli, e l'apparizione ad Andrea - che fantasticano forse sui dati di Giov., 21, 24; ma vi si ritrova anche una chiara preoccupazione polemica, per cui questo tratto riguardante il IV vangelo si estende ad una straordinaria lun­ghezza (che noi abbiamo anche accorciata). Senza dubbio tale pole­mica era diretta contro i rimasugli della scuola del prete romano Caio, il quale, per opporsi ai Montanisti che si facevano forti so­prattuto del IV vangelo, l'aveva respinto; ai seguaci di Caio fu perciò dato l'appellativo di Alogi, cioè privi di “logos”, giacché il IV vangelo è appunto il vangelo del Logos divino, ma l'appellativo valeva anche in senso non teologico come privi di ragione, cioè del logos umano.

§ 160. L'Egitto è rappresentato da Clemente Alessandrino; il quale, immediatamente appresso all'ultimo suo tratto che citammo a pro­posito del vangelo di Marco (§ 130) aggiunge Ultimo, pertanto, e' Giovanni: vedendo che negli evangeli (precedenti) erano state ma­nifestate le cose corporee, spinto dagli amici, divina­mente portato dallo Spirito produsse un vangelo spirituale. Anche in questa affermazione Clemente, più che parlare del proprio, riporta la tradizione degli an­tichi presbiteri a cui si appella (ivi, 5); d'altra parte egli concorda col Frammento Muratoriano, almeno genericamente, ritenendo che Giovanni scrisse per esortazione altrui: nè si può dubitare che il Giovanni di Clemente sia l'apostolo, come è dimostrato fra altro dall'episodio del giovane pervertitosi e poi convertito da Giovanni, che Clemente narra nel Quis dives salvetur, 42, e ch'è riportato da Eusebio (Hist. eccì., III, 23, 6 segg.). L'appellativo di vangelo spirituale, in contrapposto a corporeo, risente della nota distinzione antropologica (corpo, anima, spirito) comune nell'ellenismo, ma coglie nel segno nel definire l'indole del IV vangelo, e perciò trovò molta for­tuna in seguito. Le testimonianze fin qui viste sono le principali, ma non tutte, dei primi due secoli; sarebbe pertanto inutile scendere lungo il secolo III, perché nessuno nega che già alla fine del II secolo Giovanni l'a­postolo fosse ritenuto concordemente quale autore del IV vangelo. Inoltre oggi sarebbe anche inutile elencare le varie tracce che di questo vangelo si trovano già nella prima metà del secolo i, sia presso scrittori ortodossi, uali Ignazio d'Antiochia, Giustino mar­tire e altri, sia presso i vari maestri della gnosi quali Valentino, Era­cleone, ecc., e presso lo stesso Marcione; oggi la segnalazione di tali tracce sarebbe inutile, perché è dimostrato in maniera lampante che il IV vangelo circolava in Egitto già verso l'anno 130. Oltre al papiro (Egerton), di cui già parlammo (§100) e che tra­disce una indubbia dipendenza dal IV vangelo, è stato pubblicato nel 1935 un frammento di papiro contenente tratti di questo van­gelo. Il frammento è minimo, di circa 8 centimetri, e contiene solo pochi versetti relativi al dialogo di Gesù con Pilato (cioè Giov., 18, 31-33 e 37-38), ma la sua incomparabile importanza è data dalla sua antichità: i più competenti specialisti mondiali, consultati in proposito, sono convenuti nell'attribuire il frammento alla prima metà del secolo II, e più probabilmente ai primi decenni di quella metà che agli ultimi: come media, quindi, può valere l'anno 130. E poi da notare che il frammento, che faceva parte d'un intero codex (non d'un volumen), proviene dall'Egitto certamente, sebbene non se ne conosca il luogo preciso: quindi, nel detto anno, l'Egitto già co­nosceva questo scritto composto in Asia Minore. Si sottragga per­tanto dalla cifra 130 un numero d'anni proporzionato per permet­tere allo scritto nato in Asia di raggiungere l'Egitto, e di esservi ri­copiato e diffuso, e si otterrà la data che la tradizione assegna all'ori­gine del IV vangelo, cioè la fine del secolo I. E bastato quel misero cencio di papiro per dissipare le aprioristiche elucubrazioni di quegli studiosi che avevano sentenziato non essere il IV vangelo anteriore al 130, o al 150, o anche al 170: e non erano soltanto studiosi del secolo scorso, perché ancora nel 1933, quando cioè il papiro si trovava già in Europa benché inedito, il Loisy (La naissance du christianisme, pag. 59) affermava che il IV vangelo ave­va avuto due redazioni, di cui la prima e più antica cadeva fra gli anni 135-140 e la seconda fra il 150-160.

§ 161. Su un altro argomento importantissimo i nuovi ritrovamenti smentiscono giudizi arbitrari e tendenziosi. Per molti studiosi anche dei nostri giorni, il IV vangelo è un teorema teologico che conserva a mala pena le apparenze della storia (Loisy); ossia, è uno scritto allegorico e simbolico, che si muove nel mondo delle astrazioni mi­stiche e che tutt'al più solo apparentemente inquadra le sue scene in una cornice geografica, non senza manifesti contrasti con la vera topografia. Come al solito, questa condanna è stata motivata soprattutto da preconcetti filosofici; ma, per giunta, coloro che l'han­no pronunziata sono studiosi da tavolino, ben pochi di essi hanno visitato accuratamente o anche fugacemente la Palestina, e tutti ad ogni modo danno ben poco peso all'archeologia e alla geografia sto­rica. L'imprudenza è grave: tanto più che lo stesso Renan, che per primo ricorse a sopraluoghi geografici (benché a suo modo) per una biografia di Gesù, poté scrivere: La trama storica del quarto van­gelo e, secondo me, la vita di Gesu' qual era nota al gruppo accen­trato attorno a Giovanni. Anzi, secondo la mia opinione, questa scuola sapeva diverse circostanze esteriori della vita del fondatore meglio del gruppo i cui ricordi hanno costituito i vangeli sinottici. Ma, nonostante questa non sospetta ammonizione, si continuò ad affermare che l'autore del IV vangelo era ignaro della topografia pa­lestinese, al punto da non avere un'idea chiara neppure della situa­zione di Gerusalemme (quest'ultima affermazione è di un dilettante italiano, che non mette neppure conto di nominare). La verità è precisamente al contrario. L'autore del IV vangelo di­mostra una conoscenza topografica più accurata di quella dei Sinot­ tici, e suole scendere in molte narrazioni a particolarità sorpren­denti, che avrebbe potuto omettere del tutto senza che la narrazione ne risentisse; se non le ha omesse, è perché si sentiva ben sicuro del fatto suo. Almeno una decina sono le designazioni di luoghi pale­stinesi che appaiono soltanto nel IV vangelo; di esse, non solo nessu­na è stata dimostrata falsa, ma varie sono state dimostrate precise ed esatte contro ogni aspettativa. Citiamo, come esempio, due o tre casi.

§ 162. In Giov., 2, 28, si parla di una Bethania di la' dal Giordano, sconosciuta altronde; al contrario, in 11, 18, si ricorda che Bethania era soltanto a 15 stadi da Gerusalemme, cioè a circa 2800 metri, mentre da Gerusalemme per arrivare al Giordano, sono una quaran­tina di chilometri. - Senonché c'erano due Bethanie (come c'erano due Beth-lehem, e due Beth-horon, ecc.). La Bethania del Giordano era vicina ad un passaggio del fiume che si compiva su barca, don­de forse il suo nome (beth-onijjah, «casa della nave»); ma il luogo, per la stessa ragione, era chiamato anche Beth-abarah (« casa del passaggio »), come Origene legge in questo tratto invece di Betha­nia. Sul posto si sono trovate recentemente antiche installazioni. In 5, 2 (testo greco) si dice che a Gerusalemme, presso la Porta delle pecore o Probatica, c'era una piscina chiamata Bethzatha, o Bezetha, forse dal nome del quartiere; ma si aggiunge che questa Pi­scina aveva cinque portici. Era dunque recinta da un porticato pen­tagonale? Forma assai strana: la quale non ha mancato di suggerire a studiosi moderni che deve trattarsi di una scena tutta allegorica, in cui la piscina simboleggia la fonte spirituale del giudaismo, e i cinque portici rappresentano i cinque libri della Legge. - Senon­ché, anche qui, gli scavi recenti hanno fatto crollare tutto questo bel castello di fantasie allegorizzanti. Si è trovato, cioè, che la pisci­na era regolarmente recinta da quattro portici, formando un rettan­golo lungo 120 metri e largo 60; ma un quinto portico l'attraversava in mezzo, dividendola in due bacini (§ 384). In 19, 13 si narra che Pilato, mentre si svolgeva il processo, condus­se fuori Gesù e si assise su tribunale in un luogo chiamato Lithostro­tas, ma in ebraico Gabbatha. Dov'era questo luogo dal doppio no­me, di cui non si hanno altre notizie? - Precise notizie invece sono state fornite da scavi di qualche anno fa. I due nomi non preten­dono affatto di essere la traduzione etimologica l'uno dell'altro, ben­sì sono due equivalenti designazioni di uno stesso luogo: questo luo­go, ch'era sulla fortezza Antonia, è stato testé ritrovato, e archeolo­gicamente mostra tutti i caratteri dell'epoca di Erode il Grande, costruttore dell'Antonia (§ 578).

§ 163. Questa precisione riguardo alla topografia si ritrova anche n­guardo alla cronologia, quasi per dar ragione al noto assioma che i due occhi della vera storia sono la geografia e la cronologia. Confrontando la cronologia interna offerta dai Sinottici nella bio­grafia di Gesù, con quella offerta da Giovanni, si ha l'impressione che quest'ultimo vada in cerca d'occasioni per precisare e delimitare ciò che quelli hanno lasciato nel vago. Limitandosi ai Sinottici, sem­brerebbe che la vita pubblica di Gesù potesse restringersi entro un solo anno, e anche meno; Giovanni invece, ricordando espressamen­te tre differenti Pasque, estende quella durata almeno a due anni e qualche mese (§177). In 2, lì, si fa espressamente notare che l'inizio dei miracoli operati da Gesù fu quello delle nozze di Cana, cioè proprio un fatto non narrato dai Sinottici; e subito appresso (2, 13 segg.) si mette, quasi come primo atto solenne e autoritario della vita pubblica di Gesù, la cacciata dei venditori dal Tempio, mentre i Sinottici trattano di questo argomento solo pochi giorni prima della morte di Gesù. E in quale anno avvenne la cacciata dei venditori dal Tempio, com­putando da qualche insigne avvenimento della storia palestinese? Avvenne 46 anni dopo che si era cominciata la ricostruzione del “santuario” nel Tempio: ma anche ciò sappiamo solo da Gio­vanni (2, 20). Infine, se si legge il racconto della passione secondo i Sinottici, si conclude che Gesù ha celebrato con i suoi discepoli il banchetto della Pasqua ebraica la sera precedente al giorno di sua morte: quel ban­chetto, cioè, che legalmente doveva celebrarsi la sera del giorno 14 del mese Nisan, cosicché Gesù sarebbe morto il 15 Nisan. Giovanni invece ha cura di avvertire che, il mattino stesso del giorno in cui Gesù fu ucciso, i Giudei che in folla lo accusavano davanti a Pilato non avevano ancora celebrato il banchetto pasquale; infatti essi non entrarono nel pretorio affinché non si contaminassero, bensì mangiassero la Pasqua (Giov., 18, 28), giacché contaminandosi si sarebbero resi inabili a quella celebrazione da tenersi la sera stessa: in tal caso Gesù sarebbe morto il 14 Nisan, ma il suo banchetto della sera precedente non sarebbe stato quello legale della Pasqua ebraica. Non è questo il momento d'addentrarsi in questa celebre questione, per mostrare che i Sinottici e Giovanni possono avere egualmente ra­gione (§ 536 segg.): ma è ben opportuno far rilevare, ancora una volta, con quanta studiata fermezza Giovanni segua una sua propria cronologia, precisando ciò che gli evangelisti anteriori avevano lasciato imprecisato.

§ 164. Questi, del resto, sono soltanto alcuni tratti da cui risulta che il narratore scrive con una conoscenza tutta personale e diretta dei fatti, ma le prove potrebbero facilmente allungarsi di molto. Giovanni sa bene ciò che hanno raccontato i Sinottici, ma delibera­tamente vuoi battere una strada diversa dalla loro. Senza pretendere affatto di esaurire l'argomento (cfr. Giov., 21, 25), egli vuole sup­plire parzialmente a quanto i Sinottici non hanno narrato: il com­puto materiale dimostra che su 100 parti del IV vangelo, 92 non si ritrovano nei Sinottici. Qualche volta, tuttavia, i due racconti si corrispondono necessariamente a causa dell'argomento: ma anche in questi casi Giovanni appare spesso come il testimonio che vuole inte­grare e precisare. Ciò è chiarissimo nel racconto della passione. I Sinottici non hanno detto chi fosse quel discepolo che con un colpo di spada mozzò l'orecchio destro al servo del sommo sacerdote, né come si chiamasse il servo; Giovanni precisa che il discepolo fu Simone Pietro e che il servo si chiamava Malcho (18, 10). Arre­stato Gesù, sembrerebbe secondo i Sinottici che fosse condotto diret­tamente alla casa del sommo sacerdote Caifa; Giovanni vuol dissi­pare questa inesatta apparenza, ed informa che lo condussero presso Anna dapprima (18, 13) dandone subito appresso la ragione. - I Sinottici fanno che Pietro segua l'arrestato ed entri immediata­mente nell'atrio del sommo sacerdote; secondo Giovanni, invece, Pietro segue insieme con un altro discepolo ma si ferma dapprima fuori dell'atrio, mentre l'altro discepolo entra subito, e solo più tardi Pietro può entrare grazie all'intercessione del discepolo (18, 15-16). - Dal solo Giovanni e non dai Sinottici, si apprende che Pilato interroga Gesù nell'interno del pretorio, mentre i Giudei restano al di fuori; come pure solo Giovanni descrive la scena dell'Ecce homo, e riporta la discussione fra Pilato e i Giudei, mentre il primo anche dopo la flagellazione di Gesù tenta di liberarlo e i secondi si prote­stano fedeli sudditi di Cesare (18, 33 segg.; 19, 4 segg.). - Soltanto Giovanni fa sapere che a Gesù morto non fu praticato il crurifragio romano, ma che in sua vece gli fu squarciato il petto con una lan­ciata (19, 31-34). Subito appresso a quest'ultima notizia si aggiunge: E chi ha visto (ciò) ha testimoniato, e verace e' la testimonianza di lui (19, 35); questo testimonio oculare è appunto il discepolo pre­diletto, la cui presenza ai piedi della croce, insieme con la madre di Gesu', è stata ricordata poco prima egualmente dal solo Giovanni (19, 25-27). In tutti questi particolari, cosi minuziosi e realistici, non traspare in alcun modo nessuno di quei tanti sottintesi allegorici che taluni stu­diosi recenti v'insinuano di proprio arbitrio.

§ 165. Che Giovanni batta una strada diversa dai Sinottici, appare da tutto il contenuto. I Sinottici insistono sul ministero di Gesù in Galilea, Giovanni invece insiste sul ministero in Giudea e Geru­salemme. Soltanto sette miracoli di Gesù sono riferiti da Giovanni, ma di essi ben cinque non si trovano nei Sinottici. Più che ai fatti di Gesù, Giovanni fa posto ai ragionamenti dottrinali di lui, e spe­cialmente alle sue dispute con i maggiorenti Giudei. In questi discorsi, come nel restante dello scritto, affiorano frequentemente al­cuni concetti caratteristici, che presso i Sinottici sono ben rari o del tutto sconosciuti: tali i simboli Luce, Tenebra, Acqua, Mondo, Carne, o gli astratti Vita, Morte, Verità, Giustizia, Peccato. Ma Giovanni, se non segue la tradizione sinottica, non la perde mai d'occhio. Giustamente ha detto il Renan che Giovanni aveva una sua propria tradizione, una tradizione parallela a quella dei sinotti­ci, e che la sua posizione e' quella d'un autore che non ignora ciò ch'e' già stato scritto sull'argomento ch'egli tratta, approva molte delle cose già dette, ma crede d'avere informazioni superiori e le comunica senza preoccuparsi degli altri. Non è però tutto qui. Giovanni, pur nel suo silenzio, impiega la tra­dizione sinottica indirettamente, in quanto la presuppone già nota ai lettori; come, dall'altro lato, nei Sinottici non mancano allusioni che trovano la loro piena giustificazione solo nella tradizione di Gio­vanni. Si direbbe che le due tradizioni, cortesemente, si dicano a vicenda: Nec tecum, nec sine te. Nulla racconta Giovanni né della nascita di Gesù, né della sua vita privata; parla della madre di lui ma senza nominarla giammai, benché nomini altre Marie; riporta due volte l'espressione Gesù figlio di Giuseppe (1, 45; 6, 42), ma senza sentire la necessità di spiegare tale ambigua designazione; dice di scrivere per indurre a credere che Gesu' e' il Cristo, il figlio d'iddio (20, 31), e non accenna affatto alla scena della trasfigurazione sul Tabor che sarebbe stata opportunissima a quello scopo; riporta un lungo discorso taciuto dai Sinottici in cui Gesù si presenta come mistico pane celestiale (6, 25 segg.), e non ha una parola sull'effettiva istituzione dell'Eucarestia all'ultima cena. Eppuse, queste manchevolezze non sono manchevoli e queste incongruenze sono congruentissime, per la semplice ragione che Giovanni non vuol ripetere ciò ch'era già notorio, e fa asse­gnamento sulla conoscenza che i suoi lettori già avevano della tra­dizione sinottica. Ma, alla sua volta, anche la tradizione sinottica presuppone quella di Giovanni. Pochissimo dicono i Sinottici, e specialmente i primi due, del ministero di Gesù a Gerusalemme; tuttavia due di essi ri­portano la deplorazione di Gesù: Gerusalemme, Gerusalemme, uc­cidente i profeti e lapidante gl'inviati ad essa! Quante volte volli coadunare insieme i tuoi figli, alla maniera che una gallina coaduna i suoi pulcini sotto le ali, e (voi) non voleste! (Matteo, 23, 37; Luca, 13, 34). Dalle sole narrazioni dei Sinottici non si riuscirebbe a giu­stificare l'esclamazione Quante volte volli...! perché essi trattano quasi esclusivamente il ministero di Gesù in Galilea. Giovanni in­vece, narrando non meno di quattro viaggi di Gesù a Gerusalemme, giustifica in pieno quell'esclamazione. Perciò i Sinottici presuppon­gono tacitamente la tradizione di Giovanni, e alla loro volta le ripe­tono: Nec tecum, nec sine te.

§ 166. Che l'autore del IV vangelo sia un Giudeo d'origine, appare anche dal suo stile e dal suo modo d'esporre; tanto che alcuni mo­derni hanno supposto, esagerando, ch'egli abbia scritto originaria­mente in aramaico. In realtà egli spesso impiega, oltre ad espressioni semitiche, come godere di gaudio (3, 29), figlio della perdizione (17, 12), ecc., anche voci semitiche, ma che regolarmente traduce in greco per farsi capire dai suoi lettori, come Rabbì e Rabbonì (1, 38; 20, 16), Messia (1, 41), Kefa (1, 42), Siloam (9, 7), ecc. Anche il pe­riodare è grecamente povero, elementare, alieno da ogni costruzione complessa e subordinata; ma, al contrario, vi si osserva una spiccata tendenza a quel parallelismo di concetti che è base della forma poe­tica ebraica. Ad esempio: Non è servo maggiore del signore di lui, nè messo maggiore di chi inviò lui... Chi accoglie alcuno, se io lo mando, accoglie me, e chi accoglie me, accoglie chi inviò me (13, 16... 20) La donna, quando partorisca, ha tristezza, perché venne l'ora di lei: ma quando partorì il bambino, piu' non rammenta l'angustia per il gaudio che è nato un uomo nel mondo (16, 21) Ia forma paratattica e slegata rende spesso difficile di rintracciare l'occulta connessione dei pensieri; ma, in compenso, il suo procedere sentenzioso e solenne infonde a tutto il discorso un'arcana maestà ieratica, che colpisce il lettore fin dal principio dello scritto: In principio era il Lagos, e il Lagos era presso Iddio ed era Dio il Logos. Costui era in principio presso Iddio: tutte le cose per mezzo di lui furono, e senza lui non fu neppure una cosa ch'e stata. In lui era Vita, e la Vita era la Luce degli uomini: e la Luce nella Tenebra apparve, e la Tenebra non la comprese... Era la Luce vera, la quale illumina ogni uomo venendo (ella) nel mondo. Nel mondo era, e il mondo per lui fu, e il mondo non lo conobbe... E il Logos carne divenne, e s'attendò fra noi (1, 1... 14).

§ 167. Ma appunto questo solennissimo inizio è servito da inizio a un lungo elenco di difficoltà. Come poteva l'incolto pescatore di Bethsaida elevarsi a concetti cosi sublimi? Come poteva, egli solo fra tutti gli scrittori del Nuovo Testamento, spingersi a proclamare l'identità dell'uomo Gesù non solo con il Messia ebraico ma perfino con l'eterno Logos divino? In qual maniera passò egli, dalle astuzie della pesca, a speculare sulle finezze concettuali di quel Logos di cui tanto avevano ragionato l'antica filosofia greca e la contemporanea alessandrina? Come mai il Gesù da lui tratteggiato è cosi diverso da quello dei Sinottici, e cosi trascendente, cosi “divino”? Don­de provengono quei discorsi di Gesù, così ampi e così ricchi di astra­zioni e allegorie? Donde quei dialoghi in cui gl'interlocutori di Gesù fanno la figura di pulcini che si sentano sollevati tra le nuvole dall'artiglio dell'aquila, e sbalorditi rispondono con goffaggini, come fanno Nicodemo e la Samaritana, e spesso gli stessi discepoli? Que­ste e molte altre considerazioni sono fatte, per poi concluderne che tutto lo scritto non può essere opera del pescatore di Bethsaida: esso quindi riassumerà le mistiche speculazioni di qualche solitario filo­sofo che ha religiosamente idealizzato il Gesù storico, non senza impiegare concetti che provenivano dal platonizzante giudaismo ales­sandrino, o dal sincretismo ellenistico, o dalle religioni misteriche, o anche dal Mandeismo. Che questa attribuzione ad uno sconosciuto sia in contrasto con le più antiche testimonianze storiche, è cosa più che evidente; ma ciò non disturba i suoi sostenitori, i quali non attribuiscono molto peso a quelle testimonianze, salvo che esse sembrino deporre in loro favore, come nel caso del presunto martirio di Giovanni (§ 156) giacché in casi siffatti quegli abituali scettici dei documenti si precipitano su testi miserevolissimi millantandone l'mportanza. Ad ogni modo si può domandare perché mai nelle condizioni del soli­tario filosofo sconosciuto non possa essersi ritrovato proprio Giovan­ni di Bethsaida. Egli era pescatore, è vero: ma da accenni dei vangeli sembra che suo padre Zebedeo fosse un agiato possessore di barche, e quindi poteva aver fatto impartire a suo figlio una certa istruzione meto­dica. Checché sia di ciò, era perfettamente nelle abitudini palesti­nesi coltivare l'erudizione e nello stesso tempo praticare un mestie­re. S. Paolo lavorava con le sue mani; e prima e dopo di lui lavorarono il celebre Hillel che guadagnava solo mezzo “denaro” al giorno, e Rabbi Aqiba ch'era spaccalegna, e Rabbi Joshua ch'era carbonaio, e Rabbi Meir ch'era scrivano, e Rabbi Johanan ch'era calzolaio, e tanti altri che formarono tra i dottori talmudici la mag­gioranza, mentre la minoranza era formata da uomini facoltosi che non avevano bisogno di esercitare un mestiere. Se l'ardente Giovanni, vero figlio del tuono (Marco, 3, 17), si rnise ancor giovanissimo alla sequela dapprima di Giovanni il Battista e poi di Gesù, poté restar privo di quest'ultimo maestro nell'età di poco più che vent'anni. Allora egli, fedele alle usanze della sua re­gione, si concentrò nello studio della Legge, ma non già di quella investigata nelle contemporanee scuole rabbiniche, bensì di quella nuova Legge di perfezione e di amore ch'era stata proclamata dal suo ultimo maestro, e i cui ricordi - anche senza ch'egli scrivesse nulla - si conservavano nettissimi nel suo spirito. Nell'archivio della memoria, ch'era l'unico archivio che funzionasse anche nelle scuole rabbiniche d'allora (§§ 106, 150), Giovanni poté svolgere durante lunghissimi anni un amoroso lavorio attorno a quei tesori depositativi dallo scomparso maestro; il quale, come aveva avuto per il giovanissimo discepolo una predilezione particolare, così' doveva avergli fatto confidenze e comunicazioni particolari. Da questo lavorìo di redazione mentale e di pratica sistemazione sorse la “catechesi” particolare a Giovanni, diversa ma non contraria a quella di Pietro e dei Sinottici, parzialmente suppletiva rispetto ad essa, parzialmente esplicativa, e soprattutto meglio rispondente alle nuove condizioni esterne del messaggio cristiano.

§ 168. Anche la catechesi di Giovanni, infatti, già elaborata mentalmente prima di essere scritta, deve aver vissuto vari decenni di vita soltanto orale. Mentre il discepolo meditava sui ricordi del mae­stro, li comunicava anche ai fedeli affidati alle sue cure, dapprima in Palestina, e poi in Siria e in Asia Minore. Ora, in questi nuovi campi d'azione Giovanni, inoltrato ormai negli anni e sempre più autorevole per la graduale scomparsa degli altri Apostoli, incontrava ostacoli di nuovo genere; non si opponevano più le vecchie conventicole di cristiani giudaizzanti che tanto ave­vano molestato Paolo, bensi' erano le varie correnti di quella gnosi, in gran parte precristiana, che sul declinare del secolo I comincia­vano ad infiltrarsi nell'alveolo del cristianesimo. Contro tali correnti bisognava far argine; e Giovanni, dai forzieri dei suoi ricordi, estrae­va sempre nuovi e più adatti materiali per rendere particolarmente efficace la sua propria catechesi contro la nuova minaccia. Un certo giorno - come possiamo già astrattamente supporre, e come effettivamente attestano il Frammento Muratoriano e Clemente Alessandrino (§§ 159,160) - i discepoli del vegliardo lo forzano amorevolmente per ottenere in iscritto la parte essenziale di quella sua catechesi. Giovanni la detta; ma in fondo a tutto lo scritto sarà apposta, a guisa di sigillo, una dichiarazione collettiva d'autenticità rilasciata unitamente da chi aveva concesso e da chi aveva richiesto lo scritto Costui e' il discepolo che testimonia circa queste cose e scrisse que­ste cose: e (noi) sappiamo che vera e' la testimonianza di lui (21, 24).

§ 169. Questa preistoria spiega l'indole speciale dello scritto di Giovanni, già chiamato il vangelo spirituale per eccellenza. In tutte le maniere esso fa risaltare la trascendenza e la divinità del Cristo Gesù, perché questo era il principale suo scopo (20, 31) contro la gnosi di provenienza pagana: di qui il suo particolare carattere. Ma la medesima tesi, sviluppata più parcamente o anche solo appe­na abbozzata, si ritrova già nei Sinottici, e specialmente in Marco brevissimo fra tutti, com'è riconosciuto da parecchio tempo da cri­tici radicalissimi (i quali perciò scompongono Marco in vari strati, ripudiandone le parti “soprannaturali” e “dogmatiche”). Giovan­ni avrà enormemente accresciuto, ma non ha innovato; fra le mol­tissime cose che si sarebbero potute dire di Gesù (cfr. 21, 25), egli studiosamente trascelse taluni particolari fino al suo tempo non detti ma proprio allora opportunissimi a dirsi, senza però inventarli, e li unì' con altre notizie già comuni e diffuse. Ne risultò un Gesù più illuminato di luce divina, ma fu in conseguenza della scelta di Gio­vanni: come il Gesù dei Sinottici è figura più umana, ma egual­mente in conseguenza della scelta dei Sinottici. Ciascun biografo ha delineato il biografato dal punto di vista da cui lo ha contemplato: e lo ha delineato tutto, sebbene non totalmente, perché nessuno di essi ha preteso riprodurre tutti i singoli tratti della sua figura. Se i discorsi e i dialoghi di Gesù nel IV vangelo sono straordinariamente elevati, non per questo sono meno storici di quelli dei Sinot­tici. Sarebbe antistorico supporre che Gesù parlasse in un medesimo tono sempre e in ogni occasione, sia quando si rivolgeva ai monta­nari della Galilea con cui lo fanno parlare di solito i Sinottici, sia quando discuteva con i sottili casuisti di Gerusalemme, con cui per lo più lo fa pariare Giovanni. Prescindendo poi dall'elevatezza dei concetti, il metodo seguito nelle discussioni con gli Scribi e i Fari­sei mostra numerose analogie con i metodi seguiti nelle dispute rab­biniche di quei tempi: dotti Israeliti moderni, particolarmente ver­sati nella conoscenza del Talmud, hanno sagacemente rilevato siffat­te analogie, considerandole come una collettiva conferma del carat­tere storico dei discorsi del IV vangelo. Anche rivolgendosi ai suoi discepoli, Gesù deve aver parlato in toni differenti: più semplice­mente ai primi tempi in cui lo seguivano, più complessamente in se­guito, per sollevarsi fino ad altezze non mai ancora raggiunte pronunziando il discorso di commiato all'ultima cena. Inoltre, fra i discepoli stessi egli dovette avere i suoi intimi e prediletti, a cui doveva riservare confidenze che non comunicava agli altri (cfr. 13, 21-28): intimo fra questi intimi era, come già sappiamo, Giovanni, il quale perciò, anche dal semplice punto di vista storico, fu un testimonio superiore ad ogni altro.

§ 170. E questo singolare testimonio comincia il suo scritto affer­mando che Gesù è il divino Logos fattosi uomo. Ma anche in que­sta affermazione egli mostra il suo senso storico, sebbene applicato ad una visione teologica dei fatti: quel Logos che è dall'eternità presso Dio, è diventato uomo pochi anni fa, e contemplammo la gloria di lui, gloria come di unigenito da Padre (1, 14). Giammai però il ve­race testimonio, scrupoloso nella sua storicità, afferma che Gesù si sia chiamato da se stesso Logos: egli solo, Giovanni, lo chiama con questo nome, sia nel prologo al vangelo, sia in quella sua lettera che si può ben considerare come uno scritto d'accompagnamento al van­gelo (I Giovanni, 1,1), sia nell'Apocalisse (19, 13). In tutto il Nuovo Testamento il termine personale Logos occorre in questi tre soli luoghi. Se ne può concludere che il termine non era usato nè dalla catechesi che metteva capo a Pietro, nè da quella che metteva capo a Paolo: al contrario, nella catechesi orale di Giovanni il termine doveva essere abituale, giacché egli l'impiega fin dalle prime righe senza spiegazione alcuna, certamente supponendolo già noto ai suoi lettori. Il termine, come nuda voce, era già noto alla filosofia greca dai tem­pi di Eraclito in poi: ma al medesimo termine corrisposero lungo i secoli concetti differenti, o presso i Sofisti o presso i Socratici (logi­ca) o presso gli Stoici. Gran parte fece al Logos nelle sue speculazio­ni anche il giudeo alessandrino Filone, ma il suo concetto del Logos è differente da quello dei Greci, e si avvicina piuttosto a quello del­la “Sapienza” dell'Antico Testamento: a quest'ultimo si avvicina anche il concetto dei termini Memra e Dibbura, col senso di parola (di Dio), che si trovano frequentissimi nei Targumin giudaici ma non nel Talmud. In Samaria, poi, Giovanni fu in relazione col più an­tico gnostico cristiano a noi noto, Simone Mago (Atti, 8, 9 segg.), il quale nel suo sistema - qualora se ne accetti l'esposizione fatta da Ippolito (Refut., vI, 7 segg.) - aveva incluso, invece del Logos, il Logismos, che faceva parte della terza coppia di eoni: ed emanata dal Supremo Principio.
§ 171. Fino a pochi anni addietro si affermava fiduciosamente che Giovanni avesse desunto il concetto del suo Logos dall'una o l'altra delle teorie suaccennate, ma più comunemente da Filone. In realtà il Logos di Giovanni, ipostasi essenzialmente divina ed increata, è tutt'altro dal Logos di Filone, che appare come un essere fluttuante fra la personalità e l'attributo divino, e fungente quasi da tratto in­termedio fra Dio immateriale e il mondo corporeo. Ad ogni modo sarebbe oramai inutile insistere su ciò, poiché la differenza fra i due concetti di Logos è stata riconosciuta recentemente dagli studiosi più radicali: lo stesso Loisy, che nella sua prima edizione del com­mento al rv vangelo (1903, pagg. 121-122) aveva sostenuto non po­tersi negare l'influenza parziale delle idee liloniane su Giovanni, nella seconda edizione (1921, pag. 88) ha giudicato improbabile una di­pendenza letteraria da Filone ritenendo che il Logos di Giovanni faccia piuttosto seguito alle personificazioni della Sapienza nell'An­tico Testamento. E’ ciò che, già da secoli, avevano detto i vecchi Scolastici. Anche della dipendenza del Logos di Giovanni dal Mandeismo, non mette conto di parlare: questa teoria è stata un fuoco di paglia che qualche anno fa divampò per breve tempo, ma di cui oggi restano soltanto fredde ceneri (§ 214). E’ dunque da concludersi che il concetto del Logos di Giovanni è proprio esclusivamente a lui, e non trova vere corrispondenze in con­cetti anteriori. Quanto alla voce con cui Giovanni espresse questo suo concetto, sembra che egli la impiegasse perché, trovandola adatta al concetto e divulgata già nel mondo greco-romano, volle avvicinarsi almeno per la strada della terminologia a quel mondo, e cosi gua­dagnarlo al Logos Gesù. Egli quindi diventò greco con i Greci, come egualmente Paolo diventava tutto con tutti, con Giudei e con non Giudei, per guadagnare tutti alla buona novella (I Cor., 9, 19-23). Si narra che Cristoforo Colombo, allorché nelle sue navigazioni era colto da qualche tempesta, usasse collocarsi sulla prora della nave, e là ritto recitasse al cospetto del procelloso mare l'inizio del vangelo di Giovanni: In principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum... omnia per ipsum facta sunt... Sugli elementi perturbatori del creato risonava il preconio del Logos creatore: era l'esploratore del mondo che commentava a suo modo l'esploratore di Dio.

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06/08/2012 17:00


LA CRONOLOGIA DELLA VITA DI GESU'

§ 172. La cronologia della vita di Gesù è tutta sotto un velame di dubbiezza, e non soltanto considerata internamente in sè stessa, ma anche in relazione con la storia contemporanea esterna. Con certez­za assoluta non sappiamo né il giorno né l'anno di nascita di Gesù, né quando egli iniziò la sua operosità pubblica, né quanto tempo questa durò, né il giorno né l'anno della sua morte. Qualche mistico medievale avrebbe forse scorto in ciò l'effetto di predisposizioni arcane; tanto più che l'unico squarcio fatto dal mon­do ufficiale cristiano a quel velame di dubbiezza ha costituito, quasi in punizione dell'audacia, un solenne errore; quando infatti il monaco scita Dionisio il Piccolo nel secolo VI fissò la nascita di Gesù all'anno 754 di Roma, errò per un ritardo di almeno quattro anni, e il mondo cristiano odierno che segue il computo di Dionisio ne perpetua anche l'errore.

In realtà la nostra dubbiezza ha cause, non mistiche, ma umilmente storiche e abbastanza palesi e semplici. Già vedemmo come tutto ciò che sappiamo della vita di Gesù ci sia stato trasmesso dalla catechesi della Chiesa primitiva, da cui dipendono i vangeli (§ 106 segg.): ma né la catechesi né i vangeli ebbero giammai la preoccupazione di esporre una “biografia” di Gesù nel senso che si attribuisce oggi a questo termine. Per noi d'oggi una biografia senza una ben precisa cronologia interna ed esterna è un corpo senza ossatura, e la prima cosa a cui oggi badiamo sono le date. Del resto può darsi benissimo che lo stesso concetto di biografia avessero anche gli evangelisti; i quali però non si curarono dell'ossatura, appunto perché non mira­rono a scrivere una “biografia”.

E in realtà i due evangelisti che portano avanti la loro narrazione in maniera meno lontana dal tipo biografico (sebbene con metodi e scopi fra loro differenti) sono Luca e Giovanni, i quali appunto sono i meno avari di date cronologiche, il primo per i fatti esterni, il secondo per quelli interni. I vangeli, e più generalmente la catechesi in essi riecheggiata, miravano all'edificazione e formazione spirituale, non già all'erudizione storica; senza dubbio era necessario a quella loro mira spirituale nar­rare fatti e dottrine di Gesù, ma non era affatto indispensabile in­quadrare la loro narrazione in una compassata cornice cronologica o ricollegarla con fatti contemporanei esterni. Gesù era il padre del primo evo cristiano, e di un padre scomparso il figlio ricorda con esattezza avvenimenti ed ammaestramenti, anche se trascura di men­zionare il preciso giorno in cui accadde tal fatto o ricevette tale am­monizione: il vero patrimonio morale lasciato dal padre sono i suoi fatti e le sue ammonizioni, mentre la loro cronologia potrà essere tutt'al più un'aggiunta erudita.

Perciò la catechesi primitiva badò al patrimonio, non già all'erudizione; raccolse fatti e dottrine che edificavano lo spirito, senza molto curarsi dei giorni e degli anni che appagavano la curiosità della mente. Tuttavia i due evangelisti testé nominati si curano alquanto della cronologia, appunto perché sono gli ultimi fra i quattro e mirano a scopi particolari oltre a quelli comuni della catechesi. Luca ha qualche preoccupazione di storia universale (§ 141), e perciò egli offre l'unico dato cronologico ben netto che ricolleghi i racconti evangelici con la storia profana (Luca, 3, 1-2). Giovanni non bada alla storia profana, ma vuole precisare molti punti che i prece­denti evangelisti hanno lasciato nel vago: perciò ne precisa anche la cronologia interna, fornendo in proposito quei molti elementi a cui già accennammo (§ 163).
Solo da quei due evangelisti si traggono le date cronologiche disponibili per una odierna “biografia” di Gesù. Se è vero che la geografia e la cronologia sono i due occhi della sto­ria, bisogna oggi raccogliere premurosamente queste date disponi­bili, come si ricercano accuratamente le testimonianze geografiche. Le date sono troppo scarse e le conclusioni spesso troppo incerte, in confronto con la minuziosità che sarebbe oggi desiderio comune; tuttavia, entro certi limiti, un'approssimativa certezza può essere rag­giunta nelle singole questioni che passiamo ad esaminare.


[SM=g27998] La nascita di Gesù

§ 173. Un elemento assolutamente sicuro per fissare la data della nascita di Gesù è che egli nacque prima della morte di Erode il Grande, cioè prima del tempo tra la fine di marzo e il principio di aprile dell'anno 750 di Roma, 4 av. Cr., essendo certo che Erode morì in quel tempo (§12). Ma quanto tempo prima della morte di Erode era nato Gesù? Ricorrendo a vari argomenti si riesce a circoscrivere entro certi limiti il tempo utile anteriore al 750 di Roma. Un argomento si può trarre dal comando di Erode che fece uccidere tutti i bambini nati in lleth-lehem da un biennio in giu' (Mat­teo, 2, 16), ritenendo con ciò d'includervi sicuramente il bambino Gesù: dunque Gesù era nato molto meno di un biennio prima, giacché si può supporre a buon diritto che Erode abbondasse assai nella misura stabilita per esser certo di raggiungere il suo scopo. Ma questa misura di un biennio non risale dalla morte di Erode, bensì dalla visita dei Magi i quali appunto fornirono a Erode la base dei suoi calcoli.

D'altra parte i Magi al loro arrivo trovarono Erode ancora a Gerusalemme (Matteo, 2, 1 segg.), mentre noi sap­piamo che il vecchio monarca, già malato e aggravatosi di salute, si fece trasportare nella tiepida Gerico ove poi morì: possiamo anche ragionevolmente stabilire che questo trasporto avvenne ai primi ri­gori dell'inverno con cui si chiudeva l'anno 749 di Roma, cioè un 4 mesi prima della morte di Erode. La consecuzione dei fatti è dunque questa: nascita di Gesù; arrivo dei Magi a Gerusalemme; decreto di strage dei bambini nati da un biennio; partenza di Erode per Gerico; morte di Erode. Per colle­gare cronologicamente i due termini estremi - cioè la nascita di Ge­sù e la morte di Erode - dobbiamo calcolare il biennio stabilito nel decreto di Erode, pur avendo presente che è una misura assai so­vrabbondante, ma dobbiamo anche farvi l'aggiunta dei 4 mesi testé stabiliti. Un'altra aggiunta da fare è l'intervallo tra l'arrivo dei Ma­gi e la partenza di Erode per Gerico, ma di ciò non sappiamo nulla di preciso. Una terza aggiunta è l'intervallo tra la nascita di Gesù e l'arrivo dei Magi: di questo intervallo sappiamo soltanto che non poté essere inferiore ai 40 giorni della purificazione (Luca, 2, 22 segg.), perché Giuseppe certamente non avrebbe esposto il bambino Gesù al grave pericolo di presentarlo a Gerusalemme se ivi fosse già stata decretata la morte del neonato; tuttavia questo stesso interval­lo può essere stato notevolmente maggiore di 40 giorni.

In conclusione, risalendo per questa via dalla data di morte di Erode, possiamo concludere che la grande sovrabbondanza del biennio decretato da Erode colmi in maniera tale i 4 mesi e i due intervalli testé esami­nati, che ne sopravanzi anche qualche piccolo spazio di tempo quindi Gesù sarebbe nato un po' meno di un biennio prima della morte di Erode, cioè sullo scorcio dell'anno 748 di Roma (6 av. Cr.).
§ 174. Un altro argomento per fissare la data della nascita di Gesù potrebb'essere il censimento di Quirinio, che dette occasione al viag­gio di Giuseppe e Maria a Beth-lehem; ma tale questione è cosi complessa che merita d'esser trattata a parte (§ 183 segg.). Molti studiosi, poi, hanno cercato un altro argomento ricorrendo a dati astronomici, tentando cioè d'identificare la stella apparsa ai Magi con qualche straordinaria meteora. Già il famoso Kepler cre­dette che la stella dei Magi fosse la congiunzione di Giove con Saturno avvenuta nell'anno 747 di Roma (7 av. Cr.); altri dopo di lui, fino ai nostri giorni, la identificarono o con la cometa di Halley o con altre meteore apparse verso questi tempi. In questi tentativi, fuor della buona intenzione, non c'è altro da apprezzare, giacché scelgono una strada totalmente falsa: basta fermarsi un istante sulle particolarità del racconto evangelico (Matteo, 2, 2.9. 10) per com­prendere che quel racconto vuole presentare un fenomeno assolu­tamente miracoloso, il quale non si può in alcun modo far rientrare nelle leggi stabili di una meteora naturale sebbene rara. Numerosi sono stati anche i tentativi per fissare, se non proprio il giorno, almeno la stagione in cui nacque Gesù; ma pure questi tentativi sono tutti vani.

La circostanza che nella notte in cui nac­que Gesù c'erano attorno a Beth-lehem pastori che vegliavano al­l'aperto per custodire i greggi (Luca, 2, 8), non dimostra che allora fosse una stagione mite, forse la primaverile, come talvolta si è con­cluso: risulta infatti che, specialmente nella Palestina meridionale, ov'è Bethlehem, vi erano greggi che rimanevano all'aperto anche nelle notti invernali senza alcun inconveniente.


[SM=g27998] Inizio del ministero di Giovanni il Battista

§ 175. Altri aiuti per circoscrivere il tempo della nascita di Gesù sono offerti dagli evangelisti in occasione dell'inizio della sua ope­rosità, e qui abbiamo in primo luogo il testo classico di Luca (3, 1-2) che riguarda la comparsa in pubblico di Giovanni il Battista: Nell'anno decimo quinto dell'impero di Tiberio Cesare, governando Ponzio Pilato la Giudea, essendo tetrarca della Galilea Erode, e Filippo fratello di lui essendo tetrarca dell'iturea e della regione Traconitide, e Lisania essendo tetrarca dell'Abilene, sotto il sommo sacerdote Anna e Cai fa, la parola di Dio fu su Giovanni figlio di Zacharia nel deserto. Per poter fissare l'anno a cui qui si allude, la cronologia di quasi tutti questi personaggi è troppo ampia, come risulta da ciò che ve­demmo di ciascuno di essi (Pilato, §§ 24-27; Erode, § 15, Filippo, § 19; Anna e Caifa, § 52): anche di Lisania, non ancora visto, sap­piamo troppo poco, cioè unicamente che cessò di governare nel­l'anno 37.

La sola data di Tiberio è qui ben precisa, ma purtroppo la precisione e piu nella mente dello scrittore che in quella degli odierni lettori. Qual è l'anno decimo quinto dell'impero di Tiberio? Poiché Augu­sto predecessore di Tiberio morì il 19 agosto dell'anno 767 di Ro­ma (14 dopo Cr.), il primo anno di Tiberio sembrerebbe cadere dal detto giorno fino al 18 agosto del 768 (15 dopo Cr.), cosicché l'anno decimoquinto cadrebbe dal 19 agosto del 781 (28 dopo Cr.) fino al 18 agosto del 782 (29 dopo Cr.). Questo computo fu il più seguito nel passato dagli studiosi. Tuttavia recentemente si è fatto osservare che in Oriente vigeva l'uso di computare per un anno intero l'intervallo tra la morte del regnante predecessore e l'inizio dell'anno civile seguente, cosicché all'inizio del nuovo anno civile il successore già entrava nel secon­do anno di regno; questo inizio presso i Romani era il principio di gennaio, presso i Giudei al principio del mese Tishri (ottobre) o più raramente del mese Nisan (marzo: inizio dell'anno religioso). Secondo tale computo il primo anno di Tiberio cadrebbe presso i Romani dal 19 agosto fino al 31 dicembre del 14 d. Cr., il secondo occuperebbe l'intero anno 15 d. Cr., e il decimoquinto occuperebbe l'intero anno 28 d. Cr.; presso i Giudei, invece, il primo anno ca­drebbe dal 19 agosto fino al 30 settembre del 14 d. Cr. (owero fino alla vigilia del l° marzo del 15 d. Cr.), e il decimoquinto anno cadrebbe dal l° ottobre del 27 d. Cr. fino al 30 settembre del 28 d. Cr. (ovvero 1° marzo del 28 fino alla vigilia del 1° marzo del 29).

Ma, quasicché questa incertezza non bastasse, si è sollevato un dub­bio anche più radicale. Nominando l'anno decimoquinto dell'im­pero di Tiberio, Luca comincia veramente il suo computo dalla morte di Augusto? ~ da aver presente, infatti, che Augusto due anni prima della sua morte, cioè nell'anno 765 di Roma (12 d. Cr.), aveva eletto Tiberio suo compartecipe nel governo dell'Impero. Questa cor­reggenza, che dava a Tiberio nelle province la stessa potestà d'im­pero del vivente Augusto, ha fatto pensare che il provinciale Luca abbia computato l'anno decimoquinto dell'impero di Tiberio par­tendo dalla data della correggenza di lui, non già da quella della morte d'Augusto; in tal caso l'anno decimoquinto cadrebbe nel 26 d. Cr. In favore di questa interpretazione sono state addotte alcune ra­gioni di analogia, ad esempio il caso di Tito che regnò poco più di 2 anni, eppure alla sua morte contava il anni di governo, da quan­do cioè suo padre Vespasiano lo aveva associato all'impero confe­rendogli la potestà tribunizia; ma, nonostante queste analogie, non sembra verosimile che il computo di Luca parta dalla correggenza di Tiberio. Nessuno scrittore antico e nessun documento archeolo­gico pervenuto fino a noi segue questo computo, e invece come inizio dell'impero di Tiberio è sempre supposta la sua successione ad Augusto.

§ 176. Dallo stesso Luca riceviamo altre due indicazioni cronolo­giche. La prima è che l'inizio del ministero di Giovanni il Battista precedette di poco tempo il battesimo di Gesù e l'inizio dell'ope­rosità pubblica di costui, come si raccoglie sia dal confronto di Lu­ca, 3,1-2, con 3, 21, sia da Atti, 1, 22; 10, 37-38. La seconda è che, al tempo del suo battesimo. L'espressione circa di trenta anni è ricercatamente elastica, a causa del suo avverbio circa. Presso di noi oggi si potrebbe applicare an­che con una differenza di due unità in più o in meno, perché è “circa di trenta anni” tanto un uomo di 32 quanto uno di 28. Presso i Giudei antichi questa elasticità non solo non poteva man­care ma vi sono vari indizi per ritenere che fosse anche maggiore; specialmente se si trattava di tollerare aggiunte, il numero-base po­teva essere accresciuto anche di tre o quattro unità, rimanendo come generico indice minimo: nel caso nostro sarebbe stato anche un uomo sui 34. Ad ogni modo siffatta elasti­cità rende questa indicazione cronologica meno preziosa di quanto sembri a prima vista. Riassumendo le date di Luca abbiamo: 1) che Giovanni il Battista iniziò il suo ministero l'anno decimoquinto di Tiberio, cioè in un tempo che può cadere nel periodo dal 1° ottobre del 27 d. Cr. fino al 18 agosto del 29 d. Cr. a seconda delle varie interpretazioni (escludendo quella del 26 d. Cr.); 2) che poco dopo l'inizio di Gio­vanni, Gesù ricevette il battesimo e iniziò a sua volta la vita pubblica essendo sulla trentina, forse passata. Appare subito che queste indicazioni sono troppo vaghe, e non of­frono una salda base ad un vero computo numerico.

Un'indicazione assai importante è offerta incidentalmente dai Giu­dei che disputano con Gesù, e che riferendosi al Tempio di Geru­salemme esclàmano: In quarantasei anni fu costruito questo san­tuario (e tu in tre giorni lo farai sorgere? (Giovanni, 2, 20). Nel contesto l'evangelista, da accurato cronologo, fa sapere che quando fu pronunziata questa frase era la Pasqua del primo anno della vita pubblica di Gesù (ivi, 2, 13.23). Poiché si può stabilire con sicurezza che Erode il Grande cominciò il rifacimento totale del Tempio nel 20-19 av. Cr., se scendiamo per 46 anni da questa data otteniamo l'anno 27-28 d. Cr., che sarebbe il primo della vita pubblica di Gesù. Si noti la corrispondenza abbastanza esatta tra questa indicazione e quella dell'anno decimoquinto di Tiberio. Supponendo che i Giu­dei parlino di 46 anni totalmente compiuti, questa data conferma più o meno tutte le varie interpretazioni che collocano l'anno decimoquinto di Tiberio tra il 1° ottobre del 27 d. Cr. e il 18 agosto del 29 d. Cr. Nessuna indicazione positiva, invece, si può trarre dalle parole che molti mesi più tardi rivolsero i Giudei a Gesù: Cinquanta anni ancora non hai, e hai visto Abramo? (Giovanni, 8, 57), nonostante il fiducioso impiego che di queste parole fa Jreneo appellandosi an­che alla tradizione. Usando il numero 50, i Giudei evidentemente qui vogliono abbondare riguar­do alla vera età di Gesù, forse anche ricorrendo al numero tipico del giubileo ebraico: ma di quanto abbondassero non sappiamo, e dalle loro parole la vera età di Gesù ci resta ignota.

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Durata della vita pubblica di Gesù

§ 177. Il battesimo di Gesù, che si può praticamente considerare come l'inizio della sua operosità pubblica, di quanto tempo prece­dette la sua morte? In altre parole, quanto durò la predicazione di Gesù? In questa ricerca la guida migliore e in sostanza unica è Giovanni, per le ragioni che già sappiamo (§ 163). Ora il suo vangelo, letto senza arbitrarie correzioni nel testo (troppo spesso praticatevi), men­ziona distintamente tre Pasque ebraiche: la prima al principio della vita pubblica di Gesù, subito dopo il miracolo delle nozze di Cana (Giov., 2, 13); la seconda circa al mezzo della vita pubblica (Giov., 6, 4); la terza in occasione della sua morte (Giov., 11, 55; 12, 1; ecc.). Oltre a queste tre Pasque, Giovanni menziona altre feste ebrai­che: dopo la seconda Pasqua menziona la Scenopegia, ossia i Ta­bernacoli (Giov., 7, 2), le Encenie (Giov., 10, 22), che sarebbero cadute fra la seconda e la terza delle Pasque. Limitandosi perciò a queste indicazioni, bisognerebbe concludere che la vita pubblica di Gesù durò i due anni compresi fra le tre Pasque, e in più quei mesi che trascorsero fra il battesimo di Gesù e la prima di queste tre Pasque. Ma anche qui sorge un motivo di dubbio. Lo stesso Giovanni (5, 1) interpone fra le menzioni della prima e della seconda Pasqua una notizia che suona letteralmente cosi: Dopo queste cose era festa dei Giudei, e sali Gesu' a Gerusalemme. Qual è questa imprecisata fe­sta? Alcuni autorevoli codici greci, aggiungendo l'articolo, leggono era la festa dei Giudei; ma gli altri codici in gran maggioranza e quasi tutte le edizioni critiche moderne leggono senza articolo, e questa sembra ben essere la lezione giusta.

Ad cgni modo3 si legga come si voglia, è gratuito supporre che una o la festa giudaica fosse ai tempi di Gesù soltanto da Pasqua; con la stessa vaga designazio­ne si poteva alludere anche alla Pentecoste o ai Tabernacoli (§ 76), ch'erano “feste di pellegrinaggio” (§74), oppure a quella delle En­cenie ch'era molto solenne e frequentata, o anche ad altre (§ 77). Inoltre si è supposto, già nei tempi antichi, che gli avvenimenti nar­rati da Giovanni in quel capitolo (cap. 5) siano da posporsi crono­logicamente a quelli narrati nel capitolo seguente (cap. 6); in tal caso l'innominata festa (di 5, 1) potrebbe essere appunto la secon­da Pasqua menzionata (6, 4) o più probabilmente la Pentecoste successiva. Questa posposizione ha in proprio favore ragioni gravi (ad esempio, il richiamo di 7, 21-23, ai fatti di 5, 8-16, come ad avvenimenti recenti), tuttavia non è assolutamente necessaria: ad ogni modo la questione cronologica ne rimane indipendente. Dal vangelo di Giovanni, dunque, non risulta che durante la vita pubblica di Gesù siano state celebrate più di tre Pasque.

§ 178. Dai Sinottici non si ricava in proposito un quadro crono­logico, come già sappiamo: tuttavia qualche vaga conferma indi­retta alla cronologia di Giovanni vi si può ritrovare. Nella para­bola del fico sterile, pronunciata da Gesù verso il termine della sua vita pubblica, egli dice: Ecco già tre anni, dacché vengo a cercar frutto... e non trovo (Luca, 13, 7). Questa durata di tempo è forse un'allusione alla durata della vita pubblica di Gesù, che fino allora aveva cercato invano frutti da un simbolico albero sterile: se l'allusione è veramente spinta fino alla coincidenza numerica, abbiamo la conferma del terzo anno in corso di vita pubblica, che già cono­sciamo da Giovanni. Un'altra indiretta conferma si ha in Marco, 6, 39, il quale dice che al tempo della prima moltiplicazione dei pani la folla si sdraiò sull'erba verde. Era dunque la primavera palestinese, forse in mar­zo, poco prima della Pasqua: ciò appunto dice esplicitamente Gio­vanni (6, 4), menzionando nella stessa occasione la seconda Pasqua della vita pubblica. L'episodio delle spighe divelte in sabbato (Matteo, 12, 1-8; Marco, 2, 23-28; Luca, 6, 1-5) suppone una messe ben matura, e perciò un periodo immediatamente successivo alla Pasqua: dunque era una delle due prime Pasque di Giovanni (la terza non può venire in questione), senza che si abbia alcun diritto a supporne una diversa da quelle due. Seguendo poi la serie cronologica offerta da Marco e Luca, si viene a concludere che questa ignota Pasqua testé tra­scorsa era appunto la prima Pasqua di Giovanni (§ 308). L'ap­pellativo di secondo-primo dato a quel sabbato in Luca, 6, 1, non ha alcuna probabilità di essere autentico, e ad ogni modo non si sa assolutamente che cosa significhi, nonostante le mol­te elucubrazioni fattevi sopra.


[SM=g27998] Data della morte di Gesù

§ 179. Tutti e quattro i vangeli, concordemente ed esplicitamen­te, mettono la morte di Gesù in un venerdi (Matteo, 27, 62; Marco, 15, 42; Luca, 23, 54; Giovanni, 19, 31) e in occasione di una Pa­squa. Da Giovanni poi sappiamo che questa Pasqua della morte era la terza della vita pubblica di Gesù. Ora, il mese Nisan in cui cadeva la Pasqua ebraica s'iniziava col novilunio, come gli altri mesi del calendario ebraico ch'era lunare, e la Pasqua, che si celebrava nel pomeriggio del 14 Nisan, coincideva col plenilunio di quel mese. Ecco dunque un bel campo aperto alle ricerche degli astronomi, per determinare quale anno dell'Era Vol­gare corrisponda meglio alle varie condizioni già esposte. La prima condizione è storica. Se Gesù ha iniziato la sua vita pub­blica circa tra il l° ottobre del 27 d. Cr. e il 18 agosto del 29 (§ 175) e l'ha prolungata per due anni ed alcuni mesi, la sua morte non può essere anteriore all'anno 29. D'altra parte non può essere postenore a un anno tale in cui Gesù avesse al massimo 37 anni; egli infatti era sulla trentina, forse anche passata, all'inizio della sua vita pubblica (§ 176), e questa durò circa due anni e mezzo: dunque, pur volendo essere molto abbondanti nel valutare il ter­mine di trentina' alla fine della sua vita pubblica Gesù non poteva avere un'età maggiore della suddetta (34 + 2 e mezzo =36 e mezzo in cifra ab­bondante 37). Ad ogni modo, nelle ricerche astronomiche, si po­tranno esaminare con maggiore ampiezza gli anni dal 28 fino al 34 d. Cr., fra i quali deve trovarsi quello della morte di Gesù. La seconda condizione è dettata dall'apparente dissidio, cui già ac­cennammo (§ 163), fra i Sinottici e Giovanni circa il giorno della morte di Gesù, giacché essa secondo i primi sembra avvenuta il 15 Nisan, mentre secondo Giovanni il 14. Bisognerà dunque aver presenti ambedue questi giorni nei calcoli astronomici. L'ultima condizione è che il ricercato giorno della morte di Gesù cada in un venerdì, sia esso il 14 oppure il 15 Nisan. Accertando i calcoli dei più autorevoli astronomi moderni, venia­mo a sapere che Nell'anno 28 d. Cr.: caddero il 14 Nisan nel martedì 30 marzo, e il 15 Nisan nel mercoldì 31; oppure, il 14 Nisan nel mercoldì 28 aprile o anche nel giovedì 29, e il 15 Nisan nel giovedì 29 o anche nel venerdì 30. Nell'anno 29 d. Cr.: caddero il 14 Nisan nel sabbato 19 marzo, e 15 Nisan nella domenica 20; oppure, il 14 Nisan nel lunedì 18 aprile, e il 15 Nisan nel martedì 19. Nell'anno 30 d. Cr.: caddero il 14 Nisan nel venerdì 7 aprile, e il 15 Nisan nel sabbato 8; oppure, il 14 Nisan nel sabbato 6 mag­gio, e il 15 Nisan nella domenica 7. Nell'anno 31 d. Cr.: caddero il 14 Nisan nel martedì 27 marzo, e il 15 Nisan nel mercoledì 28; oppure, il 14 Nisan nel mercoledì 25 aprile, e il 15 Nisan nel giovedì 26. Nell'anno 32 d. Cr.: caddero il 14 Nisan nel lunedì 14 aprile, e il 15 Nisan nel martedì 15; oppure, il 14 Nisan nel martedì 13 mag­gio, e il 15 Nisan nel mercoledì 14. Nell'anno 33 .d. Cr.: caddero il 14 Nisan nel venerdì 3 aprile, e il 15 Nisan nel sabbato 4; oppure, il 14 Nisan nella domenica 3 maggio, e il 15 Nisan nel lunedì 4. Nell'anno 34 d. Cr.: caddero il 14 Nisan nel mercoledì 24 marzo, e il 15 Nisan nel giovedì 25; oppure il 14 Nisan nel giovedì 22 aprile, e il 15 Nisan nel venerdi 23. In forza della suaccennata condizione che il giorno della morte dev'essere un venerdì, si scarteranno senz'altro gli anni 29, 31 e 32, in cui né il 14 né il 15 Nisan caddero in un venerdì.

L'anno 28, sebbene contenga la possibilità del venerdì 30 aprile (=15 Nisan, è da scartarsi perché cade prima del tempo che per le ra­gioni storiche già viste sembra ammissibile. L'anno 34, sebbene con­tenga la possibilità del venerdì 23 aprile (= 15 Nisan), è da scartarsi perché troppo tardivo. Se Gesù fosse morto in quest'anno avrebbe avuto da anni 38 e mezzo a 39 e mezzo essendo nato circa un biennio prima della morte di Erode (§ 173), e quindi all'inizio della sua vita pubblica avrebbe avuto da 36 anni a 37, che non sembra accordarsi con l'indicazione che egli era allora circa di trenta anni (§ 176). Inoltre se la vita pubblica cominciò al più tardi nel 29 d. Cr. e durò circa anni 2 e mezzo, la morte dovette avvenire prima del 34. L'anno 33 risponde molto bene alle condizioni astronomiche, ma contro di esso vi sono le stesse ragioni storiche rilevate contro l'an­no 34; vi sarà bensì la differenza di un anno in meno per l'età di Gesù, tuttavia sembra ancora poco probabile che un uomo di 35-36 anni sia chiamato circa di trenta anni, ed è senz'altro meno verosimile che la vita pubblica si sia protratta dal 29 al 33 d. Cr. L'unico anno che rimane, cioè il 30 d. Cr., risponde anch'esso mol­to bene alle condizioni astronomiche, e di piu 5 inquadra anche giu­stamente negli altri dati cronologici che abbiamo finora raccolti. Se Gesù è nato circa un biennio prima della morte di Erode, era veramente circa di trenta anni all'inizio della sua vita pubblica, giacché poteva contare allora da 32 a 33 anni; dopo 2 emezzo di vita pubblica, egli contava da anni 34 e mezzo a 35 e mezzo infine la sua morte cade in un venerdì.

§ 180. Tutto ciò è chiaro; ma bisogna lealmente aggiungere che non è altrettanto sicuro, e la mancanza di sicurezza deriva proprio dai calcoli astronomici, più che dai precedenti argomenti storici. I cal­coli astronomici riportati qui sopra saranno esattissimi, ottenuti co­me sono da insigni scienziati dei nostri giorni; il male invece è che altrettanto non possiamo dire dei calcoli su cui i Giudei del tempo di Gesù fondavano il loro calendario. E in realtà pare certo che i Giudei di quel tempo non avessero ancora un calendario fisso, bensì stabilissero mediante l'osservazione diretta dei vari fenomeni le principali date; queste erano special­mente l'inizio dell'anno e dei mesi, e l'intercalazione di un giorno dopo certi mesi e di un mese dopo ogni terzo anno, per far cor­rispondere, bene o male, l'anno lunare all'anno solare. Le norme per fissare queste date son contenute specialmente nel trattato della Mishna intitolato Rosh hashanah (“capodanno “), e sono norme molto empiriche. Il fenomeno principale cui si badava era naturalmente il novilunio. Il caso più semplice e facile era quando la luna nuova si scorgeva subito da Gerusalemme stessa; e allora i sacerdoti addetti facevano accendere segnali luminosi in cima all'attiguo monte degli Olivi, per annunziare alle campagne circostanti e attraverso queste ai distretti più lontani che nel giorno seguente cominciava il nuovo mese.

Ma spesso la luna nuova non si poteva scorgere subito da Gerusalemme, per ragioni climatiche o anche astronomiche; e allora si aspettavano messaggeri dai vari di­stretti che giungessero ad annunziare alle autorità della capitale d'aver scotto la luna nuova, essendosi ritrovati in condizioni di visi­bilità più favorevoli degli abitanti di Gerusalemme questo mes­saggio della luna nuova era stimato così' urgente, che dispensava anche dal riposo del sabbato per potersi recare immediatamente a Gerusalemme. Se non giungeva alcun messaggero, quel giorno d'aspettativa era computato col mese precedente come giorno aggiunto, e il nuovo mese cominciava col giorno seguente. Più arduo ancora era fissare il capodanno, che secondo il calen­dario religioso coincideva con l'inizio del mese Nisan: bisognava, infatti, ad ogni terzo anno aggiungere un tredicesimo mese per la ragione già vista. L'intercalazione del tredicesimo mese era rego­lata dall'osservazione empirica delle colture agricole, che dovevano aver raggiunto un certo grado di sviluppo: infatti per la Pasqua (14 Nisan) dovevano esser mature le prime spighe della nuova mes­se, perché in un giorno (16 Nisan) di quella festività si doveva of­frire al Tempio un manipolo di spighe come primizia. E’ chiaro che, con coteste norme empiriche, il calendario effettiva­mente seguito poteva avere frequenti divergenze dalla realtà astro­nomica; tanto più che talvolta avvenivano anche frodi, testimo­niate dal Talmud, da parte di chi annunziava di aver scorto la luna nuova e aveva interesse a dire il falso. l'ornando pettanto ai surriferiti calcoli degli astronomi- odierni, quello che può destare qualche serio dubbio di non corrispondere al calendario empirico dei Giudei antichi e' il calcolo dell'anno 29 d. Cr., mentre quanto a ragioni storiche detto anno si trova circa nelle stesse condizioni favorevoli dell'anno 30. Se nell'anno 29 la segnalazione della luna nuova fu anticipata erroneamente d'un gior­no, il 14 Nisan cadde nel venerdì 18 marzo e il 15 Nisan nel sab­bato 19, e ciò si accorderebbe ottimamente cosi i dati evangelici della morte di Gesù.

§ 181. Con tanta elasticità di dati ed incertezza di computi non farà meraviglia di trovare la cronologia della vita di Gesù fissata nelle maniere più diverse dagli studiosi, anche in questi ultimi decenni. La nascita è posta, a seconda delle opinioni, in quasi tutti gli anni tra il 12 av. Cr. e il 1° d. Cr.: ma i preferiti sono gli anni tra il 7 e il 5 av. Cr. L'inizio del ministero di Giovanni il Battista, cioè l'anno decimo­quinto di Tiberio, è posto da parecchi all'anno 26 d. Cr., ma più numerosi sono coloro che assegnano detto ministero nella sua mas­sima parte all'anno 28, facendo tuttavia iniziare tale anno o il 1° ottobre del 27 o in un'altra delle date successive già segnalate (§ 175). In questo stesso anno sono comunemente collocati il battesimo di Gesù, posteriore di alcune settimane all'inizio di Giovanni, e l'ini­zio della vita pubblica di Gesù, posteriore di 40 giorni al suo bat­tesimo. La durata della vita pubblica è stata giudicata di un solo anno da alcuni pochi studiosi (che con manifesta arbitrarietà sono co­stretti a correggere i testi di Giovanni, per sopprimere le precise te­stimonianze delle tre Pasque); gli altri studiosi stanno per la durata o di due anni e alcuni mesi, o di tre anni e alcuni mesi: gli im­precisati mesi in più del biennio o del triennio sono quelli che ricollegano il battesimo di Gesù con la prima Pasqua della sua vita pubblica. I partigiani del biennio sono più recenti ma alquan­to meno numerosi dei partigiani del triennio. La morte di Gesù ha ricevuto anch'essa varie assegnazioni. Astraen­do da alcune assegnazioni del tutto strampalate - ad esempio, quel­la di R. ElsIer che la pone all'anno 21 d. Cr. - pochissimi sono gli studiosi che la pongono agli anni 28, 31, 32, 34; tutti gli altri stanno per uno degli anni 29, 30, 33. Numerosi sono tanto i par­tigiani dell'anno 29, col giorno della morte al venerdì 18 marzo (§ 179, cfr. 180 fine), quanto i partigiani dell'anno 33, col giorno della morte al venerdi 3 aprile; più numerosi ancora sono i partigiani dell'anno 30, col giorno della morte al venerdì 7 aprile. Quanto al giorno del calendario ebraico corrispondente al giorno della morte, i partigiani di tutti e tre gli anni si dividono nuova­mente, preferendo o il 14 o il 15 Nisan (§ 536 segg.).

§ 182. Infine, si sarà notato che i precedenti risultati sono stati ottenuti esaminando i soli dati dei quattro vangeli confrontati con i documenti profani, e trascurando del tutto la tradizione ecclesia­stica. Non esiste, infatti, una « tradizione » nel vero senso della pa­rola; esistono soltanto delle opinioni particolari ai vari scrittori antichi, le quali spesso sono manifestamente assurde, talvolta si con­traddicono fra loro, non di rado sono affatto gratuite, e solo qualche rara volta sembrano riecheggiamenti di più antiche notizie autore­voli. Frequentissima è l'assegnazione della nascita di Gesù a qualcuno degli anni posteriori al 4 av. Cr. (morte di Erode), con manifesta assurdità. Varia è la durata concessa alla vita di Gesù: l'autorevole Ireneo, nel passo già accennato (§ 176), afferma che Gesù ha rag­giunto addirittura i 50 anni di età. La vita pubblica è protratta ordinariamente da uno a tre anni (talvolta uno stesso scrittore segue opinioni diverse), non mancano però accenni anche a durate più lunghe. La data della morte è disseminata dall'anno 21 fino al 58 d. Cr. Una certa attenzione, tuttavia, si può prestare ad una voce che as­segna la morte di Gesù all'anno in cui furono consoli L. Rubellio Gemino e C. Fufio Gemino, che fu il 782 di Roma e 29 d. Cr. Questa voce, che già si ritrova in Tertulliano e forse anche in Ippolito (in Danielem, Iv, 23, 3), è riecheggiata in seguito da molti altri documenti, i quali pongono la morte di Gesù sotto i « due Gemini »; non mancano tuttavia dissonanze anche a questa voce, e soprattutto essa è ignorata o esplicitamente contrad­detta da tanti altri scrittori antichi che il suo valore è ridotto prati­camente a quasi nulla. A guisa di riepilogo offriamo la seguente tabella, la cui giustificazione storica è contenuta nei paragrafi precedenti. Essi però mostrano chiaramente che non possiamo attribuire all'intera tabella un valore di certezza (salvo, negativamente, per alcune date escluse), bensì solo un valore di probabilità, che può essere maggiore o mi­nore a seconda delle varie date. Tabella cronologica della vita di Gesu' Nascita di Gesu': sul finire dell'anno 748 di Roma, 6 av. Cr. Inizio del trimistero di Giovanni il Battista: sui principii dell'an­no 28 d. Cr. (o anche tra l'ottobre e il dicembre del 27). Battesimo e inizio della vita pubblica di Gesu': poco tempo dopo la data precedente; Gesù ha da 32 a 33 anni di età Prima Pasqua della vita pubblica di Gesu': marzo-aprile dell'anno 28; età di Gesù, anni 32 e mezzo, 33 e mezzo. Seconda Pasqua: marzo-aprile del 29; età di Gesù, anni 33 e mezzo, 34 e mezzo. Terza Pasqua e morte di Gesù: 7 aprile dell'anno 30, il giorno 14 del mese Nisan; età di Gesù, anni 34 e mezzo, 35 e mezzo.

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06/08/2012 17:05


Il censimento di Quirinio

§ 183. Il solo Luca, l'evangelista che ha talune mire di storia uni­versale (§ 141), mette in relazione la nascita di Gesù a Beth-lehem con un censimento ordinato dalle autorità romane in Palestina: que­sto censimento avrebbe dato occasione a un viaggio di Giuseppe e di Maria a Beth-lebem e alla nascita di Gesù in questa borgata. Ecco il testo di Luca: Avvenne poi in quei giorni che uscì un decreto da Cesare Augusto di censire tutta la (terra) abitata. Questo censimento primo avvenne governando la Siria Cirinio. E tutti andavano a farsi censire, cia­scuno nella propria città. Salì pertanto anche Giuseppe dalla Ga­lilea, dalla città di Nazareth, nella Giudea, nella città di David la quale si chiama Beth-lehem - giacché egli era del casato e della famiglia di David - per farsi censire insieme con Maria, la fidan­zata di lui, ch'era gravida. Avvenne poi che, mentre essi erano colà, si compirono i giorni per il suo parto, e partori, ecc. (2, 1-7). Contro questo racconto si sollevano tre principali obiezioni: contro il fatto stesso del censimento; contro la sua possibilità giuridica; e contro la maniera in cui il censimento sarebbe stato compiuto. Contro il fatto stesso si obietta che noi conosciamo bensì' un censi­mento compiuto nella Giudea da Quirinio (Cirinio), ma esso av­venne negli anni 6-7 dopo Cr., quando Gesù era nato da più di 11 anni; invece nessun documento storico ci attesta che Quirinio abbia compiuto un precedente censimento verso il tempo della na­scita di Gesu', cioè prima della morte di Erode, e nei territori di costui. Contro la possibilità giuridica del censimento si obietta che i territori del vivente Erode erano territori di un re “amico e alleato” di Roma (§ 11), e quindi Roma non aveva alcun diritto a farvi censimenti. Diverso fu il caso del censimento compiuto negli anni 6-7 d. Cr., perché in quell'occasione Archelao, figlio di Erode, era stato deposto da Augusto e i suoi territori passavano sotto il do­minio diretto di Roma. Contro la maniera seguita nel censimento si obietta che dal rac­conto di Luca risulta che si sarebbe seguita la maniera giudaica secondo cui i censiti si recavano a iscriversi nei propri luoghi d'ori­gine (§ 240). Ma si ritiene impossibile che le autorità romane, che avevano ordinato il censimento, adottassero quella maniera inusitata abbandonando per essa l'abituale maniera romana, la quale - per­seguendo il tributum capitis e il tributum soli - si rifaceva al domi­cilio attuale dell'individuo e al luogo ove egli aveva possedimenti. Quale fondamento hanno tali obiezioni? Esaminiamo brevemente questa vecchia questione alla sola luce dei documenti storici, e so­prattutto la prima e principale obiezione mossa contro il fatto stesso del censimento anteriore alla morte di Erode.

§ 184. Di un censimento da compiersi per ordine di Augusto in tutta la (terra) abitata, ossia praticamente nell'Impero romano, par­la esplicitamente il solo Luca. Ciò è vero. Ma se altri documenti non riferiscono esplicitamente ciò che riferisce Luca, non per que­sto Luca ha torto: l'argomento da silenzio, come tutti sanno, è il più debole e infido che vi sia nel campo storico. Fra gli innumere­voli esempi che si potrebbero addurre, basterà ricordare quello del nostro stesso caso, cioè il censimento fatto da Quirinio in Giudea negli anni 6-7 d. Cr.; il quale censimento è attestato dal solo Flavio Giuseppe, e sebbene mostri qualche incongruenza logica e crono­logica, ordinariamente non è richiamato in dubbio. Inoltre, il silenzio da cui si vorrebbe argomentare non è assoluto, e abbiamo molti indizi che c'inducono a supporre un piano di cen­simento generale. Augusto, eccellente organizzatore ed amministra­tore, si era creato un vero protocollo personale, quasi uno specchio della forza demografica e finanziaria dell'impero, perché alla sua morte - a detta di Tacito - fu ritrovato un Breviarium Imperii scritto tutto di sua mano nel quale erano indicate tutte le entrate pubbliche, il numero dei cittadini (romani) e degli alleati ch'erano nelle armi, lo stato della flotta, dei regni (alleati), delle province, delle imposte, dei tributi, dei bisogni, e delle largizioni (Annal., I, 11). Ora, tutte queste precise notizie come avrebbe potuto Augusto sapere senza censimenti, computi, investigazioni, o simili procedi­menti? E procedimenti di tal genere sono in realtà attestati. Augnsto stesso nel celebre monumentum Ancyranum (ad Ankara) afferma di aver compiuto tre volte il censimento dei cives romani, cioè nel 28 av. Cr., nell'8 av. Cr., e nel 14 d. Cr. È noto altronde che nel 28 av. Cr. furono censite le Gallie, ed è molto probabile che verso lo stesso tempo fosse censita anche la Spagna; inoltre dai papiri recente­mente scoperti risulta che in Egitto si eseguivano censimenti perio­dici alla distanza di 14 anni l'uno dall'altro, e il più antico quasi sicuramente attestato è dell'anno 5-6 d. Cr., a cui seguirono quelli degli anni 19-20, 33-34, 47-48 e cosi' di seguito fino al secolo III. Questi provvedimenti dimostrano che il progetto di un censimento generale doveva essere nei piani di Augusto, sebhene la sua attuazione non fosse simultanea in tutto l'Impero, e che egli l'andava attuando gradualmente già da qualche tempo quando nacque Gesù. Veniamo adesso al Quirinio di Luca.

§ 185. Il senatore P. Sulpicio Quirinio ci è noto anche dagli sto­rici romani. Nato a Lanuvio, vicino a Tuscolo, per la sua intelli­gente operosità era salito ad alte cariche nell'Impero: aveva go­vernato a Creta ed a Cirene, e impiger militiae et acribus ministeriis, consulatum sub divo Augusto, mox expugnatis per Ciliciam Ho­monadensium castellis insignia triumphi adeptus, datusque rector Gaio Caesari Armeniam obtinuit (Tacito, Annal., III, 48). Di que­ste cariche a cui allude Tacito, il consolato è da assegnarsi all'anno 12 av. Cr. e l'assistenza al giovanetto Gaio Cesare, nepote d'Augusto, agli anni 1 av. Cr.-3 dopo Cr. Ma il consolato apriva anche la via alla carica di legatus in una provincia imperiale (§ 20); e di fatti troviamo che Quirinio è al governo della provincia di Siria come legato durante gli anni 6-7 dopo Cr., allorché, deposto Ar­chelao, venne in Giudea ad eseguire insieme col procuratore Co­ponio il già accennato censimento (§ § 24, 43). Tuttavia questa legazione di Quirinio in Siria non ha alcuna rela­zione con la nascita di Gesù, giacché non cominciò prima dell'anno 6 dopo Cr., quando cioè Gesù era circa undicenne. Del resto lo stesso Luca mostra di conoscere bene il censimento degli anni 6-7 dopo Cr. e le sue sanguinose conseguenze (cfr. Atti, 5, 37), e quindi sa certamente che quello non può essere il censimento della na­scita di Gesù. Vi fu dunque un censimento anteriore a quello de­gli anni 6-7 d. Cr.? E fu eseguito, anche questo, da Quirinio? Alcuni studiosi, tanto fra protestanti quanto fra cattolici, hanno ri­sposto alle precedenti domande traducendo in maniera particolare il passo di Luca, 2, 2. Noi, sopra (§ 183), l'abbiamo tradotto: Que­sto censimento primo avvenne governando la Siria Cirinio, ed è la traduzione comune; ma gli accennati studiosi lo traducono: Questo censzmento avvenne prima (di quello avvenuto) governando la Siria Cirinio. Con ciò la questione è risolta; il censimento della nascita di Gesù è diverso e anteriore a quello tenuto da Quirinio nel 6-7 d. Cr., sebbene non si dica di quanto tempo anteriore. Questo modo di tradurre l'aggettivo greco dandogli il significato di “an­teriore“, « precedente », è certamente possibile, e se ne trovano esempi negli stessi vangeli (cfr. Giovanni, 1, 15. 30; 15,18), oltre­ché nei papiri e altrove; tuttavia non si può negare che è una tra­duzione peregrina, e che in realtà è suggerita dal desiderio di evi­tare la difficoltà storico-cronologica offerta dal passo. Seguendo per­tanto la spontanea traduzione comune e affrontando in pieno quel­la difficoltà, vi sono altri argomenti per risolverla? Affinché Quirinio eseguisse nella Giudea un censimento contempo­raneo alla nascita di Gesu', era necessario che egli già in quell'epoca fosse legato in Siria, o almeno vi compisse qualche importante mis­sione investito di speciale autorità. Ebbene, a questo proposito ab­biamo testimonianze molto significative.

§ 186. Un'iscrizione frammentaria trovata a Tivoli nel 1764 (oggi al museo Lateranense), confrontata con un iscrizione di Emilio Se­condo trovata a Venezia nel 1880, offre sufficiente base per con­cludere che Quirinio sia stato già una volta legato in Siria in un tempo imprecisato, ma certamente qualche anno prima dell'Era Volgare. Se egli infatti fu console nel 12 av. Cr., questa sua prima legazione di Siria dovrà essere posta senza dubbio dopo questo an­no; ma quanto tempo dopo? Un'iscrizione trovata nel 1912 ad Antiochia di Pisidia informa che Quirinio era duumviro onorario di quella colonia romana, e questa onorificenza induce a credere che egli fosse al governo di Siria già nel tempo dell'iscrizione; il quale però non può essere fissato con precisione di anni. D'altra parte circa fra gli anni 9-1 av. Cr. bisogna includere come legati di Siria tre personaggi che Flavio Giuseppe menziona, senza però comunicarci i limiti estremi deI tempo che rimasero in carica. Essi sono M. Tizio, che è menzio­nato verso l'anno (10) 9 (o anche 8) av. Cr.; Senzio Saturnino che durò dall'8 al 6 av. Cr.; Quintilio Varo che durò dal 6 al 5 av. Cr. Con l'1 av. Cr. è legato di Siria G. Cesare, nepote di Augusto: per gli altri anni di quest'ultimo decennio avanti l'Era Volgare (3-2 av. Cr.), non abbiamo notizie esplicite, le quali pure ci mancano riguardo alla durata di M. Tizio; dunque la prima legazione di Quirinio in Siria può essere avvenuta in uno di questi due inter­stizii, o nel 3-2 av. Cr., oppure subito prima o subito dopo la lega­zione di M. Tizio, cioè dopo l'anno 12 av. Cr. in cui Quirinio fu console, ma prima dell'8 in cui legato di Siria fu Saturnino. Se si suppone che Quirinio fu legato negli anni 3-2 av. Cr., la que­stione del censimento non è ancora risolta, perché Gesù è nato prima del 4 av. Cr. Resta dunque l'altro interstizio fra gli anni 12-8 av. Cr., che bisogna tener presente come una possibilità. Ma riguardo allo stesso Quirinio abbiamo un'altra notizia che po­trebbe offrire una risoluzione diversa in tutto il problema. La cam­pagna contro gli Omonadensi accennata testé fugacemente da Ta­cito è confermata e presentata più ampiamente da Strabone (XII, 6, 5), il quale comunica che Quirinio intraprese questa campagna per vendicare la morte del re Aminta ucciso dagli Omonadensi, briganti della Cilicia; poiché la Cilicia dipendeva dalla provincia di Siria, torna di nuovo la conclusione che Quirinio, conducendo questa campagna, o era legato di Siria o vi godeva di speciale autorità per gli scopi della campagna. Quando avvenne però que­sta campagna? Una risposta sicura anche qui non possiamo darla con notevole probabilità, sebbene non con certezza, si può supporre che avvenisse tra gli anni 10 e 6 av. Cr. Un ultimo dato, negativo ma importante, è offerto incidentalmente da Tertulliano. Questo eccellente giurista, ch'era benissimo in grado di conoscere i documenti anagrafici romani, rinvia con sicurezza al censimento fatto sotto Augusto in Giudea da Senzio Saturnino come a quello da cui risulta la nascita di Gesù: Sed et census con­stat actos sub Augusto tune in ludea per Sentium Saturninum, apud quos genus eius inquirere potuissent (Adv. Marcion., rv, 19). La menzione qui di Saturnino invece che di Quirinio è assoluta­mente inaspettata, e già per questo mostra che Tertulliano non di­pende da Luca bensì attinge la sua notizia da documenti dell'Impero, forse ufficiali; e il valore della notizia, sebbene negativo, è grandissimo, perché già vedemmo che Saturnino fu legato in Siria poco prima o poco dopo Quirinio.

§ 187. Esaminati fin qui tutti i dati disponibili, si presentano due soluzioni dell'intera questione. Una soluzione può supporre che la prima legazione di Quirinio si svolse fra gli anni 10-8 av. Cr. Sul finire di questo tempo egli in­disse il censimento, il quale appunto perché primo incontrò diffi­coltà in Giudea, e si protrasse cosi a lungo da essere condotto a termine dal successore Senzio Saturnino. Presso i Giudei, ch'erano rimasti fortemennte impressionati da questo primo censimento, esso passò alla storia sotto il nome di Quirinio che l'aveva iniziato, e Luca segue questa denominazione giudaica; presso i Romani lo stesso censimento passò sotto il nome di Saturnino che l'aveva ter­minato, e Tertulliano segue questa denominazione romana. Può dar­si anche che Saturnino da principio fosse il subordinato cooperatore di Quirinio nell'esecuzione del censimento: infatti più tardi, nel censimento degli anni 6-7 d. Cr., il procuratore Coponio fu egual­mente cooperatore di Quirinio (§ 24), ed egualmente Emilio Se­condo nella sua lapide (§ 186) dice di aver eseguito il censimento della città di Apamea per ordine dello stesso Quirinio (certamente durante la sua prima legazione). Tuttavia in seguito Saturnino, suc­ceduto a Quirinio nella legazione di Siria, rimase solo anche nel­l'esecuzione del censimento. Una soluzione analoga, ma forse meno probabile, si otterrebbe in­vertendo le due legazioni, anteponendo cioè quella di Saturnino (8-6 av. Cr.) a quella di Quirinio (3-2 av. Cr.). In tal caso Gesù sa­rebbe stato censito in realtà da Saturnino, ma l'intero censimento sarebbe stato poi attribuito a Quirinio che lo terminò. L'altra soluzione parte dal fatto che in una stessa provincia roma­na talvolta potevano ritrovarsi, insieme col legato imperiale, anche altri insigni ufficiali con incarichi particolari, mentre poi legato e ufficiali erano chiamati indistintamente “governatori”, E Questo fatto è dimostrato con certezza soprattutto riguardo alla Siria. E in realtà Flavio Giuseppe parla più volte del nostro Senzio Saturnino e insieme di un (procuratore) Volumnio chiamandoli col­lettivamente “governatori”, o di Cesare (Antichità giud., XVI, 277) o della Siria (ivi, 344), ovvero “prefetti”, della Siria (ivi, 280). Inoltre Nerone, verso il 63, affidò la legazione di Siria a Cizio o Cincio (forse Cestio), ma lasciò in quella provin­cia il precedente legato Corbulone, riserbando a costui il comando militare con poteri straordinari, come a esperto stratega che già aveva guerreggiato contro i Parti (Tacito, Annal., XV, 25, cfr. i segg.). Parimenti nell'ultima guerra contro Gerusalemme il legato di Siria era Muciano, ma Nerone affidò il comando militare a Ve­spasiano. Quanto all'Africa, una pietra miliaria del 75 dopo Cr. nomina due legati Augusti, specificando che uno di essi è addetto al censimento e l'altro al comando militare. Accertata questa possibilità della coesistenza contemporanea di più “governatori”, è da rilevare che Luca afferma il cen­simento essere stato fatto “governando”, Quirinio la Siria. Ma, in primo luogo, non dice che il censimento fu fatto da lui direttamente, come sembra dire la Vulgata; inoltre, egli non specifica che specie di “governo” fosse quello tenuto allora da Quirinio, se civile-mi­litare ovvero solo militare. Poté dunque avvenire che, al tempo della nascita di Gesù, il legato ordinario di Siria fosse Saturnino, mentre Quirinio era il capo militare della guerra contro gli Omo­nadensi. I poteri concessi a Quirinio per questa guerra gli permet­tevano anche di fare censimenti nella provincia in cui guerreggia va e nelle regioni da essa dipendenti. i Tertulliano attribuirebbe il censimento a Saturnino, legato ordinario; Luca l'attribuirebbe a Quirinio, sia perché egli effettivamente lo ordinò in virtù dei suoi poteri militari, sia perché Quirinio era rimasto celebre per il suo secondo censimento che rappresentò l'assoggettamento definitivo della Giudea.
§ 188. Queste soluzioni hanno ciascuna le loro probabilità, ma chia­re e definitive non sono. Il lato in cui esse rimangono in una fa­stidiosa imprecisione, causata dalla mancanza di documenti, è quel­lo cronologico, che invece sarebbe il più importante nei riguardi della nascita di Gesù. Come è sicura la campagna di Quirinio contro gli Omonadensi, cosi si può ritenere quasi sicura la sua prima legazione in Siria avanti all'Era Volgare. Ma in quali anni precisamente avvennero questi fatti? Abbiamo visto che a tale domanda si danno risposte varie e solo approssimative, le quali perciò non offrono una solida base alla cronologia della nascita e vita di Gesù. Rimangono le altre due obiezioni sollevate contro il racconto di Luca (§ 183), le quali però sono molto meno gravi. Poteva un rappresentante di Roma fare un censimento nei territori di Erode, re “amico ed alleato” di Roma? Checché sia della que­stione puramente giuridica, in pratica la cosa era possibilissima e del tutto naturale, data la sudditanza assoluta che legava Erode ad Augusto. Dopo ciò che sappiamo del servilismo che Erode mo­strò sempre ma specialmente negli ultimi anni di sua vita verso Augusto (§ 11), non è neanche da pensare ch'egli ardisse opporsi il giorno in cui l'onnipotente signore del Palatino avesse deciso, per ragioni di politica generale, di censire i territori dell'umilissimo suo vassallo. Quanto alla maniera giudaica seguita nel censimento a preferenza della maniera romana, si può scorgere in questo particolare, non già un'obiezione, ma una conferma alla storicità del racconto di Luca. I Romani, è vero, avevano la loro propria maniera di cen­sire; ma erano anche esperti politici, e perciò sapevano ben evitare inutili difficoltà di governo e non urtare senza ragione la suscet­tibilità dei popoli soggetti. A Roma si sapeva perfettamente che il censimento d'un popolo straniero, soprattutto se era il primo cen­simento, costituiva un'operazione pericolosa, perché rappresentava a prova ufficiale della soggezione di quel popolo per citare un solo esempio, basti ricordare che il censimento delle Gallie comin­ciato nel 28 av. Cr. da Augusto provocò ribellioni gravissime, tanto che fu dovuto sospendere per allora, e poi fu ripreso altre due volte da Druso e poi da Germanico. A Roma, quindi, si saranno previsti con certezza grandi malumori da un censimento di Giudei, tenace­mente attaccati alle proprie tradizioni per motivi religiosi e nazio­nali. E in tali condizioni sarebbe stato insensato aumentare ancora le difficoltà, seguendo la maniera romana. Roma non s'impuntava su vuote formalità: purché il censimento si effettuasse, importava poco che si seguisse la maniera romana o quella giudaica, mentre una elementare prudenza consigliava appunto di seguire la maniera giudaica specialmente in questo primo censimento. Noi, del resto, non sappiamo se nel secondo censimento, fatto da Quirinio nel 6-7 d. Cr., si seguì la maniera romana: può darsi di si, ma può anche darsi che si seguisse la maniera giudaica. Dai papiri, tuttavia, risulta che in Egitto i Romani imponevano ai cittadini che si trovavano fuori dei propri distretti, di ritornarvi in occasione del censimento: il chc; sarebbe in favore del racconto di Luca.


[SM=g27998] [SM=g27998] [SM=g27998] L'ASPETTO FISICO DI GESU’

§ 189. Dell'aspetto fisico di Gesù le fonti degne di fede non dicono assolutamente nulla. Un accenno si è voluto trovare nel racconto del pubblicano Zaccheo; costui, essendo Gesù giunto a Gerico, cer­cava di vedere Gesu' (per conoscere) chi fosse, e non poteva a causa della folla, perché di statura era piccolo: e fatta prima una corsa in avanti, salì su un sicomoro per vederlo, perché di là stava per pas­sare (Luca, 19, 3-4). Dalle quali parole si è voluto concludere che Gesù era piccolo di statura. Questa interpretazione, già proposta un tre secoli fa, è una pura stramberia senza alcun fondamento, sebbene sia stata rinnovata recentemente da R. Eisler (§ 181): è chiaro infat­ti che il soggetto di tutto l'episodio non è Gesù ma Zaccheo, quindi egli di statura era piccolo, e appunto per questo si arrampica sull'albero; del resto ben poco gli sarebbe giovata la sua arrampicatura, se si fosse trattato di vedere un uomo di bassa statura assiepato da molta folla.

§ 190. A questa mancanza di notizie la cristianità successiva, naturalmente, non si rassegnò, né nel campo artistico nè in quello letterario. Per il campo artistico un ostacolo gravissimo alla produzione di una vera e storica effigie di Gesù era stata la circostanza che egli era nato, vissuto e morto in Palestina, ove l'ortodossia giudaica in­terdiceva ogni raffigurazione di esseri animati per paura dell'idola­tria: la prima generazione cristiana, provenendo in enorme mag­gioranza dal giudaismo, non poteva quindi avere alcun motivo e desiderio di trasmettere un'effigie di Gesù. Al contrario, se Gesù fosse vissuto fuori della Palestina e la maggior parte dei primi cristiani fosse appartenuta alla civiltà greco-romana, non è improbabile che qualche delineazione del suo aspetto fisico sarebbe stata curata fin da quei tempi. E cosi le più antiche raffigurazioni superstiti di Gesù sono in Occidente quelle delle catacombe (II-III secolo) e in Oriente le pitture bizantine (IV secolo), le quali tutte non riproducono lineamenti storici, ma dipendono esclusivamente da motivi ideali e sono creazioni di fantasia. Nel campo letterario dipendono egualmente da motivi ideali le più antiche descrizioni dell'aspetto fisico di Gesù, e si dividono in due correnti totalmente diverse. I motivi ideali sono passi dell'Antico Testamento riferentisi egualmente al Messia, il quale però è presen­tato sotto aspetti diversi.
In uno dei carmi del “servo di Jahvè s’era stato affermato: Figura egli non aveva nè beltà, e lo guardammo e non (aveva) sembianza tal che lo pregiassimo (Isaia, 53, 2); d'altra parte un canto messianico, in forma di mistico epitalamio, aveva esclamato: Bellissimo tu sei fra i figli d'uomo: soffusa e' la grazia sulle tue labbra (Salmo 45, 3 ebr.). Indubbiamente testi di questo genere non miravano alle fattezze fisiche del futuro Messia, ma valevano come semplici allegorie, adom­brando il primo i dolori e il secondo i trionfi di lui. Tuttavia non mancarono scrittori cristiani che li presero alla lettera, pretendendo ritrovarvi descrizioni dell'aspetto fisico di Gesù; il quale perciò fu creduto brutto o bello, a seconda della citazione da cui si traeva argomento.

§ 191. I partigiani della bruttezza di Gesù sono in genere più an­tichi; ma di solito, o esplicitamente o implicitamente, essi si riferi­scono al citato passo di Isaia, mostrando con ciò di mirare più al­l'idea del Messia sofferente che alle fattezze fisiche di Gesù, co­sicché non è sempre possibile precisare il loro pensiero. Per S. Giu­stino martire Gesù era deforme; per Clemente Alessandrino era brutto il viso; secondo Tertulliano era privo di beltà: S. Efrem siro lo dice alto tre cubiti, cioè poco più di metri 1,35. Origene, che riporta l'obiezione del pagano Celso (§ 195) secondo cui Gesù era piccolo, sgraziato e senza avvenenza, non sembra dissentire molto su questo punto dal suo avversario; ad ogni inodo egli riporta anche la curiosa opinione di certi cristiani, secon­do cui Gesù a volta a volta appariva brutto agli empi e bello ai giusti, e confessa che tale opinione non gli sembra. Più numerosi, ma più recenti, sono i partigiani della bellezza di Gesù, quali Gregorio di Nissa, Giovanni Crisostomo, Teodoreto, Girolamo, ecc. Anche costoro partono di solito da ragioni non storiche ma ideali, e specialmente dal passo del Salmo citato sopra. Tuttavia fin qui sono affermazioni vaghe, di bruttezza o bellezza generica. Più tardi cominciano le precise descrizioni di Gesù e sem­pre come di uomo specioso.

§ 192. L'anonimo pellegrino di Piacenza che verso l'anno 570 visitò la Palestina, vide in Gerusalemme la pietra sulla quale Gesù stette ritto quando auditus est a Pilato, ubi etiam vestigia illius remanse­runt. Pedem pulchrum, modicum, subtilem, nam et staturam com­munem, faciem pulch ram, capillos subanellatos, manun: formosam, digita longa imago designat, quillo vivente picta est et posita est in ipso pra'etorio (Geyer, itinera Hierosol., pag. 175). Verso l'anno 710 Andrea metropolita di Creta, dopo aver parlato del ritratto di Gesù dipinto secondo la tradizione da Luca, soggiun­ge: Ma anche il giudeo Giuseppe racconta che il Signore e' stato visto nella stessa maniera: con sopracciglia congiunte, con occhi belli, con viso lungo, alquanto curvo, di buona statura come certamente appariva dimorando insieme con gli uomini; similmente (descrive) anche l'aspetto della Madre di Dio, come oggi si vede (dall'immagine) che taluni chiamano anche la Romana (frammento in Migne, Patr. Gr., 97, 1304). Questa descrizione proviene certamente, non già dal giudeo Giuseppe (Flavio), ma da una precedente tradizione bizantina, e sembra anche risentire dell'opposta opinione che credeva alla bruttezza di Gesù (di cui è forse traccia l'aggettivo alquanto curvo, interpretato qui beni­gnamente). Ad ogni modo gli elementi principali di questa descrizio­ne sono ripetuti ancora nella tradizione successiva, che li mescola con altri tratti desunti da fonti ignote o anche dalla fantasia.
Il monaco Epifanio verso l'800 a Costantinopoli era in grado di affermare che Gesù era alto circa 6 piedi (circa metri 1,70), con ca­pigliatura bionda, con una leggiera inclinazione del collo in modo che il suo aspetto non era del tutto perpendicolare, col viso non rotondo ma alquanto allungato come quello di sua madre, alla quale del resto egli rassomigliava in tutto. L'altezza di Gesù è invece di soli 3 cubiti (poco più di metri 1,35) secondo la Lettera sinodale dei Vescovi di Oriente dell'anno 839 e secondo il discorso di un anonimo bizantino sull'immagine della Vergine, i quali documenti del resto sostengono la bellezza di Gesù, pur ripeten­do meccanicamente elementi sparsi delle descrizioni già viste.

§ 193. In seguito ancora gli stessi elementi passarono in Occidente, e confluirono fra l'altro anche nella Leggenda aurea di Giacomo da Varazze (Varagine) del secolo XIII. Verso lo stesso tempo fu composta la cosiddetta Lettera di Lentulo, che ebbe gran fortuna in Occidente fra i secoli XIV-XI e si presenta come inviata al Senato romano da un favoloso predecessore di Pilato, di nome Lentulo; in essa è conte­nuta la seguente descrizione, il cui inizio dipende evidentemente dal famoso testimonium flavianum (§ 91), mentre il seguito tradisce re­miniscenze delle descrizioni precedenti: Apparuit temporibus istis et adhuc est homo (si fas est hominem dicere) magna virtutis no­minatus Jesus Christus, qui dicitur a gentibus pro pheta veritatis, quem ejus discipuli vocant filium Dei, suscitans mortuos et sanans (omnes) lan guores, homo quidem statura procerus mediocris et spee­tabilis, vultum habens venerabilem, quem possent intuentes diligere et formidare, capillos habens coloris nucis avellanae praematura', pla­nos fere usque ad aures, ab auribus (vero) circinnos crispos, aliquan­tulum ceruliores et fulgentiores, ab humeris ventilantes, discrimen habens in medio capitis, juxta morem Nazaraenorum, frontem pia­nam et serenzsstmam, cum facie sine ruga et macula (ali qua), quam rubor (moderatus) venustat: nasi et oris nulla prorsus (est) repre­hensio; barbam habens copiosam capillis concolorem, non longam, sed in mento (medio) parum bifurcatum; aspectum habens simpli­cem et maturum, oculis glaucis variis et claris existentibus; in increpatione terribilis, in admonitione blandiens et amabilis, hilaris servata gravitate; ali quando flevit, sed nunquam risit; in statura cor­poris pro pa gatus et erectus, manus habens et bracizia visu delecta­buia, in colloquio gravis, rarus et modestus, ut merito secundum pro phetam diceretur: “Speciosus inter filios hominum”.
Quest'ultima citazione è certo edificante, fatta com'è dal presunto pagano Lentulo; ma è costituita appunto dal Salmo (45, 3 ebr.) che sopra abbiamo citato come principale ispiratore di quella corrente cristiana che ha parteggiato per la bellezza fisica di Gesù. Intanto tutto il Medioevo cristiano era convinto di possedere, in siffatte descrizioni letterarie e nelle relative immagini pittoriche, la vera effigie di Gesù, chiamata anche con termine in parte bizantino la vera icone, che il volgo personificò in Veronica. Qual è colui, che forse di Croazia Viene a veder la Veronica nostra, Che per l'antica lama non si sazia, Ma dice nel pensier fin che si mostra: Signor mio Gesu' Cristo, Dio verace, Or fu si fatta la sembianza vostra? Dante, Paradiso, XXXI, 103-108. Movesi il vecchierel canuto e bianco Del dolce loco ov'ha sua eta' fornita E da la famigliola sbigottita Che vede il caro padre venir manco: Indi traendo poi l'an ti quo fianco Per l'estreme giornate di sua vita, Quanto piu' può col buon voler s'aita Rotto dagli anni e dal cammino stanco. E viene a Roma, seguendo il desio Per mirar la sembianza di colui Che ancor ìà su nel ciel vedere spera... Petrarca, Canzoniere, XVI.

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06/08/2012 17:07


LE INTERPRETAZIONI RAZIONALISTE DELLA VITA DI GESÙ

§ 194. Le fonti della vita di Gesù - ossia in sostanza i vangeli - ricevono la loro incomparabile importanza storica dall'argomento che trattano e dal modo come lo trattano. Loro argomento è l'origine della massima corrente religiosa, che è anche la più radicale inno­vazione apparsa nella storia della spiritualità umana, cioè il cristia­nesimo. Questo argomento poi è trattato senza mire polemiche né apparato erudito, ma solo mediante la comunicazione semplice e piana di dati biografici non abbondanti circa il fondatore del cri­stianesimo, e di punti essenziali poco più abbondanti circa la sua dottrina. Ma se queste notizie evangeliche non sono moltissime, hanno tuttavia un carattere che le distingue nettamente dalle notizie prevenuteci circa altri fondatori di grandi religioni. Taluni di costoro, ad esem­pio il Buddha e specialmente Zarathushtra, sono oggi figure storiche vaghe e dai lineamenti sfumati; le sicure notizie che ne abbiamo di­stano molto per tempo e per luogo d'allargamento, e se da esse si può concludere con certezza l'esistenza storica dei rispettivi perso­naggi e l'epoca approssimativa in cui vissero, poco più di questi generici lineamenti possiamo estrarne, mentre il vero volto di quei personaggi rimane per noi coperto da un velo più o meno denso. Al contrario le notizie evangeliche circa la vita e la dottrina di Gesù, pur non pretendendo affatto di esaurire l'argomento, sono precise, circostanziate, spesso minuziose; soprattutto poi esse si presentano come provenienti o direttamente da discepoli immediati di Gesù, i quali gli erano stati a fianco lungo tempo e conoscevano bene uomi­ni e cose, o almeno da informatori di poco posteriori, i quali ave­vano goduto di lunga familiarità con gli stessi discepoli. Oltre a ciò le fonti evangeliche, trattando della vita e della dottrina di Gesù, non fanno in sostanza che esporre tutto un tessuto di fatti miracolosi accentrati attorno a lui. Ora, è vero che pure agli inizi di altre grandi correnti morali si ritrovano fatti meravigliosi di vario genere e di realtà storica indiscutibile, quali l'arcano daimònion che guida occultamente Socrate nel rinnovamento della filosofia gre­ca, oppure le gesta appena credibili di Alessandro Magno che mi­ziano il travolgente ellenismo; ma fatti di tal genere sono bensì meravigliosi, non già miracolosi, giacché nè il fenomeno psicologico di Socrate sembra che entrasse nel campo propriamente fisico, nè le gesta di Alessandro, per quanto superassero l'ordinario livello delle imprese umane, risultano in contrasto con le leggi fisiche della na­tura. D'altra parte, anche limitandosi al campo strettamente reli­gioso, sono esistiti fondatori di potenti religioni, come Mani e Mao­metto, che non si sono presentati affatto come operatori di miracoli, secondo i più sicuri documenti storici, e non hanno avuto alcuna pre­tesa di essere taumaturghi. I vangeli invece, mentre descrivono Gesù come del tutto alieno da risonanti gesta militari o politiche, gli attribuiscono fin dal suo concepimento, per continuare anche dopo la sua morte, ogni sorta di miracoli fisici, compiuti tanto su se stesso quanto su altri uomini, tanto su esseri viventi quanto su corpi ina­nimati: inoltre ricollegano intimamente siffatti miracoli con la sua missione di fondatore di una nuova religione, presentandoli come prove di quella missione. Da tutto ciò scaturiscono tre conseguenze strettamente concatenate fra loro. Stando cioè alle fonti evangeliche, in primo luogo i fatti e i detti che noi sappiamo di Gesù ci vengono comunicati da persone o contemporanee e familiari a lui, o almeno di poco posteriori ma sempre ottimamente informate; - in secondo luogo, questi nostri in­formatori attestano fatti strettamente miracolosi; - in terzo luo­go, questi fatti sono stati operati a provare la missione religiosa di Gesù. Il passaggio dall'uno all'altro di questi tre punti è spontaneo; il let­tore che scorrendo i vangeli accetta il primo punto, passa inevitabil­mente al secondo, e da questo inevitabilmente al terzo salvo che trovi il modo di spezzare uno dei tre anelli della catena. Se la catena non è spezzata il lettore deve finire logicamente con accettare e fare sua propria la religione predicata da Gesù; questo, del resto, è lo scopo apertamente confessato da uno dei vangeli quando conclude Tali cose sono state scritte affinché credendo abbiate vita nel nome di lui (Giovanni, 20, 31).

§ 195. La storia delle ricenche fatte lungo i secoli sulla biografia di Gesù è, in sostanza, la storia delle prove a cui è stata sottoposta la saldezza di ciascuno di questi tre anelli. - Sono veramente autorevoli, per tempo e per luogo, gl'informatori evangelici? - I fatti straordina­ri da essi narrati sono attestati con veracità ed obiettività, e rivestono un carattere veramente miracoloso? - Questi fatti dimostrano veramente l'autenticità della missione religiosa di Gesù? Naturalmente, conforme alla differente indole dei vari tempi, si è insistito più sul­l'uno o sull'altro di questi tre punti; ma da essi non si è usciti, né si sarebbe potuto uscire. Il terzo e ultimo punto è stato il meno dibat­tuto, sia perché esso è di natura più filosofica che storica, sia perché la sua accettazione è praticamente inevitabile quando siano accet­tati i due punti precedenti, e ciò tanto nei secoli passati quanto ai nostri tempi; sebbene oggi, col predominio del metodo storico-cri­tico, il punto più discusso sia divenuto il primo, cioè il valore storico degli informatori evangelici. Gli antichi scrittori, accettando i vangeli come libri sacri e ispirati, non sentivano necessità di dimostrare in modo particolare la loro au­torità storica, salvo nel caso che questa fosse impugnata da scrittori non cristiani: ma ordinariamente i vangeli erano per essi libri di speculazione teologica o di parenesi edificativa. Non mancarono però dei casi in cui la necessità apologetica richiamò la loro attenzione particolare sul valore puramente storico dei vangeli. Anche prima che nell'anno 400 S. Agostino scrivesse il De consensu evangelista­rum, erano stati mossi contro la credibilità dei racconti evangelici gli attacchi di Celso, a cui aveva risposto Origene, e poi quelli di Porfirio a cui avevano replicato parecchi cristiani. Purtroppo gli scritti di ambedue i filosofi pagani non sono giunti fino a noi; ma dalle notizie indirette che ne possediamo, possiamo farcene un'idea approssimativa. Celso, poco prima del 180, pubblicò il suo Discorso veritiero, con cui assale in minor parte Gesù e in maggior parte i cristiani. Egli tiene a far rilevare che in precedenza si è informato bene del suo argo­mento, giacché ripete fiduciosamente rivolto ai cristiani: “Io so tutto (sul conto vostro)!”; ha infatti letto i vangeli, e li cita nel suo discorso attribuendoli regolarmente ai discepoli di Gesù. Ciò nonostante egli accetta dai vangeli solo i fatti che corrispondono alle sue mire polemiche, quali le debolezze della natura umana di Gesù, il lamento della sua agonia, la sua morte in croce, ecc., che sarebbero a parer suo tutte cose indecorose per un Dio: invece sostituisce gli altri dati biografici con le sconce calunnie anticristiane messe in giro già allora dai Giudei; spesso poi altera l'indole dei fatti, talvol­ta deforma anche le parole delle citazioni, e in genere sparge a pie­ne mani il ridicolo sull'odiato argomento con un metodo che anticipa sotto vari aspetti quello del Voltaire. Ma queste ragioni storiche sono, in realtà, solo sussidiarie, e il vero argomento fondamentale è filo­sofico: Celso, che mira a rinsaldare l'unità politica dell'Impero ro­mano di fronte alla minaccia dei Barbari, giudica indiscutibilmente assurda l'idea di un Dio fattosi uomo, e quindi erronea la storia evangelica; perciò i cristiani, se vorranno essere ragionevoli, dovranno abbandonare tali assurdità e ritornare ai tradizionali dei del­l'Impero. Porfirio, il discepolo del neoplatonico Plotino, è molto più sodo di Celso. Nei suoi 15 libri Contro i cristiani, apparsi sullo scorcio del secolo III, egli conserva un tono più moderato (a quanto possiamo raccogliere dai frammenti), e si dà tutto a rilevare le contraddizioni o inverosimiglianze storiche ch'egli trova nei vangeli; ma anche qui, come in Celso, l'obiezione più forte è sollevata in nome dei principii filosofici: “Può patire un Dio? Può risuscitare un morto?”. La ri­sposta negativa che evidentemente bisogna dare a tali domande, se­condo Porfirio, decide anche di tutta la questione; qualunque inter­pretazione dei racconti evangelici sarà preferibile a quella che am­metta il patimento di un Dio o la resurrezione di un morto. Quando l'impero diventò ufficialmente cristiano, non solo non com­parvero più nuovi scritti contro l'autorità storica dei vangeli, ma disparvero anche quelli già pubblicati: ad esempio, i libri di Por­fino Contro i cristiani. furono ufficialmente proscritti per decreto della corte di Bisanzio nel 448. Seguitarono tuttavia a circolare, scritte in ebraico o trasmesse oralmente, le sconce calunnie giudaiche di cui già si era servito Celso, e che più tardi confluirono nel libello Toledòth Jeshua, di cui gia si è trattato (§ 89).

§ 196. La Riforma protestante non disturbò direttamente il con­corde giudizio della cristianità circa l'autorità dei vangeli: sembrò anzi rafforzarlo perché, respingendo ogni autorità di tradizione e di magistero ecclesiastico e non ammettendo altra rivelazione che quella scritta, tanto meno avrebbe potuto richiamare in dubbio l'autorità anche storica dell'unica fonte della rivelazione. Ma la salvaguardia protestante era rafforzata solo apparentemente, mentre alla prova dei fatti risultò fallace e rovinosa: i protestanti stessi mossero i primi attacchi contro i vangeli e li rinnovarono poi continuamente fino ad oggi, cambiando sempre le posizioni di combattimento ma sempre applicando puntualmente un principio fondamentale nella Riforma, quello del libero esame. Ma anche su questo mutamento pratico del protestantesimo ebbero un'influenza decisiva le idee filosofiche esterne, come già presso gli antichi critici pagani: dai quali, infatti, nei tempi nuovi furono inconsciamente ricopiati taluni atteggiamenti. I primi a romperla con il concetto ortodosso protestante furono alcuni seguaci del Deismo in­glese, che fra altro identificava rivelazione soprannaturale e ragione naturale: alcuni tentativi fatti in tal senso, specialmente con la mira di eliminare l'elemento taumaturgico dai miracoli evangelici (Wool­ston, 1730; Annet, 1744), non ottennero larga risonanza, ma rimasero nondimeno come semi per il futuro. In Francia il Filosofismo s'inoltrò alquanto sulle stesse strade. L'en­ciclopedico Voltaire non avrebbe potuto fare a meno di occuparsi anche dei vangeli, e lo fece col suo abituale ricorso a sarcasmi de­nigratori e a sottigliezze sofistiche; sia in altri dei suoi innumerevoli scritti, sia specialmente ne La Bible enfin expliquée (1776) e nella Histoìre de l'établissement du christianisme (1777), egli tratta Gesù da vanitoso impostore, S. Paolo da energumeno insensato, rimette a nuovo le vecchie calunnie delle Toledoth Jeshu, e mescolandole con le leggende di vangeli apocrifi le contrappone ai dati dei vangeli canonici.

§ 197. Ma i meschini risultati ottenuti dal Deismo inglese e dal Filosofismo francese, furono di gran lunga superati in Germania dall'Illuminismo (Aufklàrung), il quale, mentre era ostile non meno delle altre due scuole a ogni idea di soprannaturale, era per di più sboc­ciato nella stessa patria della Riforma e del libero esame. Nel tempo che il Voltaire si perdeva in Francia nei suoi lazzi sconnessi, in Ger­mania si portavano a termine tentativi più organici e complessi. Un professore di lingue orientali ad Amburgo, H. S. Reimarus, poco prima della sua morte (1768) finì di scrivere una Apologia degli adoratori razionali di Dio, di ben 4000 pagine, che non ardi però pubblicare; ma ne pubblicò sette ampi estratti (nel 1774, 1777 e 1778) il Lessing, allora bibliotecario a Wolfenbùttel, come Frammenti di un anonimo, di cui gli ultimi due ricevettero i rispettivi titoli di Sulla storia della resurrezione e Dello scopo di Gesu' e dei suoi di­scepoli. In questi estratti il Reimarus sferra un ordinato attacco dap­prima contro ogni idea di soprannaturale, poi contro la rivelazione dell'Antico Testamento, e infine contro tutta la storia evangelica. Gesù sarebbe stato un focoso agitatore politico, che voleva suscitare una sommossa popolare contro i Romani padroni della Palestina; fallita la sommossa con la crocifissione di Gesù, i suoi seguaci avreb­bero travisato il vero scopo di lui, spacciandolo per rinnovatore pu­ramente spirituale e religioso; ne avrebbero perciò rapito il corpo, dicendo che era risuscitato e che la sua morte era servita a redimere l'umantà; i quattro vangeli canonici non sarebbero che la consacra­zione ufficiale di questa catena di disinganni e di inganni, giacché i cristiani non sono che dei pappagalli i quali ripetono ciò che sen­tono dire. Ma nel paese stesso dell'Illuminismo un'interpretazione di tal genere, anche prescindendo dal suo palese fanatismo anticristiano, era o appariva troppo puerilmente semplicista per poter incontrare molti consensi; e in realtà, se essa toglieva dai racconti evangelici l'« irra­zionale » elemento miracoloso, v'introduceva una sproporzione non meno irrazionale tra causa ed effetto, facendo dipendere l'intero cristianesimo da un ammasso di deliri e di ciurmerie: il che sarebbe stato un “miracolo” contro i principii storici più elementari, arduo ad ammettersi non meno dei miracoli evangelici. Perciò i Frammenti dell'anonimo di Wolfenbiìttel produssero il solo risultato di segnalare una via sbagliata nell'interpretazione anti-soprannaturale della storia evangelica, e si attirarono parecchie confutazioni da parte prote­stante. Fra le quali è notevole quella di J. S. Semier (1779), conosciuto per i suoi lavori di filologia sacra e specialmente per il metodo dello « storicismo critico » applicato ai vangeli; questo metodo, ispirato anch'esso al Deismo inglese, scorgeva nei vangeli la sintesi di correnti spirituali diverse, trovava nella predicazione di Gesù molti « adat­tamenti » fatti a malincuore di fronte ai pregiudizi dei contempora­nei, e scendeva inoltre a minute interpretazioni fisico-naturali di mi­racoli evangelici.

§ 198. Su quest'ultima via si inoltrò, andando fino in fondo, H. E. G. Paulus, professore ad Heidelberg. Fallito il tentativo di Reimarus di rigettare in massa i fatti miracolosi dei vangeli, il Paulus li ac­cettò invece integralmente, ma tentò spogliarli dell'elemento sopran­naturale mediante una interpretazione naturalistica. Egli cioè distin­se nei racconti evangelici il fatto materiale narrato, e il giudizio dato su esso dall'evangelista: il fatto era oggettivamente vero, almeno quanto alla sostanza, mentre il giudizio era falso e doveva essere sostituito. Così, ad esempio, il racconto di Gesù che cammina sulle acque era interpretato come una passeggiata sulla spiaggia, o tutt'al più come un inoltrarsi che Gesù fece nell'acqua profonda solo qualche palmo per avvicinarsi alla barca dei discepoli: la moltiplicazione dei pani era spiegata come dovuta al fatto che Gesù e i discepoli condivisero le cibarie, di cui erano provvisti, con taluni che ne erano sprovvisti, inducendo il resto della turba a fare altrettanto con l'efficacia del loro esempio; le sanazioni di ciechi e di sordi erano dovute a speciali colliri e polveri, di cui Gesù conosceva l'efficacia; la resurrezione di Lazzaro, e quella di Gesù stesso, furono soltanto dei risvegli, perché ambedue non erano veramente morti ma solo in letargo, da cui si riebbero col riposo del sepolcro; e cosi di seguito. I miracoli di Gesù, insomma, sarebbero stati o atti filantropici, o guarigioni mediche, o effetti provvidenziali del caso, ad ogni modo sempre fatti naturali. Questo metodo, esposto dal Paulus nel suo Commento ai tre primi VangeIi (1800-1804) e nel Manuale esegetico (1830), e insieme applicato praticamente per la sua Vita di Gesu' (1828), voleva essere una spiegazione «razionale» dei fatti evangelici. Di qui il nome di «razionalismo» dato al metodo stesso; il cui vero iniziatore però fu il già visto Semier, mentre il Paulus non ne fu che l'ampio divulgatore. (Anche oggi molti studiosi negatori del soprannaturale seguitano ad applicare a questo solo metodo il termine di “razionalismo”, men­tre sarebbe più esatto quello di “naturalismo” conforme all'indole stessa del metodo; per gli studiosi cattolici, invece, “razionalismo” è più genericamente il metodo che nega il soprannaturale). Notevole è il fatto che il Paulus fu di facile contentatura nella que­stione dell'origine dei vangeli, attribuendoli senz'altro agli autori in­dicati dalla tradizione. Del resto questa sua arrendevolezza si spiega facilmente, giacché a lui premeva aver dei “fatti” sicuramente at­testati da autori molto antichi; egli poi avrebbe provveduto a sba­razzarli dagli antichi “giudizi”, passandoli alla trafila del suo si­stema.

§ 199. Il metodo del Paulus colpì, non già per la sua ingegnosità, ma per la sua ingenuità, e la reazione ad una ingenuità cosi colossale venne immediatamente. Già nel 1832 lo Schleiermacher dettava quelle lezioni universitarie, da cui fu estratta e pubblicata postuma la sua Vita di Gesu' (1864) d'indole più filosofica che storica, e che rappresentò un compromesso fra l'ortodossia protestante e la negazione del soprannaturale; in quel tempo stesso, poi, D. F. Strauss stava elaborando un sistema del tutto opposto a quello del Paulus, pur mirando allo stesso scopo di lui, cioè ad eliminare il soprannaturale dai vangeli. Su questo punto lo Strauss è di una lealtà e di una franchezza singolari, confessando apertamente che se i vangeli sono fonti totalmente storiche, il me­raviglioso non si può sopprimere dalla vita di Gesù, se invece il miracolo e la storia sono fra loro incompatibili, i vangeli non pos­sono esser più fonti storiche. Ma allo Strauss parve che tentar di sopprimere l'elemento miracoloso dai vangeli col metodo razionalista-naturalistico del Paulus fosse una sciocca goffaggine, e di quel me­todo egli fece in realtà una critica cosi serrata e sensata che valse per una sentenza di morte; egli quindi credette poterlo sostituire, per ot­tenere lo stesso risultato, ricorrendo al metodo razionalista-idealistico, cioè alla teoria del “mito” d'ispirazione hegeliana ch'egli applicò nella sua Vita di Gesu' (Ia edizione, 1835-1836). Secondo lo Strauss, il mito è un puro concetto ideale, espresso però sotto forma d'un fatto storico riferentesi alla vita di Gesù: quindi il valore del mito non è già nel “fatto” narrato, bensì nell'”idea” racchiusa in quel fatto apparente, e velata vi dentro secondo il simbo­lismo e l'immaginativa degli antichi. Questa teoria del mito non è però applicata illimitatamente, giacché lo Strauss non dubitò affatto dell'esistenza storica di Gesu' e dei principali dati della sua biografia: solo che nei vangeli l'elemento mitico, formatosi sotto l'influenza di idee messianiche dell'Antico Testamento, si trova mescolato con quello storico, ed è ufficio dello studioso critico distinguere i due elementi. Per ottenere questa distinzione le norme fissate dallo Strauss sono specialmente le seguenti. In primo luogo - com era da aspettarsi - è mitico tutto ciò che riveste carattere miracoloso o contrario alle leggi d'evoluzione storica; parimenti mitici sono i fatti presentati come rispondenti ad anteriori concetti religiosi (avveramenti di pro­fezie, di aspettative messianiche, ecc.); risentono pure del mito i passi poetici e quelli oratorii di notevole ampiezza, come anche le narra­zioni che mostrano divergenze da altre d'eguale argomento. Appli­cando queste norme, ed altre secondarie, è chiaro che poco o nulla si salva dei vangeli come documenti storici della biografia di Gesù: di fatti la Vita di Gesu' dello Strauss porta a risultati quasi totalmente negativi, salvando la generica esistenza storica del personaggio e po­chi tratti particolari; per tutto il resto il Gesù dei vangeli non è un Gesù storico, ma un Cristo ideale, disegnato dalla collettività delle prime generazioni cristiane, che crearono tale figura mitica elabo­rando inconsciamente e senza una mira predeterminata alcuni pochi dati storici. Quanto alle origini dei vangeli, lo Strauss non fece particolari ricer­che, e accettò in complesso le idee predominanti ai suoi tempi fra i critici protestanti: i tre Sinottici, dei quali il più antico è Matteo, rappresenterebbero una tradizione contraria al IV vangelo, e que­st'ultimo non può essere impiegato come fonte storica della biografia di Gesù. Ma la teoria dello Strauss esigeva per se stessa che si lasciasse, tra la morte di Gesù e la composizione dei vangeli, un ampio spazio di tempo necessario alla formazione di quei miti, la cui elaborazione è certamente impossibile a compiersi in pochi anni; e lo Strauss, coerentemente, fa scendere la composizione dei vangeli al se­colo II molto inoltrato. Ma egli si decide a ciò, non già per testimo­nianze storiche o critico-letterarie, bensì solo per esigenze della sua filosofica teoria, giacché onestamente confessa che questa cadrebbe in rovina se i vangeli fossero stati composti entro il primo secolo. Nelle successive edizioni del suo scritto lo Strauss dapprima temperò alquanto le sue negazioni, poi ritornò sulle sue primitive posizioni. Trent'anni dopo, con la nuova Vita di Gesù per il popolo tede­sco (1864), fu meno radicale, dipingendo un ritratto del biografato che si avvicinava al tipo di Gesù del protestantesimo liberale.

§ 200. La teoria dello Strauss, pur fra clamorose proteste, fece un'impressione duratura soprattutto per il ricorso al Cristo idealizzato, il quale procedimento non fu più abbandonato in sostanza dalla suc­cessiva critica protestante; ma la teoria, esaminata più da vicino nei suoi particolari, apparve subito ispirata troppo a preconcetti filoso­fici e troppo poco alla realtà storica. Tutto quel lavorìo di incosciente trasformazione mitica da parte del­le prime generazioni cristiane era in armonia con quanto lasciano intravedere i più antichi documenti di quelle generazioni? E se i vangeli sono alla loro volta emanazioni di quelle generazioni, non bisognava in linea preliminare rendersi conto dello stato d'animo di quelle generazioni, per poi passare a giudicare il valore storico dei vangeli emanati da esse? Non è forse regolare dapprima rendersi conto della Firenze del 1300, e del suo sfondo politico e culturale, e del “dolce stil nuovo”, e delle vicende personali dell'Alighieri, e solo dopo ciò passare a intendere e giudicare la Divina Commedia? Ora, di tutto questo lavoro preliminare non si era affatto occupato lo Strauss, che si era racchiuso dentro i quattro vangeli canonici ar­mato solo delle sue teorie filosofiche, e considerandoli quasi avulsi dal mondo spirituale che li ha prodotti. Allo Strauss pertanto si contrappose F. C. Baur, già maestro di lui e fondatore della nuova Scuola di Tubinga (distinta dall'antica, che aveva difeso le posizioni dell'ortodossia protestante contro i Deisti); egli quindi, che già dal 1825 in poi aveva pubblicato studi d'argo­mento generico filosoficoreligioso ispirati alle teorie dello Schleier­macher, specialmente dal 1835 fece oggetto delle sue ricerche le vi­cende del cristianesimo lungo il secolo I, senza però affrontare in pieno una biografia di Gesù, e ne espose i risultati in numerosi scritti e soprattutto in quello su Paolo apostolo di Gesu' Gristo (1845). Staccatosi dallo Schleiermacher e divenuto verso il 1830 seguace ar­dente, non meno che lo Strauss, della filosofia hegeliana, di questa il Baur si servì d'allora in poi per vivificare la storia, la quale - com'egli apertamente confessava gli rimaneva “eternamente morta e muta” senza la filosofia: da Hegel egli prese il principio del « tri­plice processo », costituito da tesi-antitesi-sintesi, che applicò rigoro­samente alla storia del cristianesimo apostolico. In questo la tesi fu rappresentata dal partito petrino, che metteva capo a Pietro fiancheggiato da Giacomo e Giovanni e che riassumeva la corrente giudaico-cristiana di tipo particolaristico; l'antitesi fu rappresentata dal partito paolino, che metteva capo a Paolo e rias­sumeva la corrente ellenistico-cristiana di tipo universalistico; dal contrasto fra tesi e antitesi sorse la sintesi, rappresentata dalla Chiesa cattolica, che fu un compromesso conciliativo fra le due tendenze rimastevi ambedue parzialmente assorbite. Il petrinismo insisteva sull'idea giudaica del messianismo e sull'osservanza dei minuziosi pre­cetti della legge giudaica; il paolinismo insisteva sull'universalità della salvezza e sulla fede; la Chiesa cattolica, sotto la pressione dello gnosticismo e delle altre eresie del secolo II, assorbi in sé le due ten­denze contemperandole insieme.

§ 201. Non meno della teoria mitica dello Strauss, questa teoria del­le “tendenze” aveva bisogno di un ampio periodo di tempo in cui fossero potuti sorgere i contrastanti partiti e gli scritti che li rappre­sentano; inoltre, poiché fra i più antichi scritti del cristianesimo ve ne sono parecchi che non s'accordavano affatto con la teoria delle “ten­denze” bisognava in linea preliminare dare spiegazione anche di questi scritti irriducibili. Il Baur, coerentemente al suo sistema, fece scendere i vangeli a epoca tardiva, e insieme respinse come non autentici gli scritti irriducibili. Il vangelo di Matteo sarebbe stato composto non prima dell'anno 130 e avrebbe per base uno scritto favorevole al partito petrino, cioè il Vangelo degli Ebrei (§ 96), ma ritoccato alquanto a scopo di conciliazione col partito paolino. Il vangelo di Luca al contrario, che non risalirebbe più in su del 150, avrebbe per base uno scritto del partito paolino, cioè il Vangelo di Marcione (§ 136 fine), ma anche questo ritoccato, naturalmente in senso paolino. Dipendente da questi due, e quindi posteriore ad essi, sarebbe il vangelo di Marco di tipo neutrale, e che perciò nell'attingere ai due precedenti ha omesso i rispettivi passi tendenziosi. Il IVangelo sarebbe di un tempo in cui i contrasti fra le due tendenze erano già sopiti, cioè di circa il 170, e perciò esso può liberamente spaziare in alte specula­zioni teologiche. Di spirito conciliativo fra petrinismo e paolini­smo sarebbero gli Atti degli Apostoli, composti dopo il 150. Delle quattordici lettere di Paolo sarebbero non autentiche ben dieci, soprattutto per la ragione che in queste non appare il fondamentale contrasto fra petrinismo e paolinismo: le sole autentiche sono Ga­lati, Romani, e le due ai Corinti. La teoria del Baur spostava, propriamente, il campo delle ricerche e proponeva nuovi principli per tali ricerche. Molti studiosi si rium­rono attorno al maestro, e per un quindicennio ne applicarono fer­vorosamente il metodo nei Theologische Jahrbucher (1842-1857): in questa schiera si segnalarono specialmente lo Zeller, lo Schwegler, il Kostlin, discepoli personali del Baur, oltre all'Hilgenfeld, Volkmar e molti altri. Non mancò però l'opposizione che fu assai violenta ossa da più lati del campo protestante, e favorita dalle stesse autorità politiche: tanto che a un certo punto i discepoli, disanimati, cominciarono ad abbandonare il maestro, e quando nel 1860 il Baur morìla Scuola di Tubinga era praticamente dispersa.

§ 202. Gli attacchi più numerosi vennero, naturalmente, da parte dei protestanti conservatori, con a capo l'Hengstenberg, i quali accusavano il Baur di radicalismo demolitore; ma l'attacco più inte­ressante, per chi abbia di mira soprattutto lo svolgimento logico delle idee, fu quello sferrato da un suo quasi omonimo, Bruno Bauer (1809-1882), con cui si assodarono alcuni studiosi olandesi. Costoro, infatti, accusavano il Baur, non già di radicalismo, ma di conser­vatorismo e di essersi fermato illogicamente a mezza strada. Il Bauer, hegeliano anch'esso, accettava molti principii del Baur, come pure accettava il giudizio dello Strauss che negava ogni base storica al IV Vangelo considerandolo come un'elaborazione mistica; ma, spingendosi avanti, egli si domandò se tale giudizio non do­veva essere esteso anche ai tre Sinottici, che lo Strauss aveva par­zialmente salvati. Proprio poco prima (1838) il Weisse e il Wilke, indipendentemente tra loro, avevano affermato che, nell'ordine cro­nologico dei Sinottici, Marco è da considerarsi più antico di Matteo e di Luca, mentre tanto lo Strauss quanto il Baur avevano seguito l'antica idea di un Marco epitomatore di Matteo e Luca; la prio­rità di Marco fu accettata dal Bauer, che perciò riversò la testi­monianza degli altri due Sinottici nel solo Marco, da cui i due sarebbero dipesi. Stabilito ciò, egli negò che fra il vangelo e l'uni­co Sinottico indipendente (Marco) esistesse una sostanziale diffe­renza quanto al valore storico-documentario; ambedue contengono dati, in quantità più o meno abbondante e di colorito alquanto diverso, ma che sono storici solo apparentemente. Ciò che avreb­bero fatto le prime generazioni cristiane, creando inconsciamente il mito secondo lo Strauss, oppure consciamente le varie tendenze di partiti secondo il Baur, lo avrebbe fatto invece da solo il primo evangelista sinottico, e il suo lavoro poi sarebbe stato ampliato dagli altri tre. Delineata questa teoria, dopo alcune riserve e incer­tezze, il Bauer dapprima richiamò in dubbio e infine negò l'esi­stenza storica di Gesù: con ciò egli capovolse il procedimento dello Strauss, in quanto considerò la creazione mitica, non come un pro-dotto, ma come un produttore della comunità cristiana. Gli scritti del Bauer sul iv vangelo (1840) e sui Sinottici (1842) gli attirarono nel 1842 la proibizione d'insegnare. Inviperito, egli dap­prima si occupò di storia politica, quindi ritornò agli antichi argo­menti con metodi sempre più radicali, negando l'autenticità del­l'intero epistolario di 5. Paolo, comprese le quattro lettere già ri­sparmiate dal Baur. Fini poi elaborando una fantastica ricostruzione fra lo stoicismo e il giudaismo ellenistico. Il Bauer non lasciò, nè poteva praticamente lasciare, una scuola dietro a sé. Ma ciò ha scarsa importanza, mentre ne ha molta la questione della coerenza logica del suo sistema in relazione ai prin­cipii da cui parte; si domanda cioè se, ammessi i generici principii filosofici e critici che servono da basi allo Strauss e alla Scuola di Tubinga, non meno che al Bauer, non sia proprio il Bauer lo straussiano più consenguenziario o il tubinghiano più coerente.

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06/08/2012 17:08


§ 203. Dopo lo Strauss e la Scuola di Tubinga, che rappresenta­rono indirizzi veramente nuovi negli studi sulla vita di Gesù e sul cristianesimo primitivo, la critica protestante entrò in un lungo pe­riodo che fu in parte di assestamento e in parte di compromesso. Diradatasi alquanto la tempesta suscitata dalle due scuole, l'orto­dossia protestante diffidò per principio d'ogni teoria delineata con originalità nuova, perché le recenti esperienze dirnostravano che siffatte teorie frantumavano le basi stesse della fede protestante, poggiata unicamente sulla parola di Dio scritta. D'altra parte i teo­logi protestanti non erano certo disposti a retrocedere sulle antiche posizioni luterane, riducendosi a considerare il Nuovo Testamento semplicemente come un libro ispirato da Dio e come il primo dei libri teologici; queste antiche posizioni, più che per opera di un Reimarus, di un Paulus, di uno Strauss e dei Tubinghiani, erano state minate e rese praticamente insostenibili per opera dell'Illumi­nismo, di un Kant, di un Hegel e delle altre correnti filosofiche for­matesi nella patria di Lutero. Si aggiunga che, proprio col declino della Scuola di Tubinga, la critica delle origini dei vangeli entrava in un nuovo periodo. Il IV vangelo, sebbene non proprio teoricamente, almeno praticamente era tuttora scartato come fonte storica, come già avevano fatto lo Strauss e la Scuola di Tubinga; ma a differenza di costoro, che mettevano come ultimo della serie cronologica dei Sinottici Marco, si cominciò invece a mettere questo brevissimo fra i Sinottici pro­prio in cima alla serie dei tre (come già vedemmo aver fatto anche il Bauer), per farlo servire insieme con i Logia di Papia quale fonte agli altri due (§ 148). Molti critici poi supposero l'esistenza di un Proto-Marco, che sarebbe stato una forma più antica dell'odierno Marco; qualcuno suppose pure, ma senza incontrar favore, l'esi­stenza di un Proto-Luca, e anche di un Proto-­Giovanni. Ora, questa nuova visione dell'origine letteraria dei Sinottici portò insieme a rialzare di molto le rispettive date: non si parlò più, come avevano fatto lo Strauss e la Scuola di Tubinga, di secolo II inoltrato quale epoca dei vangeli, ma si risali complessivamente al secolo I e per taluni scritti si giunse fino all'anno 60 dopo Cristo. Stabilito ciò, la critica protestante aveva una solida base per rico­struire la biografia storica di Gesù senza troppo urtarsi con l'orto­dossia luterana. Col rialzo cronologico dei Sinottici, le teorie dello Strauss e del Baur rovinavano in pieno (come del resto i rispettivi autori avevano ipoteticamente concesso); le tre o quattro decine d'anni, che andavano dalla morte di Gesù ai primi scritti confluiti nei Sinottici, erano certamente un periodo troppo angusto per permettere tutto quel lavorio di “miti” e di “tendenze” ch'era fon­damentale nelle due teorie. Infine il nuovo studio minuzioso delle caratteristiche di ciascun Sinottico permetteva di affermare ch'essi dipendono in gran parte da testimoni diretti degli avvenimenti nar­rati, e che pur mostrando ciascuno scopi e coloriti diversi - non lasciano scorgere tutto quel complesso di contrastanti “tendenze” ch'erano state attribuite ad essi; e anche queste conclusioni di cri­tica interna rassodavano la nuova base messa a disposizione della critica protestante per una biografia storica di Gesù. Senonché queste conclusioni erano un'arma a doppio taglio: indub­biamente esse erano gradite all'ortodossia protestante, ma non ac­crescevano forse grandemente le difficoltà di una interpretazione “razionale” dei vangeli? Confessata o no, la principale mira comune a tutte le teorie elabo­rate dal Reimarus in poi - anche lasciando da parte gli antichi Celso e Porfirio - era stata quella di spogliare di ogni elemento soprannaturale e miracoloso il contenuto dei vangeli; adesso invece quel contenuto riceveva dalle ultime conclusioni della critica un nuovo credito, sia per l'antichità sia per l'obiettività degli informatori, e il nuovo credito faceva da baluardo protettivo del soprannaturale. Né è da supporre che, verso questo soprannaturale, i teo­logi protestanti del paese di Kant e di Hegel fossero in genere me­glio disposti dopo il fallimento delle varie teorie dal Reimarus fino alla Scuola di Tubinga: vi furono in realtà dei dotti non ostili al soprannaturale, ma i loro scritti esercitavano influenza più sui fe­deli e sui pastori protestanti che non sugli studiosi e sulle università, mentre la maggioranza cercò il compromesso fra i risultati della critica riavvicinatasi alla tradizione e il dogmatismo laico della filo-sofia imperante. Ne risultò un indirizzo teologico-storico che si esplicò in numerosi tentativi, differenti a seconda delle disposizioni individuali, e che fu designato collettivamente col termine politico allora in voga di Scuola liberale.

§ 204. La Scuola liberale mostra le caratteristiche dei periodi di transizione e degli stati di compromesso. Rinunzia alle posizioni nette e precise di un Reimarus o di un Paulus pur accettandone praticamente varie conclusioni, ma aborrisce anche dalla logicità conseguenziaria di un Bruno Bauer pur ammettendone molti prin­cipii; sfugge di solito a fondamentali dichiarazioni preliminari, ma poi le lascia intravedere applicate tacitamente; messa di fronte a questioni decisive costituite dalla spiegazione di determinati fatti, preferisce aggirarle, non pronunciandosi sul fatto in sé e dilungandosi invece sulle opinioni che del fatto si ebbero nell'antichità; col proiettare idee e sentimenti moderni sullo sfondo dei tempi antichi dice molte cose di cui uno storico non sente affatto bisogno, mentre poi non dice altre cose nettamente affermate dai riaccreditati documenti storici, trovandole in contrasto con idee e sentimenti mo­derni; non è certo l'erudizione la dote che manchi alla Scuola libe­rale, ma si può domandare se non le manchi la dote della fran­chezza. Il protestante radicale Scbweitzer, storico di questi studi, deplorava nel 1904 che la teologia contemporanea non fosse “to­talmente sincera” (ganz ehrlich) (Von Reimarus zu Wrede, pag. 249). Le biografie di Gesu', e specialmente gli studi critici sui vangeli, che videro la luce durante questo periodo furono in gran numero e di graduazione diversa. Dalla destra conservatrice rappresentata dallo Zahn e in parte da Bemardo Weiss, si passa al centro in cui emerge H. J. Holtzmann, per finire sempre più verso la sinistra radicale con lo Schenkel, il Beyschlag, il Weizsàcker, il Wellhausen, ecc. La figura di Gesù, quale è tratteggiata o in biografie o in vari studi di critica letteraria, è messa in luce soprattutto sotto l'aspetto psicologico, come quella d'un maestro che avrebbe inse­gnato niente più che una nuova dottrina morale tutta fondata sul sentimento della paternità di Dio: il regno di Dio annunziato da Gesù avrebbe avuto un senso puramente spirituale interno, o tutt'al più un vago senso escatologico difficilmente precisabile; le afferma­zioni di Gesù sulla propria qualità di Messia sono volentieri, dai meno conservatori, attenuate o anche eliminate; l'appellativo di “figlio dell'uomo” è spesso interpretato come designazione dell'u­manità astratta, o anche come indicazione personale di colui stesso che parla; l'altro appellativo di “figlio di Dio” non può avere che un senso morale, in corrispondenza al concetto della paternità uni­versale di Dio; sulle qualità soprannaturali attribuitesi da Gesù, come pure sui miracoli fisici attribuitigli dai vangeli, si sorvola li­beramente. Queste sono pur con numerose e anche notevoli differenze indi­viduali - le idee seguite più comunemente dai protestanti liberali; sui quali però il non sospetto Renan dà il seguente giudizio (rife­rito a due soli di essi, ma facilmente estensibile agli altri): “Am­mettono, certamente, un Gesu' storico e reale; ma il loro Gesu' sto­rico non e' né un messia, né un profeta, né un Giudeo. Non si sa che cosa abbia egli voluto: non si capiscono né la sua vita né la sua morte. Il loro Gesu' e' un eroe a suo modo, un essere impalpa­bile, intangibile. La pura storia non conosce esseri di tal fatta”.

§ 205. Nella Scuola liberale spetta il seggio più eminente ad A. von Harnack (1851-1930) per le sue moltissime pubblicazioni sia sul Nuo­vo Testamento sia sul resto della letteratura cristiana antica, delle quali buona parte ha un valore permanente. Quanto al Nuovo Testamento egli sostenne che i Logia, da cui dipenderebbero i van­geli di Matteo e di Luca, sono opera dell'apostolo Matteo e com­posti verso l'anno 50 o anche prima; di poco posterione sarebbe il vangelo di Marco; il vangelo di Luca, come pure gli Atti degli Apostoli, furono scritti dal medico Luca, discepolo di Paolo, non dopo l'anno 63; il IV vangelo è opera di Giovanni il Presbitero (§ 158), che avrebbe in esso seguito la tradizione di Giovanni l'apostolo.Nel suo divulgatissimo libro su L'essenza del cristianesimo (1900) l'Harnack riassunse riguardo alla vita e alla dottrina di Gesù le sue opinioni, che concordavano in gran parte con quelle della Scuo­la liberale; al centro della dottrina di Gesù sarebbe stata l'idea del­la rivelazione di Dio come padre, da cui si sarebbe sviluppata in Gesù la coscienza di esser Figlio di Dio, e quindi Messia; ma “come egli sia giunto alla coscienza della sua forza, e a quella del dovere e del compito ch'erano conseguenza di quella sua forza, e' il suo segreto che nessuna psicologia può spiegare”. I miracoli di Gesù furono distribuiti dall'Harnack in cinque categorie, per poter esser man mano eliminati con procedimenti che ricordano in parte quelli del Paulus e in parte quelli dello Strauss: cioè 1) miracoli che sono ingrandimenti di fatti naturali; - 2) miracoli dovuti a una proiezione nel concreto o di precetti o di parabole o di processi psicologi vari; - 3) miracoli immaginati come avveramento di pro­fezie dell'Antico Testamento; - 4) miracoli ottenuti dalla forza spirituale di Gesù; - 5) miracoli estranei alle precedenti categorie e la cui spiegazione è irraggiungibile. Ad ogni modo la vera dottrina religiosa di Gesù, del tutto spoglia di dogmi, si mantenne pura e genuina solo durante l'epoca apostolica; più tardi essa entrò sotto la diretta influenza del pensiero filosofico ellenistico, e di qui sorsero i dogmi e le supercostruzioni speculative.

§ 206. Non appartiene alla Scuola liberale, anzi le si professa av­verso, un autore che ebbe risonanza larghissima nel mondo latino cattolico ma piuttosto ristretta in quello tedesco protestante, cioè E. Renan (1823-1892). La sua famosa Vita di Gesu', che faceva parte di una Storia delle origini del cristianesimo, apparve nel 1863; la 13° edizione, apparsa nel 1867 con talune modificazioni, rimase definitiva per le innumerevoli edizioni e traduzioni successive. Nella questione delle fonti il Renan era relativamente conservatore: Marco rappresenta “il tipo primitivo della tradizione sinottica e il testo piu' autorizzato”, dipendente dalla predicazione di Pietro, seb­bene la redazione odierna non corrisponda precisamente alla forma originale; Matteo è costituito dai Logia autentici dell'apostolo Mat­teo, ai quali poi è stata aggiunta una raccolta di notizie biografiche su Gesù; il III vangelo e gli Atti sono di Luca, che avrebbe scritto dopo la distruzione di Gerusalemme dell'anno 70. Nella questione del IV vangelo il Renan, staccandosi dalla critica tedesca, modificò le sue idee: nella 1a edizione lo attribuì all'apostolo Giovanni, al­meno quanto alla sostanza, mentre nella 3° edizione ne fece autore un discepolo di Giovanni, tuttavia in ambedue i casi attribui particolare valore storico a questo vangelo (in perfetto contrasto con la critica tedesca), pur considerandone non autentici i discorsi. Ma, nonostante questa critica relativamente moderata, i risultati pratici raggiunti dal Renan sono negativi, anche più di quelli della Scuola liberale e quasi quanto quelli dello Strauss. Di Gesù, infatti, noi non sappiamo con certezza se non “che e' esistito. Che era di Nazareth in Galilea. Che predicò con incanto, e lasciò nella me­moria dei suoi discepoli aforismi che vi s'impressero profondamen­te. I due principali dei suoi discepoli furono Cefa e Giovanni figlio di Zebedeo. Suscitò l'odio dei Giudei ortodossi, che riuscirono a farlo mettere a morte da Ponzio Pilato, allora procuratore della Giudea. Fu crocifisso fuori della porta della città. Si credette poco dopo che fosse risuscitato... Fuori di questo il dubbio e' permesso”. Questo dubbio, inoltre, si estende a domande così fondamentali co­me le seguenti: “Si considerò egli Messia?... S'immaginò di far miracoli? Gliene furono attribuiti quand'era vivo?... Quale fu il suo carattere morale?...”. Questo scetticismo programmatico non impedì tuttavia al Renan di scrivere una biografia abbastanza voluminosa, traendone il ma­teriale da varie parti. Contrariamente alle biografie tedesche, che erano ricostruzioni fatte in biblioteca da chi non aveva visto nè luoghi né costumi, il Renan scrisse la sua durante la missione archeologica che diresse in Fenicia negli anni 1860-1861, e che gli dette occasione di visitare anche la Palestina. In questa visita la storia evangelica, “che da lontano sembra vagare tra le nubi d'un mondo irreale, prese talmente corpo e solidità che mi stupirono. Il sorpren­dente accordo fra testi e luoghi, la meravigliosa armonia fra l'ideale evangelico e il paesaggio che gli fa da cornice, furono per me una rivelazione. Ebbi davanti agli occhi un quinto Vangelo...”. In realtà, a questo “quinto Vangelo” il Renan ricorse molto poco per ciò che riguarda la geografia storica e tanto meno l'archeologia (che, del resto, ai suoi tempi erano appena agli inizi), e quando vi ricorse per queste materie non si salvò da gravi abbagli; ad ogni modo chi ha visitato la Palestina dopo di lui, cioè dopo che vi sono stati compiuti molti ed importanti scavi, e l'ha visitata più a lungo di lui e con più agio e comodità che ai tempi di lui, vi ha certo ritrovato parecchie cose, ma non già un “quinto Vangelo”, almeno se la fantasia del successivo visitatore era calma e tranquilla. Ma gli è che il Renan visitò il paese di Gesù più come artista che come storico, prendendo come dati oggettivi quelle ch'erano semplici proie­zioni soggettive: cosicché quando egli esclamava: “Per compren­dere ciò bisogna essere stato in Oriente!“, ricorreva in realtà a un argomento che ai suoi tempi era incontrollabile per la massima par­te degli studiosi, mentre quasi sempre era un'importazione ideale da lui fatta nell'Oriente.

§ 207. Del resto, il metodo con cui egli trattò il suo “quinto Van­gelo” è analogo a quello con cui trattò gli altri quattro. Dal momento che i dati sicuri della biografia di Gesù erano quei pochis­simi testé elencati, non rimaneva che ricorrere alla ricostruzione psicologica: la quale infatti fornì al suo libro molto altro materiale, e materiale ben appropriato al carattere di cui il Renan aveva ri­vestito il suo biografato. In realtà, “chi vorrebbe fare di Gesu' un sapiente, chi un filosofo, chi un patriota, chi un uomo di bontà, chi un moralista, chi un santo. Egli non fu nulla di tutto questo. Fu un incantatore”. Questo “incantatore”, tuttavia, ha fondato una religione, anzi non una ma la religione: “Gesu' ha fondato la religione nell'umanità, come Socrate vi ha fondato la filosofia... Gesu' ha fon­dato la religione assoluta, non escludendo niente, non determinando niente, salvo il sentimento”; se poi scendiamo più al particolare, troviamo che « un culto puro, una religione senza sacerdoti e senza pratiche esteriori, poggiata tutta sui sentimenti del cuore, sull'imitazione di Dio, sul rapporto immediato della coscienza col Padre celeste, erano le conseguenze di tali principii”, quelli cioè predi­cati da Gesù. Come ognuno vede, ci ritroviamo in sostanza davanti alla figura di Gesù tracciata da quella Scuola liberale che il Re­nan riprovava; qualche decennio più tardi l'Harnack presenterà un Gesù ben poco differente da questo (§ 205). Concordano anche, in gran parte, le idee attribuite a Gesù circa il suo stesso essere e circa i punti fondamentali della sua missione. “Gesu' non espresse mai l'idea sacrilega ch'egli fosse Dio... “. - .... Egli e' figlio di Dio: ma tutti gli uomini sono o possono divenire tali in gradi diversi. Tutti ogni giorno devono chiamar Dio loro padre... Il titolo di "Figlio di Dio", o semplicemente di "Figlio", diventò per Gesu' un titolo analogo a "Figlio dell'uomo" e, come questo, sinonimo di Messia”. “Titolo da lui preferito era quello di "Figlio dell'uomo"; titolo di umile apparenza, ma in rapporto con le speranze messianiche. Tale e' il nome con cui indicava se stesso: onde in bocca sua "Figlio dell'uomo" era sinonimo di "Io", che gli ripugnava d'usare”. Quanto all'elemento soprannaturale e miracoloso dei vangeli, il Re­nan fin dal principio fa una netta dichiarazione di metodo: chi studia, cioè, questi documenti, “non deve preoccuparsi né di edi­ficare né di scandalizzare, né di difendere i dogmi né di abbatter­li”; tuttavia, poco dopo questa dichiarazione, egli stabilisce il se­guente assioma a cui attribuisce tutta la fermezza di un dogma lai­co: “che i Vangeli siano in parte leggendari e' cosa evidente, per­che' sono pieni di miracoli e di soprannaturale”. D'altra parte egli afferma che “si mancherebbe al buon metodo storico se, badando troppo alle nostre ripugnanze..., volessimo sopprimere i fatti che agli occhi dei contemporanei apparvero più cospicui”, cioè mira­colosi; è anzi regolare che ad un innovatore religioso come Gesù si attribuissero miracoli, tanto che “il massimo miracolo sarebbe stato ch'egli non ne avesse fatti”. Ad ogni modo il Gesù del Renan, co­stretto dalle circostanze, “non divenne taumaturgo che assai tardi, e molto a malincuore”; “ ... si può ben credere che la reputazione di taumaturgo non l'avesse, ma gli venisse imposta: se egli non resistette molto ad accoglierla, nulla fece però per aiutarla”. Venendo però alla conclusione pratica, tutti i miracoli sono elimi­nati, ricorrendo volta per volta ai precedenti metodi o dello Strauss, o del Paulus, e talvolta del Reimarus, che il Renan applica ser­vendosi anche della sua norma che “e' necessario sollecitare dolce­mente i testi”. In primo luogo “su cento racconti soprannaturali ve ne sono ottanta nati interamente dall'immaginazione popolare”; gli altri venti casi, che rimangono, sono eliminati facendo appello di solito alla mitezza di Gesù, che valeva da eccellente farmaco, giacché “la presenza di un uomo superiore che tratti dolcemente il malato, e lo assicuri della guarigione con qualche segno sensibile, e' spesso un rimedio decisivo”. All'efficacia di questo farmaco ven­gono sottratti, naturalmente, casi come quello della resurrezione di Lazzaro; per spiegare questo caso, si propongono insieme l'ipotesi di una sincope passeggera e quella del trucco da parte delle sorelle di Lazzaro, e più tardi vi si aggiunge l'ipotesi di un malinteso (§ 493). Insomma, anche nella questione dei miracoli evangelici, il Renan era vicino alla riprovata Scuola liberale ben più di quanto egli cre­desse. L'incomparabile venustà dello stile letterario assicurò alla “Vita” del Renan una diffusione mondiale, che le massicce e asmatiche “Vite” tedesche non raggiunsero neppur lontanamente; tuttavia la dotta Germania, che prima del 1870 era apparsa al Renan come “un tempio, in cui tutto e' puro, elevato, morale, bello e commo­vente”, fu piuttosto ingrata verso questo suo ammiratore d'oltre Reno, non prendendo affatto sul serio il capolavoro di lui e segui­tando invece tranquillamente per la sua strada.

§ 208. Un efficace attacco contro la dominante Scuola liberale fu mosso nel 1901 da W. Wrede col suo studio sul Segreto messianico nei vangeli. Base delle costruzioni di quella Scuola era specialmente il vangelo di Marco, ritenuto più antico e primitivo, e quindi più fedele nel delineare il vero Gesù storico; il quale avrebbe predicato una reli­gione tutta interna e personale, senza però preoccuparsi - come vorrebbero specialmente gli altri vangeli di fondare una stabile società esterna, senza attendere un regno di Dio visibile, e tanto meno attribuirsi un'origine soprannaturale. Senonché il Wrede mo­strò che il Gesù delineato in Marco, se è storico sotto certi aspetti, sotto altri non è meno “soprannaturale” di quello dei restanti van­geli, ed è egualmente incaricato di una missione divina e con piena coscienza della sua messianità fin dal principio; perciò il Wrede suppose che, in Marco stesso, alla figura del Gesù storico sia già stata sovrapposta quella del Gesù dogmatico, e il collegamento del­le due figure contrastanti sia stato ottenuto mediante l'artificio del “segreto”, che Gesù avrebbe serbato per un certo tempo sulla sua qualità di Messia. Ora, questo parziale ritorno alle conclusioni negative di Bruno Bauer minava quel tanto di base oggettiva che la Scuola liberale aveva ancora lasciato alla storicità di Gesù, ed a cui essa teneva moltis­simo; ma tanto più difficile era a detta Scuola difendersi dal nuovo assalto, in quanto la coerenza logica non era certo la dote di cui difettasse lo studio del Wrede (come non ne avevano difettato quelli del Bauer), il quale in sostanza partiva dagli stessi principii filo­sofici ed applicava gli stessi metodi critici della Scuola liberale.

§ 209. Ma quando apparve lo studio del Wrede già si era delineata e prendeva sempre più forza un'altra corrente, che doveva finire col mettere alle strette la Scuola liberale. Nel 1892 Giovanni Weiss, figlio del liberale conservatore Bernardo (§ 204), aveva pubblicato un breve studio circa La predica di Gesu' sul Regno di Dio (riapparso molto ampliato nel 1900), in cui dava il massimo rilievo ad un elemento che, nelle precedenti ricerche sulla biografia di Gesù e sul cristianesimo primitivo, era stato toccato solo incidentalmente e superficialmente, cioè l'elemen­to escatologico. In realtà, di escatologia giudaica si erano occupati a parte già l'Hilgenfeld (1857), il Colani (1864), il Weiffenbach (1873), il Volkmar (1882), il Baldensperger (1888, 1892, 1903), e tutti, salvo il primo, si erano posti il problema delle relazioni fra l'insegnamento di Gesù e l'apocalittica contemporanea, risolvendolo in vari modi; Giovanni Weiss, ritornandovi sopra, lo spiegò consi­derando come quintessenza della dottrina di Gesù le idee escatologiche contenute nell'apocalittica giudaica dei suoi tempi (§ 84 segg.). Il Gesù storico, diceva in sostanza il Weiss, non era stato già quel pastore protestante, illuminato dall'illuminismo e nutrito di filosofia kantiana, quale l'aveva dipinto la Scuola liberale egli era stato figlio dei suoi tempi, ne aveva condiviso concetti e speranze, e ne aveva anche preso in prestito espressioni sbocciate da quelle spe­ranze. Ora, ai tempi di Gesù, il mondo giudaico attendeva spasmo­dicamente un grandioso intervento di Dio che distruggesse d'un colpo l'impero del male stabilitosi sulla terra e lo sostituisse con un'epoca di giustizia, di pace e di felicità. Questo era il “Regno di Dio” da attuarsi per mezzo del “Figlio dell'uomo”, il cui con­cetto, già adombrato nel canonico libro di Daniele, è sempre più sviluppato nei successivi libri apocrifi d'indole apocalittica: questo stesso Regno, in sostanza, sarebbe stato anche l'oggetto della predicazione di Gesù. Ma siffatto “Regno di Dio” Gesù non avrebbe potuto, né voluto, fondare: egli lo avrebbe solo annunziato come imminente, quale subitanea palingenesi grandiosa. Tuttavia, allor­ché egli vide respinto il suo annunzio dai Giudei contemporanei, si sarebbe convinto che la sua morte avrebbe affrettato l'avvento del Regno, che essa sarebbe stata per lui il ponte di passaggio per entrare nella gloria messianica, che quindi egli stesso come “Figlio dell'uomo” e come Messia sarebbe tornato sulle nuvole del cielo per giudicare gli empi e i giusti, e ad inaugurare il regno eterno di questi ultimi. Pervaso da questa aspettativa e tutto vibrante per essa, Gesù avreh­be anche predicato una dottrina morale; ma fu una morale prov­visoria, interamente subordinata all'imminente palingenesi e che si potrebbe rassomigliare al regolamento momentaneo, improntato lì per lì, per gente rimasta su una nave che affondi o dentro un pa­lazzo che bruci: secondo Gesù, infatti, affondava e bruciava il mon­do intero. La vera morale. stabile, giammai predicata da Gesù, doveva essere quella del futuro Regno.

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06/08/2012 17:09


§ 210. Il libretto del Weiss aveva prodotto grande impressione sui dotti; tuttavia il seme da lui gettato non germogliò propriamente che alcuni anni piu' tardi, forse perché mancò a bella prima il co­raggio per trarre le ultime conseguenze da siffatta ipotesi: essa in realtà, se cancellava totalmente l'oleografia di un Gesù spiritualista moraleggiante dipinta dalla Scuola liberale, la sostituiva con il ri­tratto di un autentico esaltato o, come allora si disse per eufemi­smo, di un “illuminato”. Ma, nello stesso anno che apparve il già visto studio del Wrede, usci uno Schizzo della vita di Gesu', in cui l'autore, A. Schweitzer. partendo da una ricerca sul segreto di Gesù circa la propria mes­sianità e la sua futura passione, in parte contraddiceva ai risultati ottenuti dal Wrede, e in parte li sviluppava ed integrava. L'idea fondamentale dello Schizzo fu ripresa e ampliata largamente dal­lo stesso Schweitzer, nel 1906, con una storia delle ricerche sulla vita di Gesù, intitolata Dal Reimarus al Wrede, riapparsa in una nuova edizione nel 1913; ivi l'autore, dopo aver fatto un'acuta ed erudita disamina dei precedenti sistemi, propugna in pieno il si­stema escatologico. Mentre il Weiss aveva ritrovato l'idea escatologica soltanto nella dottrina di Gesù, lo Schweitzer la ritrova anche come principio ani­matore di tutta la sua vita e condotta; ciò spiega, secondo Schweit­zer, la doppia figura contrastante di Gesù che il Wrede aveva scorto in Marco, e che corrisponderebbe al Gesù predicatore escatologico e al Gesù attore escatologico. Gesù attore escatologico (che corri­sponderebbe al Gesù “soprannaturale” di Marco) è convinto della propria messianità, ma da principio vuole velarla di “segreto” perché, secondo una diffusa opinione, l'atteso Messia doveva com­piere la sua carriera terrena ignoto e spregiato: perciò anche egli predica ricorrendo a parabole, per manifestare la verità ma senza poter essere ben compreso. Tuttavia il Regno tarda a venire, non essendo comparso neppure quando Gesù invia gli Apostoli in mis­sione nelle città d'Israele (Matteo, 10, 23); allora Gesù si convince che la suprema “prova” richiesta da Dio prima dell'avvento del Regno è, non già estesa a tutto il popolo, ma riservata a lui solo, e in tale persuasione s'avvia a Gerusalemme per affrontarvi la mor­te, sicuro che essa apporterà la salvezza provocando la venuta del Regno. Davanti ai suoi ultimi giudici, infatti, Gesù svela apertamente il segreto, affermando di essere il Messia, e per questo è condannato a morte. La sostanza di questa teoria, già nel 1903, era difesa così decisamente da uno studioso, appartenente allora al campo cattolico, da esser presentata come conditio sine qua non per affermare l'esisten­za storica di Gesù “Se e' certo che, tutto ciò che nel Vangelo espri­me o suppone l'imminenza del giudizio di Dio, non risalga al Sal­vatore, quasi tutta la tradizione sinottica dovrà essere abbandonata. La predicazione del Cristo, nei tre primi Vangeli, non e' altro che un avvertimento a prepararsi al giudizio universale che sta per com­piersi e al Regno che sta per venire... Il Vangelo non era il Van­gelo, non era “la buona novella", se non perché annunziava questo avvenimento. Io vado anche oltre, ed aflermo senza paura che Gesu' non e' stato condannato a morte se non per questo motivo. Se egli non avesse predetto che il regno della carità, Pilato non ci avrebbe trovato un grave inconveniente. Ma l'idea del regno mes­sianico, per quanto fosse spiritualizzata nel Vangelo di Gesu', non lasciava d'implicare in un avvenire prossimo una rivoluzione gene­rale delle cose umane e la regalità del Messia. Togliete dal Vangelo l'idea del grande avvenimento e quella del Cristo-Re, e io vi sfido a provare l'esistenza storica del Salvatore, giacchè avre­te tolto ogni senso storico alla sua vita e alla sua morte” (A. Loisy, Autour d'un petit livre, pagg. 69-70). Questa teoria, sviluppata pienamente nell'accordo tra la dottrina e l'azione di Gesù (“escatologismo conseguente”), sconvolse le po­sizioni tenute fino allora dai critici, e moltissimi l'accettarono come la vera risoluzione finalmente raggiunta nel problema di Gesù. Nella lenta e conservatrice Inghilterra essa incontrò una inaspettata ca­lorosa simpatia. Nei paesi cattolici fu largamente diffusa dalla cor­rente modernista, presso cui ebbe cordiali accoglienze. Il Loisy, prin­cipale rappresentante di questa corrente, pur non accettando la teo­ria in tutte le sue parti (e di ciò gli fece un appunto lo Schweit­zer), ne prese moltissimi elementi, soprattutto riguardo alla dottrina di Gesù, e li contrappose alle conclusioni dell'Harnack col suo ce­lebre libretto su L'evangile et l'Eglise (1902) difeso col successivo Autour d'un petit livre (1903); gli stessi elementi applicò poi egli metodicamente nei suoi commentari al IV vangelo (1903), a cui ne­gava ogni valore storico, e ai vangeli sinottici (1907-1908), tutte opere diffuse nei paesi latini molto più che in quelli tedeschi.

§ 211. Passato il primo momento di entusiasmo, cominciarono an­che le critiche riguardo alla nuova teoria. La prima critica fu sul metodo con cui la nuova teoria trattava le fonti evangeliche, e che - sebbene diretto da norme diverse - rassomigliava moltissimo al metodo già applicato dalla Scuola liberale. I liberali avevano sorvolato in maniera sbrigativa su tutto ciò che i vangeli riferivano, non solo circa i miracoli di Gesù, ma anche circa le sue affermazioni di messianità, di soprannaturalità, di figlio­lanza divina, ecc.: tutto ciò doveva essere o interpretato in senso blando ed evanescente, oppure sfrondato senz'altro e gettato via, come frascame aggiunto attorno alla figura del Gesù storico dalla posteriore elaborazione cristiana. Ora, gli escatologisti facevano al­trettanto, con la sola differenza che sfrondavano e gettavano via come frascame quasi tutto ciò che i liberali avevano conservato, e conservavano invece gelosamente il frascame dei liberali. La strada era la stessa, sebbene battuta in senso inverso. E in realtà i vangeli, se attribuiscono a Gesù la predicazione dell'imminente regno di Dio, gli attribuiscono nello stesso tempo e sul­lo stesso piano il proposito di fondare una precisa religione, di co­stituire una stabile società visibile, di mettere a capo di essa persone da lui stesso scelte, di prescrivere ad essa riti religiosi ben definiti e da osservarsi scrupolosamente in futuro, di fornirla di un codice morale ben distinto da ogni altro e del tutto nuovo, di aver curato la formazione di discepoli con la precisa mira di propagare illimi­tatamente questa sua società, insomma di aver fatto queste e molte altre cose che presuppongono inevitabilmente una stabilità duratura della sua società visibile. Ora, è evidente che una persona la quale aspetti - come il Gesù degli escatologisti - di giorno in giorno e di ora in ora la frantumazione del mondo intero, non ha né tempo nè voglia di spingere lo sguardo tanto nel futuro, al punto di preoccu­parsi di ciò che avverrà nelle future generazioni e di fondare per esse una società: nè quelle generazioni nè quella società potranno giam­mai esistere, perché domani il mondo andrà in pezzi. Questa elementare considerazione fu ammessa francamente anche dagli escatologisti; i quali perciò, coerentemente ai loro principii, tolsero di mezzo la difficoltà sfrondando e gettando via tutte le affermazioni evangeliche in questione: nulla vi sarebbe in esse che possa realmente riportarsi al Gesù storico, ma tutte sarebbero crea­zioni del cristianesimo primitivo attribuite falsamente a lui. Nè que­sto sfrondamento si limitò ad aforismi e a detti isolati, attribuiti a Gesù: c'erano di mezzo, infatti, anche le parabole a cui Gesù ri­correva spessissimo nella sua predicazione, e che in maniera più o meno esplicita svelano l'idea di una stabilità duratura preannun­ziata da Gesù riguardo alle sue istituzioni; perciò anche le parabole evangeliche furono sottoposte, specialmente da parte del liberale radicale Jiìlicher seguito dal Loisy (§ 360, nota seconda) a un me­todico lavoro di disarticolazione che, dopo avere distaccato in esse il nucleo originario attribuibile a Gesù, ne rigettò i suddetti prean­nunzi di stabilità come aggiunte intrecciatevi dalla successiva tradizione. In conclusione anche gli escatologisti, come i liberali, “estraevano” dai vangeli una loro particolare figura di Gesù, ripudiando tutti quei lineamenti ch'erano offerti si dai vangeli, ma che non s'addicevano a quella figura. Ora, quale garanzia assicurava che questa selezione degli escatologisti fosse meno arbitraria e meno soggettiva di quella dei liberali?

§ 212. A questa preliminare critica dì metodo s'aggiunse subito l'altra anche più grave, dell'argomentazione storica. Giacché il fulcro della teoria escatologica erano le idee apocalittiche predominanti ai tempi di Gesù, queste idee divennero oggetto di nuovi e più accu­rati studi; si ricercò se veramente il giudaismo dei tempi di Gesù fosse tutto sconvolto dall'attesa dell'imminente fine del mondo e di una palingenesi totale: se queste idee, testimoniate qua e là da Apocrifi ch'erano stati addotti, rappresentassero uno stato d'animo assai diffuso e predominante, ovvero fossero patrimonio di una mi­noranza numerica e morale: se, a fianco a queste idee, che potevano essere di estrema sinistra, non ve ne fossero altre da assegnarsi al centro o alla destra. Gli escatologisti si erano limitati, nelle loro ricerche, agli Apocrifi apocalittici (§ 84 segg.), trascurando quasi del tutto l'immensa tradizione rabbinica, i cui primi dati risalgono più in su dell'Era Cri­stiana o le sono contemporanei: e tale incompiutezza d'indagine po­teva essere assai dannosa, tanto più che nuovi raffronti avevano messo in luce sempre più chiara quanto il metodo didattico di Gesù fosse somigliante a quello dei rabbini suoi contemporanei. Per conoscere quindi il pensiero di costoro s'investigò a fondo il gran mare degli scritti rabbinici, e in queste ricerche ogni altro lavoro fu superato dal voluminosissimo commento al Nuovo Testamento di Billerbeck che illustra i singoli passi neotestamentari con tutti i relativi testi del Talmud, dei Midrashlm e degli altri scritti rabbinici, aggiungendovi tratta­zioni a parte su argomenti più importanti: il quale commento in­contrò accoglienze freddissime e quasi ostili dagli escatologisti, per ragioni ben comprensibili. Ora, da questi contributi nuovi risultò che la teoria escatologica aveva troppo semplificato e troppo generalizzato. E’ vero che in al­cuni Apocrifi, ad esempio nell'Assunzione di Mose' di circa l'anno 10 dopo Cr., si identifica regno di Dio, messianismo ed escatologia, attendendosi da un momento all'altro la loro violenta attuazione in mezzo alla catastrofe mondiale, ma queste visioni costituivano il patrimonio e il conforto di persone religiosamente sfiduciate e po­liticamente disperate, che non scorgevano via d'uscita dalle condi­zioni tristissime del giudaismo contemporaneo se non in una distru­zione totale seguita dalla palingenesi. Senonché, già il carattere cosi' radicale di siffatte opinioni indurrebbe a supporre che esse non potevano rappresentare l'opinione predominante e comune; la quale difatti è rispecchiata sia in altri Apocrifi, sia specialmente nelle sentenze del Talmud e dei Midrashim. I più, cioè, ritenevano che il mondo o “secolo” presente, tutto malvagità e miseria, doveva essere realmente sostituito da uno futuro di giustizia e felicità, chia­mato in ebraico il “secolo veniente”; ma questo secolo futuro non era l'epoca del Messia, come già si era creduto nel passato Israele e come continuavano tuttora a credere i messianisti politici più accesi, bensì era il regno della retribuzione individuale dopo morte, il glorioso regno celestiale, in cui sarebbero stati accolti i fedeli Israeliti dopo la resurrezione e il giudizio universale. Fra i due “secoli” contrastanti, il presente e il futuro, faceva in qualche modo da ponte di passaggio l'epoca del Messia, la quale sarebbe stata di trionfo e di gloria per tutto Israele. Ad ogni modo questo trionfo messianico era del tutto distinto dal “secolo” fu­turo, ed apparteneva rigorosamente al “secolo” presente, in cui avrebbe costituito una particolare èra, quella dei “giorni del Mes­sia”. Riguardo alla durata di questa èra esistevano opinioni di­verse, da quella di Rabbi Aqiba che la restringeva a 40 anni, fino a quella di Rabbi Abbahu che la prolungava a 7000 anni, mentre l'opinione più comune stava per 2000 anni: ma l'èra messianica costituiva sempre un periodo ch'era strettamente storico, non già eterno, ch'era strettamente terreno, non già ultraterreno, sebbene per gli Israeliti che vi fossero pervenuti quell'èra costituiva una specie di deviazione dal presente “secolo” malvagio e un preludio al futuro “secolo” beato.

§ 213. Se pertanto si confrontava questa concezione messianica dei rabbini, ch'era predominante ai tempi di Gesù, con quanto i van­geli riferiscono circa la predicazione di Gesù, si trovava, non già una somiglianza nell'insegnamento morale-religioso, bensì una cor­rispondenza nella ripartizione dei tempi. Anche Gesù contrappose il “secolo” presente di malvagità al “secolo” futuro di gloria, in cui gli eletti prenderanno parte dopo la resurrezione al regno cele­stiale preparato loro dal Padre; tuttavia dal “secolo” futuro egli distingue nettamente l'èra del Messia, la quale appartiene al “secolo” presente, si svolgerà su questo mondo, e vi continuerà per un periodo storico indeterminato: ma, benché indeterminato, questo periodo sarà certamente lungo, giacché per conservare stabilmente la sua società messianica Gesù impartisce le già rilevate norme d'indefinita scadenza. Nè diversa risulta l'opinione della plebe che, in un momento solen­ne della operosità messianica di Gesù, lo acclama pubblicamente al suo ingresso in Gerusalerrirne: “Osanna! Benedetto il Veniente in nome del Signore! Benedetto il veniente regno del nostro padre David! Osanna negli eccelsi! “ (Marco, 11, 9-10). Da queste accla­mazioni appare evidente che quella plebe attendeva da Gesù anche un regno politico (cfr. Giovanni, 6, 15) - e in ciò era ben lontana dal pensiero di Gesù - tuttavia si trattava sempre di un regno visibile, terreno, del “secolo” presente, non già di un regno invisibile, celestiale, del “secolo” futuro. E senza dubbio que­sta opinione della plebe era in armonia con quella degli Scribi e dei Farisei, suoi autorevoli maestri, non già con quella degli estremisti apocalittici e degli Zeloti (§ 83), che disperati del “secolo” presente aspettavano la palingenesi nella calata taumaturgica del “secolo” celestiale. Queste e molte contestazioni, mosse sulla base di documenti storici ai seguaci della teoria escatologica, provocarono repliche e discussioni numerose, e smorzarono alquanto il primo entusiasmo con cui la teoria era stata accolta: ad ogni modo, ancora oggi, essa è la predominante, e nuove ipotesi organiche per sostituirla non sono state prospettate.

§ 214. Ma nel frattempo si delineava fra gli studiosi una nuova corrente, la quale, più che concentrarsi sulla vita e l'insegnamento di Gesù stesso, faceva oggetto delle sue ricerche il cristianesimo primitivo e specialmente S. Paolo. Oramai era assodato - contro le affermazioni dell'antico luteranesimo - che tutto ciò che noi sappiamo circa i fatti di Gesù ci è pervenuto attraverso la tradizione della Chiesa primitiva, e che le stesse fonti scritte evangeliche non sono altro che documenti di quella tradizione (§ 112); sembrò quindi necessario investigare co­me fosse formato quel mondo spirituale che ci ha trasmesso i van­geli, quali fossero in esso gli elementi originali e quali gli importati dal di fuori, quanto di ciò che sembrava tipicamente cristiano potesse eventualmente essere una infiltrazione nella Palestina di con­cetti non palestinesi. Col proposito di tali ricerche la nuova corren­te non intendeva ritornare ai metodi della Scuola di Tubinga (§ 200 segg.); quella, infatti, si era racchiusa nel mondo del cristianesimo primitivo, studiandone i presunti contrasti interni ma ignorando del tutto le influenze provenienti su di esso dall'esterno: adesso invece si mirava precisamente a rintracciare queste influenze, istituendo una metodica comparazione fra il cristianesimo primitivo e le altre religioni, contemporanee o anteriori ad esso, anche se nate fuori della Palestina. Erano i criteri del metodo della Storia comparata delle religioni. In realtà, influenze esterne sul cristianesimo primitivo erano già state affermate in precedenza, ma di solito limitatamente a taluni concetti e terrnini della filosofia greca; adesso, invece, si ricercarono influenze anche delle regioni ellenistiche, specialmente di culti mi­sterici, e più remotamente influenze di religioni orientali: infatti, il sincretismo religioso che imperò nell'ellenismo anteriore e contem­poraneo al cristianesimo e che aveva assimilato concetti svariatissimi di provenienza orientale, poteva far sospettare che avesse introdotto taluni dei suoi concetti nel cristianesimo nascente, influendo su esso o direttamente, oppure mediante il tardivo giudaismo della Diaspo­ra o anche della Palestina. Parecchi furono i campi investigati, che fruttarono conoscenze vera­mente nuove: fra i numerosi studi apparsi basti qui accennare a quelli di Fr. Cumont sulla Religione di Mitra (1896, 1900) e sulle Religioni orientali nell' Impero romano (1906); a quelli di R. Reit­zenstein sull'Ermetismo (1904), sulle Religioni misteriche ellenistiche (1910), sul Mistero di redenzione iranico (1921); agli studi sul Man­deismo di W. Brandt (1889, 1893, 1910, 1912,1915), di M. Lidz­harski (1900, 1905, 1915), di L. Tondelli (1928); agli studi Sullo Gnosticismo di W. Bousset (1907), di E. De Faye (1913), di F. C. Burkitt (1932). Ma assai più limitate, spesso incerte o anche del tutto arbitrarie, furono le conclusioni dedotte dal confronto di que­ste religioni orientali col cristianesimo: non fu evitato, cioè, lo spon­taneo pericolo di affermare una identità di sostanza dove era sol­tanto una vaga corrispondenza di forma, e l'altro pericolo crono­logico anche più grave di prendere per una dipendenza del cristia­nesimo ciò che era una dipendenza dal cristianesimo. Quest'ultimo caso è avvenuto nei riguardi del Mandeismo, che a bella prima taluni studiosi troppo affrettatamente giudicarono essere una fonte della teologia del iv vangelo: oggi, raffreddati i primi fervori, si ritiene comunemente che la strana setta dei Mandei èstata largamente influenzata dal cristianesimo, e non viceversa §171).

§ 215. Ma l'argomento preferito, per gli studiosi di Storia delle religioni comparate, è stato S. Paolo, considerato praticamente co­me il vero fondatore del cristianesimo o almeno come il costruttore della sua impalcatura concettuale. Questa costruzione avrebbe ben pochi elementi originali, mentre molti altri sarebbero stati desunti da varie religioni orientali ed applicati con leggieri adattamenti al Gesù idealizzato, ossia al Cristo, e alla dottrina attribuita a lui: tali sarebbero il concetto di Cristo “uomo dal cielo” (I Corinti, 15, 47), che sarebbe desunto dal mito orientale dell'”Uomo primigenio”, molti concetti misterici specialmente riguardo al battesimo e all'Eucaristia, e altri sulla grazia e lo Spirito. In sostanza si ricercava, a proposito di S. Paolo, ciò che si potrebbe chiamare un “cristianesimo precristiano”, ossia anteriore a Gesù. A questa corrente si oppose nettamente, fra altri, lo Schweitzer (§210), che in una nuova Storia delle ricerche su S. Paolo (1911) e più tardi in uno studio sulla Mistica dell'apostolo (1930), rimase fermo alla sua teoria escatologica, applicata anche a S. Paolo, e davanti all'alternativa di una dipendenza del pensiero cristiano dal giudaismo o dall'ellenismo, parteggiò risolutamente per la prima. Al contrario il Loisy, in uno studio sui Misteri pagani e il mistero cristiano (1919), ammetteva una larga influenza delle religioni mi­steriche ellenistiche sul cristianesimo da S. Paolo in poi. In realtà lo Schweitzer, sul terreno pratico, aveva avuto lo sguardo più acuto del Loisy egli cioè aveva preveduto che il metodo sto­rico-comparativo, ingolfandosi nella ricerca del “cristianesimo pre­cristiano”, avrebbe finito per negare l'esistenza storica di Gesù. Ed ebbe ragione, giacché gli sviluppi inevitabili di una logica rigorosa prevalsero anche questa volta. Come già Bruno Bauer, portando alle ultime conseguenze i principii dello Strauss e della Scuola di Tubinga, aveva finito per negare la storicità di Gesù (§ 202); cosi pure questa volta da taluni principii del metodo storico-compara­tivo, ma soprattutto dai postulati filosofici in onore dal Reimarus in poi, si dedusse che Gesù non è mai esistito.

§ 216. Veramente i nuovi negatori facevano la figura di dilettanti e d'intrusi in mezzo agli specialisti, giacché non presentavano la commendatizia di qualche nuova esegesi che salvasse - come voleva la corrente - l'uomo Gesù, dopo averlo “purificato” da ogni ele­mento divino: al contrario, questi enfants terribles si facevano avanti a sostenere la tesi opposta, e invece di salvare l'uomo Gesù volevano salvare il “dio” Cristo, preferendo un “dio” hegeliano a un uomo storico. Tuttavia, una commendatizia la presentavano anch'essi, e molto autorevole, perché fornita loro dagli stessi escatologisti. Ve­demmo sopra, infatti, come il Loisy, rivolgendosi a chi negava che Gesù era in una fremente attesa della fine del mondo, sfidasse il negatore a provare l'esistenza storica di Gesù (§ 210): ebbene, que­sta sfida fu accettata alla lettera, e siccome i nuovi arrivati non erano rimasti affatto convinti dalle prove che gli escatologisti ave­vano addotte per dimostrare quella fremente attesa di Gesù, cosi essi negarono che Gesù fosse esistito. Quale escatologista avrebbe potuto accusarli di non essere logici? Già sullo scorcio del secolo XIX alcuni olandesi, quali A. Pierson, A. Loman e qualche altro, si erano messi sulla via della negazione dell'esistenza storica di Gesù, ma senza ottenere apprezzabili risul­tati. Altrettanto avvenne al tedesco A. Kalthoff (1902), che si ri­chiamò ai principii di Bruno Bauer. In Inghilterra J. M. Robertson, con parecchie pubblicazioni dal 1900 in poi, sosteneva che Gesù era oggetto d'un vecchio culto del popolo ebraico e da identificarsi con un mito impermeato sull'antico Giosuè. Un americano, W. B. Smith, che tuttavia scrisse in tedesco, pubblicò nel 1906 un'opera dal titolo significativo Il Gesu' precristiano, con cui andava alla ricerca del culto di un Gesù anche fuori del popolo ebraico; nello stesso anno P. Jensen, assiriologo eminente, in un'opera voluminosa trovava che la figura di Gesù, come già quelle di Mosè e di altri personaggi dell'Antico Testamento, era un semplice episodio della vasta epopea mitica del babilonese Gilgamesh. Finalmente, dal 1909 in poi, il tedesco A. Drews dapprima pubblicò due grossi volumi intitolati Il mito di Cristo, e poi con altri scritti e con una fer­vorosa attività oratoria tentò di ridurre a sistema e di divulgare la negazione della storicità di Gesù: nel suo sistema erano messe largamente a profitto le idee sia del Robertson (Gesu = Giosue') sia dello Smith (influenza di concetti pagani). La meschinità, quasi frivola, di siffatte ricostruzioni storiche non meritava la confutazione di specialisti; tuttavia l'attività irruente del Drews suscitò sdegnosa stizza ed animose polemiche. Dal punto di vista dell'argomentazione storica queste polemiche apparivano ingiustificate, come sarebbero ingiustificate le polemiche contro chi negasse la storicità di Giulio Cesare o di Socrate: a tali negatori si risponderebbe degnamente solo col silenzio. Ma nel caso del Drews e dei suoi colleghi c'erano di mezzo i principii filosofici, ch'essi con­dividevano pienamente con i loro avversari. Il gruppo del Drews obiettava agli avversari in sostanza così: Voi negate che Gesù sia stato Dio ed abbia operato miracoli, ed avete perfettamente ragione; ma non vedete voi che il Dio Gesù è atte­stato nelle fonti neotestamentarie con una precisione e nettezza che è certamente non minore, e fonse maggiore, di quella per l'uomo Gesù? Non vedete che le due figure, del Dio e dell'uomo, sono con­nesse fra loro cosi intimamente da non potersi scindere a vicenda? Le due figure, storicamente, sono illuminate dalla stessa luce docu­mentana: quindi, se voi accettate l'uomo Gesù, non potete più respingere - soltanto in forza di postulati filosofici - il Dio Gesù. Del resto l'esperienza è in nostro favore, giacché i tentativi fatti dal Reimarus in poi, per salvare l'uomo Gesù abbandonando il Dio Ge­sù, sono tutti falliti, evidentemente perché battevano una strada sba­gliata; noi perciò battiamo la strada inversa, abbandonando l'uomo Gesù, o meglio assegnando egualmente l'uomo e il Dio alla sfera dell'irreale. E, facendo ciò, noi siamo in accordo con la storia ben più di voi: voi, infatti, siete costretti ad ammettere la mostruosa assur­dità che dei rigidi monoteisti - quali S. Paolo e i primi cristiani pro­venienti dal giudaismo - adorassero come un essere soprannaturale e divino un uomo morto pochi anni prima e già conosciuto personal­mente da molti di loro; noi invece esigiamo un semplice processo di incarnazione ideale, affermando che quei primi cristiani velarono di esistenza terrena una loro idea religiosa, com'è avvenuto altre volte nella storia delle religioni. Il ragionamento, come argomento ad hominem, era di una logica perfetta. Di qui la sdegnosa stizza e le polemiche degli avversari, che non gradivano di apparire illogici e inconseguenti.

§ 217. Durante queste polemiche, dopo la prima guerra mondiale, si è delineato riguardo alla critica delle fonti evangeliche un nuovo in­dirizzo, che ha preso il nome di Metodo della storia delle forme (formgeschich tliche Methode). I seguaci di questo metodo, in gran maggioranza tedeschi (K. S. Schmidt, 1919; M. Dibelius, 1919 segg.; R. Bultman, 1921 segg.; M. Albertz, 1921; G. Bertram, 1922 segg; ecc.), si propongono direttamente soltanto uno scopo critico-letterario, cioè di indagare la formazione e la trasmissione dei primi racconti relativi a Gesù, avanti ancora che fossero messi in iscritto: a tale scopo essi sottopongono ad analisi le “forme”, ossia i tipi letterari, che rimasero incorpo­rate in quei racconti e ch'erano d'indole religiosa popolare (ed esem­pio, la “novella” l'« apoftegma », il “paradigrna”, ecc.). Essi, infatti, ammettono che il materiale dei vangeli, prima d'essere scrit­to, fece parte della catechesi ecclesiastica (§ 112) e fu in stretta rela­zione col culto cristiano, e perciò ebbe una vita ed uno svolgimento suoi propri; come pure riconoscono che il Gesù presentato dalla più antica tradizione cristiana è già un essere soprannaturale e oggetto di adorazione religiosa. Direttamente, quindi, essi non si occupano della biografia di Gesù, ma solo dei suoi preliminari, cioè del mate­riale evangelico relativo a questa biografia: tuttavia gli sconfinamen­ti dal campo strettamente critico-letterario a quello costruttivo-biografico sono inevitabili e significativi. Se ne intravede perciò come risultato una teoria che ha molte analogie con quella dello Strauss (§ 199); la realtà storica di Gesù è di solito ammessa, ma le narra­zioni evangeliche a suo riguardo sono stimate una elaborazione della primitiva comunità cristiana; questa elaborazione è, non già mitica come per lo Strauss, ma d'indole religiosa popolare, ed ha conser­vato qua e là alcuni elementi d'oggettività storica, benché oggi sia praticamente assai difficile estrarre con precisione questi elementi per impiegarli in una biografia di Gesù. Questo scetticismo, del resto, non è una prerogativa del Metodo sto­nco-formale, ma si diffonde sempre più anche tra i seguaci di altre correnti. Né contro di esso rappresenta una seria eccezione il solito R. Eisler (§§ 181, 189) che in una grossa pubblicazione dal titolo greco Gesu' re che non ha regnato (2 voli., 1929-1930) presenta con ogni sicurezza e precisione un Gesù rivoluzionario, insorto a mano armata e messo regolarmente a morte dai Romani; e che suc­cessivamente, in uno studio su L'enigma del quarto Vangelo (1938), traccia una biografia non meno minuziosa di Giovanni l'evan­gelista. Dai dotti di ogni tendenza ambedue le pubblicazioni sono state giudicate romanzesche, soprattutto nella loro parte costruttiva; e su tale giudizio non c'è nulla da eccèpire. Oggi, pertanto, il campo è diviso praticamente fra la scuola escatologica, quella storico-comparativa e quella mitologica, mentre a tutte e tre indifferentemente possono appartenere coloro che applicano il Metodo della storia delle forme alcuni ritardatari della scuola li­berale attirano scarsa attenzione. La scuola storico-comparativa ha progressivamente abbandonato talune ipotesi su cui da principio aveva riposto molta fiducia, come quella accennata sopra (§ 214) riguar­do al Mandeismo. La teoria mitologica, invece, ha avuto un vigoroso sostenitore nel francese Couchoud, che ha preso a partito so­prattutto gli escatologisti.

§ 218. Nel suo nervoso libretto su Il mistero di Gesu' (1924) egli s'indirizza spesso al principale escatologista, il Loisy, a cui professa gratitudine per tutto ciò che ha imparato ma di cui trova ingiusti­ficato l'attaccamento all'esistenza storica di Gesù. Alla tesi del Loisy, secondo cui il cristianesimo è sorto dalla deificazione dell'uomo Ge­sù, il Couchoud propone fra altre queste difficoltà: « In molte regio­ni dell'impero era cosa fattibile deificare un uomo privato. Ma per lo meno in una nazione la cosa era impossibile, cioe' presso i Giudei. Essi adoravano Jahve', l'unico Dio, il Dio trascendente, indicibile, di cui non si delineava l'effigie, di cui non si pronunziava il nome, ch'era separato da abissi di abissi da ogni creatura. Associare a Jahve’ un uomo di qualunque genere, sarebbe stato il sacrilegio e l'abo­minazione suprema. I Giudei onoravano l'imperatore, ma si facevano tagliare a pezzi piuttosto che confessare solo a fior di labbra che l'imperatore era un Dio; e si sarebbero fatti egualmente tagliare a pezzi, se fossero stati obbligati a dire ciò dello stesso Mose'. E il pri­mo cristiano di cui udiamo la voce, un Ebreo figlio d'Ebrei (cioè S. Paolo), associerebbe un uomo a Jahve' nella maniera piu' naturale? Ecco il miracolo contro cui io ricalcitro”. - « Sarebbe stato frivolo opporsi all'apoteosi dell'imperatore fino ad affrontare il martirio, per poi sostituirla con l'apoteosi di uno dei suoi sudditi ». - «Proprio di un artigiano come lui Paolo ha detto: Chiunque invocherà il suo no­me sarà salvo,' ovvero: Ogni ginocchio si piegherà davanti a lui, quando la Scrittura dice ciò di Dio? Questo costruttore di baracche (tale era S. Paolo per mestiere) ha forse attribuito a un altro fale­gname ambulante l'opera dei sei giorni, la creazione della luce e del­le acque, del sole e della luna, degli animali e dell'uomo, dei Troni, delle Dominazioni, dei Principati e delle Potestà degli Angeli e di Satana? Ha forse confuso un uomo con Jahve'?”. E’ dunque inam­missibile, per ragioni storiche, che il Cristo del cristianesimo sia l'uo­mo Gesù deificato. Sarà, allora, vero Dio e vero uomo nello stesso tempo? Anche ciò è inammissibile, ma non per ragioni storiche, ben­sì filosofiche: il concetto, infatti, di uomo-Dio “e' un concetto pre kantiano, esso e' entrato egualmente in grandi spiriti, come S. Agostino, S. Tommaso, Pascal, ma oggi e' inammissibile... Si e' prodotta una lenta evoluzione dell'intendimento, e io suppongo che Kant c'en­tri per qualche cosa”. (Che Kant c'entri, e più ancora Hegel, è indubitato; ma era pre-kantiano anche Celso, il quale - come vedem­mo (§195) - faceva lo stesso identico ragionamento del Couchoud). Non resta dunque che ricorrere all'ipotesi perfettamente contraria a quella del Loisy; e infatti il Couchoud l'accetta, concludendo che “Gesu' non e' un uomo progressivamente divinizzato, ma un Dio pro­gressivamente umanizzato”.

§ 219. All'attacco del Couchoud il Loisy ha risposto, occasionalmen­te, in maniera secca e sdegnosa. dichiarando fra l'altro che “noi non abbiamo mai preso sul tragico le speculazioni dei mitologi”. Ma che l'attacco avesse in realtà qualche elemento tragico, è appar­so dalle ultime pubblicazioni del Loisy, quella su La nascita del cristianesimo (1933) rincalzata dalle Osservazioni sulla letteratura epistolare del Nuovo Testamento (1935). In questi scritti egli ac­centua sempre più il suo scetticismo storico circa la biografia di Ge­sù, e passa a giustificare questo scetticismo con una critica sempre più radicale delle lettere di S. Paolo. Lo scetticismo è espresso in questi termini: « Rassegniamoci a sapere soltanto che, nel tempo in cui Ponzio Pilato era procuratore della Giudea, forse nell'anno 28 o 29 della nostra era, forse un anno o due prima, un profeta si levò in Galilea, nella regione di Cafarnao. Si chiamava Gesu'... Questo Gesu' era della piu' umile origine. Non e' probabile che il nome di suo Padre, Giuseppe, e quello di sua Ma­dre, Maria, siano stati inventati dalla tradizione. Alcuni fratelli, ch'egli aveva, hanno goduto di un'autorità piu' o meno considerevole nella prima comunità. Senza dubbio era nato in qualche borgo o villaggio ove fu visto da principio insegnare”. Si noterà come queste parole siano molto simili a quelle che già udimmo sullo stesso argo­mento dal Renan (§ 206), sebbene costui poi non si attenesse in pratica al suo scetticismo: il Loisy, invece, ci si attiene. Del resto questo Gesù non avrebbe avuto neppure il tempo d'espli­care una vasta operosità, giacché la sua predicazione in Galilea “non e' potuta durare a lungo; sarà fare una misura abbondante, prolun­garla per qualche mese”: dopo di che, avvenne il viaggio a Geru­salemme e la morte. Ma anche cosi assottigliata, questa figura di Gesù ha sempre contro di sé - come faceva rilevare il Couchoud - la testimonianza di S. Paolo, che a neppure vent'anni di distanza dalla morte di Gesù fa di quest'uomo un essere divino, autore della redenzione umana, della grazia universale, dell'Eucarestia e dei cristiani misteri di salvezza; quindi, o è falsa la figura del Gesù delinea­ta dal Loisy, o è falsa la testimonianza di S. Paolo. Il Loisy ha scelto, naturalmente, la seconda alternativa. Nel passato egli aveva ammesso l'autenticità sostanziale delle lettere di S. Paolo, assegnandole al periodo tra gli anni 50 e 61; ma adesso, per sfuggire alla suddetta obiezione, mantiene tale assegnazione solo di nome, mentre in realtà la abbandona, giacché scomponendo le singole lettere in una gran quantità di frammenti ne attribuisce an­cora a S. Paolo solo una minima parte, e al contrario dichiara inter­polati i frammenti più ampi e soprattutto più impaccianti per la sua teoria, attribuendoli a una “gnosi mistica” della fine del secolo I. Dopo lunghi tentennamenti, anche il fastidioso passo in cui S. Paolo attribuisce a Gesù l'istituzione dell'Eucarestia (I Corinti, 11) è di­chiarato falso e interpolato (§ 548).

§ 220. In questo nuovo radicalismo applicato a S. Paolo il Loisy ha avuto un predecessore, Henri Delafosse. Sotto questo appellativo, che è uno dei vari pseudonimi di Joseph Turmei, costui ha pubblicato in una collana edita dal Couchoud (il riavvicinamento dei due Stu­diosi è significativo) alcuni volumetti (1926 segg.) in cui egualmente anatomizza le lettere di S. Paolo, conservando all'apostolo brevi trat­ti ed attribuendo quasi tutto il resto a Marcione, che avrebbe scritto verso l'anno 150. Opera analoga ha fatto il Turmei, ancora sotto lo pseudonimo di Delafosse, per le lettere d'Ignazio d'Antiochia (1927) dichiarate d'ogine marcionita, e per quella di Policarpo dichiarata interpolata. Le conclusioni del Turmel, salvo l'attribuzione a Mar­cione, sono state condivise e largamente impiegate dal Loisy. Ma, se il Loisy ha avuto in ciò un predecessore, non pare che abbia avuto dei seguaci: gli stessi suoi antichi discepoli si sono rifiutati di seguirlo nel suo nuovo radicalismo. In Italia è stato scritto: “Parlia­moci chiaro. Alfredo Loisy ha segnato un'orma incancellabile nella critica religiosa del secolo ventesimo con la sua critica dei Sinottici, condizionata sopra tutto dallo sforzo di isolare l'apporto paolino nel­la tradizione evangelica, quella di Marco innanzi tutto. Se ora il Paolo storico, il Paolo delle lettere, evapora nelle nostre mani e si perde nelle nebbie della speculazione gnostica del secondo secolo, la critica dei Vangeli (a cui i papiri stanno imponendo limiti cronolo­gici sempre piu' circoscritti) (esattissimo: cfr. § 160) e' da rifare: e sa­rebbe da rifare, caso mai, in maggior conformità alla tradizione ortodossa. Bel risultato, invero, di tante scomuniche!” (E. Buonainti, in Religio, gennaio 1936, pag. 67). Altrettanto è avvenuto in Francia, ove M. Gognei e Ch. Guignebert hanno respinto le ultime conclusioni del Loisy, sebbene ambedue ac­cettino la teoria escatologica e siano debitori a lui di molte cose. Il Goguel ha pubblicato una Vita di Gesu' (1932), a cui ha tenuto dietro uno studio su La fede nella resurrezione di Gesu' nel cri­stianesimo primitivo (1933): nella biografia predomina l'idea esca­tologica, pur riscontrandovisi qualche lineamento proveniente dalla Scuola liberale; nello studio successivo, negata la realtà storica della resurrezione, si tenta spiegare come sia sorta la fede in essa. Il Gui­gnebert ha pubblicato un Gesu' (1933) in cui, quasi sempre, segue passo passo il Loisy dell'antica maniera, e si mostra ben più radi­cale del Goguel. Ma anche questa volta torna la questione già accennata a proposito di Bruno Bauer e dei recenti mitologi: si tratta ciòè di sapere se dal punto di vista della coerenza critica e della dialettica conseguenzia­ria non già della documentazione storica - il Loisy maestro si tro­vi in regola molto più dei suoi riluttanti discepoli. La logica infatti ha le sue ferree leggi, che spingono fino alle ultime conseguenze quan­do si sono stabiliti taluni principii. Quando perciò si è stabilito che dai vangeli deve risultare un Gesù visionario escatologico, e a tale scopo si sono frantumati i Sinottici e si sono gettati via la massima parte dei loro frammenti insieme con l'intero IV vangelo: quando in questo lavoro sono stati perfettamente d'accordo maestro e disce­poli; quando infine il maestro s'avvede che il lavoro già fatto non serve a nulla se non si estende anche all'irriducibile S. Paolo tradi­zionale, ed estende perciò il lavoro anche a S. Paolo; allora ogni per­sona che ragioni troverà che, dal punto di vista della coerenza, il maestro va rettamente per la strada che si è tracciata, mentre i di­scepoli riluttanti sono illogici, perché si fermano a mezza strada per un ingiustificato conservatorismo.

§ 221. Ma si può fare anche un'altra questione, e chiedere se lo stesso Loisy sia veramente giunto alle ultime conseguenze dei suoi principii. Nella sua lunga operosità scientifica si rileva chiaramente una continua accentuazione di radicalismo, per cui egli ha succes­sivamente sconfessato opinioni meno demolitrici dapprima profes­sate. Ad ogni modo più radicali di lui sono oggi i mitologi colleghi del Couchoud, dalle cui negazioni egli aborre Certamente tra Couchoud che nega l'esistenza storica di Gesù, e il Loisy che l'affer­ma, c'è un abisso. Ma l'abisso sembra più teoretico che pratico. A che si riduce, in pratica, il Gesù storico del Loisy? A un giovane Galileo visionario, che ha predicato per due o tre mesi, e che infine è stato giustiziato a Gerusalemme. Altro non si sa (§ 219). E’ un'om­bra, un semplice fantasma, che un tenue soffio farebbe svanire; il Loisy però non vuoi dare quel soffio, e ricorre all'espediente di polve­rizzare le lettere di S. Paolo, piuttosto che fare svanire il fantasma. Il ricorso è coerente, ma da disperati; e appunto per questo evidente carattere di disperazione non è stato né sarà imitato. Non sarebbe dunque più agevole, e soprattutto più logico, dare quel decisivo sof­fio e fare svanire quell'ombra di Gesù storico, come ha fatto il Cou­choud? vero che il Loisy, e dietro lui il fedele Guignebert, ha più volte risposto al Couchoud che l'ipotesi ha il torto “di non spiegare l'ori­gine del cristianesimo”. Ma il Couchoud può sempre replicare chie­dendo se l'ombra del Gesù storico, mantenuta dal Loisy, spieghi davvero l'origine del cristianesimo, o almeno la spieghi meglio dell'idea religiosa velata di storicità che il Couchoud preferisce; può inoltre insistere affermando che, quand'anche l'origine del cristiane­simo non fosse spiegata nell'ipotesi che Gesù non sia esistito, ciò tutt'al più sarebbe un altro fra i molti casi in cui la storia deve ri­correre alla sapiente ars nesciendi: ma che, ad ogni modo, sarebbe evitata la mostruosa assurdità storica di presentare rigidi monoteisti giudei che adorano a masse un uomo morto poco prima e da essi ben conosciuto (§ § 216, 218). Il dramma spirituale dei razionalisti che si rifiutano di seguire il Couchoud, consiste in questo. Essi af­fermano che l'esistenza storica di Gesù non può essere richiamata in dubbio, garantita qual è da testimonianze gravissime, numerose, so­lenni: se si respingessero queste testimonianze, si dovrebbero respin­gere a maggior ragione le testimonianze riguardo all'esistenza sto­rica di Socrate, Alessandro Magno, Annibale, Mani, Maometto, Car­lo Magno, e d'infiniti altri personaggi, cosicché tutta la storia cadreb­be. Senonché le identiche testimonianze, gravissime, numerose, solen­ni, mentre garantiscono l'esistenza storica di Gesù, attestano anche le sue qualità soprannaturali e la sua potenza taumaturgica: perciò, come si conclude da quelle testimonianze che Gesù è veramente esi­stito, così' bisognerebbe concludere ch'egli era un essere soprannatu­rale e che operò miracoli. Ma questa conclusione è per i razionalisti impossibile a priori, e di qui il loro dramma: essi devono dimostrare a posteriori che le testimonianze in favore del Gesù soprannaturale e taumaturgo non hanno alcun valore, mentre essi stessi le giudicano autorevolissime in favore del Gesù storico. Il metodo seguito per raggiungere questa dimostrazione a posteriori è come oramai sappiamo - quello della selezione dei testi: i testi irriducibilmente « soprannaturali » sono scartati perché privi di va­lore storico; gli altri, meno irriducibili, sono sottoposti al processo della dolce sollecitazione cara al Renan (§ 207), e cosi sono ricon­dotti al livello puramente naturale e riacquistano valore storico. Ma questo metodo, per quanto sia comodo agli scopi aprioristici di chi lo applica, è troppo puerile, e puerile specialmente per la sua arbi­trarietà. Proprio I'Harnack, cioè un razionalista insigne, previde che alla critica dei vangeli sarebbe avvenuto come a quel fanciullo che tolse via ad una ad una tutte le foglie di un bulbo, giudicandole nella sua mente puerile ingombranti o accessorie al bulbo stesso, ed aspettandosi di ritrovare nell'interno un nocciuolo: e invece, gettata via l'ultima foglia, restò con nulla in mano. Gli avvenimenti successivi hanno mostrato che la previsione dell'Har­nack era giustissima, giacché i critici che sfrondavano i testi più o meno abbondantemente sono stati seguiti dai critici che li hanno rasi al suolo indistintamente. Nulla, infatti, è più logico della logica stessa, quando sia applicata rigorosamente.

§ 222. Una conclusione appare evidentissima, a chi riassuma risultati delle molteplici esperienze fatte dal Reimarus fino ad oggi, ed è che quando si comincia a cancellare una parte della figura del Gesù storico qual è presentata dai vangeli, o si ottiene una figura storicamente assurda che ben presto è abbandonata, oppure si finisce col cancellarla del tutto. I lineamenti del Gesù dei vangeli sono tan­to riconnessi e collegati fra loro, che si richiamano necessariamente a vicenda; quindi, o si lasciano come sono, oppure si cancellano fino all'ultimo. E appare evidentissima anche un'altra conclusione, in relazione di­retta con la precedente: ed è che l'accettare tale quale la figura del Gesù dei vangeli, oppure il cancellarla in parte o tutta, è una conclu­sione dettata soprattutto da criteri filosofici non già storici. La linea di divisione, la vera cresta di displuvio, che separa i due campi è un criterio filosofico, cioè la « possibilità » del fatto soprannaturale e del miracolo fisico: tutti gli altri criteri storici, in confronto con questo filosofico, sono di gran lunga meno importanti per uno studioso che già si sia schierato nell'uno o nell'altro dei due campi. Previa « pos­sibilità » nel campo di destra; previa « impossibilità » nel campo di sinistra: ecco il vero spirito che animerà le successive investigazioni storico-documentarie in ambedue i campi, e ne suggerirà le conclu­sioni. Gli accampati di sinistra accetteranno volta per volta qualun­que soluzione del problema storico di Gesù, da quella del Reima­rus fino a quella dei mitologi, pur di non ammettere quella « possibilità » che per essi è un'assurdità maggiore di qualunque assurda soluzione. Gli accampati di destra avranno il compito di assicurarsi caso per caso che la previa « possibilità » sia diventata « realtà », e di schiarirne l'inquadramento nei contemporanei fatti storici; ma, per il resto, non incontrano ostacoli molto gravi. Questa condizione degli accampati di destra è rilevata da un accam­pato dell'estrema sinistra, cioè dal Couchoud, con le seguenti parole: «Quanto piu' ci ripenso, tanto piu' mi convinco che il Gesu' storico non e' pienamente accettabile se non dai credenti e non capito bene se non da loro ». - «I credenti hanno la chiave di questi antichi testi. Essi li leggono senza fatica, ne penetrano il vero senso; potran­no desiderare la spiegazione di un dato particolare, ma difficoltà ra­dicali non ne incontrano. Per essi non esiste un enigma di Gesu'. L'ostacolo in cui io urto, di sapere come mai Paolo avrebbe adorato un Giudeo suo contemporaneo elargendo gli gli attributi di Jahve' (cfr. § 218), non esiste. Paolo ha trattato Gesu' da Dio, perché Gesu' e' veramente Dio. I credenti sono nella luce ». – “Nel campo dell'e­segesi la loro posizione e' invidiabile. Essi ricevono di fronte e accet­tano nel loro senso pieno quei documenti che i critici prendono di sbieco e nei quali tentano di fare una rischiosa selezione”.

§ 223. Su questo punto esiste poi una controversia delicata. Dagli accampati di sinistra partono spesso all'indirizzo degli accampati di destra voci disdegnose, che li accusano di essere sotto la tirannia del dogma e di non godere di quella libertà scientifica di cui si gode nel campo di sinistra. Bisogna distinguere. In primo luogo, quando un dato principio è sta­to liberamente e coscientemente accettato, si potrà parlare di salda adesione ma non di tirannia. Eppoi, vi sono dogmi e dogmi: vero dogma è quello religioso; ma vi sono anche assiomi filosofici che val­gono per “dogmi” laici, riscotendo adesioni così tenaci da non invidiare praticamente nulla ai dogmi religiosi. Ora, sarebbe puerile o insincero negare che il campo di sinistra abbia i suoi “dogmi” laici, rappresentati da quegli assiomi filosofici che guidano le sue ricerche e dettano le sue conclusioni ben più dei documenti storici. Questa constatazione non è ammessa né spesso né volentieri dagli accampati di sinistra; ma la loro ben comprensibile ritrosia ha avuto talune felici eccezioni, fra cui la seguente: « Se il problema (cristolo­gico) che ha appassionato ed assorbito per secoli i pensatori cristiani e' oggi proposto di nuovo, ciò avviene molto meno perché la storia ne e' meglio conosciuta, che non in conseguenza del rinnovamento integrale che é avvenuto e prosegue nella filosofia moderna” (A. Loisy, Autour d'un petit livre, pagg. 128-129). Ecco una confessione tanto sincera quanto preziosa. Cosicché le voci disdegnose della sinistra verso la destra non sono punto giustificate, e posson benissimo esser ritorte dalla destra verso la sinistra con ragioni per lo meno di ugual peso; tanto più che, in pratica, se vi sono state diserzioni da sinistra verso destra, ve ne sono state anche da destra verso sinistra. Né si vorrà seriamente soste­nere che l'abbandono del “dogma” laico è cosa sempre facile ed agevole, e che non avviene altrettanto nel campo opposto: in realtà l'esperienza dimostra che per attaccamento al “dogma” laico si affronta volentieri anche una specie di “martirio” laico, quale èquello di accettare la ridicolaggine suprema della teoria di un Pau­lus o l'assurdità suprema della teoria di un Couchoud. Affrontare simili ridicolaggini e assurdità, non è quasi un “martirio” laico? Nei due campi si parlano in realtà due lingue diverse, chiamate rispettivamente “naturalismo” e “soprannaturalismo”. Il campo di sinistra, che parla il “naturalismo”, non comprende nè desidera comprendere l'altra lingua; il campo di destra, che parla il “sopran­naturalismo”, comprende benissimo l'altra lingua, soltanto afferma ch'è una lingua straniera nel paese chiamato Vangelo e quindi il visitatore di questo paese non riuscirà ivi né a capire nè a farsi ca­pire con questa sola lingua. Avviene perciò che gli accampati di sinistra disdegnano per princi­pio tutto ciò che dicono quei di destra, come gente che parli una lin­gua barbara. La miglior prova ne è che l'accennata opera del radi­cale Schweitzer, la quale tratta estesamente delle ricerche sulla bio­grafia di Gesù (§ 210), non s'occupa quasi affatto di pubblicazioni del campo di destra. Al contrario, gli accampati di destra s'interessano molto delle pub blicazioni dell'accampamento di sinistra, perché (oltre il resto) vi riscontrano altrettanti fallimenti delle varie teorie naturalistiche, co­me di discorsi fatti da persone che parlino tutte le lingue tranne la giusta, e che perciò hanno ridotto il loro accampamento a una spe­cie di torre di Babele. Quest'ultimo paragone potrà sembrare qui inopportuno per la sua indelicatezza: ma in tal caso la responsabi­lità ricade su chi lo ha impiegato per la prima volta, cioè precisamen­te su un altissimo gerarca dell'accampamento di sinistra, il Loisy, il quale ha potuto esprimere il seguente giudizio: “Si e' assai tentati di pensare che la teologia contemporanea - fatta eccezione per i cattolici romani per i quali l'ortodossia tradizionale ha sempre forza di legge - e' una vera torre di Babele, ove la confusione delle idee e' anche piu' grande della diversità delle lingue”(in The Hibbert Journal, vni-3, aprile 1910, pag. 486). Se queste parole vogliono essere un bilancio dei risultati ottenuti, gli accampati di destra le ascolteranno volentieri come confessione di un fallimento.
§ 224. I risultati pratici ottenuti nel campo di sinistra, che è il solo di cui ci siamo occupati, sono quelli fin qui esposti. E’ avvenuto cioè che quasi ogni nuova generazione, dal Reimarus fino ad oggi, ha gri­dato al trionfo credendo di aver finalmente raggiunto la definitiva e vera soluzione del problema di Gesù; senonché, immancabilmente, la successiva generazione ha ripudiato la decantata soluzione e ne ha cercata un'altra. Vi sono, è vero, alcuni punti messi al sicuro dopo tante ricerche; ma si tratta di punti secondari, sui quali consente volentieri anche il campo di destra mentre la vera questione prin­cipale, cioè il problema in se stesso di Gesù, è ancora là in attesa di una risposta. L'ultima soluzione proposta trionfalmente è stata quella degli escatologisti; ma da quando essa fu proclamata è già passata quasi una generazione quindi, se ancora vige la legge del secolo scorso, non dovrebbe tardare il suo ripudio totale. E in realtà, i preannunzi di questo ripudio già si scorgono, e numerosi; non si scorgono invece i segni di una parusia, che apporti la sostituzione. Né sarà facile congegnare una nuova e ben delineata teoria storica, essendo già state esplorate abbastanza le varie zone dentro e fuori l'antico giudaismo. Rimane, è vero, la possibilità di scoperte inatte­se, che portino alla luce documenti importanti; ma anche qui le pre­visioni non sono rosee, giacché i papiri scoperti in questi ultimi an­ni, mentre mostrano un viso benigno ed amorevole verso i vangeli antichi e compatti della tradizione, mostrano invece una grinta singolarmente arcigna e scontrosa verso i vangeli tardivi e interpolati degli escatologisti (§160). Se dunque il passato insegna qualcosa ri­guardo al futuro, è prevedibile nel campo di sinistra un accentuato radicalismo riguardo alle fonti - nonostante le attestazioni paleogra­fiche dei documenti - e un più sfiduciato scetticismo riguardo alla ricostruzione della biografia di Gesù. Nel campo di sinistra, insomma, il Gesù storico sembra destinato ine­sorabilmente alla tomba. Su un angolo di essa i mitologi, o i loro successori, scriveranno NEMO; gli escatologisti o i loro successori rifiuteranno questa iscrizione come grave offesa alla storia, e in un altro angolo scriveranno IGNOTUS; ma poi gli uni e gli altri si aiuteranno a vicenda a rotolare la pietra all'ingresso della tomba, vi apporranno di comune accordo i sigilli, e davanti alla porta chiu­sa si sdraieranno insieme a far la guardia.

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06/08/2012 17:11


[SM=g27998] LA VITA PRIVATA

«Toto orbe in pace composito»


§ 225. Gli ultimi anni avanti l'Era Volgare l'Impero romano, ossia l'orbis terrarum, fu in pace. Nell'anno 15 av. Cr. Tiberio e Druso, figliastri di Augusto, avevano sottomesso la Rezia, la Vindelicia e il Norico, fra le Alpi e il Danubio; nel 13 i Dalmati e i Pannoni erano stati ridotti all'obbedienza mediante una spedizione iniziata da Agrippa, genero d'Augusto, e terminata da Tiberio; dal 12 in poi Druso aveva diretto le operazioni guerresche contro i Germani, stabilendo saldamente il dominio di Roma lungo il Reno. Dall'anno 8 av. Cr. comincia un periodo di pace, che non sarà più turbata se non dopo l'Era Volgare con le nuove sollevazioni dei Germani, Dalmati e Pan­noni, culminate con la disfatta di Quintilio Varo a Teutoburgo (9 d. Cr.). A Roma, l'Ara Pacis Augustae era stata inaugurata già nel gennaio del 9 av. Cr.; il tempio di Giano, che era stato chiuso due sole volte da Augusto, fu da lui chiuso per la terza volta appunto nell'8 av. Cr., essendo toto orbe in pace composito, come proclama ogni anno la Chiesa in occasione della nascita di Gesù. Augusto, autore di questa pax romana, aveva raggiunto la vetta della sua piramide di gloria, trovandosi in quel periodo per cui non avreb­be dovuto mai morire.
Si disse infatti di Augusto che, per il bene di Roma, avrebbe dovuto o non mai nascere o non mai morire: il periodo anteriore al suo dominio assoluto sarebbe quello per cui non avrebbe dovuto mai nascere, e il periodo in cui egli rimase unico padrone del mondo sarebbe quello per cui non avrebbe dovuto mo­rire. E a tale padrone del mondo, appunto in questo secondo perio­do, erano riserbati onori fino allora sconosciuti nell'Impero: gli si dedicavano templi e città intere, era proclamato di stirpe non già umana ma divina, egli era il nuovo Giove, era il Giove Salvatore, era l'astro che sorge sul mondo. Non risulta invece che, fra tanti eccelsi titoli, fosse dato ad Augusto quello di principe di pace, che pure non era da lui immeritato nel suo secondo periodo. Ma sette secoli prima un profeta ebreo aveva ben impiegato questo titolo, e insieme con altri che ricordano quelli d'Augusto lo aveva attribuito, precisamente come ultimo e conclu­sivo titolo, al futuro Messia: è nato un pargolo, ci fu largito un figlio: fu posto l'impero sull'omero suo. Suo nome sarà “Ammirabile”, “Consigliere”, “Dio”, “Forte”, “Padre sempiterno”, “Principe di pace”. Isaia, 9, 5. E’ vero che in ebraico l'espressione “principe di pace” ha un significato più ampio del latino princeps pacis, perché in ebrai­co “pace” (shalom) designa il “benessere”, la “felicità” perfetta; tuttavia il futuro Messia, essendo stato previsto come “principe”, non avrebbe mancato di apportare nel suo regno, insieme con la “felicità”, anche la pax nel senso latino di esclusione della guerra, giacché ov'è guerra non è pax e tanto meno “felicità”.


[SM=g27998] L'annunzio a Zacharia


§ 226. Si era pertanto in tempo di pace, sotto l'imperatore Augusto, ai giorni di Erode re della Giudea (Luca, 1, 5), e correva l'anno 747 di Roma (7 av. Cr.). Viveva allora un sacerdote del Tempio di Gerusalemme, di nome Zacharia, ch'era ammogliato con una don­na di stirpe sacerdotale di nome Elisabetta, ed abitava nella “regione montagnosa” di Giuda (Giudea); la città ov'egli dimorava è innominata, ma una tradizione risalente fin verso il secolo V la identi­fica con l'odierna Ain-Karim (S. Giovanni in Montana), a circa 7 chilometri a sud-ovest di Gerusalemme. I due coniugi erano avan­zati in età ambedue, e non avevano ricevuto la prima e più gio­conda benedizione di un focolare ebraico, cioè la figliolanza: nella loro solitudine s'attristavano, e consci di aver sempre menato una vita tutta dedicata ai grandi principii della religiosità ebraica si chiedevano perché mai Dio li avesse lasciati privi di quella consolazione. Ora, essendo giunto il turno dì servizio al Tempio per la classe a cui apparteneva Zacharia, che era l'ottava classe presieduta da Abia (§ 54), egli dalla sua dimora rurale si trasferì a Gerusalemme; essen­dosi poi fatta l'assegnazione dei singoli uffici per mezzo delle sorti, a Zacharia toccò l'onorevole incarico di offrire l'incenso sull'altare dei profumi, il che avveniva due volte il giorno nel sacrifizio mattu­tino e in quello vespertino. L'altare dei profumi era collocato nel “santo” (§ 47) ove potevano entrare soltanto i sacerdoti, mentre i laici restavano fuori seguendo da lontano con lo sguardo le cerimo­nie del sacerdote che entrava e usciva dal “santuario”. Entrato pertanto Zacharia, tutta la moltitudine del popolo stava pregando al di fuori all'ora dell'incenso; ma apparve a lui un angelo del Si­gnore, stante ritto a destra dell'altare dell'incenso. E si turbò Zacha­ria al vederlo, e timore cadde su lui.

Ma l'angelo gli disse: Non te­mere, Zacharia, perché la tua preghiera fu esaudita, e tua moglie Elisabetta ti partorirà un figlio, e tu gli metterai nome Giovanni (Luca, 1, 10-13). Per gli Ebrei più che per gli altri popoli il nomen era un omen, un presagio: nel nostro caso Giovanni, significava Jahve' (Dio d'Israele) fu misericordioso. L'angelo in­fatti prosegui assicurando lo sbigottito Zacharia che, per quella na­scita, il padre e molti altri godrebbero: il fanciullo sarebbe un gran­de al cospetto di Dio, si asterrebbe dal vino e da ogni bevanda ine­briante, sarebbe ripieno di Spirito santo ancor nel seno di sua ma­dre, richiamerebbe molti Israeliti al loro Dio, anzi sarebbe un pre­cursore che con lo spirito e la possanza di Elia incederebbe avanti a Dio stesso per preparare al Signore una degna accoglienza da parte del popolo ben disposto.

§ 227. L'annunzio dell'angelo oltrepassava tutte le previsioni uma­ne. Dal vino e dalle bevande inebrianti si astenevano coloro che fa­cevano voto di “nazireato”, ma di solito era un voto temporaneo e non perpetuo: lo Spirito santo secondo le Scritture sacre aveva riempito alcuni profeti o altri personaggi in occasioni speciali, ma del solo Geremia si leggeva ch'era stato destinato da Dio a un'alta mis­sione già nel seno di sua madre; un precursore dell'atteso Messia era stato predetto anticamente dal profeta Malachia (Mal., 3, 1; 4, 5-6) e tutti ritenevano che questo battistrada spirituale sarebbe sta­to il profeta Elia già salito al cielo su un carro di fuoco, ma il cele­stiale profeta non avrebbe potuto rinascere quale figlio di Zacharia né trasfondere in altri il suo spirito e la sua possanza. Per queste considerazioni al primo sbigottimento successe in Zacha­ria una differente sospensione d'animo. E Zacharia disse all'angelo: A che (segno) conoscerò (vero) questo? Io infatti sono anziano e mia moglie è avanzata nei suoi giorni. - E l'angelo rispondendo gli disse: lo sono Gabriele che sto alla presenza d'Iddio (§ 78), e fui inviato per parlarti e dirti questa buona novella. Ecco però che sarai muto e non potrai parlare fino al giorno che avver­ranno queste cose, perché non credesti alle mie parole che si adempiranno a tempo loro (Luca, 1, 18-20). La punizione, se pur fu tale, serviva da nuova prova della straordinaria promessa; come già negli antichi tempi Abramo, Mosè, e altri personaggi avevano chiesto e ricevuto da Dio qualche “segno” a conferma di promesse divine, così Zacharia ne aveva chiesto uno e lo riceveva di tal genere sulla propria persona che fosse anche una purificazione spirituale. I tempi nuovi, già da antico promessi ad Israele, cominciavano; e il loro annunzio era stato dato inaspettatamente, ma durante la li­turgia perenne d'Israele e in un periodo di pace per il mondo intero. Frattanto il popolo fuori del “santuario” attendeva che uscisse il sacerdote, per intonare l'inno che accompagnava il sacrificio da com­piersi sull'altare degli olocausti, e si meravigliava dello straordinario indugio. Finalmente Zacharia ricomparve sulla soglia, ma non pro­nunziò la solita benedizione sul popolo né poteva parlare a quelli, e conobbero che aveva contemplato una visione nel santuario; egli poi faceva dei gesti, e rimase muto (Luca, 1, 22). La mutolezza di Za­charia probabilmente impedì che il popolo risapesse il preciso ogget­to della visione e le promesse comunicate al veggente; si parlò gene­ricamente d'apparizione, come doveva parlarsene spesso in quel tem­po o a ragione o a torto. Terminata la settimana di servizio al Tempio, il muto Zacharia ritornò alla sua città. Poco dopo sua moglie Elisabetta divenne gra­vida, e si tenne nascosta per cinque mesi, dicendo: Cosi il Signore ha agito con me ai giorni in cui volse lo sguardo a toglier via l'ob­brobrio mio di tra gli uomini (Luca, 1, 24-25).

L'obbrobrio era la sterilità deprecatissima dagli Ebrei; e ciò è sufficiente a dimostrare che il riserbo in cui si tenne Elisabetta nei primi cinque mesi non era per nascondere la gravidanza, che l'avrebbe invece onorata pres­so la gente, bensì per ragioni più alte; al sesto mese, infatti, la sua condizione sarà rivelata a un'altra donna a cui servirà da prova di disegni divini. I quali intanto si venivano attuando senza alcuno stre­pitìo, fra il riserbo di Elisabetta e la mutolezza di Zacharia. A questo episodio l'evangelista Luca, che vuoi procedere con ordi­namento (§§ 114, 140) e predilige le narrazioni abbinate, soggiunge immediatamente un altro episodio che ha parecchi tratti somiglianti al precedente, ma nello stesso tempo segna un grande progresso nell'attuazione dei disegni divini: all'annunzio e concepimento del precursore segue l'annunzio e il concepimento dello stesso Messia Gesù.

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[SM=g27998] [SM=g27998] [SM=g27998] L'annunzio a Maria

§ 228. Per il nuovo episodio la scena è portata lontano da Gerusa­lemme e dal suo Tempio, e collocata nella Palestina settentrionale, in Galilea. Ivi, a 140 chilometri da Gerusalemme per la strada odierna, sorge Nazareth, oggi amena cittadina che conta circa 25.000 abitan­ti, ma che ai tempi di Gesù doveva essere tutt'altro che amena e niente più che trascurabile villaggio. Di Nazareth non si trova alcuna menzione né nell'Antico Testamento, né in Flavio Giuseppe, né nel Talmud; i vangeli, che soli ne parlano, riportano anche il giudizio sprezzante dato da un uomo di quei dintorni: Da Nazareth ci può esser qualcosa di buono? (Giovanni, 1, 46). Tuttavia l'insediamento umano vi doveva essere molto antico; re­centi investigazioni archeologiche, fatte attorno al santuario locale dell'Annunciazione, hanno riportato in luce numerose grotte aperte artificialmente nel pendio della collina; le quali, se più rozze e spo­glie, servivano da depositi di vettovaglie, se invece erano più comode e vi era stata aggiunta sul davanti qualche elementare costruzione servivano anche da abitazioni. La Nazareth dei tempi di Gesù do­veva restringersi alla parte orientale dell'odierna cittadina, quella che guarda dall'alto verso la vallata di Esdrelon. Siccome poi nella Pa­lestina antica un insediamento umano appare provocato sempre da una sorgente d'acqua, anche a Nazareth non mancava una fonte; è quella chiamata oggi “Fontana della Madonna” attorno a cui gli Apocrifi lavorano parecchio di fantasia, ma che ai tempi di Gesù doveva essere forse il solo richiamo verso il villaggio per le as­setate carovane che passavano lungo i dintorni.
Forse la sua posizio­ne alta rispetto alla pianura orientale aveva procurato a quell'accol­ta di stamberghe semi-trogloditiche il nome di Nasrath, Nasrah col significato originario di “guardiana”, “custodiente” (più che di “fiore” o “germoglio”). Ora, in uno degli abituri di Nazareth viveva una vergine fidanzata ad un uomo di nome Giuseppe, del casato di David, e il nome della vergine (era) Maria (Luca, 1, 27). Al casato di David apparteneva, oltre a Giuseppe, anche Maria: né deve far meraviglia di trovare di­scendenti di un casato anticamente così glorioso confinati in un vil­laggio così meschino e anche così lontano dalla culla del casato, che era Beth-lehem; già da secoli la stirpe di David viveva una vita oscu­ra ed appartata, e neppure al tempo del risorgimento nazionale sot­to i Maccabei essa si era segnalata per benemerenze speciali; questa vita da semplici privati aveva favorito anche l'allontanamento dei discendenti del casato dal centro originario, molti dei quali erano andati a stabilirsi nei vari luoghi della Palestina ove i loro interessi li chiamavano, senza però dimenticare i propri legami col luogo d'origine.

§ 229. Il nome Maria, in ebraico Mirjam, era assai frequente ai tempi di Gesù, mentre nell'antica storia ebraica appare portato sol­tanto dalla sorella di Mosè: il suo significato è del tutto incerto, no­nostante le moltissime interpretazioni (più d'una sessantina) che se ne sono proposte; del resto sembra che ai tempi di Gesù la pronun­zia ebraica originaria fosse stata mutata in quella di Marjam, con introduzione d'un nuovo significato. Della famiglia di Maria nulla dicono i vangeli canonici, mentre gli Apocrifi dicono anche troppe cose: solo incidentalmente è ricordata una sua “sorella” (Giovanni, 19, 25). D'altra parte ci vien detto che Elisabetta era parente di Maria (Luca, 1, 36); ma questa parentela, di cui non si può precisare il grado, era certamen­te il risultato di un precedente matrimonio fra estranei, perché Eli­sabetta era di stirpe sacerdotale (§ 226) e quindi apparteneva alla tribù di Levi, mentre Maria essendo del casato di David apparteneva alla tribù di Giuda: forse Elisabetta discendeva da padre Levita e da madre del casato di David.

§ 230. Ora, il sesto rrse della gravidanza di Elisabetta (Luca, 1, 26), lo stesso angelo Gabriele che aveva preannunziato quel concepi­mento, fu da Dio inviato a Nazareth da Maria, ed entrato da lei disse: Salve, piena di grazia! il Signore (e') con te! Ma ella a quel discorso si turbò, e andava ragionando seco che genere di saluto fosse questo (Luca, 1, 28~29). Come nel precedente episodio di Zacharia, abbiamo anche qui l'apparizione inaspettata e il turbamento di chi la contempla; ma questa volta il turbamento è prodotto, non dalla visione in sè, bensì dalle grandiose parole udite ch'erano stimate sproporzionate alla destinataria. Era dunque il turbamento dello spi­rito ch'è umile ed ha coscienza della propria bassezza ( Luca, 1, 48): non era il turbamento che raggiungesse lo spavento, perché anche in presenza dell'apparizione Maria andava ragionando seco. Secondo l'apocrifo Protovangelo di Giacomo (§ 97) l'apparizione sarebbe avvenuta presso la fontana di Nazareth, mentre Maria si preparava ad attinger acqua; è infatti inclinazione degli Apocrifi far accadere i fatti in palese, ma la narrazione evange­lica mostra che il nuovo episodio accadde in segreto, perché l'an­gelo parlò a Maria entrato da lei, cioè in sua casa, ch'era certamente una delle umilissime del villaggio. E l'angelo le disse: Non temere, Maria! Trovasti infatti grazia presso iddio.
Ed ecco concepirai in seno e partorirai un figlio, e lo chia­merai col nome di Gesu'. Costui sarò grande, e figlio dell'Altissimo sarà chiamato; e il Signore Iddio darò a lui il trono di David padre suo, e regnerà sul casato di Giacobbe per i secoli e il suo regno non avrò fine (Luca, 1, 30-33). Questo annunzio, sebbene solennissimo, è stato in qualche maniera preparato dal grandioso saluto dell'angelo stesso; chi è piena di grazia ed ha il Signore con sé trova la spiega­zione di queste sue prerogative nei fatti presentati dall'annunzio: il quale poi si riferisce direttamente al Messia, e usa concetti messianici dell'Antico Testamento (cfr. II Samuele, 7, 16; Salmo ebr. 89, 30.37; Isaia, 9, 6; Michea, 4, 7; Daniele, 7, 14; ecc;). Lo stesso nome da imporsi al nascituro è preannunziato, come il nome del figlio di Za­charia: infatti Gesù, in ebraico Jeshu (forma abbreviata di Jehoshu ossia “Giosuè”), significa Jahve' salvò, quindi l'ufficio del nascituro sarà quello di operare una salvezza da parte del Dio Jahvè. In con­clusione, l'angelo ha annunziato a Maria che diverrà madre del fu­turo Messia. L'annunziata non discute il messaggio, nè imita Zacharia nel chiedere una prova dimostrativa: prende benì a considerare la maniera meno onorifica per lei in cui poteva avvenire quella sua maternità, ch'era la maniera del concepimento naturale comune a tutti gli uomini, non escluso il figlio di Zacharia tuttora in gestazione. Contro questa ma­niera Maria ha una sua obiezione, ch'ella presenta come domanda di schiarimento: Disse però Maria all'angelo: Come sarò ciò, poiché non conosco uomo? E’ la frase eufemistica, usuale in ebraico, per alludere alla causa del concepimento avvenuto in una donna secondo le leggi na­turali. Per valutare il significato di questa frase in quanto pronunzia­ta da Maria bisogna aver presente ciò che Luca poco prima ha detto di lei, cioè che era una vergine fidanzata ad un uomo di nome Giuseppe (§ 228).

§ 231. Presso i Giudei il matrimonio legale si compiva, dopo alcune trattative preparatorie, con due procedimenti successivi, che erano il fidanzamento e le nozze. Il fidanzamento non era, come presso di noi oggi, la semplice promessa di futuro matrimonio, bensì era il perfetto contratto legale di matrimonio, os­sia il vero matrimonium ratum: quindi la donna fidanzata era già moglie, poteva ricevere la scritta di divorzio dal suo fidanzato-ma­rito, alla morte di costui diventava regolarmente vedova, e in caso d'infedeltà era punita come vera adultera conforme alla norma del Deuteronomio, 22, 23-24; questo stato giuridico è riassunto con esattezza da Filone quando afferma che presso i Giudei, contemporanei di lui e di Gesù, il fidanzamento vale quanto il matrimonio (De special. leg., III, 12). Compiuto questo fidanzamento-matrimonio, i due fidanzati-coniugi restavano nelle rispettive famiglie ancora per qualche tempo, che di solito si protraeva fino a un anno se la fidan­zata era una vergine e fino a un mese se era una vedova: questo tempo era impiegato nei preparativi per la nuova casa e per l'arre­do familiare. Fra i due fidanzati-coniugi non avrebbero dovuto av­venire, a rigore, relazioni matrimoniali; ma in realtà queste avveni­vano comunemente, come attesta la tradizione rabbinica (Ketuboth, 1, 5; Jebamòth, iv, 10; babri Ketubàth, 12 a; ecc.), la quale infor­ma anche che tale disordine si riscontrava nella Giudea ma non nella Galilea.

Le nozze avvenivano quand'era trascorso il tempo sud­detto, e consistevano nell'introduzione solenne della sposa in casa dello sposo: cominciava allora la coabitazione pubblica, e con ciò le formalità legali del matrimonio erano compiute. Generalmente il fidanzamento di una vergine avveniva quando essa era in età fra i 12 e i 13 anni, ma talvolta anche alquanto prima: quindi le nozze, in conseguenza di quanto si è visto sopra, cadevano di solito fra i 13 e i 14 anni. Tale era probabilmente l'età di Maria all'apparizione dell'angelo. L'uomo si fidanzava fra i 18 e i 24, e perciò questa doveva essere l'età di Giuseppe. Concludendo, sappiamo da Luca che Maria era una vergine in que­sta condizione di fidanzata; inoltre, da Matteo, 1, 18, apprendiamo che ella divenne gravida prima che andasse a coabitare con Giuseppe, cioè prima delle nozze giudaiche. Alla luce di queste notizie, quale significato hanno le sue parole rivolte all'an­gelo: Come sarò ciò, poiché non conosco uomo.

§ 232. Prese isolatamente in se stesse, non possono avere che uno di questi due sensi: o richiamare alta memoria la nota legge di natura per cui ogni figlio presuppone un padre; oppure esprimere per il futuro il proposito di non sottoporsi a questa legge e quindi di rinun­ziare alla figliolanza. Un terzo senso, per quanto ci si pensi, non è dato scoprirlo. Ora, in bocca a Maria, fidanzata giudea, le parole in questione non possono avere il primo di questi due sensi, perché sarebbero state di una puerilità sconcertante, tale da costituire un vero non-senso; a chi avesse espresso un pensiero di tal genere, se era una fidanzata giudea, era facile replicare: “Ciò che non è avvenuto fino ad oggi, può avvenire regolarmente domani”. E’ quindi inevitabile il secon­do senso, nel quale il verbo non conosco non si riferisce soltanto alle condizioni presenti ma si estende anche alle future, esprimendo cioè un proposito per l'avvenire: tutte le lingue, infatti, conoscono questo impiego del presente esteso al futuro, tanto più se tra presente e fu­turo non cade interruzione e se si tratta di uno stato sociale (non mi sposo; non mi fo prete, avvocato, ecc.). Se Maria non fosse stata una fidanzata-coniuge le sue parole, un po' forzatamente, avrebbero po­tuto interpretarsi come un implicito desiderio di avere un compagno nella propria vita: ma nel caso effettivo di Maria il compagno già c'era, legittimo e regolare; quindi, se l'annunzio dell'angelo avesse dovuto avverarsi in maniera naturale, non esisteva alcun ostacolo. E invece l'ostacolo esisteva: era rappresentato da quel non conosco, che valeva come un proposito per il futuro, e che giustificava pienamente la domanda come sarò ciò?
L'unanime tradizione cristiana, che ha interpretato in tal senso il non conosco, ha battuto una stra­da che è certamente la più agevole e facile ma anche l'unica ragio­nevole e logica. Se però Maria aveva fatto il proposito di rimaner vergine, perché aveva in precedenza acconsentito a contrarre il giudaico fidanza­mento-matrimonio? Su questo punto i vangeli non offrono spiegazioni, ma se ne possono trovare riportandosi alle usanze giudaiche contemporanee. Certamen­te nell'antico ebraismo lo stato celibe o nubile non era affatto apprez­zato, e la principale preoccupazione familiare era la figliolanza e più numerosa possibile: la mancanza di figli era reputata una ma­ledizione di Dio (Deuteronomio, 7, 14). Si conoscono soltanto, fra gli uomini, l'antico caso del profeta Geremia rimasto celibe per de­dicarsi totalmente alla sua missione di profeta (Geremia, 16, 2 segg.), e ai tempi di Gesù il caso degli Esseni che contraevano matrimonio o eccezionalmente o forse mai (§ 44). Quanto alle donne, non si sa­prebbe che caso citare; la donna senza marito e senza figli era per gli Ebrei un essere lugubre.
Allorché S. Paolo incidentalmente ci fa sapere che c'erano padri i quali reputavano indecoroso d'avere in casa figlie da marito tuttora nubili (I Corinti, 7, 36) non fa che con­fermare quanto già aveva detto il Siracida, secondo cui un padre non riesce a prender sonno la notte perché ripensa a sua figlia che si fa anziana senza trovar marito (Ecclesiastico, 42, 9), e quanto più tardi diranno le fonti rabbiniche, secondo cui bisogna sposare la propria figlia appena in età da marito. La donna senza marito era per gli Ebrei come una persona umana senza testa, perché l'uomo e la testa della donna (Efesi, 5, 23): e come pensavano in questa ma­niera gli Ebrei e in genere gli altri Semiti antichi, così pensano an­cora oggi gli Arabi, fra cui vige il proverbio che per una ragazza non c’è che un solo corteo, o quello nuziale o quello funebre.

§ 233. Cedendo dunque a questa tirannica usanza comune, Maria si era fidanzata; ma il suo stesso proposito, così fiduciosamentte obiet­tato all'angelo, illumina di riflesso anche la disposizione del suo fi­danzato Giuseppe, il quale non sarebbe mai stato accettato come fidanzato se non avesse deciso di rispettare il proposito di Maria: la disposizione di Giuseppe, poi, trova un bel parallelo storico nel ce­libato degli Esseni testé ricordato. Più in là di questo i vangeli non dicono; ma come il proposito di Maria risulta nitidamente dalle sue parole, cosi le altre conseguenze risultano da una conoscenza anche superficiale delle usanze contem­poranee. E’ quanto già aveva scorto S. Agostino, con la sua abituale perspicacia, quando scriveva: Ciò indicano le parole con cui Maria rispose all'angelo che le annunziava un figlio: “Come” disse “sarà ciò, poiché non conosco uomo?”. Il che certamente non avrebbe detto, se già dapprima non avesse fatto voto di sé come vergine a Dio. Ma poiché le costumanze degli Israeliti ancora non ammette­vano ciò, ella si sposò con un uomo giusto, il quale avrebbe, non già tolto via con violenza, bensì custodito contro i violenti, ciò di cui el­la già aveva fatto voto (De sancta virginitate, 4). Alla segreta intenzione delle parole di Maria si riferisce l'angelo nella sua replica. E rispondendo l'angelo le disse: Spirito santo sopravverrà su te, e potenza d'Altissimo adombrerà su te; perciò anche il nato (sarà) santo, sarà chiamato figlio di Dio (Luca, 1, 35).

La questio­ne proposta da Maria Come sarà ciò...? è risolta, e insieme il suo proposito è salvadaguardato: la potenza di Dio scenderà diretta­mente su Maria, e come anticamente nel deserto la gloria di Jahvè si posava a guisa di nuvola sul tabernacolo ebraico adombrandolo (Esodo, 40, 34-35), cosi adombrerà questo tabernacolo vivente di ver­gine, e il figlio che da lei nascerà non avrà altro padre che Dio. Que­sto figlio avvererà in sé l'appellativo di figlio di Dio in maniera per­fetta, mentre ad altri personaggi dell'Antico Testamento lo stesso appellativo era stato applicato in maniera incompiuta. Il Messia non avrebbe potuto esser chiamato “figlio” se non da Dio che gli dava dall'eternità la natura divina, e dalla vergine sua madre che gli dava natura umana: nessun'altra creatura umana l'avrebbe chia­mato, a rigore di termine, con quel nome. Oramai la proposta dell'angelo è pienamente presentata; Maria che, pur non dubitando, ha chiesto uno schiarimento, lo ha ottenuto. Non manca che l'assenso di lei, perché tutto si compia. Ma il paral­lelismo, e anche l'intreccio, di questo episodio con quello precedente di Zacharia continua ancora: come l'annunzio, così una prova del nuovo annunzio è data egualmente a Maria che non l'aveva richie­sta. Perciò l'angelo continuò: Ed ecco Elisabetta, la parente tua, anch'essa ha concepito un figlio nella sua vecchiaia, e questo e' il sesto mese (di gravidanza) per lei ch'e' chiamata sterile; poiché non é impossibile presso Iddio qualunque cosa (Luca, 1, 36-37).

§ 234. Alla non richiesta prova Maria non replica, ma risponde sol­tanto: Ecco la schiava del Signore: avvenga a me secondo la tua parola! (Luca, 1, 38). L'abitatrice del tugurio di Nazareth, benché eletta ad esser madre del Messia, ha tuttora perfetta coscienza della sua bassezza (§ 230) e perciò si chiama, non già ministra o coopera­trice di Dio, bensì una schiava, cioè una di quelle miserabili creature ch'erano al livello più basso della società umana; solo dopo ciò ella dà il suo assenso alla proposta dell'angelo. E allora il Verbo diventò carne (Giovanni, 1, 14), ossia l'umanità numerò tra i suoi figli il Messia. Già sette secoli prima, il profeta Isaia aveva preannunziato uno stra­ordinario segno divino con queste parole: Ecco, la vergine e' gravida e partoriente un figlio, ed ella lo chiamerà col nome di “Immanu 'EI” (“Con-noi-Dio”) (Isaia, 7, I 4) Matteo, premuroso di far ri­levare l'avveramento delle antiche profezie messianiche (§ 125), cita questa profezia di Isaia come adempiutasi in Gesù e nella sua madre (Matteo, I, 22-23). Al contrario per la tradizione giudaica la profezia di Isaia rimase un libro chiuso con sette sigilli, e negli scritti rabbinici non esiste il più lontano accenno alla partenogenesi del Messia.

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Nascita di Giovanni il Battista

§ 235. Narrati i due episodi paralleli, Luca subito appresso mette in contatto fra loro le due protagoniste. Maria, a cui era stato addotto come prova ciò ch'era avvenuto ad Elisabetta, andò a visitare la sua parente, sia per felicitarsi con lei, sia perché le parole dell'an­gelo avevano lasciato chiaramente intravedere che particolari legami avrebbero congiunto i due nascituri come già avevano congiunto le due madri. Per recarsi da Nazareth alla « regione montagnosa » della Giudea (§ 226) il viaggio non era breve: supponendo che la città di Zacharia fosse realmente Ain-Karim, vi s'impiegavano circa tre giorni di carovana. Forse Maria già aveva fatto quel viaggio re­candosi a Gerusalemme per le « feste di pellegrinaggio » (§ 74), e in qualche occasione aveva anche visitato la sua parente soggiornando alquanto presso di lei. Ma subito dopo l'annunciazione vi si recò con sollecitudine, entrò inaspettata in casa di Zacharia e salutò Eli­sabetta. A quell'incontro le due madri furono oggetto di particolari illumina­zioni divine. A Zacharia l'angelo aveva preannunziato che il suo figlio nascituro sarebbe stato ripieno di Spirito santo ancor nel seno di sua madre; costei a sua volta, racchiusasi nel suo riserbo equi­valente alla mutolezza di Zacharia, credeva forse che il suo stato di gestante non fosse noto ad alcuno, come a lei non era certamente noto lo stato di gestante di Maria. Ma l'arrivo di Maria fece im­provvisa luce su tutto.
E avvenne che, appena Elisabetta udì il saluto di Maria, sobbalzò l'infante nel seno di lei: ed Elisabetta fu ripiena di Spirito santo, e gridando ad alta voce disse: Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del seno tuo! E donde a me questo, che venisse la madre del mio Signore a me? Ecco infatti, appena la voce del tuo saluto fu nelle mie orecchie, sobbalzò in esultanza l'infante nel seno mio! E beata colei la quale credette che vi sarà adempimen­to alle cose dette a lei da parte del Signore! (Luca, 1, 41-45). Prima di quell'incontro molte delle cose avvenute erano chiare alle due donne in misura diversa fra loro, ma non poche altre cose rimane­vano ancora velate in una misteriosa penombra: quell'incontro fu come una subitanea aurora che getti la sua vivida luce tutt'intorno e faccia riconoscere nitidamente il paesaggio. Era il paesaggio dei disegni di Dio. Elisabetta si trovava conosciuta dentro al suo riserho, conosceva a sua volta il segreto di Maria, e riconosceva in lei la madre del suo Signore.

§ 236. In Oriente la gioia porta facilmente al canto e all'improvvisazione poetica. Avevano improvvisato anticamente, in occasioni so­lenni, Maria sorella di Mosè, Debora la profetessa, Anna madre di Samuele, i cui carmi erano conservati nelle Scritture sacre e noti certamente a Maria; e anche fra i Semiti odierni non di rado la donna diventa declamatrice davanti a gioie o a dolori grandi, ed esprime i propri sentimenti in accenni brevi ma incisivi, retti da un vago ritmo più che da rigoroso metro, ispirantisi ordinariamente a temi tradizionali con un'impronta più o meno personale. E in quell'ora di giubilo pure Maria si mostrò poetessa; ispirandosi frà altre Scritture soprattutto al carme di Anna (ti Samuele, 2, i segg.), ella declamò il suo Magnificat (Luca3 1, 46-55): Magnifica l'anima mia il Signore, ed esulta lo spirito mio sul Dio salvatore mio, poiché rimirò sulla bassezza della schiava sua. Ecco, invero, da ora mi chiameranno beata tutte le generazioni, poiché fece a me cose grandi il Possente, e santo (e') il nome suo. E la misericordia di lui di età in età per quei che lo temono. Operò potenza col braccio suo, disperse orgogliosi nel pensamento del cuor loro. Tirò giu' potenti dai troni, e in alto mise bassi; affamati riempì di beni, e ricchi rimandò vuoti. Soccorse Israele servo suo, rammentandosi di misericordia: conforme parlò ai padri nostri, ad Abramo ed alla sua stirpe in eterno. L'originale di questo carme fu certamente in semitico, e in realtà sono state proposte varie ritraduzioni (molto facili del resto) dall'odierno testo greco in ebraico.
Le reminiscenze letterarie bibliche vi sono insistenti.
Ma più insistente ancora è, nel campo psicologico, il contrasto tra bassezza e grandezza, tra tapinità esaltata e orgoglio depresso, tra fame saziata e sazietà affamata: Maria scorge in sè stessa soltanto bassezza da schiava, ma trova anche che il braccio potente di Dio ha sollevato la piccolezza di lei collocandola sul tro­no, compiendo in lei cose grandi, tanto ch'ella prevede che la chia­meranno beata in tutte le generazioni. Si poteva immaginare una predizione più « inverosimile » di questa? Era circa l'anno 6 av. Cr., e una fanciulla di neppur 15 anni, sprovvista di beni di fortuna e d'ogni altro titolo sociale, sconosciuta ai suoi connazionali e dimorante in un villaggio egualmente ad essi sconosciuto, proclamava fiduciosamente che la chiameranno beata tutt' le generazioni. C'era da prenderla in parola quella fanciulla vatici­nante, con la sicurezza assoluta di vederla smentita fin dalla prima generazione! Oggi sono passati venti secoli, e il confronto fra la predizione e la realtà si può fare. Ormai la storia ha tutto l'agio di riscontrare se Maria ha previsto giusto, e se realmente l'umanità oggi esalti lei più che Erode il Grande allora arbitro della Palestina, e più che Caio Giulio Cesare Ottaviano Augusto allora arbitro del mondo.

§ 237. Presso Elisabetta Maria rimase tre mesi, cioè fino al tempo del parto della ospitante, e poi tornò a Nazareth: non risulta con cer­tezza se era ancora in casa di Zacharia al tempo del parto, essendo­vi ragioni pro e contro. A suo tempo Elisabetta partorì un figlio, e sparsasi la notizia del caso straordinario parenti e vicini vennero a congratularsi con lei. L'ottavo giorno dalla nascita, come era prescrizione (§ 69), si doveva circoncidere il neonato e imporgli il nome; ma, su quest'ultimo pun­to, sorse dissenso. Di solito s'imponeva il nome del nonno, per con­tinuare l'onomastica di famiglia e nello stesso tempo evitare confu­sioni col padre; ma in quel caso straordinario, con un padre muto e vecchio quanto un nonno, si poteva ben fare un'eccezione all'usan­za e continuare l'onomastica di famiglia imponendo al figlio il no­me del padre. Tutti infatti sostenevano che il bambino doveva chia­marsi Zacharia; la madre, invece, sosteneva che doveva chiamarsi Giovanni, ed ella ne sapeva ben la ragione (§ 226).
Ma gli zelanti amici non si spiegavano quella stranezza, tanto più che nessuno nel casato di Zacharia si chiamava Giovanni. Sulla decisione della madre poteva prevalere solo quella del padre: quindi gli zelanti si rivolsero al padre. Ma egli era muto, e forse anche sordo, e perciò solo a mezzo di gesti gli fecero comprendere la loro domanda. Il muto allora chiese una tavoletta cerata, di quelle usate per brevi scritture, e vi scrisse sopra: Giovanni è il suo nome. Il nome era fissato, e tutti rimasero meravigliati. Ma, ormai, anche il seguo di prova e di purificazione dato dall'an­gelo a Zacharia, cioè la sua mutolezza, non aveva più ragione di essere, perché tutto si era adempiuto, e la futura sorte del neonato era stata delineata bastevolmente dalle varie circostanze della sua nascita. Quindi, subito dopo fissato il nome del figlio (Luca, I, 64), Zacharia riacquistò la favella e parlò benedicendo Dio. Tutti gli astanti, stupiti, previdero grandi cose riguardo al bambino, e Zacha­ria fu riempito di Spirito santo e profetò dicendo: Benedetto il Si­gnore, Iddio d'israele, ecc. E’ il cantico Benedictus (Luca, 1, 68-79), usitatissimo nella liturgia cristiana, che esalta l'adempimento delle promesse di salvezza fatte da Dio ad Israele, e vede nel neonato il precursore di questo adempimento, essendo egli colui che andrà innanzi al Signore a preparare le vie di lui.
Il salvatore dunque era imminente, essendo già comparso il suo bat­tistrada. Se il mondo potente d'allora, in Israele e fuori d'israele, non sapeva ancora nulla né dell'uno né dell'altro, ciò non aveva im­portanza, perché le vie del salvatore e del suo battistrada non erano le vie del mondo, e non già i potenti andava Dio scegliendo per attuare il suo piano dì salvezza, bensì gli ignoti, gli appartati, gli umili, quali erano Zacharia, Elisabetta, Maria. Una sola cosa aveva accettato Dio dal mondo dei potenti d'allora, quasi condizione indispensabile al piano di salvezza, cioè la pace: e allora nel mondo regnava la pace, sotto l'autorità di Roma. Prima di lasciare la narrazione del neonato Giovanni per riprendere quella di Maria, Luca fa un anticipo cronologico comunicando som­mariamente che il bambino cresceva e s'afforzava di spirito e stava nei deserti fino al giorno della sua manifestazione ad Israele (Luca, 1, 80).
I deserti a cui qui si allude, e in cui Giovanni si sarà trasferito quand'era giovanetto già maturo, erano probabilmente le regioni a sud-est di Gerusalemme note come il deserto della Giudea (cfr. Matteo, 3, 1).


[SM=g27998] Giuseppe sposo di Maria

§ 238. Finora il nostro informatore è stato Luca, ma a questo punto è necessario anche ascoltare Matteo, che narra lo stesso fatto del concepimento di Gesù molto più stringatamente, non senza però aggiungervi qualche elemento nuovo. Nella narrazione di Matteo figura in primo piano Giuseppe, che invece nella narrazione di Luca era stato appena nominato: ora, come riguardo a Luca argomen­tiamo a buon diritto che la principale informatrice sia stata Maria stessa o immediatamente o per il tramite di Giovanni (§ 142), così riguardo a Matteo possiamo ragionevolmente supporre che per questo argomento egli sia ricorso a informatori della Galilea, già in relazioni particolari con Giuseppe, quale poteva essere ad esempio Giacomo il “fratello” di Gesù. Per Matteo, Maria è fidanzata di Giuseppe e prima che coabitino (§ 231) diviene gravida; circa la soprannatura­lità del concepimento Giuseppe non è preavvisato, ma solo s'avvede del fatto già compiuto (Matteo, 1, 18).
Questa scoperta non poté avvenire se non dopo il ritorno di Maria dalla visita a Elisabetta, cioè fra il quarto e il quinto mese di gravidanza; tornata ella a Na­zareth, da cui era partita subito dopo l'annunciazione, le sue condi­zioni fisiche furono ben presto rilevate da Giuseppe che ne ignorava i precedenti. Ora Giuseppe, suo marito, essendo giusto e non volendo esporla, deliberò di dimetterla segretamente (Matteo, 1,19). Dopo ciò che già sappiamo circa le condizioni giu­ridiche dei fidanzati-coniugi presso i Giudei (§ 231), i termini sono chiari: Giuseppe, come legittimo marito, avrebbe potuto dimettere Maria consegnandole la scritta di divorzio, il quale provvedimento avrebbe avuto per conseguenza di esporre la ripudiata alla pubblica disistima; ma, per evitare ciò, Giuseppe pensa di dimetterla segreta­mente, e prende questa deliberazione essendo (egli) giusto. Di tutto il periodo, quest'ultima frase è la più importante e la vera chiave di spiegazione.
In un caso di quel genere un Giudeo retto e onesto, che fosse stato convinto della colpevolezza della donna, le avrebbe consegnato senz'altro la scritta di divorzio, stimandosi non solo in diritto, ma forse anche in dovere, di agire così, poiché una silenziosa e inerte tolle­ranza poteva sembrare approvazione e complicità. Giuseppe invece, appunto essendo giusto, non agisce così; dunque, egli era convinto dell'innocenza di Maria, e per conseguenza giudicò procedimento iniquo sottoporla al disonore di un divorzio pubblico. D'altra parte come poteva Giuseppe spiegare lo stato attuale di Maria? Avrà egli pensato ad una violenza patita da lei incolpevol­mente durante i tre mesi d'assenza? Il silenzio programmatico di Maria su quel punto - silenzio spontaneo presso una riservata fan­ciulla in quelle condizioni - poteva ben suscitare un sospetto di que­sto genere. Oppure, avvicinandosi anche più alla realtà, Giuseppe intravide nell'accaduto alcunché di soprannaturale, di divino? Noi non sappiamo, perché Matteo non dice nulla al riguardo: solo che dalla deliberazione di Giuseppe, di rompere il suo legame con Ma­ria segretamente cioè senza danneggiare la fama di lei, concludiamo che agì sia da persona convinta dell'innocenza di Maria, sia da giusto.

§ 239. La perplessità di Giuseppe non fu lunga. Quando però egli ebbe preso questa deliberazione, ecco che un angelo del Signore gli comparve in sogno, dicendo: Giuseppe figlio di David, non temere di prendere con te Maria, tua moglie, poiché il generato in lei e' da Spirito santo; partorirà poi un figlio, e lo chiamerai col nome di Gesu', egli infatti salverà il suo popolo dai loro peccati (Matteo, 1, 20-21). Il sogno era stato un mezzo non infrequente nell'Antico Te­stamento con cui Dio aveva comunicato i suoi voleri agli uomini; Matteo, l'evangelista più interessato per l'Antico Testamento (§§ 125, 234), ricorda varie comunicazioni divine per mezzo di sogni (oltre questa, cfr. Matteo, 2, 12. 13. 19.22; 27, 19) che non sono ricordate dagli altri evangelisti. Il nome di Gesù da imporsi al na­scituro era già stato comunicato alla madre (§ 230): qui si aggiun­ge il motivo di questa imposizione, salverà, ecc., fondata sul significato etimologico del nome stesso. Dopo questa dichiarazione imperativa dell'angelo, Giuseppe prese in casa sua Maria. Si saranno celebrate le cerimonie solite in simili nozze; parenti ed amici saranno accorsi per la meschina festicciuola esteriore, ma rimasero certamente ignari dell'arcano segreto che si celava in seno a quella nuova famiglia. E Giuseppe, l'uomo della tribù di Giuda e del casato di David, il carpentiere di mestiere, fu capo legale di quella famiglia.

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06/08/2012 17:17


[SM=g27998] [SM=g27998] [SM=g27998] Nascita di Gesù

§ 240. L'appartenenza di Giuseppe e della sua famiglia al casato di David, che era originario di Beth-lehem, ebbe ben presto una con­seguenza nel campo civile in occasione del censimento ordinato da Roma ed eseguito sotto Quirinio. Di questo famoso censimento ab­biamo trattato a parte (§ 183 segg.), e perciò qui supponiamo già note le osservazioni fatte. In Oriente l'attaccamento al proprio luogo d'origine era, ed è tutt’ora, tenace. Presso gli Ebrei una tribù si divideva in grandi “famiglie”, le famiglie si suddividevano in casati “pater­ni” e i casati paterni si frazionavano man mano in nuovi casati che potevano sciamare dall'alveare umano di loro ongine e trasferirsi altrove; ma, ovunque andassero, i nuovi raggruppamenti familiari conservavano tenacemente il ricordo dell'alveare originario, sia demograficamente sia geograficamente. Si sapeva, cioè, che il decimo o il ventesimo antenato della propria famiglia era il Tale figlio del Tale, il quale aveva dimorato nella tale borgata, ivi aveva impiantato il suo casato e di là altre discendenze avevano sciamato.

La storia degli Arabi è intessuta di nomi quali Banu X, Banu Y, cioè figli di X, figli di Y, come i Banu Quraish a cui appartenne Maometto; e anche oggi non è affatto difficile trovare un arabo, musulmano o cristiano, emigrato in Europa od America che sappia dire appuntino a quale grande casato egli appartenga e quale regione o borgata sia il centro geografico originario del suo casato. Questo attaccamento al proprio luogo d'origine formava presso i Giudei la base di un censimento, e i Romani nel primo censimento di Quirinio seguirono questa norma locale, sia per le ragioni poli­tiche che già sappiamo (§ 188), sia per frenare in qualche maniera lo spopolamento delle campagne causato dall'inurbanesimo. Per­ciò, bandito che fu il censimento, su Giuseppe incombé l'obbligo di presentarsi agli ufficiali dell'anagrafe in Beth-lehem, giacché egli era del “casato” e della “famiglia” di David (Luca, 2, 4) la quale era originaria di Beth-lehem.

§ 241. Beth-lehem è oggi una cittadina di circa 20.000 abitanti, si­tuata 9 chilometri a sud di Gerusalemme all'altezza di 770 metri sul mare. Il suo nome era originariamente Beth-Lahamu “casa del (dio) Lahamu”, divinità dei Babilonesi venerata anche dai Cananei del posto; sottentrati poi gli Ebrei ai Cananei, il nome finì per es­sere interpretato nel senso dell'ebraico beth-lehem, ”casa del pane”. Con l'avvento degli Ebrei in Palestina, s'insediò ivi il casato di Efra­ta (I Cronache, 2, 50-54; 4, 4), quindi il luogo fu chiamato sia Efrata sia Beth-lehem (Genesi, 35, 19; Ruth, 1, 2; 4, 11). Ivi, discendendo dal ramo di Isai (Jesse), era nato David (Ruth, 4, 22; I Cron., 2, 13-15). Se Nazareth era d'importanza così scarsa da non essere menzionata da nessun documento antico (§ 228), Beth-Iehem a sua volta era un villaggio assai meschino ai tempi di Gesù. Già nel secolo VIII av. Cr. il profeta Michea (5, I ebr.) aveva chiamato Beth-lehem piccola fra le ripartizioni della tribù di Giuda; il villaggio col territorio circo­stante doveva albergare poco più di 1000 abitanti, in massima parte pastori o poveri contadini. Era però un luogo di passaggio per le carovane che da Gerusalemme scendevano in Egitto: difatti una so­sta per carovane, ossia un caravanserraglio vi fu costruita da Chamaam, ch'era forse figlio d'un amico di David (II Samuele, 19, 37 segg.), e perciò fu chiamata “foreste­ria di Chamaam” (Geremia, 41, 17).
Da Nazareth a Beth-lehem sono per la strada odierna 150 chilome­tri, e ai tempi di Gesù poteva esservi una piccola differenza in meno: era dunque un viaggio di tre o quattro giorni per le carovane d'al­lora. Non consta con certezza se a presentarsi personalmente in Beth-lehem fosse obbligato soltanto Giuseppe, ovvero pure Maria; ma anche se Maria non era inclusa nella legge, sta di fatto che Giuseppe vi si recò insieme con Maria, la fidanzata di lui, ch'era gravida (Luca, 2, 5). Queste parole possono benissimo valere come delicato accenno ad una almeno delle ragioni per cui venne anche Maria, cioè la vicinanza del parto in cui essa non doveva essere lasciata sola. Ma un'altra ragione - oltre al possibile obbligo di legge - poté essere che i due coniugi pensassero di trasferirsi stabilmente nel luogo originario del casato di David: poiché l'angelo aveva an­nunziato che Dio avrebbe dato al nascituro il trono di David padre suo (§ 230), quale pensiero più naturale che far ritorno alla patria di David per aspettare ivi l'attuazione dei misteriosi disegni divini? Già da vari secoli il profeta Michea aveva additato appunto la piccola Beth-lehem come luogo di provenienza di colui che avrebbe dominato su Israele (§ 254).

§ 242. Il viaggio dovette essere spossante per Maria, ch'era al nono mese di gravidanza. Le strade della regione, non ancora tracciate e mantenute dai Romani maestri in materia, erano cattive e appena adatte per carovane di cammelli e asini; in quei giorni poi, col sub­buglio del censimento, saranno state più frequentate del solito e quindi anche più scomode. I due coniugi, nella migliore delle ipo­tesi, avranno avuto a loro disposizione un asino, che sarà stato ca­ricato anche delle cibarie e degli oggetti più necessari, uno di quegli asini che ancora oggi in Palestina si vedono precedere una fila di cammelli o seguire un gruppetto di pedoni i tre o quattro pernotta­menti del viaggio saranno stati fatti o in qualche casa amica, o più probabilmente nei luoghi pubblici di sosta sdraiandosi a terra fra gli altri viandanti in mezzo a un cammello ed un asino. Giunti a Bethlehem, le condizioni furono peggiori. Il piccolo villaggio rigurgitava di gente, che si era allogata un po' dappertutto a cominciare dal caravanserraglio. Questo era forse la vecchia costruzione di Cha­maam (§ 241) riattata lungo i secoli; Luca la chiama l'albergo, ma la parola italiana non deve trarre in errore facendo pensare a un'azienda che rassomigli anche lon­tanamente a una modestissima locanda dei nostri villaggi. Il caravanserraglio d'allora era in sostanza l'odierno khan palestinese (§ 439), cioè un mediocre spazio a cielo scoperto recinto da un muro piuttosto alto e fornito di un'unica porta; internamente, lungo uno o più lati del muro, correva un portico di riparo che per un certo tratto poteva esser chiuso da muretti, e così formava uno stanzone con a fianco qualche altra cameretta più piccola. L'”albergo” era tutto qui; le bestie erano radunate in mezzo, nel cortile a cielo sco­perto, e i viandanti si ricoveravano sotto il portico o dentro lo stan­zone finché c'era posto, altrimenti s'accampavano fra le bestie: le camerette più piccole, se esistevano, erano riservate a chi poteva permettersi quella comodità pagando. E là, fra quell'ammasso di uomini e di bestie, tutto alla rinfusa si questionava d'affari e si pre­gava Dio, si cantava e si dormiva, si mangiava e si defecava, si po­teva nascere e si poteva morire, tutto fra quel sudiciume e quel lezzo che appestano ancora oggi gli accampamenti di beduini palestinesi in viaggio.

§ 243. Luca ci fa sapere che, quando Giuseppe e Maria giunsero a Bethlehem, non c'era posto per essi nell'albergo (2,7). Questa frase è più studiata di quanto sembri all'apparenza. Se Luca avesse voluto dire soltanto che il caravanserraglio non poteva contenere più al­cuno, gli sarebbe bastato dire che ivi non c'era posto; egli invece aggiunge per essi, non senza riferirsi implicitamente alle loro par­ticolari condizioni, cioè a quelle di Maria nell'imminenza del parto. Potrà sembrare una sottigliezza, ma non è. In Bethlehem Giuseppe avrà avuto senza dubbio conoscenti o anche parenti a cui doman­dare ospitalità; sia pure che il villaggio era gremito, ma un angoletto per due persone cosi semplici e dimesse si poteva sempre tro­vare in Oriente: quando a Gerusalemme affluivano centinaia di mi­gliaia di pellegrini in occasione della Pasqua (§ 74), la capitale ri­gurgitava non meno che la Bethlehem del censimento, eppure tutti trovavano posto adattandosi. Ma naturalmente, in circostanze di quel genere, diventavano simili a caravanserragli anche le squallide case private, che consistevano di solito in un unico stanzone a pian­terreno: tutto vi era in comune, tutto si faceva in pubblico, non c'era riserbo o segretezza di sorta. Perciò si comprende perché Luca specifichi che “non c'era posto per essi”: nell'imminenza del parto, ciò che Maria ricercava era soltanto riserbo e segretezza. E avvenne che, mentre essi erano colà, si compirono i giorni per il parto di lei, e partorì il suo figlio primogenito, e lo infasciò e lo pose a giacere in una mangiatoia (Luca, 2, 6-7). Qui si parla solo di mangiatoia, ma questo è un indizio ben sicuro alla luce delle co­stumanze contemporanee. La mangiatoia svela una stalla, e la stalla esige secondo le costumanze d'allora una grotta, una piccola ca­verna, scavata sul fianco di qualche collinetta nei pressi del villaggio: grotte di questo genere e destinate a questo uso si trovano tuttora in Palestina nei dintorni di gruppi di case.
Quella stalla su cui misero gli occhi i due coniugi sarà stata forse occupata parzialmente da bestie, sarà stata tetra e sudicia di letame, ma era alquanto disco­sta dal villaggio e quindi solitaria e tranquilla; ciò bastava alla fu­tura madre. Perciò, giunti i due a Beth-lehem e vista quell'affluenza di gente, si alloggiarono alla meglio in quella grotta solitaria, in attesa sia di com­piere le formalità del censimento, sia del parto che la gestante sen­tiva imminente. Giuseppe avrà predisposto alla meglio un angolo meno disadatto e meno sudicio, vi avrà preparato un giaciglio di pa­glia pulita, avrà estratto dalla bisaccia di viaggio le provviste e qualche altra cosa più necessaria disponendole sulla mangiatoia fissa­ta al muro, e tutto fu lì: altre comodità non potevano esigere allora in Palestina quei due viandanti di quel grado sociale, i quali per di più si erano segregati spontaneamente in una grotta da bestie. In conclusione, povertà e purità furono le cause storiche per cui Gesù nacque in una grotta da bestie: la povertà del suo padre legale, che non aveva denaro per affittarsi fra tanti concorrenti una stanza appartata; la purità della sua madre naturale, che volle circondare il suo parto di riverente riserbo.

§ 244. La grotta, fra i luoghi archeologici della vita di Gesù, è quel­lo che ha in suo favore testimonianze più antiche e autorevoli, fuor dei vangeli. Anche astraendo da vari Apocrifi che ci ricamano attor­no molto, nel secolo II Giustino martire ch'era palestinese di nascita offre questa preziosa testimonianza: Essendo nato allora il bambino in Bethlehem, poiché Giuseppe non aveva in quel villaggio dove albergare, albergò in una certa grotta dappresso al villaggio e allora, essendo essi colà, Maria partorì il Cristo e lo pose in una mangiatoia, ecc. Nei primi decenni del secolo III Origene attesta egualmente la grotta e la mangiatoia, e si appella alla tradizione notissima in quei posti e anche presso gli alieni dalla fede (Contra Celsum, 1, 51). Sulla base di questa tradizione Costantino nel 325 ordina che si costruisca sulla grotta la grandiosa basilica (cfr. Eusebio, Vita Constantini, m, 41-43), che nel 333 è ammirata dal pellegrino di Ilordeaux e che rispettata nel 614 dai Persiani invasori è tuttora su­perstite.

§ 245. Venuto alla luce Gesù in questa grotta, Maria l'infasciò e lo pose a giacere in una mangiatoia. Queste parole del delicato evan­gelista medico fanno intendere abbastanza chiaramente che il par­to avvenne senza l'usuale assistenza d'altre persone: la madre da se stessa accudisce al neonato, l'infascia e lo ripone sulla mangiatoia. Neppure Giuseppe è nominato. Soltanto le successive narrazioni apo­crife s'affanneranno a far venire la levatrice, inviando in giro Giu­seppe a cercarla (Protovangelo di Giacomo, 19-20); ma nel raccon­to di Luca non c'è posto per essa. Non per nulla la futura madre aveva cercato con cura si premurosa un luogo solitario e tranquillo. Così dunque Maria partorì il suo figlio primogenito, che l'angelo le aveva preannunziato come erede del trono di David padre suo 230). Senonché il futuro regno del neonato - stando almeno a quelle prime manifestazioni - si prevedeva ben diverso dai regni d'allora, giacché questo erede dinastico aveva per aula regia una stalla, per trono una mangiatoia, per baldacchino le ragnatele pendenti dal soffitto, per nubi d'incenso le esalazioni del letame, per cortigiani due creature umane senza casa. Tuttavia il regno di quell'erede dinastico si annunziava fin d'allora con talune note caratteristiche davvero nuove e del tutto ignote ai regni contemporanei: delle tre persone componenti quella corte stalliera, una rappresentava la verginità, una l'indigenza, tutte e tre l'u­miltà e l'innocenza. Esattamente 9 chilometri più a settentrione sfolgoreggiava la corte indorata di Erode il Grande, in cui la verginità era parola affatto sconosciuta, l'indigenza era aborrita, l'umiltà e l'innocenza si manifestavano nell'attentare alla vita del proprio pa­dre, nel mettere a morte i propri figli, nell'adulterio, nell'incesto e nella sodomia. Il vero contrasto storico fra le due corti non era tanto fra il letame dell'una e gli ori dell'altra, quanto fra le loro caratteristiche morali.

§ 246. Ad ogni modo al neonato discendente di David spettava be­ne un omaggio di cortigiani, i quali fossero in condizione sociale non troppo differente da quella di David, già pastore di pecore, e da quella dei due cortigiani fissi che stavano presso al suo trono-mangiatoia; inoltre, poiché l'angelo aveva detto che il neonato sa­rebbe stato chiamato figlio dell'Altissimo, gli spettava anche più un omaggio di cortigiani dell'Altissimo che si accomunassero in quell'ossequio con i cortigiani bassissimi della terra. Ora, Bethlehem era ed è ancora oggi sui limiti della steppa, ossia di quell'estensione abbandonata e incolta che può essere sfruttata solo a pascolo di greggi. I pochi ovini posseduti dagli abitanti del villag­gio erano fatti rientrare durante la notte nelle stalle circostanti, ma i greggi numerosi rimanevano continuamente all'aperto là nella step­pa con qualche uomo di guardia: fosse giorno o notte, estate o in­verno (§ 174), quelle molte bestie e quei pochi uomini formavano tutta una collettività che viveva della steppa e nella steppa. Pecorai di tal genere riscotevano pessima reputazione presso i Farisei e gli Scribi: in primo luogo la loro stessa vita nomade nella steppa scar­seggiante d'acqua li rendeva lerci, fetenti, ignari di tutte le fondamentalissime leggi sulla lavanda delle mani, sulla purità delle sto­viglie, sulla scelta dei cibi, e quindi: essi più di chiunque altro co­stituivano quel “popolo della terra” ch'era degno per i Farisei del più cordiale disprezzo (§ 40); inoltre, passavano per ladri tutti quan­ti, e si consigliava di non comperar da loro né lana né latte che po­tevano essere cose refurtive.
D'altra parte non si poteva insistere troppo con loro per ricondurli alle osservanze della “tradizione”, persuadendoli a lavarsi bene le mani e a sciacquar bene le stoviglie prima di mangiare; erano infat­ti uomini di nerbo e di fegato, e come non temevano di spaccare col loro bastone la testa al lupo che infastidiva il gregge, così non avreb­bero esitato a spaccarla al Fariseo od allo Scriba che avesse infasti­dito la loro coscienza. Perciò questi esseri abietti e maneschi erano esclusi dai tribunali, e la loro testimonianza - al pari di quella dei ladri e dei rei d'estorsione - non era accettata in giudizio.

§ 247. Senonché, esclusi dalla corte giudiziaria dei Farisei, questi bassissimi pecorai entrano nella corte regale del neonato figlio di David, e vi sono invitati dai celestiali cortigiani dell'Altissimo. C'erano pastori in quella stessa contrada, che dimoravano sul cam­po e facevano la guardia nella notte sul loro gregge. E un angelo del Signore s'appressò a loro, e la gloria del Signore ri­fulse attorno a loro, e temettero di gran timore; e l'angelo disse lo­ro: Non temete! Ecco, infatti, vi do la buona novella d'una grande gioia la quale sarà per tutto il popolo, perché fu partorito per voi oggi un salvatore, che e' Cristo signore, nel(la) città di David; e segno per voi sia questo: troverete un bambino in fasciato e giacente in una mangiatoia. E ad un tratto fu insieme con l'an­gelo una moltitudine dell'esercito celeste, che lodavano Dio e dice­vano: Gloria negli altissimi a Dio, e sulla terra pace negli uomini di beneplacito! 2 Luca, 2, 8-14. Questa scena segue immediatamente il racconto della nascita, e senza dubbio è intenzione del narratore far intendere che tra i due fatti non intercorse se non qualche ora. Dunque Gesù nacque di notte, come notturna è l'apparizione ai pastori.

§ 248. A costoro, dopo la dovuta lode a Dio nei cieli altissimi, si annunzia soltanto una cosa, la pace sulla terra. Veramente la pace allora c'era (§ 225); ma era una pace transitoria, di pochi anni, che equivalgono a pochi secondi sul grande orologio dell'umanità. Di quei pochi secondi aveva approfittato, come di un'istantanea tregua nella procella, per nascere tra gli uomini il salvatore cioè il Cristo (Messia) signore, e cominciava col fare an­nunziare dai suoi cortigiani celestiali la pace. Ma la sua era una pace di nuovo conio, sottoposta a una nuova condizione. La pace di quei pochi anni era sottoposta alla condizione dell'impero di Roma; era la pax Romana, garantita da 25 legioni, le quali tuttavia qualche anno dopo si mostrarono insufficienti a Teutoburgo amareggiando gli ultimi anni di Augusto. La nuova pace del Cristo signore era sotto­posta alla condizione del beneplacito di Dio: coloro che con le loro opere si rendono degni di quel beneplacito e sui quali esso viene a posarsi (i due fatti si richiamano l'un l'altro) otterranno la nuova pace. Costoro sono gli operanti pace e saranno proclamati beati perché ad essi spetta l'appellativo di figli d'Iddio (§ 321). Dalla mirabile apparizione dell'angelo e dalle sue parole i pastori compresero ch'era nato il Messia. Erano uomini rozzi, si, che non sapevano nulla dell'immensa dottrina dei Farisei; ma, da Israeliti semplici e d'antico stampo, sapevano del Messia promesso dai pro­feti al loro popolo, e ne avranno spesso parlato durante le lunghe veglie di guardia al gregge. L'angelo, adesso, ne aveva dato anche il segno, un bambino infasciato e giacente su una mangiatoia; forse avrà anche indicato la direzione da prendere per giungere alla grot­ta. Quei pecorai continuarono cosi a ritrovarsi nel loro ambiente: nelle grotte, se potevano, si rifugiavano anch'essi quand'era gran pioggia o gran freddo; forse più d'uno aveva ricoverato la propria moglie sopra parto egualmente in una grotta, e aveva deposto il suo neonato egualmente dentro una mangiatoia. E adesso sentivano, da chi non poteva ingannare, che pure il Messia si trovava nelle stesse loro condizioni.
Andarono quindi verso di lui frettolosi, dice Luca (2, 16), di quella fretta cioè ch'è mossa da familiarità gioiosa: men­tre forse con la lentezza appesantita da perplessità ritrosa si sarebbero avviati verso la corte di Erode, se là fosse nato il Messia. Giunsero alla grotta. Trovarono Maria, Giuseppe e il neonato. Am­mirarono. Essendo poveri di denaro ma signori di spirito non chiesero nulla, e ritornarono senz'altro alle loro pecore: soltanto sentirono un gran bisogno di lodare Dio e di far sapere ad altri del po­sto quanto era accaduto. Prima di terminare, l'accorto Luca ammonisce: Maria però conservava tutte queste parole convolgendole nel suo cuore. Già sappiamo che ciò è una delicata allusione alla fonte delle notizie (§142).

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06/08/2012 17:19



[SM=g27998] La purificazione di Maria

§ 249. La dimora dei tre nella grotta dovette esser breve, forse di pochi giorni soltanto. Man mano che il censimento progrediva, la gente ripartiva e le case si sfollavano: una di esse fu occupata da Giuseppe che vi si trasferì con gli altri due, e fu la casa ove si pre­sentarono alcune settimane dopo i Magi (Matteo, 2, 11). Forse già in questa casa avvenne la circoncisione del neonato, praticata secon­do la prescrizione otto giorni dopo la nascita (§ 69), e in tale occasio­ne gli fu imposto il nome di Gesù notificato dall'angelo sia a Maria sia a Giuseppe (§§ 230, 239). L'angelo infatti aveva detto che il na­scituro sarebbe stato chiamato figlio dell'Altissimo; ma di fatto era comparso nel mondo come discendente d'Israele per il casato di Da­vid, né dall'angelo era stata comunicata alcuna istruzione che esi­messe questo nuovo Israelita dagli obblighi comuni a tutti gli Israe­liti: perciò Giuseppe e Maria compirono tali obblighi a suo riguardo. E li compirono anche riguardo a se stessi. La Legge ebraica prescri­veva che la donna dopo il parto fosse considerata impura, e rimanesse segregata 40 giorni se aveva fatto maschio, e 80 se femmina dopo di che doveva presentarsi al Tempio per purificarsi legalmen­te, e farvi un'offerta che per i poveri era limitata a due tortore o due piccioni. Se poi il bambino era primogenito, esso di legge ap­parteneva al Dio Jahvè, come tutti i primogeniti degli animali do­mestici e le primizie dei campi; perciò i suoi genitori dovevano ri­scattarlo pagando al Tempio, in cambio del primogenito, cinque si­cli. Non era obbligo portare materialmente il neonato primogenito al Tempio per presentarlo a Dio, ma di solito le giovani madri lo portavano per invocare su lui le benedizioni celesti. Ambedue queste usanze furono seguite riguardo a Gesù: dopo 40 giorni Maria si recò al Tempio per la propria purificazione, offren­do ciò ch'era prescritto per i poveri, e portò con sé Gesù per pre­sentarlo a Dio, pagando i cinque sicli.
Se i due piccioni o tortore per la purificazione valevano ben poco, i cinque Sicli per il riscatto del primogenito furono assai gravi per la povertà dei due coniugi; infatti cinque sicli d'argento, che equivalevano a un po' più di 20 lire nostre in oro, era quanto un artigiano come Giuseppe avrebbe guada­gnato a mala pena con una ventina di giornate di lavoro, mentre poi in quei giorni a Bethlehem egli avrà potuto poco o nulla lavorare: tuttavia alla spesa straordinaria ma prevista si sarà fatto fronte con qualche risparmiuccio che i due si saranno portati appresso da Nazareth come scorta. Quel gruppetto di tre persone che entravano nel Tempio di Gerusalemme non era fatto per attirare su di sé gli sguardi della gente, che stava là a oziare o a sentire le dissertazioni dei maestri farisei o a commerciare nell'”atrio dei gentili” (§ 48): erano tante le madri le quali ogni giorno venivano là a purificarsi dopo il parto e a presentare i loro primogeniti, che quel gruppetto di tre persone non meritava davvero uno sguardo particolare. Ma proprio quel giorno c'era qualcuno, là nell'atrio, che aveva uno sguardo differente dagli altri e poteva scorgere ciò che gli altri non scorgevano; era un uomo di Gerusalemme, di nome Simeone, e quest'uomo (era) giusto e ti­morato, aspettava la consolazione d'Israele e Spirito santo era su lui; e gli era stato rivelato dallo Spirito santo che non avrebbe visto morte prima che avesse visto il Cristo del Signore (Luca, 2, 25-26).

§ 250. Il nome Simeone era comunissimo fra i Giudei di quel tem­po: e qui si dice di lui soltanto ch'era uomo giusto e timorato, e tutt'al più dalle parole ch'egli pronunzierà si può argomentare che era ben avanti negli anni; nulla però induce a credere che egli fosse sacerdote, e tanto meno il sommo sacerdote come vorrebbe un Apo­crifo. L'uguaglianza poi del nome non basta per identificario, come taluni hanno suggerito, con Rabban Simeon figlio del grande Hillel e padre del Gamaliel maestro di S. Paolo, mentre contro questa iden­tificazione stanno gravi difficoltà cronologiche. Questo laico era dun­que un privato qualunque che si teneva a parte dai grandi avveni­menti dei politicanti di Gerusalemme, viveva tra le sue opere di giustizia e di timor di Dio come i pecorai di Eeth-lehem vivevano tra le loro pecore, e come quelli aspettava la consolazione d'Israele, cioè il promesso Messia: e nella stessa guisa che i pecorai furono av­visati dall'angelo, cosi Simeone era stato preavvisato dallo Spirito santo che la sua amorosa aspettativa sarebbe stata appagata. Cosic­ché quel giorno egli venne nello Spirito al tempio; e mentre i genitori introducevano il bambino Gesu' per far con lui secondo il consueto della legge, egli lo ricevette sulle braccia, e benedisse Iddio e disse: Ora dimetti lo schiavo tuo, o Padrone, - secondo la tua parola - in pace! Perché videro gli occhi miei la tua salvezza, che preparasti al cospetto di tutti i popoli: luce a rivelazione di genti, e gloria del tuo popolo d'Israele Luca, 2, 27-32.

La salvezza che appagava l'aspettativa di costui era rappresentata da quell'infante di quaranta giorni, che esteriormente non aveva niente di straordinario: e fin qui si poteva lasciar correre. Ma se lì presso ci fosse stato un Fariseo, di quelli più genuini e piu tipici, non avrebbe potuto reprimere il suo sdegno a udir quelle parole, secondo cui il Messia (chiunque fosse) avrebbe operato la salvezza per tutti i popoli e sarebbe stato una rivelazione di genti, cioè di quelle genti pagane che non facevano parte dell'eletta nazione d'Israele. Siffatte affermazioni erano scandalose e sovversive! E’ vero che in fondo si aggiungeva che lo stesso Messia sarebbe stato la gloria del popolo d'Israele; ma questa aggiunta finale rappresentava un compenso trop­po scarso, era un misero piatto di lenticchie con cui si pretendeva compensare una spirituale primogenitura - o meglio unigenitura - perduta. Il futuro Messia, invece, doveva apparire in Israele e per Israele soltanto, e le altre genti, tutt'al più sarebbero stati ammessi come umili sudditi e discepoli d'Israele nei trionfali tempi del Messia; equiparare Israele e le genti agli effetti della salvezza messianica era un'eresia e una rivoluzione! Il genuino e tipico Fariseo avrebbe avuto ragione, come Fariseo: in­fatti il vaticinante Simeone non avrebbe potuto appoggiare la sua affermazione su nessuna sentenza dei grandi maestri farisei.
Tut­tavia, risalendo più su di costoro, l'avrebbe appoggiata su sentenze di Dio stesso, il quale nella Scrittura sara aveva proclamato al futuro Messia Metterò te qual patto di popolo, quale luce di genti Isaia, 42, 6, e aveva confermato poco appresso metterò te quale luce di genti, per esser la mia salvezza fino all'estremità della terra Isaia, 49, 6. Il nazionalismo escludente aveva fatto dimenticare la parola di Dio, ma Simeone passava sopra al particolarismo geloso dei Farisei e rie­vocava il decreto universalistico di Dio. Fatto ciò e contemplato il Messia, il vecchio non desiderava altro, e poteva partire per il viaggio senza ritorno. Tuttavia alle sue pa­role perfino il padre di lui (del bambino) e la madre erano mera­vigliati (Luca, 2, 33); onde il contemplativo si rivolse anche ad essi. Ma essi erano in realtà la sola Maria, alla quale perciò egli soggiun­se: Ecco, costui é posto a caduta e resurrezione di molti in Israele e a segno contraddetto - e a te stessa trapasserà l'anima una spada - affinché siano rivelati i pensieri da molti cuori (2, 34-35). Dunque, il contemplativo scorge bensì la luce del Messia brillare su tutti i popoli, ma non già fugare tutte le tenebre; in Israele stesso molti procomberanno a causa di quella luce, la quale sarà un segno di contraddizione, un “segno d'immensa invidia - e di pietà profon­da, - d'inestinguibile odio - e d'indomato amor”. E i colpi vibrati contro quel segno non raggiungeranno solo esso, ma anche la madre di lui, la cui anima sarà trafitta da acuta spada. Forseché, nella salvezza operata da quel bambino, la madre sarebbe stata unita col figlio, e non si sarebbe potuto colpire il figlio senza trapastare insieme la madre?

§ 251. Amante dei quadretti abbinati, Luca soggiunge immediata­mente all'episodio di Simeone quello di Anna (2, 36-38). Egli la chiama profetessa, com'erano state altre donne nell'antico Israele. Ancora un settantennio più tardi Flavio Giuseppe presenterà se stesso come conoscitore di eventi futuri (Guerra giud., su, 351-353, 400 segg.), e a Roma Svetonio lo prenderà sul serio e gli darà ra­gione (Vespasian., 5): ma Giuseppe era tutt'altro che il “profeta”, “uomo di Dio” il quale viveva e moriva per la sua fede. La profetessa Anna invece era veramente donna di Dio: rimasta vedova dopo sette anni di matrimonio, aveva passato la sua vita negli atrii del Tempio fra digiuni e preghiere, raggiungendo l'età di 84 anni. Anch'ella, sopravvenuta in quella stessa ora, rendeva a sua volta lode a Dio, e parlava di lui (del bambino Gesù) a tutti quei che aspettavano la liberazione di Gerusalem­me (2, 38). Di questi aspettanti Luca ha presentato i soli Simeone ed Anna; ma appresso a quei due dovevano stare molti altri, e verso ognuno di loro si sarebbe potuto esclamare: Guarda! Uno davvero Israelita, in cui non e' inganno! (Giovanni, 1, 47): tutta gente ignota agli alti ceti sacerdotali, aliena da beghe politiche, ignara di sottigliezze ca­suistiche, ma che aveva concentrato la sua esistenza in una ansiosis­sima attesa, quella del Messia promesso da secoli ad Israele. Tuttavia in quei giorni a Gerusalemme erano certamente piu' nume­rosi coloro la cui ansiosissima attesa era di conoscere le decisioni dei sommi dottori Hillel e Shammai su una formidabile questione che al­lora si discuteva, quella di sapere se era lecito o no mangiare un uo­vo fatto dalla gallina durante il sacro riposo del sabbato (Besah, I, 1; Eddujjòth, iv, 1).



I Magi

§ 252. Attorno al neonato Messia, Luca finora ha condotto, oltre ai cortigiani celestiali, soltanto gente umile in funzione di cortigiani terreni, i pecorai della steppa e i due vecchi della città. Su tutti costoro tace Matteo; il quale invece gli conduce dappresso non solo personaggi insigni ma ciò che può sorprendere nel pio israelita fra i quattro evangelisti - personaggi precisamente non israeliti e appar­tenenti agli aborriti. Se questo nuovo episodio fosse stato nar­rato da Luca, si sarebbe detto ch'era stato introdotto per dimostrare avverato l'annunzio di Simeone riguardo alla rivelazione di genti; ma trattandosi di Matteo, non rimane che da richiamarsi alla real­tà dei fatti selezionata diversamente dai diversi narratori. Essendo dunque nato Gesu', ecco che magi da Oriente si presentarono a Ge­rusalemme dicendo: Dov'e' il nato re dei Giudei? Vedemmo infatti La stella di lui nell'Oriente, e venimmo ad adorano. Allora, avendo udito (ciò), il re Erode si turbò, e tutta Gerusalemme con lui; e avendo adunato tutti i sommi sacerdoti e gli Scribi del popolo, ri­cercava da essi dove il Cristo debba nascere. E quelli gli dissero: in Beth-lehem della Giudea; così infatti e' stato scritto per mezzo del profeta “ tu Beth-lehem, terra di Giuda, non sei in alcun modo la minima fra i duci di Giuda; da te infatti uscirà un duce il quale pascolerà il popolo mio Israele“(Matteo, 2, 1-6. GI'inaspettati stranieri, dunque, erano magi e venivano da Oriente; questi sono a loro riguardo i soli dati sicuri, ma anche vaghi. Il piu' vago è oriente, che geograficamente designa tutte le legioni di là dal Gior­dano, ove procedendo verso levante s'incontra dapprima l'immenso deserto siro-arabico, quindi la Mesopotamia (Babilonia), e infine la Persia: e infatti nell'Antico Testamento tutte e tre queste vegioni sono designate oome Oriente, anche la lontanissima Persia (come ap­pare da lsaia, 41, 2, ove si allude al persiano Cino il Grande). Ma precisamente in Persia, a preferenza delle altre due regioni piu' pros­sime, ci conduce il termine magi che è originariamente persiano e strettamente legato alla persona e alla dottrina di Zarathushtra (Zo­roastro). Di Zarathush tra i magi furono originariamente discepoli; ad essi ave­va egli affidato la sua dottrina riformatrice delle popolazioni del­l'Iran, ed essi ne furono poi i custodi e i trasmettitori. La loro clas­se appare molto potente fin nei tempi più antichi, già all'epoca dei Medi e ancor più a quella degli Achemenidi: era un “mago” quel Gaumata (il “falso Smerdi”) che usurpò il trono achemenide nel 522 av. Cr. durante la campagna di Cambise in Egitto; ma, anche dopo l'uccisione di Gaumata, i magi si mantennero sempre potenti nell'Impero persiano e nei regimi successivi, fin verso il secolo VIII dopo Cr. Nel campo culturale essi si saranno anche occupati del corso degli astri come tutte le persone colte a quei tempi e in quelle regioni, ma astrologi e fattucchieri certamente non erano: ché anzi, come discepoli di Zarathushtra e fedeli trasmettitori dell'Avesta, es­si dovevano essere i naturali nemici delle dottrine astrologiche e mantiche dei Caldei, le quali sono recisamente condannate nell'Avesta.

§ 253. I Magi venuti a Gerusalemme avevano dunque visto una stella in Oriente, avevano compreso ch'era la stella del “re dei Giudei”, e perciò si erano messi in viaggio dall'Oriente per venire ad adorarlo. Riguardo alla stella abbiamo già espresso la nostra opinione secondo cui Matteo intende presentarla come un fatto miracoloso, da non po­tersi identificare con un fenomeno naturale (§ 174) poco appresso egli dirà che, usciti i Magi da Gerusalemme, la stella li precederà a guisa di fiaccola indicatrice della strada e si fermerà proprio sul posto dove stava il bambino ricercato (Matteo, 2, 9). Se del re Mi­tridate si narrava che alla sua nascita e all'inizio del suo regno era spuntata una cometa (Giustino, Hist., XXXVII, 2), e altrettanto si af­fermava di Augusto per l'inizio del suo impero (Servio, in Eneide, X, 272), nessuno però aveva mai detto che tali comete avessero indi­cato ad uomini un dato cammino passo passo, aspettandoli anche nelle soste, e poi rimovendosi, e infine fermandosi definitivamente sopra alla mèta. Stabilito pertanto questo carattere miracoloso, come si spiega che i Magi, veduta la stella, la riconoscono come quella del “re dei Giudei”? Che sapevano in precedenza essi, nella lontana Persia, di un re dei Giudei aspettato come salvatore in Palestina? Il riconoscimento della stella da parte dei Magi è, nella narrazione di Matteo, strettamente legato col carattere della stella: la miraco­losa stella miracolosamente si fa riconoscere da essi come segno del neonato. Ma riguardo alle predisposizioni culturali dei Magi, e alla loro possibile conoscenza dell'aspettativa messianica dei Giudei, sia­mo oggi informati da recenti studi meglio che per l'addietro, e pos­siamo affermare che in Persia si aspettava per tradizione interna una specie di salvatore e inoltre si sapeva che una analoga aspettativa esisteva in Palestina. Trattiamo di ciò in nota come di questione troppo lunga per discutersi qui, ma troppo importante per esser tra­lasciata. Matteo non dice quanti fossero i Magi venuti; la tradizione popo­lare tardiva li credette più o meno numerosi, da un minimo di due a un massimo di una dozzina, ma con preferenza del numero tre suggerito certamente dai tre doni ch'essi offrirono: di questi tre, già da prima del secolo IX, si seppero anche i nomi, Gaspare, Melchiore e Baldassare.

§ 254. Erano proprio stranieri quei Magi e non sapevano proprio nulla delle condizioni politiche di Gerusalemme, giacché appena en­trati si dànno a domandare: Dov'e' il nato re dei Giudei? Di re dei Giudei non c'era altri che Erode; bastava del resto conoscere un po­chino il carattere di costui (§ 9 segg.) per star sicuri che un suo eventuale competitore, appena si fosse mostrato, avrebbe avuto i giorni e anche le ore contate. Perciò, nell'interesse stesso del bam­bino ricercato, quella domanda era pericolosa nella sua ingenuità. I primi cittadini interpellati rimasero stupiti, e anche un po' turbati, perché una domanda di quel genere fatta da quegli ignoti personag­gi induceva a subodorare tenebrose congiure, le quali si sarebbero portate appresso i soliti sconvolgimenti civili e le stragi di gente so­spetta. Passando di bocca in bocca la domanda pervenne a gente della corte, e quindi anche ad Erode. Il vecchio monarca, che per sospetti di congiure aveva già ammaz­zato due figli e stava per ammazzarne un terzo, non poté non tur­barsene; ma capì subito che, se una minaccia c'era, era ben diversa dalle altre. La sua polizia segreta, egregiamente organizzata, lo te­neva informato dei minimi fatti che accadevano in città, e in quei giorni non era stato riferito assolutamente nulla d'inquietante; d'al­tra parte dalla lontana Persia non si dirigevano facilmente le fila d'una congiura, nè si sarebbero inviate sul posto persone cosi inesper­te e ingenue come quei Magi. No, qui doveva esserci sotto qualcosa d'altro genere, qualche ubbia religiosa, molto probabilmente la fisima di quel Re-Messia che i suoi sudditi aspettavano ma che egli non aspettava affatto. Ad ogni modo era bene premunirsi, dapprima informandosi chiaramente in proposito, eppoi giocando d'astuzia. Trattandosi di beghe religiose, Erode consultò non l'intero Sinedrio (§ 58) ma quei suoi due gruppi ch'erano più versati in simili faccen­de, cioè i sommi sacerdoti e gli Scribi del popolo (§§ 41, 50), e propose loro il quesito astratto e generico dove il Cristo (Messia) debba nascere. Egli cioè voleva sapere quale sarebbe stato, secondo le tradizioni giudaiche, il luogo di nascita del­l'aspettato Messia: saputo ciò, avrebbe provveduto egli a servirsi di quei semplicioni di Magi per fare i suoi propri conti col neonato re dei Giudei. I consultati risposero che il Messia doveva nascere a Beth-lehem, e citarono a prova il passo di Michea, 5, 1-2, che nel testo ebraico dice: E tu Beth-lehem Efrata, piccola pur essendo nelle ripartizio­ni di Giuda, da te per me uscirà (colui che) sarà dominatore tn Israele, le cui uscite (origini) dall'antichità, dai giorni eterni. Per­ciò (Dio) li consegnerà (in potere dei nemici), fino al tempo in cui la partoriente partorirà. Si noterà che questo passo non è riprodotto nè integralmente nè con queste precise parole dalla risposta dei dot­tori consultati, qual è riferita da Matteo (§ 252); ad ogni modo c'è l'essenziale, cioè la designazione di Beth-lehem come luogo d'origine del Messia, e in tal senso si esprime anche il Targum allo stesso passo. Questa designazione era dunque tradizionale nel giudaismo di quei tempi. Ottenuta questa risposta, Erode dovette rimanere perplesso. Beth­-lehem era un paesucolo qualunque, in cui la sua polizia segreta non gli segnalava assolutamente nulla di sospetto; tuttavia quel comples­so di stella, di sconosciuti Magi, e specialmente quell'appellativo di re dei Giudei, mentre da una parte stuzzicavano la sua curiosità, dall'altra disturbavano alquanto la sua tranquillità. Per soddisfare dunque alla prima e provvedere alla seconda, non rimaneva che ser­virsi degli stessi Magi, in maniera tale da non destare i sospetti nè di loro né di altri.
§ 255. Questo piano fu attuato. Erode fece chiamare i Magi di nascosto (Matteo, 2, 7), perché non voleva nè apparire troppo cre­dulo dando importanza a gente forse squilibrata, nè rinunciare alle sue misure di precauzione. Interrogatili quindi accuratamente sul tempo e modo dell'apparizione della stella, li lasciò andare a Beth-­lehem: cercassero bene il neonato, e appena trovatolo ne infor­massero lui, perché sarebbe venuto anch'egli laggiu' ad adorarlo. Mandare appresso a quei buffi orientali un manipolo di soldati con qualche ordine segreto sarebbe stato un provvedimento più sicuro, dispensando il vecchio monarca dall'aspettare la notizia che il bam­bino era stato trovato: ma lo avrebbe anche esposto alle beffe dei suoi sudditi, giacché in tutta Gerusalemme non si faceva che parlare di quella strana comitiva, pur prevedendosi con certezza che tutto sarebbe finito in una scena da ridere e che quegli orientali sarebbero risultati sognatori esaltati. Ad ogni modo essi, com'erano passati al­lora per Gerusalemme, così dovevano ripassarci al loro ritorno, e quindi Erode li avrebbe avuti sempre a sua disposizione. I Magi, dopo l'udienza reale, partirono. Ed ecco la stella, che videro nell'Oriente, li precedeva finché venendo stette sopra dov'era il bam­bino. Ora vedendo la stella, godettero di gaudio assai grande. E ve­nuti nella casa, videro il bambino con Maria la sua madre, e caduti l'adorarono: e aperti i loro forzieri, gli presentarono doni, oro, in­censo e mirra. E ricevuta rivelazione per sogno di non ritornare da Erode, per altra strada si ricondussero alla loro regione (Matteo, 2, 9-12). La narrazione è ristretta alle sole linee principali e astrae da tempo e da luogo. Se ne raccoglie tuttavia che i Magi passarono al­meno una notte a Beth-lehem, giacché vi ricevettero rivelazione per sogno, e non è escluso che vi rimanessero anche più d'un solo gior­no; Si raccoglie pure che la famiglia di Giuseppe, abbandonata la grotta, si era ricoverata in una casa (§ 249). Avviandosi per rendere omaggio a un “re”, i Magi avevano pre­parato donativi come esigeva l'etichetta orientale.
La reggia di Erode in Gerusalemme splendeva d'oro, e lungo i suoi ambulacri i bru­ciaprofumi esalavano vapori d'incenso e di resine odorifere. Altrettanto avveniva in quel suo suntuoso Herodium ove il suo fiero costruttore sarebbe stato sepolto fra pochi mesi e che si elevava a poca distanza da Beth-lehem (§ 12); forse più d'una volta i pastori di là, aggirandosi alle falde della sua collinetta, ne avevano intravisto i ri­flessi aurei delle sale ed erano stati raggiunti dalle folate di profumo che ne uscivano. Conforme al cerimoniale delle grandi corti i Magi offrirono oro, incenso e quella resina profumata che tutti i Semiti chiamavano mor, da cui il nostro nome di mirra. Erode stesso lar­gheggiava in donativi con altri monarchi, specialmente se più poten­ti di lui: ad esempio, proprio in quei giorni, egli nel suo testamento lasciava ad Augusto un legato di ben 1000 o anche 1500 talenti (Guerra giud., I, 646:11, 10; cfr. Antichità giud., XVII, 323), somma altissima anche per quei tempi, che però fu rifiutata signorilmente da Augusto. I Magi certamente non poterono essere munifici quanto Erode, ma in compenso ebbero la gioia di vedere accettati i loro doni e inoltre d'accorgersi ch'erano opportunissimi: se tutti e tre i doni riconoscevano la dignità regale del neonato, specialmente l'oro anivava come una provvidenza per restaurare le finanze di quella corte, la quale di suo non aveva né un tetto e forse neanche un mez­zo siclo, dopo averne lasciati cinque interi al Tempio di Gerusalem­me (§ 249). Compiuti gli omaggi, i viaggiatori dopo qualche tempo ripartirono alla volta del loro paese, ma non passarono per Gerusalemme e Ge­tico, bensì forse per l'altra strada che toccando la fortezza erodiana di Masada costeggiava la spiaggia occidentale del Mar Morto. E di loro non si seppe più nulla.

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06/08/2012 17:23


[SM=g27998] La strage degli innocenti

§ 256. Intanto Erode aspettava il ritorno dei Magi. Ma, come i gior­ni passavano e nessuno compariva, dovette sospettare che il suo piano non era stato abbastanza astuto, e che invece di temere le beffe dei Gerosolimitani e di fare assegnamento sull'inconscia cooperazio­ne dei Magi, avrebbe fatto meglio a spedire con loro quattro dei suoi scherani che lo liberassero subito da ogni apprensione. Quando l'in­certezza divenne certezza, l'uomo ritrovò se stesso e, in uno di quegli scoppi d'ira che precedevano abitualmente i suoi ordini di stragi, pre­se una decisione tipicamente erodiana: inviò l'ordine di uccidere tut­ti i bambini minori di due anni che si trovavano a Eethlehem e nel territorio da essa dipendente. Nel fissare questo termine di due anni egli si era basato su ciò che gli avevano detto i Magi riguardo al tempo dell'apparizione della stella, e partendo di là aveva fatto i suoi calcoli con molta abbondanza per esser sicuro che questa volta il bambino non gli sfuggisse (§173).

E invece il bambino gli sfuggì; perché il neonato di Beth-lehem, an­che se non aveva a suo servizio la polizia segreta di Erode, aveva attorno a sé quei cortigiani celestiali che già avevano prestato servizio per la prima volta la notte della sua nascita. Prima che arrivas­sero gli scherani di Erode, un angelo apparve in sogno a Giuseppe e gli disse Alzati! Prendi con te il bambino e la madre di lui e fuggi in Egitto, e sta' là fino a che te lo dica (io); giacché Erode sta per cercare il bambino per farlo perire (Matteo, 2, 13). L'ordine non ammetteva indugi. In quella notte stessa Giuseppe si mise in viaggio, per la strada opposta a quella di Gerusalemme, alla volta dell'Egit­to: questa regione in cui la famiglia di Abramo era diventata na­zione, e che lungo i secoli era stata sempre un luogo di scampo per i discendenti di Abramo insediati in Palestina, ricoverava adesso quel “primo e ultimo” fra i discendenti di Abramo. Nel tempo che i tre fuggiaschi, accompagnati forse dal solito asinello, si fermavano a Hebron o a Beersheva per fare qualche provvista onde affrontare il deserto, si stava eseguendo a Beth-lehem l'ordine di Erode. I bam­bini da due anni in giù vi furono tutti scannati.

§ 257. Quante saranno state le vittime? Partendo da un dato abba­stanza verosimile, che cioè Beth-lehem col suo territorio potesse con­tare poco più di 1000 abitanti, se ne conclude che circa 30 erano i bambini nati ivi ogni anno; quindi, in due anni, erano circa 60. Ma poiché i due sessi a un dipresso si equilibrano per numerosità ed Erode non aveva alcun motivo di far morire le femmine, gli esposti alla sua crudeltà furono soltanto una metà di neonati, cioè i 30 maschi. Tuttavia anche questa cifra probabilmente è troppo elevata, perché la mortalità infantile in Oriente è molto alta e buon numero di neonati non giunge ai due anni. Quindi le vittime saranno state circa da 20 a 25. La bestialissima strage, come già vedemmo (§ 10), è di un valore sto­rico incontestabile accordandosi perfettamente col carattere morale di Erode.
Ma anche a Roma, se realmente Augusto ne fu informato come vorrebbe Macrobio nel passo già citato (§ 9), la notizia non dovette fare molta impressione, perché anche a Roma circolavano voci di un fatto simile riguardante Augusto stesso. Narra Svetonio (August., 94) che, pochi mesi prima della nascita di Augusto, avven­ne a Roma un portento il quale fu interpretato come preannunzio che stesse per nascere un re al popolo romano; il Senato, composto di tenaci repubblicani, ne fu spaventato, e per scongiurare la sventura d'una monarchia ordinò che nessun bambino nato in quell'anno fosse allevato e cresciuto: tuttavia quelli fra i senatori che avevano la moglie gravida, allentarono in quell'occasione la propria tenacia repubblicana, per il motivo quod ad se quisque spem traheret, e si adoperarono affinché l'ordine del Senato non passasse agli atti. Ora, sul carattere storico di questo episodio si potrà legittimamente dubitare: ma il fatto che a Roma circolasse tale voce raccolta da Svetonio, fa comprendere che se nell'Urbe arrivò la notizia della strage di Beth-lehem sarà stata accolta con sghignazzamenti, quasicché il vecchio monarca avesse ammazzato niente più che una venti­na di pulci.

La realtà storica è questa: e non si poteva certo pre­tendere che i Quiriti, per una ventina di piccoli barbari scannati, si commovessero più che per centinaia dei loro propri figli che avevano corso un somigliante pericolo. Pochi mesi dopo la strage di Beth-lehem, l'aguzzino incoronato che l'aveva ordinata, già ridotto da qualche tempo a un ammasso di car­ni putrefatte, morì roso alle pudende dai vermi (cfr. Guerra giud., i, 656 segg.). Tuttavia la vera finezza della nemesi storica, più che nella sua morte, si ritrova nella sua sepoltura: essa ebbe luogo all'Herodìum dalla cui cima si vedeva il posto della grotta ov'era nato il suo temuto rivale e quello dov'erano stati sepolti i lattanti scannati. L'esser sepolto lì fu la sua vera inferia, non già quella cele­bratasi con tanta suntuosità e poi descritta con tanta ammirazione da Flavio Giuseppe (Guerra giud., I, 670-678). Oggi, esplorando con lo sguardo dall'alto dell'Herodium, non si scorgono che ruderi e desolazione di morte. Soltanto in direzione di Beth-lehem si vedono segni di vita.


La dimora in Egitto

§ 258. Frattanto i tre fuggiaschi di Beth-lehem s'erano inoltrati nel deserto. Passo passo col loro asinello, studiandosi di seguire le piste carovaniere meno battute, guardandosi ogni tanto addietro per ve­dere se arrivava gente armata, s'allontanarono sempre più da ogni consorzio umano e ne rimasero separati almeno per una settimana, quanto dovette durare il viaggio. Scendendo giù da Beth-lehem, essi per far più presto seguirono cer­tamente la comoda strada che passava per Hebron e Beersheva; ma ad un certo punto dovettero piegare a destra per ricongiungersi con l'antica strada carovaniera che rasentando il Mediterraneo congiun­geva la Palestina con l'Egitto. A Beersheva comincia, oggi come al­lora, la steppa vuota e squallida, ma con suolo ancora compatto; più in giù invece, avvicinandosi ancora al delta del Nilo, s'estende il classico deserto, il “mare di sabbia”, ove non si trova né un cespu­glio nè un filo d'erba nè un sasso: nulla, se non sabbia. A sentire i vangeli apocrifi la traversata di questa regione sarebbe stata per i tre fuggiaschi un viaggio trionfale, perché le bestie feroci sarebbero corse ad accucciarsi mansuete ai piedi di Gesù e i palmizi avrebbero abbassato spontanei i loro rami per far cogliere i datteri; ma in realtà il viaggio dovette essere durissimo ed estenuante, soprattutto per la mancanza d'acqua.

Nel 55 av. Cr. la stessa traversata era stata fatta dagli ufficiali romani di Gabinio che di viaggi faticosi s'intendevano, e che tuttavia temevano quella traversata più della stessa guerra che li aspettava in Egitto (Plutarco, Antonio, 3); nel 70 dopo Cr. fu fatta in senso inverso dall'esercito di Tito, che saliva dall'Egitto per espugnare Gerusalemme, ma con tutta l'assistenza degli accurati servizi militari romani (cfr. Guerra giud., Iv, 658-663); un esercito che, in tempi re­centi, ha compiuto la traversata è stato quello degli Inglesi che du­rante la prima guerra mondiale sono risaliti dall'Egitto in Palestina, ma essi oltre al resto stabilivano una permanente conduttura d'acqua man mano che s'avanzavano, portando così l'acqua del Nilo per ol­tre 150 chilometri fino a el-Arish, l'antica Rhinocolura. I tre profughi, invece, dovettero trascinarsi faticosamente di giorno sulle sabbie mobili e nell'arsura spossante, passar la notte stesi a terra, e fare assegnamento solo su quel poco d'acqua e di cibo che si portavano appresso: ciò per una buona settimana. Per farsi un'idea di tali traversate l'europeo odierno deve aver passato notti insonni allo scoperto nella desolata Idumea (il Negeb della Bibbia), e di giorno deve aver intravisto attraverso la nebulosità sabbiosa sospesa sul deserto di el-Arish passarsi dappresso un gruppetto di pochi uo­mini, accompagnati da un asinello carico di provviste o anche di una donna con un bambino al petto, e tutti pensosi e taciturni come per fatale rassegnazione allontanarsi nella solitudine verso un'ignota mèta; chi ha fatto tali esperienze e tali incontri in quel deserto ha visto, più che scene di colore locale, documenti storici riguardanti il viaggio dei tre profughi di Beth-lehem. A Rhinocolura la minac­cia di Erode svanì, perché là erano i confini fra il regno di Erode e l'Egitto romano. Da Rhinocolura a Pelusio il viaggio fu, se non meno faticoso, più calmo. A Pelusio, passaggio abituale per chi en­trava in Egitto, si ritrovarono esseri umani e comodità di vita, e più che mai in questa occasione l'oro offerto dai Magi dovette apparire provvidenziale e rendere eccellenti servizi.
Né del luogo nè del tempo della permanenza in Egitto ci sono date notizie da Matteo (molte, come al solito, dagli Apocrifi e da tardive leggende); tuttavia riguardo al tempo possiamo ritenere con sicurez­za che fu breve. Se Gesù è nato sullo scorcio dell'anno 748 di Roma (§173), la fuga in Egitto non poté avvenire che dopo qualche mese, cioè dopo i 40 giorni della purificazione di Maria aumentati dell'in­terstizio fra la purificazione e l'arrivo dei Magi; poiché questo inter­stizio poté essere sia di qualche settimana sia di qualche mese, con­venzionalmente si potrà assegnare la fuga alla primavera o all'estate dell'anno 749. I fuggiaschi pertanto stavano da alcuni mesi in Egitto, quando vi giunse la notizia della morte di Erode avvenuta nel marzo-aprile del 750 (§ 12); e allora nuovamente un angelo apparve in sogno a Giu­seppe, ordinandogli di far ritorno col bambino e la madre nella terra d'Israele (Matteo, 2, 20). Il comando fu eseguito subito, e i profughi tornarono in patria.

[SM=g27998] Nazareth

§ 259. Rientrato che fu in Palestina, Giuseppe apprese che Archelao figlio di Erode era al governo della Giudea, e perciò di Gerusa­lemme e di Beth-lehem: ciò l'indusse a non far più ritorno alla pre­cedente dimora, per la pessima fama che aveva il nuovo monarca (§ 14), rinunziando così al progetto - se realmente era stato fatto (§ 241) - di stabilirsi a Beth-lehem, luogo originario del casato di David. Nella sua perplessità egli ricevette un'altra rivelazione oni­rica, in conseguenza della quale ritornò a Nazareth, ove non gover­nava Archelao ma Antipa (§§ 13, 15). Matteo chiude la narrazione dicendo che l'insediamento a Nazareth avvenne affinché s'adempisse il detto per mezzo dei profeti “Nazoreo sarà chiamato” (2, 23). Queste precise parole non si ritrovano in nessuno scritto profetico della Bibbia odierna: supporre che ne riportino qualche tratto che sia andato perduto più tardi, è un'ipotesi arbitraria, come sarebbe contro ogni verosimiglianza supporre che provengano da qualche sconosciuto Apocrifo. Molto più fondata è l'opinione di S. Girola­mo, benché soltanto negativa, il quale fa notare che Matteo citando i “profeti” al plurale, mostra d'aver preso dalle Scritture non le parole ma il senso; Matteo, cioè, non intenderebbe allegare un deter­minato passo bensì un concetto, né si riferisce a precise parole bensì ad un pensiero. Troviamo di fatti che simili citazioni concettuali erano già state impiegate nell'Antico Testamento, come saranno an­cora usate dai rabbini successivi. Ma qual è il senso o concetto a cui si riferisce Matteo?
La que­stione non ha ancora ricevuto una risposta sicura, e si riconnette in parte con la questione filologica della doppia forma Nazoreo e Nazareno. Ma, comunque si risolva la questione filologica, nel no­stro caso si poté alludere a un determinato concetto anche soltanto mediante una somiglianza o assonanza verbale, come egualmente si era già fatto nell'Antico Testamento soprattutto per nomi di per­sona o di luogo. Ammessa questa elasticità di relazione, si presenta come possibile più d'una allusione. In primo luogo quella a Isaia, 11, 1, ove del futuro Messia si dice: Uscirà un virgulto dal tronco di Isai (Jesse, padre di David) e un germoglio dalle sue radici fiorirà; poiché germoglio è in ebraico neser, Matteo vi può aver visto un richiamo verbale al nome di Nazareth (§ 228), tanto più che anche la tradizione rabbinica ri­feriva al futuro Messia il passo di Isaia. Può darsi anche, almeno in maniera concomitante e secondaria, si sia pensato allo stato del nazir, cioè di colui che era “nazireo” per consacrazione della sua persona a Dio; è vero che in ebraico nazir è scritto con una lettera differente (N Z R) da quelle del nome di Nazareth (N S R), ma per questi riavvicinamenti onomastico-simbolici bastava una certa corrispondenza empirica o assonanza, come era bastata in casi simili dell'Antico Testamento (Genesi, 11, 9; 17, 5; Esodo, 2, 10): e forse più distintamente si è visto un simbolo prefigurativo del Messia in Sansone, salvatore del suo popolo e chiamato « nazir » di Dio fin dalla sua fanciullezza, come si legge nel libro dei Giudici, 13, 5, che appartiene appunto ai « profeti anteriori » della Bibbia ebraica. Qua­le di queste possibilità, e di molte altre proposte dagli studiosi an­tichi e moderni, corrisponda alla realtà non è dato di sapere.

§ 260. Quando Giuseppe venne di nuovo a stabilirsi a Nazareth, cioè nell'anno 750 di Roma inoltrato, il bambino Gesù aveva circa due anni di età (§ 173). Da questo tempo fino all'inizio della sua vita pubblica (§ 175) corrono più di 30 anni, che costituiscono la sua vita nascosta. Di cosi' lungo periodo non ci sono comunicate notizie, salvo due, di cui una riguarda un fatto permanente e l'altra un episodio solitario. Ambedue le notizie, com'era da aspettarsi, so­no comunicate da Luca, lo storico che attinge le sue informazioni dai ricordi personali della madre di Gesù. In primo luogo l'evangelista medico, dimostrando quasi un occhio clinico spirituale, afferma una prima volta che, giunti i tre a Naza­reth, il bambino cresceva e s'afforzava pieno di sapienza, e grazia di Dio era su lui (Luca, 2, 40); poco dopo, come per far notare che questo era un fatto permanente, ripete una seconda volta che, all'età di 12 anni, Gesù progrediva nella sapienza e statura e gra­zia presso Dio ed uomini (2, 52). C'era dunque in Gesù uno sviluppo ed un accrescimento, e non soltanto esteriore davanti agli uomini, ma anche interiore davanti a Dio. Come egli cresceva fisicamente e si sviluppavano le sue fa­coltà sensitive e intellettive, così crescevano le sue cognizioni spe­rimentali, ed egli man mano diventava fanciullo, ragazzo, giovane, uomo maturo, fisicamente ed intellettualmente. Gli antichi Doceti negarono la realtà di questo sviluppo e lo con­siderarono solo apparente e fittizio, perché sembrava loro incompatibile con la divinità del Cristo; ma appunto Cirillo d'Alessandria, l'implacabile avversario di Nestorio e strenuo assertore dell'unità di Cristo (Quod unus sit Ghristus, in Migne, Patr. Gr., 75' 1332), sostiene che in Gesù le leggi della natura umana conservarono tutto il loro valore compresa quella dello sviluppo progressivo fisico ed intellettuale.

§ 261. L'altra notizia comunicata da Luca è l'episodio dello smar­rimento e ritrovamento di Gesù a Gerusalemme. I genitori di Gesù - così li chiama semplicemente Luca (2, 41), - si recavano ogni anno a Gerusalemme in occasione della Pasqua, come faceva ogni buon Israelita per questa principale tra le “feste di pellegrinaggio” (§ 74). Secondo le prescrizioni legali Maria, come donna, non era obbligata a questo viaggio, e neppure Gesù prima del suoi 30 anni; tuttavia molte donne accompagnavano spontaneamente i loro mariti, e quanto ai figli i padri più osservanti li conducevano seco anche prima dei 13 anni: i rabbini della scuola di Shamrnai esigevano che si portasse al Tempio il bambino che potesse reggersi a cavalcioni sulla spalla del padre, mentre quelli della scuola di Hillel restringevano l'obbligo al bam­bino che potesse salire i gradini del Tempio sorretto dalla mano del padre. Ad ogni modo, a cavalcioni o a piedi, molti bambini e moltissimi ragazzi facevano il pellegrinaggio della Pasqua, accre­scendo sempre più la fiumana di gente che vi accorreva (§ 74). Certamente Gesù vi fu condotto anche nella sua fanciullezza, ma quando vi andò che aveva 12 anni avvenne l'episodio narrato da Luca. Il pellegrinaggio, se moveva da luoghi piuttosto lontani come Na­zareth, si compieva a gruppi di parenti e amici, formando piccole carovane che viaggiavano e pernottavano insieme nelle soste lungo il cammino. Da Nazareth a Gerusalemme le soste di pernottamento dovevano essere tre (o quattro), perché la strada s'aggirava sui 120 chilometri (oggi 140); a Gerusalemme si giungeva uno o due gior­ni prima del 14 Nisan (§ 74) e si rimaneva o fino a tutto il 15 o anche per l'intera ottava, cioè fino a tutto il 21 con cui terminavano le solennità pasquali. Quell'anno, quando si fu alla partenza di ritorno, il ragazzo Gesù rimase a Gerusalemme senza che i suoi genitori se ne accorgessero. Non vedendolo presso di sé, i due non avevano motivo di sospettare che fosse rimasto in città. La carovana in Oriente ha una disciplina singolare, non militaresca, non rigida, per cui ognuno s'attiene genericamente ai tempi di partenza e d'arrivo, e per il resto rimane libero di sé; lungo il cammino la comitiva si divide e suddivide in tanti gruppi che procedono a una certa distanza fra loro, che si accrescono od assot­tigliano a beneplacito dei viandanti, e solo alla sera giunti alla sosta di pernottamento tutti si ritrovano insieme. Un qualsiasi ra­gazzo di 12 anni, ch'era quasi sui iuris presso i Giudei, partecipava a siffatta elasticità di disciplina carovaniera al pari e anche più d'un uomo maturo, perché mentre sapeva benissimo come rego­larsi aveva anche in suo favore la vivacità dell'età sua. Cosicché, lungo la prima giornata di cammino, i genitori credettero che Gesù si fosse unito a qualche gruppo della carovana diverso dal loro; ma quando si giunse alla prima sosta di pernottamento, cercatolo in­vano nei vari gruppi riuniti insieme, s'avvidero che mancava.

§ 262. Affannati, i due fecero ritorno a Gerusalemme, e la gior­nata seguente allo smarrimento fu da essi consumata parte nel viaggio e parte nelle prime ricerche in città. Ma le ricerche rima­sero vane, e perciò furono proseguite nel terzo giorno; allora lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai dottori e ascoltandoli e interrogandoli; stupefatti erano tutti che l’ascoltavano, per l'intel­ligenza e le risposte di lui. E vedendolo (i genitori) furono colpiti, e gli disse sua madre: “Figlio, perché facesti a noi così? Ecco, tuo padre ed io addolorati ti cercavamo!”. E disse loro: “Perché mi cercavate? Non sapevate che nella (casa) del Padre mio e' necessario ch'io sia?”. Ed essi non capirono la parola che pronunziò loro (Luca, 2, 46-50). Alla fine di quello stesso secolo Flavio Giuseppe, scrivendo la sua biografia (Vita, 9), racconterà che quando egli aveva 14 anni, cioè verso il 52 dopo Cr., era già famoso in Gerusalemme per la sua perizia nella Legge, e che i sommi sacerdoti e altre insigni persone della città si radunavano abitualmente in casa sua per consuitarlo su questioni difficili. Chi narra questo fatto risulta un millantatore e un blagueur da molti luoghi dei suoi scritti, e quindi con pieno diritto si potrà negar fede a ciò che egli qui racconta: tuttavia un piccolo nocciolo di verità ci può essere, in quanto cioè, essendo egli d'ingegno svegliato, avrà per caso sostenuto una volta tanto una specie di disputa con alcuni Dottori della Legge riunitisi per altre ragioni a casa sua.
I rabbini infatti accettavano nelle loro scuole fanciulletti già di sei anni: “e da sei anni in su noi accettiamo (il bambino, e per mezzo della Legge) lo ingrassiamo come' un bove” (Baba bathra, 21 a); e naturalmente con i bambini o ragazzi che apparivano più perspicaci e intelligenti essi erano più premurosi, non disdegnando d'entrare in discussioni con loro come da pari a pari. Ma la scena di Luca è tutta diversa da quella di Flavio Giu­seppe. Gesù è nel Tempio, in uno dei suoi atrii dove abitualmente s'adunavano i Dottori a discutere (§ 48); egli non detta sentenze come il futuro liberto di Vespasiano, bensì si uniforma al metodo accademico dei rabbini che consisteva in ascoltare, rivolgere do­mande di schiarimento e procedere per ordine, in modo da far progredire il risolvimento della questione mediante il contributo di tutti i partecipanti. Ma il contributo di quello sconosciuto ragazzo era così straordinario, per aggiustatezza di domande e perspicacia d'osservazioni, che primi ne stupivano i sottili giuristi di Gerusa­lemme. Ne stupirono anche Maria e Giuseppe, che certamente assistettero a parte di una disputa aspettandone la fine: tuttavia lo stupore di questi due fu diverso da quello dei Dottori, essendo la meraviglia di chi sa molte cose ma non ne ha ancora previste tutte le conse­guenze e specialmente non ha ancora riscontrato tali conseguenze tradotte in atto. La madre, nella sua addolorata esclamazione, parla giustamente da madre. Il figlio, nella sua risposta, le risponde più da figlio di un Padre celeste che di una madre terrestre: se egli ha abbandonato momentaneamente la sua famiglia umana, è stato per l'unica ragione capace di indurlo a tale abbandono, quella di essere nella spirituale casa del Padre celeste. La risposta di Gesù riassume tutta la sua vita futura. Luca, che scrive post eventum, interpreta bene in questo senso la risposta di Gesù, e non la riferisce già al materiale Tempio di Ge­rusalemme come sonava la parola. Ma il sottile storico aggiunge subito che i genitori, a cui Gesù rispondeva, non capirono la parola che pronunziò loro.
Non la capirono, benché già sapessero tante cose di Gesù, per la stessa ragione per cui stupirono al ritrovarlo fra i Dottori: non prevedevano cioè tutte le conseguenze delle cose che già sapevano. E chi poté mai confessare questa antica incomprensione della risposta di Gesù se non Maria stessa, quando ne parlava post eventum allorché suo figlio era morto e risorto? Perciò Luca anche qui ripete la sua preziosa allusione: La madre di lui serbava tutte le parole nel suo cuore (2, 51). Che è quanto indicare, con riguardosa discrezione, la fonte delle notizie (§§ 142, 248).

§ 263. Per tutti i 30 anni passati da Gesù a Nazareth non sappia­mo altro: tornato lassù dopo l'episodio del Tempio, egli era sottoposto ad essi (2, 15), a Giuseppe e a Maria. Penetrare nell'arcano di quei 30 anni sarebbe certamente vivo desiderio di ogni mente eletta, ma chi s'introdurrà in quel santuario senza un'autorevole guida? Le nostre guide ufficiali si sono fermate al di fuori, limi­tandosi a dirci che là dentro Gesù era sottoposto ad essi. Quel re messianico ch'era nato in una reggia le cui caratteristiche erano state la purità e la povertà, seguitava le tradizioni di quella sua prima corte. Adesso la stalla era stata sostituita parte da una bottega da carpentiere e parte da una casettaccia mezzo scavata nella collina; la purità si era conservata nelle stesse forme e per­sone di prima; la povertà aveva preso l'aspetto di necessità di la­vorare, e a suo fianco e a sua conferma era apparsa la soggezione volontaria. In quei 30 anni, in giro per il mondo, avvenivano cose grosse. A Roma si riapriva il tempio di Giano, essendo finito il pe­riodo del toto orbe in pace composz'to (§ 225); in Giudea Archelao partiva per l'esilio, e i procuratori romani prendevano il suo posto; Augusto in età di 76 anni cessava di essere il padrone di questo mondo, e subito dopo per decreto del Senato diventava un dio dell'altro mondo; Germanico dopo le vittorie sui Barbari del Setten­trione moriva in Oriente; a Roma spadroneggiava Seiano, mentre da Capri vigilava su lui Tiberio pronto a spacciarlo. Nel frattempo, a Nazareth, Gesù era come se non esistesse.
Simile esteriormente in tutto ai suoi coetanei, prima bambini, poi ragazzi, infine giovani, egli dapprima saltellò sulle ginocchia della madre, poi le prestò i suoi piccoli servigi, quindi assistette Giuseppe nella bottega, più tardi cominciò a leggere e a scrivere, recitò lo Shema (§ 66) e le altre preghiere abituali, frequentò la sinagoga; da giovane maturo si sarà interessato di campi e vigne, di lavori che Giuseppe man mano eseguiva dentro Nazareth e nei suoi ameni dintorni, di que­stioni sulla Legge giudaica, di Farisei e di Sadducei, di avvenimenti politici della Palestina e dell'estero. All'apparenza, i suoi giorni pas­savano semplicemente così. Il suo idioma usuale era l'aramaico, pronunziato con quell'accento particolare ai Galilei che li faceva riconoscere appena cominciavano a parlare. Ma la Galilea, periferica qual era ed in continue rela­zioni con circostanti popolazioni ellenistiche, esigeva quasi necessariamente un certo impiego del greco; è probabile che Gesù si servisse talvolta anche del greco, e anche più probabile che facesse altrettanto dell'ebraico.

§ 264. Gesù aveva anche dei parenti come sua madre aveva una “sorella” (Giovanni, 19, 25), così egli aveva “fratelli” e “so­relle” più volte ricordati dagli evangelisti (e anche da Paolo, I Cor., 9, 5). Di quattro di questi “fratelli” ci è trasmesso anche il nome, e si chiamavano Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda (Matteo, 13, 55; Marco, 6, 3); le sue “sorelle” non sono nominate, ma dove­vano esser parecchie giacché si parla di “tutte... le sorelle di lui” (Matteo, 13, 56). La designazione di questo ampio stuolo parentale corrisponde bene ai costumi d'Oriente, ove i legami di sangue sono perseguiti anche nelle loro lontane e tenui ramificazioni, cosicché i collaterali più vicini sono designati genericamente come “fratelli” e “sorelle”, pur essendo soltanto cugini di vario grado; già nella Bibbia ebraica i nomi “fratello”, “sorella”, designano spesso parenti di grado molto più lontano che il fratello o la so­rella carnali, tanto più che nell'ebraico antico non si ritrova un preciso vocabolo per indicare esclusivamente il cugino. Cugini, dun­que, erano i “fratelli” e le “sorelle” di Gesù. Ora, questa numerosa parentela non era tutta favorevole a lui. Nel pieno della sua operosità pubblica ci viene comunicato che nep­pure i fratelli di lui credevano in lui (Giovanni, 7, 5); né si può credere che questa avversione, o alienazione che fosse, si formasse per la prima volta quando Gesù iniziò la sua operosità pubblica. Doveva essere piuttosto la manifestazione aperta di un vecchio sen­timento, che nel cuore di cotesti consanguinei covava già al tempo della vita nascosta di Nazareth.
Di questo rancore domestico è co­municata da Gesù stesso una ragione, ma è generica: Non è profeta inonorato se non nella patria di lui e nei parenti di lui e nella casa di lui (Marco, 6, 4). Ad ogni modo, a fianco a cotesti astiosi pa­renti ve ne furono di fedelissimi che gli si mantennero uniti usque ad mortem et ultra, e che certamente lo avevano circondato della loro benevolenza fin da quand'era oscuro ragazzo e giovane a Na­zareth. Primi fra tutti Maria e Giuseppe; quindi Giacomo, il fra­tello del Signore (Galati, 1, 19), cioè Giacomo il Minore, e poi anche altri (Atti, 1, 14), di cui forse taluni ripulitisi con l'andar del tempo dalla loro antica ruggine. Dope i fatti dell'infanzia di Gesù non si trova più alcuna menzione di Giuseppe, né la figura di lui s'intravede minimamente durante la vita pubblica. Tanto induce a credere che il padre legale di Gesù morisse durante i 30 anni di vita nascosta del figlio; se egli fosse stato superstite a quei 30 anni, come Maria, qualche accenno se ne sarebbe facilmente conservato nell'antica catechesi e quindi anche nei vangeli che da essa dipendono. Di lui rimase ufficialmen­te soltanto l'appellativo paterno, ch'egli lasciò insieme col mestiere al suo figlio legale: Non e' costui il figlio del carpentiere? (Matteo, 13, 55); Non e' costui il carpentiere, il figlio di Maria...? (Marco, 6, 3).

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06/08/2012 17:26


ALL'INIZIO DELLA VITA PUBBLICA FINO ALLA PRIMA PASQUA

Giovanni il Battista e il battesimo di Gesù


§ 265. La narrazione di Luca è stata fin qui ripartita parallela­mente fra Giovanni il Battista e Gesù; l'evangelista ha terminato lasciandoli ambedue ragazzi, l'uno nel deserto e l'altro a Nazareth, e si è congedato da loro col dire sia dell'uno che dell'altro che cre­scevano e s'afforzavano (§ § 237, 260). Trascorso questo trentennio di penombra, Giovanni compare in pub­blico e poco dopo gli tiene dietro Gesù, quasi per riprodurre la breve distanza di tempo che ha separato le loro nascite; precur­sore o battistrada è stato preannunziato Giovanni, e tale deve egli essere molto più per l'operosità pubblica che per la silenziosa na­scita. Con la comparsa di Giovanni cominciava l'argomento ordinario del­la primitiva catechesi cristiana (§ 113); perciò in questo nuovo periodo della narrazione s'affiancano a Luca tutti gli altri evangelisti, compresi il brevissimo Marco e il non sinottico Giovanni. Nella sua lunga permanenza in luoghi deserti Giovanni aveva menato vita solitaria ed austera; se egli comparve in pubblico vestito di peli di camello con una cintura di pelle intorno ai suoi fianchi, e mangiando locuste e miele selvatico (Marco, 1, 6), questo tenore di vita era certamente quello da lui già seguito nei suoi lunghi anni di solitudine. Del resto, cibo e vestito di quel genere erano abituali a chi menava allora vita eremitica per un principio ascetico, come ancora oggi i beduini palestinesi intessono ordinariamente i loro mantelli di peli di cammello e in mancanza di meglio mangiano lo­custe, mettendole talvolta anche in serbo dopo averle seccate. Circa 25 anni dopo la comparsa di Giovanni, Flavio Giuseppe per un ideale ascetico rimase tre anni presso un solitario di nome Bano o Banno, il quale viveva nel deserto, servendosi di vestimento (for­nito) da alberi e nutrendosi di cibarie nate spontaneamente (Vita, 11). Eremiti di questo genere non dovevano essere molto rari, spe­cialmente nella solitudine ad oriente di Gerusalemme e lungo il Giordano; nulla tuttavia c'induce a ritenere che fossero affiliati agli Esseni, ché anzi la vita cenobitica ch'era di prescrizione per gli Es­seni (§ 44) escluderebbe di per se stessa la vita eremitica di questi solitari. Quando giunse l'anno decimoquinto di Tiberio (§175), la parola di Dio fu su Giovanni figlio di Zacharia nel deserto (Luca, 3, 2). Comincia la sua missione di preparare la strada all'imminente Mes­sia, ed egli inizia questa missione proclamando: Pentitevi, poiché si e' avvicinato il regno dei cieli! (Marco, 3, 2). Dopo questo an­nunzio generico, egli scende al particolare: in primo luogo esige da coloro che accorrono a lui due riti, cioè una lavanda materiale e inoltre l'aperta confessione dei peccati commessi; in secondo luo­go, scorgendo fra coloro che accorrono molti Farisei e Sadducei, li accoglie con queste parole: Razza di vipere! Chi vi ha insegnato a sfuggire all'ira imminente? Fate, dunque, frutto degno della penitenza! E non crediate di dire dentro di voi:”Per padre abbiamo Abramo”; giacché vi dico che iddio può da queste pietre suscitare figli ad Abramo. Già la scure è posta alla radice degli alberi: dun­que, ogni albero che non fa frutto e' tagliato via e gettato nel fuoco (Matteo, 3, 7-10).

§ 266. Predicatori di tipo messianico ce ne furono molti, prima e dopo Giovanni, ma tutti d'altra indole. Subito dopo la morte di Erode il Grande si erano fatti avanti dap­prima in Perea un Simone, che aveva dato fuoco alla reggia di Gerico e si era proclamato re; poi in Giudea un pastore di nome Athronges, che aveva impiantato un regolare governo; quindi in Galilea un Giuda figlio d'Ezechia, che si era impadronito per prima cosa del deposito d'armi a Sefforis; in seguito venne Giuda il Ga­lileo, che iniziò la corrente degli Zeloti (§ 43); più tardi ancora vennero Teuda, e il predicatore egiziano, e gli altri accennati da Flavio Giuseppe, e certamente anche altri più numerosi sebbene non menzionati distintamente. Ma costoro seguivano altri metodi: tutti indistintamente afferma­vano che i figli d'Abramo erano il primo popolo della terra, e per assicurar loro l'effettiva supremazia politica mettevano mano alle armi; molti si presentavano come re effettivi; altri asserivano di far miracoli, o almeno li promettevano; qualcuno faceva man bassa sulle proprietà altrui ed esponeva la vita altrui, ben di rado la propria: assolutamente nessuno pensava a rendere i suoi seguaci moralmente migliori. Giovanni batteva la strada precisamente opposta. Affermava che figli d'Abramo potevano saltar su anche dalle pietre; non promet­teva dominii e supremazie; non toccava né invocava armi; non s'occupava di politica; non faceva miracoli; era povero e nudo: ma in compenso tutta la sua predicazione si riassumeva in un ammonimento morale: E’ imminente il regno di Dio, perciò cambiate maniera di pensare! Infatti, la prima parola del suo proclama, Pentitevi!... significava appunto questo: Cambiate maniera di pensare! In greco è cambiate di mente; in ebraico si usava il verbo shub, che si­gnifica ritornare addietro da una falsa strada per rimettersi su quel­la buona: ma in ambedue le lingue il significato concettuale è il medesimo, quello di operare una trasformazione totale nell'interno dell'uomo. Ora, poiché un profondo sentimento interno si manifesta sponta­neamente anche all'esterno, e un atto materiale esterno può essere una raffigurazione dimostrativa dell'atto spirituale interno: perciò Giovanni, a coloro che “cambiavano maniera di pensare”, richiedeva come manifestazione esterna di questo cambiamento che confessassero i peccati commessi, e come raffigurazione dimostrativa che ricevessero una lavanda materiale.

§ 267. Già in altre religioni antiche il pubblico riconoscimento del­le proprie colpe e l'abluzione corporale facevano parte di riti spe­ciali, per la semplice ragione che il primo corrisponde ad una na­turale inclinazione dell'animo umano allorché comprenda d'aver agi­to male, e la seconda è il simbolo più spontaneo e più facile della mondezza spirituale. Lo stesso giudaismo praticava i due riti in varie occasioni: ad esempio, nel giorno dell'Espiazione o Kippur (§77), il sommo sa­cerdote li praticava ambedue insieme, giacché confessava le colpe di tutto il popolo (Levitico, 16, 21) e compiva su di sé una par­ticolare abluzione (IVI, 16, 24). Giovanni, dunque, non usciva dal gran quadro del giudaismo; ma la sua novità consisteva in questo, che i suoi due riti erano chiesti come preparazione al regno di Dio da lui annunziato ormai come imminente. Era dunque un regno che mirava soprattutto allo spirito come ap­punto vi miravano quei due riti, e un regno che differiva total­mente da quelli annunziati dagli altri predicatori messianici. Co­storo badavano soltanto a denaro, ad armi, ad angeli che calassero dal cielo con le spade in pugno a sbaragliare i Romani, a dominio politico d'Israele sui pagani, e a simili cose molto facili e molto vecchie; al contrario, il regno annunziato da Giovanni era molto difficile e molto nuovo. Se non era del tutto nuovo l'insegnamento di Giovanni, ciò avveniva perché esso si ricollegava direttamente con l'antico insegnamento degli autentici profeti d'Israele; già essi avevano insistito molto più sulle opere di giustizia che sulle cerimonie liturgiche (Isaia, 1, e segg.), molto più sulla circoncisione del cuore e dell'udito che su quella della carne (Geremia, 4, 4; 6, 10), inoltrandosi molto più sulla strada dello spirito che su quella delle formalità rituali: e precisamente su quella strada dello spirito, troppo abbandonata dal giudaismo contemporaneo, adesso s'inoltrava nuovamente Giovanni. Gli antichi vessilli d'Israele, i profeti, erano scomparsi da molto tempo; già da qualche secolo era risonato il lamento: I nostri vessilli più non vediamo; non c'è piu' profeta, non c'è fra noi chi sappia alcunché Salmo 74 ebr., 9 Adesso si levava su Giovanni, come ultimo e conclusivo profeta. Dirà infatti più tardi Gesù: La legge e i Profeti, fino a Giovanni; da allora del regno d'iddio si dà la buona novella (Luca, 16, 16).

§ 268. Alla predicazione di Giovanni accorsero moltissimi dalla Giu­dea e da Gerusalemme; anche Flavio Giuseppe conferma la grande autorità ch'egli acquistò sulle folle (Antichità giud., XVIII, 116-119). I suoi discepoli diretti e stabili menavano vita assai austera (Luca, 5, 33), ma verso l'altra gente che accorreva egli si mostrava molto condiscendente e remissivo: né ai pubblicani né ai soldati impo­neva d'abbandonare il loro mestiere, ma si limitava a comandare ai primi di non commettere estorsioni e ai secondi di non commet­tere violenze. Questo atteggiamento cosi mite d'un uomo così austero spiacque a quei Farisei e Sadducei che accorsero insieme con la folla, e che perciò s'attirarono da Giovanni la non mite invettiva riportata sopra (§ 265); ma alla loro volta essi, specialmente i Fa­risei e gli Scribi, si vendicarono più tardi richiamando in dubbio o negando apertamente la legittimità della missione di Giovanni (Luca, 7, 29-30; cfr. 20, 1-8). Nonostante questi ostacoli, la corrente iniziata da Giovanni fu lentissima. Molti discepoli di Giovanni seguirono più tardi Gesù, e di costoro conosciamo nominatamente Andrea e Pietro, Giacomo e Giovanni; altri invece rimasero attaccati alla persona del precur­sore, più che allo spirito del suo insegnamento, e si mantennero appartati sulla soglia del cristianesimo anche dopo la morte di Gio­vanni e di Gesù (cfr. Atti, 18, 25; 19, 34): non mancarono poi ma­nifestazioni di gelosia da parte di taluni discepoli di Giovanni verso Gesù, mentre ambedue erano ancora in vita (Giovanni, 3, 26).

§ 269. Giovanni s'intratteneva per lo più lungo il Giordano, in quel tratto di fiume ch'è più accessibile a chi venga da Gerusalem­me, cioè poco sopra al suo sbocco nel Mar Morto ivi era comodità di praticare la cerimonia dell'abluzione nell'acqua del fiume. Tut­tavia alcune volte si trasferiva altrove5 probabilmente quando per abbondanti piogge le rive del fiume erano sdriicciolevoli e fangose o la corrente era pericolosa; sceglieva allora altri luoghi forniti d'ac­qua, di cui sono nominati occasionalmente due, Bethania di là dal Giordano che era appunto un'ampia e tranquilla insenatura fatta dal fiume (§ 162), e Amon presso Salim che è stato riconosciuto in un luogo 12 chilometri a sud di Beisan (Scitopoli) fin dal IV se­colo (Eusebio, Onomasticon, pag. 40). Frattanto le folle che accorrevano a Giovanni crescevano, e tra loro aveva anche cominciato a circolar la domanda se non fosse proprio egli il Messia tanto atteso: la profonda differenza morale tra lui e gli altri banditori del regno messianico aveva impressionato tutti. Ma Giovanni tagliò corto a quella dubbiosa speranza con una dichiarazione ben netta e precisa. No, egli non era il grande ven­turo; egli praticava l'immersione - il greco “battesimo” - soltanto in acqua, ma dietro a lui sarebbe venuto uno ben più potente di lui che avrebbe praticato l'immersione in Spirito santo e fuoco. Que­sto venturo sarebbe stato anche un vagliatore: col ventilabro alla mano avrebbe egli mondato la sua aia, separando e raccogliendo il grano nel suo granaio, e gettando invece la pula nel fuoco. Parole rivoluzionarie, queste, all'orecchio degli Scribi e dei Farisei. L'aia, evidentemente, era l'eletta nazione d'Israele; ma chi era il grano e chi la pula? Se il buon grano erano i discepoli dei rab­bini osservanti delle “tradizioni” e la pula erano tutti gli altri, s'andava d'accordo con Giovanni; ma quel singolare predicatore dava ben poche garanzie di pensare così, non foss'altro per la be­nignità stessa con cui trattava i pubblicani e i soldati, che invece dovevano essere respinti come appartenenti al sozzo e impuro “popolo della terra” (§ 40). Basta: non rimaneva che aspettare quel grande venturo preannun­ziato da Giovanni, e frattanto vigilare su questo suo precursore.

§ 270. Un giorno, insieme con la folla, si presentò anche Gesù; veniva da Nazareth, certamente insieme con altri Galilei perché an­che in Galilea si doveva esser diffusa la fama di Giovanni e l'en­tusiasmo per lui. Era mescolato fra gli altri penitenti, uno fra i tanti: nessuno lo conosceva, neppure Giovanni suo parente. Più tardi, riferendosi a questo giorno del primo incontro, Giovanni atte­stò di Gesù: Io non lo conoscevo; ma Chi m'inviò a battezzare in acqua, Colui mi disse:”Su chi tu veda lo Spirito discendente e fermantesi su lui, egli è il battezzante in Spirito santo” (Giovanni, 1, 33). Questa ignoranza per la persona di Gesù non sorprenderà chi abbia presenti le vicende di Giovanni: già da ragazzo egli si era allon­tanato dalla casa paterna per darsi al deserto (§ 237), e nulla ci dice ch'egli sia rientrato talvolta tra i suoi familiari nel ventennio circa di sua solitudine. Nel frattempo i suoi già vecchi genitori do­vevano esser morti ambedue, ma ambedue e specialmente la ma­dre gli erano spiritualrnente presenti anche nella solitudine. Per qual ragione, del resto, si era egli ritirato nel deserto, se non per le straordinarie cose che gli avevano narrate della sua nascita i geni­tori e specialmente la madre? Egli era un uomo che aveva avuto fede, e viveva totalmente della sua fede. Perciò anche non si era curato di conoscere materialmente quel mi­sterioso figlio di Maria nato sei mesi dopo di lui; lo conosceva frat­tanto spiritualmente, e per il resto aveva fede che a suo tempo Iddio glielo avrebbe fatto conoscere anche materialmente. Ma un certo presentimento l'aveva; quando scorse Gesù tra la folla che si pre­parava al battesimo, la voce dello Spirito e anche quella del sangue gli fecero divinare, in quell'uno fra i tanti, il Messia e il suo pa­rente, sebbene ancora non avesse visto su lui il segno prestabilito (Matteo, 3, 14-15). Vinta la prudente riluttanza di Giovanni, Gesù fu da lui battezzato, e allora la divinazione si tramutò in certezza. Avvenne infatti il segno di riconoscimento. Gesù in apparenza di penitente, ma senza confessare alcun peccato, era sceso in acqua: ed ecco che quando ne risalì, s'aprì’ il cielo al di sopra, lo Spirito in forma di colomba discese su lui e si udì dall'alto una voce: Tu sei il figlio mio diletto; in te mi compiae qui (Marco, 1, 11). La manifestazione celeste fa ripensare all'altra sulla grotta di Beth­lehem (§ 247): il Messia là iniziava la sua vita fisica, qua il suo ministero; là è dato un annunzio a pecorai, qua è dato un segno al precursore innocente e un annunzio a peccatori pentiti. Ma, come avvenne per l'annunzio di Beth-lehem, anche questo delle rive del Giordano ebbe un'efficacia assai limitata quanto al tempo e quan­to al numero dei destinatari. Pochi mesi appresso, due discepoli di Giovanni verranno inviati dal loro stesso maestro a domandare a Gesù se egli era proprio l'atteso Messia (§ 339).


Il deserto e le tentazioni


§ 271. Compiendo su di sé il rito del suo precursore, Gesù si ri­collegava all'operosità di lui ed iniziava la propria. Ma ogni grande impresa è preceduta da una preparazione prossima, oltre a quella remota, e Gesù accettò anche questa comune norma e premise al suo ministero pubblico un periodo di preparazione. Il periodo durò quaranta giorni. Quaranta, infatti, è un numero tipico nell'Antico Testamento, e riferito a giorni o ad anni ricorre in molti casi biblici: i più analoghi al nostro sono quello di Mosè, che stette sul monte Sinai alla presenza di Jahvè 40 giorni e 40 notti: pane non mangiò e acqua non bevve (Esodo, 34, 28), e l'altro di Elia che dopo aver mangiato il cibo apportatogli dall'angelo camminò per la forza di quel cibo 40 giorni e 40 notti fino in Horeb, monte di Dio (i [III] Re, 19, 8). Di Gesù è narrato che, dopo il suo battesimo, fu condotto su nel deserto dallo Spirito per essere tentato dal diavolo; e avendo digiunato 40 giorni e 40 notti, dopo ebbe fame (Matteo, 4, 1-2). Non è da pensare che questo di Gesù fosse l'ordina­rio digiuno giudaico rinnovato per 40 giorni di seguito: il digiuno giudaico obbligava fino al tramonto del sole, ma al calar della sera si prendeva cibo (come ancor oggi presso i musulmani nel Ramadan), mentre il digiuno di Gesù è ininterrotto per 40 giorni e 40 notti, ap­punto come quelli di Mosè e di Elia. E’ evidente che il fatto è presen­tato come assolutamente soprannaturale. Inoltre, l'informatore dal quale la catechesi primitiva ha saputo il fatto non può essere stato altri che Gesù. In quei 40 giorni infatti egli rimase senza alcun te­stimonio; era con le fiere come dice Marco (1, 13), il quale riassume in poche parole questo periodo quadragesimale esposto più ampia­mente dagli altri due Sinottici. Perciò la scarsezza di precisione, e soprattutto il carattere sopran­naturale dei singoli episodi, rendono questa quadragesima arduissi­ma a spiegarsi, molto più di altre pagine evangeliche su cui oggi tanto si discute; ma le pagine oggi tanto discusse passeranno certamente in seconda linea quando un certo spiritualismo - foss'anche non cristiano - avrà sostituito il greve positivismo imperante oggi sugli studiosi, al contrario la quadragesima del deserto rimarrà per qualunque tempo e per qualunque mentalità un libro chiuso di cui è dato leggere in tralice solo poche parole. Tuttavia il titolo del libro, ossia il suo contenuto generico, è ben leggibile; e fu esattamente decifrato appunto dalla catechesi primi­tiva, la quale ammoni: Non abbiamo un sommo sacerdote inca­pace di compatire alle infermità nostre, bensì uno tentato in tutte le cose a somiglianza (nostra), senza peccato (Ebrei, 4, 15; cfr. 2, 17-18). In altre parole per la catechesi primitiva il significato, ge­nerico ma genuino, della quadragesima nel deserto fu che Gesù permise di esser tentato per compiere la somiglianza con i suoi seguaci, esposti egualmente a tentazione, e per dare ad essi un e­sempio e un conforto nelle loro infermità: la quale interpretazione, oltre tutto il resto, corrisponde ad una ben fondata norma psi­cologica. Questo, il titolo del chiuso libro come fu letto dai primi diffusori della buona novella: la lettura dei suoi tre capitoli fu lasciata alle possibilità e all'abilità dei singoli.

§ 272. Il luogo ove Gesù passò questa quadragesima è, secondo una tradizione attestata nel secolo VII ma risalente forse al IV, il monte chiamato oggi dagli Arabi “della Quarantena” (Gebel Qarantal) e la cui cima ai tempi dei Maccabei era chiamata Duq (« osserva­torio »); quella cima, su cui stava il fortilizio ove fu assassinato Si­mone, ultimo dei Maccabei, s'eleva circa 500 metri sulla vallata del Giordano, e tutto il monte chiude verso occidente questa val­lata sovrastante a Gerico; il luogo è sempre stato più o meno de­serto, e solo dal secolo V le grotte che s'aprono numerose lungo le pendici del monte servirono da stabile dimora a monaci bizantini. Se dunque Gesù fu battezzato nel Giordano circa all'altezza di Ge­rico - com'è probabile (§ 269) - il cammino dal luogo di batte­simo a quello del ritiro fu di pochi chilometri. Quoties inter homines fui, minor homo redii, esclamerà a Roma alcuni anni più tardi un filosofo la cui pratica non s'accordava con la teoria. Gesù, alla vigilia di entrare fra gli uomini, sta lontano totalmente da essi per 40 giorni, quasi per fare ampia provvista di quella umanità di cui gli uomini erano privi e ch'egli avrebbe diffuso tra loro. Le condizioni straordinarie, anche fisicamente, in cui Gesù passò quei 40 giorni sembrano potersi intravedere dalle parole dei due evangelisti, secondo le quali egli ebbe fame dopo quei giorni (Mat­teo, 4, 2) ossia finiti che furono quelli (Luca, 4, 2). In precedenza, dunque, non sentì egli lo stimolo della fame? Passò egli forse la quadragesima in condizioni di estasi così alta ed astratta, che i pro­cedimenti organici della vita fisica erano quasi sospesi? Sono domande, queste, a cui lo storico non ha elementi da rispondere, e lascerà liberamente il campo, più che al teologo, al mistico.

§ 273. Avvertita la fame dopo i 40 giorni, si presenta a lui il ten­tatore, chiamato soltanto Satana (§ 78) da Marco, soltanto diavolo da Luca, con ambedue i termini nella narrazione di Matteo. La riassuntiva narrazione di Marco non specifica le singole tentazioni, come del resto non fa alcun accenno neppure al digiuno; negli altri due Sinottici le tentazioni sono tre, ma enumerate secondo una serie differente: la serie seguita da Matteo sembra preferibile. Il tentatore gli disse: Se figlio sei d'Iddio, di' che questi sassi diven­tino pani! - Ma egli rispondendo disse: Sta scritto “Non di pane solo vivrà l'uomo, ma d'ogni parola uscente per la bocca di Dio” (Matteo, 4, 3-4). Il passo citato sta in Deuteronomio, 8, 3, e la citazione è fatta da Matteo conforme al greco dei Settanta; ma Gesù citò certamente conforme all'originale ebraico, il quale suona “Non di pane solo vive l'uomo; ma di tutto ciò che esce dalla bocca di Jahve' vive l'uomo”. Queste ultime parole si riferiscono alla man­na, menzionata ivi poco prima, ch'era stata prodotta per ordine della bocca di Jahve' onde nutrire gli Ebrei nel deserto. Il tentatore aveva sfidato Gesù ad impiegare il potere taumaturgi­co, ch'egli aveva come figlio di Dio, per ottenere uno scopo rag­giungibile con mezzi non taumaturgici; Gesù risponde che il pane necessario può essere ottenuto, oltreché per i soliti mezzi umani, anche per predisposizione divina come nel caso della manna, sen­za impiegare sconsideratamente poteri taumaturgici per istigazione altrui. La mira del tentatore, che aveva voluto esplorare se Gesù fosse ed avesse coscienza d'esser figlio di Dio, era fallita; la sua isti­gazione ad operare un miracolo superfluo era rimasta inefficace; la cura del sostentamento materiale, a cui il tentatore aveva subor­dinato il potere taumaturgico, era invece subordinata da Gesù alla provvidenza di Dio.

§ 274. La seconda tentazione, come anche la terza, si svolgono in una sfera tutta sovrumana. Allora il diavolo lo prende seco (conducendolo) nella santa città e lo collocò sopra il pinnacolo del tempio, e gli dice: Se figlio sei d'iddio, gettati giu'; sta scritto infatti “Agli angeli di lui darà ordine riguardo a te, e sulle mani ti solleveranno affinché mai tu urti contro un sasso il piede tuo”. Disse a lui Gesu': Sta scritto pur anche “Non tenterai il Signore, il Dio tuo” (Matteo, 4, 5-7). La città santa, com'è chiamata ancor oggi dagli Arabi (el Quds), è Gerusalemme, nominata esplicitamente nel parallelo Luca; il pinnacolo del tempio - non del santuario - era l'angolo dove il ”portico di Salomone” si congiungeva col “portico regio” (§ 48), che sovrastava altissi­mo alla valle del Cedron. Il diavolo invita dunque Gesù ad una prova messianica: se egli è il figlio di Dio, ne sarà una splendida dimostrazione davanti al po­polo affollato negli atrii del Tempio quella di gettarsi nel vuoto, giacché gli angeli accorreranno a sostenere il lanciato Messia, si che tocchi terra dolcemente come foglia staccatasi da un albero e che cali cullata da un venticello. Sotto l'aspetto storico si riscontra che l'opinione del diavolo non era solitaria, bensì condivisa da molti Giudei contemporanei. Un ventennio più tardi, sotto il procuratore Antonio Felice (anni 52-60), i taumaturghi messianici pullùlarono come fungaia e ne fu uccisa dai Romani una gran moltitudine; cosi dice Flavio Giuseppe (Guer­ra giud., Il, 259 segg.), il quale ricorda in particolare che un falso profeta egiziano, raccolti migliaia di seguaci sul Monte degli Olivi, aveva promesso che di là sarebbe entrato nella sottostante Gerusa­lemme sbaragliando i Romani, certo in virtù di qualche strabiliante aiuto celestiale. In sostanza, l'egiziano seguiva il consiglio dato dal diavolo a Gesu', con la sola differenza che il gran giuoco di presti­gio messianico sarebbe avvenuto nel lato orientale della valle del Cedron, invece che sul lato occidentale dov'era il pinnacolo del Tempio. Come aveva fatto Gesù nella tentazione precedente, anche il dia­volo questa volta cita la Scrittura, cioè il Salmo 91 (ebr.), 11-12. Ma, come osserva ironicamente S. Girolamo, il diavolo qui si di­mostra cattivo esegeta, perché il Salmo promette la protezione di­vina a chi si comporti da pio ed osservante, non già a chi provochi arrogantemente Dio. La nuova citazione di Gesù, presa dal Deute­ronomio, 6, 16, rettifica il contorcimento scritturistico del diavolo. In che maniera avvennero questa tentazione e quella seguente, in maniera reale ed oggettiva o soltanto in suggestione e visione sog­gettiva? Dal Medioevo si cominciò a credere che tutto avvenisse in visione, perché si giudicò indegno del Cristo che fosse trasportato dal diavolo qua o là e rimanesse anche limitatamente in potere di lui. Gli antichi Padri, tuttavia, non trovarono in ciò alcuna difficoltà, e interpretarono comunemente i fatti come reali ed oggettivi. Con i Padri, inoltre, sembra che abbia pensato anche Luca, allor­ché chiudendo il racconto di tutte e tre le tentazioni accenna vela­tamente ai fatti della passione di Gesù come a nuovi assalti del diavolo (§ 276): e la passione fu costituita indubbiamente da fatti reali ed oggettivi.

§ 275. Nuovamente il diavolo lo prende seco (conducendolo) in un monte elevato assai, e gli mostra tutti i regni del mondo e la loro gloria, e gli disse: Queste cose ti darò tutte quante, se caduto (ai miei piedi) mi adori! - Allora gli dice Gesu': Vattene, Satana! Sta scritto infatti”(Il) Signore il Dio tuo adorerai, e a lui solo ren­derai culto” (Matteo, 4, 8-10). A questa relazione Luca (4, 5-8) aggiunge alcuni particolari: cioè, che la visione di tutti i regni del mondo avvenne in un punto di tempo o come diremmo noi “in un batter d'occhio”; inoltre, che il diavolo mo­strando la possanza dei regni e la loro gloria dichiarò perché a me e' stata concessa e a chi voglio la do. In quest'ultima dichiarazione il padre della menzogna mentiva forse meno dell'ordinario; ad ogni modo il millantato credito era evidente, poiché nella sacra Scrit­tura era stato affermato molte volte che tutti i regni della terra appartenevano, non già al diavolo, ma a Jahvè Dio d'Israele (Isaia, 37, 16; 11 Cronache, 20, 6; ecc.) e insieme al suo Messia (Daniele, 2, 44; Salmo 72 ebr., 8-11; ecc.). E’ notevole però che in questa terza tentazione, narrata come seconda da Luca, il diavolo non ripete la proposizione condizionale di sfida se figlio sei d'iddio, con cui aveva cominciato le altre due volte; si era egli forse convinto del contra­rio, ovvero in quest'ultimo e più violento assalto giudicò inutile quella formula dubitativa? Non ne sappiamo nulla, come nulla sappiamo del monte elevato assai su cui avvenne la visione dei regni e che da Luca non è neppur ricordato; pensare al Tabor o al Nebo, come fecero alcuni commentatori del passato, è da inesperti della Palestina perché quei due monti sono d'altezza modesta - il Tabor di 562 metri sul Me­diterraneo, e il Nebo di 835 metri - e chi è salito su quelle due cime sa benissimo che il panorama non s'estende neppure a tutta la Palestina; ma anche se fosse stato il Monte Bianco o un altro anche più elevato non si sarebbero certamente scorti tutti i regni del mondo per visione naturale. Fu dunque una visione, avvenuta si in cima all'ignoto monte, ma ottenuta con mezzi preternaturali a noi ignoti. Al tentato, il diavolo richiede l'omaggio che si usava con i monar­chi della terra e col Dio del cielo, quello di prostrarsi a terra adorando: è l'atto di chi si ritiene moralmente più basso dell'adorato, e ne accetta la superiorità su di sé. Alla proposta Gesù risponde citando la Scrittura, cioè Deuteronomio, 6, 13, che giace nel con­testo da cui è tolta la prima parte dello Shemac (§ 66); tuttavia il passo citato suona nell'originale ebraico alquanto diversamente da come è allegato nei due Sinottici, cioè Jahvè Dio tuo temerai, e lui servirai, sebbene il senso dell'allegazione evangelica sia implicito nell'originale ebraico.

§ 276. Tutte e tre le tentazioni mostrano una chiara relazione con l'ufficio messianico di Gesù, al quale contrastano. La prima lo vor­rebbe indurre ad un messianismo comodo ed agiato; la seconda, ad un messianismo raccomandato a vuote esibizioni taumaturgiche; la terza, ad un messianismo che si esaurisca nella gloria politica. Come Gesù ha superato adesso queste tre tentazioni, così nella sua operosità successiva continuerà a contraddire ai principii su cui esse si fondano. Dopo la terza tentazione Matteo aggiunge che il diavolo, quasi per eseguire il comando di Gesù “Vattene, Satana!”, effettivamente si partì da lui, ed ecco che gli angeli si fecero dap presso e ministra­vano a lui (Matteo, 4, 11). Luca non accenna agli angeli, ma offre una particolarità riguardo alla partenza del diavolo, il quale si allontanò da Lui fino a tempo (opportuno) (Luca, 4, 13). Non c'è da ingannarsi su questo tempo (opportuno): è la futura passione di Gesù, allorché egli esclamerà rivolto alla turba di Giuda questa e' l'ora vostra e la potestà della tenebra (Luca, 22, 53), e al­lorché Satana entrerà nell'interno di Giuda (ivi, 3) e vaglierà gli Apostoli come grano (ivi, 31). In quell'occasione Gesù dirà agli Apostoli di pregare per non entrare in tentazione (ivi, 40), ed egli stesso entrato nella suprema angoscia pregherà più intensamente (ivi, 44); ora appunto in quell'occasione Luca, che non ha ricordato gli angeli ministranti a lui dopo le tre tentazioni, parlerà dell'angelo disceso dal cielo per confortarlo (ivi, 43). La passione dunque, nel pensiero di Luca, fu il tempo (opportuno) riservatosi da Satana per muovere il più violento e l'ultimo assalto.

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06/08/2012 17:29


Giovanni declinante e Gesù ascendente

§ 277. Nel frattempo Giovanni il Battista continuava il suo ministero, e tanto più continuavano a vigilarlo i potentati di Gerusalemme (§ 269). Ma, insomma, chi era quel solitario indipendente, nè Fariseo nè Sadduceo, nè Zelota nè romanofilo, nè Esseno nè Erodiano, che amministrava un battesimo non incluso nel cerimoniale giudaico e predicava un “cambiamento di mente” (§ 266) non contemplato dalla casuistica degli Scribi? Pazienza poi se fosse rimasto solitario nel suo deserto, tutt'al più con un gramo codazzo di discepoli appresso; costui invece si trascinava appresso le folle, e correvano a lui da Gerusalemme e dalla Giudea non meno che dalla lontana Galilea. Indubbiamente quell'uomo era una forza morale di prim'ordine, e coloro che in Gerusalemme tenevano in mano le briglie del giudaismo non potevano lasciarlo ancora sbrigliato. O con loro, o contro di loro. Dichiarasse una buona volta apertamente chi era e che cosa voleva! Per sapere questo si ricorse, naturalmente, a una commissione. Sic­come poi lo scopo interessava più o meno tutti, così si scelse una commissione mista in cui entrarono sia sacerdoti e Leviti, cioè in maggioranza Sadducei, sia autentici Farisei, e tutti insieme da Gerusalemme si recarono a Bethania d'oltre il Giordano (§ 269), ove in quel tempo s'intratteneva Giovanni. La commissione si presenta, non come accusatrice, ma solo come investigatrice; essa rappresenta i maggiorenti e i benpensanti del giudaismo che hanno diritto di sapere, quindi domanda a Giovanni: Tu chi sei? (Giovanni, 1, 19).
Circa quattro secoli e mezzo prima, dai maggiorenti e benpensanti di Atene era stata rivolta l'identica domanda a Socrate: Tu, insom­ma, chi sei? (Arriano, Epitteto, III, 1, 22). Ma la domanda dei Ge­rosolimitani, pur nella sua imprecisione, mirava ad uno scopo ben preciso; poiché le grandi folle che accorrevano a Giovanni si chie­devano sempre più insistentemente se egli fosse il Messia, la coni-missione voleva investigare che cosa pensasse su ciò Giovanni stesso. Ma Giovanni confessò e non negò, e confessò: Io non sono il Cristo (Messia) (Giovanni, I, 20). Quelli replicarono: Sei Elia, che tutti aspettano come precursore del Messia? Sei il profeta, quello pari a Mosè che dovrà apparire ai tempi messianici? - A ogni domanda Giovanni risponde: No! - Ma dunque chi sei, insistono i commis­sari, perché dovremo pur riportare una risposta a Gerusalemme! - Io sono la voce di chi grida nel deserto: “Raddrizzate la via del Signore”, come dice il profeta Isaia (Isaia, 40, 3). La risposta non soddisfece i commissari, specialmente i Farisei. Perciò questi replicarono: Ma allora, se tu non sei nè il Cristo nè Elia né il profeta, perché battezzi? - E allora Giovanni ripeté a loro l'annunzio già dato alle folle: egli battezzava in acqua ma in mezzo a loro stava uno ch'essi non conoscevano, che veniva dopo di lui, e del quale egli non era degno di sciogliere il legaccio dei calzari.

§ 278 Il giorno appresso a questo incontro, avendo finito la sua quadragesima, Gesù venne di nuovo a Giovanni presso il fiume. Giovanni lo scorse tra la folla e additandolo ai propri discepoli esclamò: Guarda! L'agnello d'Iddio, quello che toglie il peccato del mondo! Questi e' colui del quale io dissi “Dopo di me viene un uomo che avanti a me è stato (promosso), perché prima di me era”; e dopo aver alluso all'apparizione avvenuta al battesimo di Gesù, concluse: E io ho veduto e ho attestato che questi e' il figlio d'iddio (Giov., 1, 29... 34). La metafora di Giovanni, che chiamava Gesù l'agnello d'iddio, fa­ceva insieme tornare alla mente degli uditori giudei i veri agnelli che erano sacrificati nel Tempio di Gerusalemme ogni giorno, e soprattutto alla Pasqua: a qualche uditore più versato nelle scritture poteva anche ricordare che, in esse, il futuro Messia era stato contemplato come un agnello portato a scannare per i delitti altrui (Isala, 53, 7 e 4), e che pure altri profeti vi erano stati rassomigliati a quel mite animale destinato ordinariamente a vittima (Geremia, 11, 19) Il collegamento fra i due concetti di agnello-vittima e di figlio di Dio sarà sfuggito probabilmente a quasi tutti gli uditori, ma a Giovanni doveva stare molto a cuore, tanto che vi ritornò sopra il giorno appresso. Il giorno seguente (questa precisione cronologica è dell'accurato evangelista non sinottico: (Giov., 1, 35; cfr. § 163), mentre Giovanni s'intratteneva con due soli discepoli, vide nuovamente Gesù che pas­sava lì presso, e additandolo esclamò ancora: Guarda! L'agnello d'Iddio! I due discepoli, colpiti dalla frase e dalla sua insistenza, discostatisi da Giovanni si misero a seguire Gesù che si allontanava. Scortili Gesù, domandò loro: Che cercate? - Quelli risposero: Rabbi, ove dimori? - E Gesù a loro: Venite e vedrete. - S'accompa­gnarono infatti con lui alla sua dimora, la quale a causa della molta gente accorsa a Giovanni poteva essere una di quelle capanne per guardiani di campi usate ancora oggi nella vallata di Gerico. Erano circa le quattro del pomeriggio.
I due discepoli di Giovanni ri­masero cosi dominati dalla potenza dello sconosciuto Rabbi, che s'intrattennero con lui il resto di quel giorno e certo anche la notte seguente. I due erano scesi giù dalla Galilea: uno era Andrea, fratello di Simone Pietro: l'altro è innominato, ma ciò basta in questa narrazione a farlo riconoscere come se fosse anch'egli nominato. E’ l’evangelista Giovanni, il testimone che può narrare questi fatti con tanta pre­cisione di giorni e di ore; è l'adolescente neppur ventenne destinato a diventare il discepolo che Gesu' amava (§ 155), e che in quel pri­mo giorno in cui incontrò Gesù avrebbe potuto scrivere nel libro di sua vita, con veracità ben più alta che l'Alighieri il giorno che incontrò Beatrice, Incipit vita nova. Dopo quella prima permanenza con Gesù, il fervido Andrea volle accomunare nella propria letizia suo fratello Simone. Rintracciatolo, gli dice: Sai? Abbiamo trovato il Messia! - Lo accompagna quindi a Gesù. Gesù lo guarda, e poi gli dice: Tu sei Simone figlio di Giovanni; tu però ti chiamerai Kepha. - In aramaico kepha significa “roccia”, ma come nome personale non appare usato nell'Antico Testamento e neppure ai tempi di Gesù; a sentirsi rivolgere quelle inaspettate parole è molto probabile che Simone non ne capisse nulla, o tutt'al più giudicasse che l'ignoto Rabbi con la sua mente correva appresso a idee tutte sue personali (§ 397).


In Galilea

§ 279. Nel giorno ancora seguente, come ci dice l'evangelista testi­mone dei fatti, Gesù volle ritornare in Galilea; il congiungimento spirituale fra la sua missione e quella del precursore era compiuto, e nulla più lo riteneva per ora in Giudea. Questo primo ritorno in Galilea non è ricordato dai Sinottici; i quali parlano soltanto del secondo ritorno, quello avvenuto dopo l'imprigionamento del pre­cursore (§ 298). L'evangelista Giovanni, come al solito, supplisce alla loro omissione; non si trattiene però a descrivere il viaggio (mentre descriverà il viaggio del secondo ritorno omesso dagli altri; § 293), e passa a parlare di Gesù già tornato in Galilea. Ivi perciò avven­nero i fatti successivi. Insieme con Gesù dovettero tornare in Galilea i tre discepoli ch'e­rano passati a lui dalla sequela del precursore, e ch'erano di Beth­saida sui confini della Galilea (§ 19), cioè i due fratelli Andrea e Simone Pietro e l'innominato Giovanni. Giunti lassù, i tre fervorosi non mancarono certamente di raccontare a familiari ed amici quan­to sapevano sul conto di Gesù e di additarlo con entusiasmo in Bethsaida, che pare fosse la prima sosta dopo il viaggio. Fra queste accoglienze Gesù incontra uno del paese, certo Filippo, e gli dice: Viemmi appresso! - Non si trattava di una sequela di poche ore, ma abituale, e Filippo che già doveva essere entusiasmato dai rac­conti dei tre compaesani accettò con fervore.
Anzi, a sua volta, cominciò a parlare ad altri dell'ammirato Rabbi; ma qui invece incontrò una gelida accoglienza. Trovatosi con un suo amico, Nathanael, gli confidò tutto vibrante di gioia: Sai? Ab­biamo trovato colui di cui parlano Mosè e i Profeti! lì Gesù figlio di Giuseppe, quello di: Nazareth! - Nathanael doveva essere un uomo molto calmo e posato; per di più era di Cana (Giovanni, 21, 2) vi­cina a Nazareth, e quindi conosceva bene la patria del decantato Rabbi. A sentire che costui veniva fuori da quel miserabile ammasso di tuguri, rispose spregiosamente: Da Nazareth ci può esser qual­cosa di buono? (§ 228). La sfiduciante risposta non raffreddò il fervore di Filippo, che ri­corse alle prove di fatto. Vieni e vedi! replicò egli; e Nathanael - come già Giulio Cesare - venne, vide, ma invece di vincere rimase vinto.

§ 280. Appena Gesù scorse il diffidente che si avvicinava esclamò: Guarda! Uno davvero Israelita, in cui non e' inganno! (§ 251). La lode era certamente meritata, e una prova ne può essere la diffi­denza stessa mostrata da Nathanael al primo annunzio ch'era stato trovato il Messia; fra tanti esaltati o ciarlatani che andavano in giro additando in sé o in altri il Messia, un Israelita sincero aveva ogni diritto di diffidare. Perciò l'Israelita richiese: Donde mi conosci? - Rispose Gesu' e gli disse: Prima che Filippo ti chiamasse, mentre eri sotto il fico, ti vidi! (Giovanni, 1, 48). Era una vecchia tradizione in Palestina di avere vicino alla propria casetta un denso albero di fico, per passare sotto quell'ombra ore riposate e serene (cfr. I [III] Re, 4, 25; Michea, 4, 4; Zacharia, 3,10); ai tempi di Gesù i rabbini vi s'intrattenevano volentieri per studiare indisturbati la Legge. Se dunque Gesù dice qui a Nathanael di averlo scorto sotto l'ombroso ritiro, non annunzia una scoperta ma­terialmente straordinaria; ma la sorpresa dovette essere straordina­ria spiritualmente, in quanto cioè i pensieri che Nathanael rivolgeva in mente là in quel suo ritiro dovevano avere qualche relazione con l'imminente incontro. Pensava egli forse al vero Messia, avendo udito le strane voci che correvano in paese a proposito di Gesù testé giunto? Domandava egli in cuor suo a Dio un “segno” in proposito, come lo aveva domandato Zacharia (§ 227)? Non siamo in grado di rispondere con precisione; tuttavia è chiaro che Natha­nael trovò perfettamente vera la parola rivoltagli: Gesù l'aveva ve­ramente visto nell'interno dei suoi pensieri, più che nella situazione della sua persona.
Il retto Israelita rimase sgomento, e l'uomo calmo e posato fu in­vaso a un tratto da fervore: Rabbi, tu sei il figlio d'iddio! Tu sei re d'israele! Nathanael dunque concordava adesso con Filippo nel riconoscere Gesù come Messia. Era un generoso, ma forse anche troppo. Gesù infatti gli rispose: Perché ti dissi che ti vidi sotto il fico, credi? Cose maggiori di queste vedrai; volgendosi poi anche a Filippo e forse ad altri presenti continuò: in verità, in verità vi dico, vedrete il cielo aperto e gli angeli d'iddio ascendenti e discen­denti sul figlio dell'uomo! L'allusione si riferisce al sogno di Gia­cobbe (Israele), che vide gli angeli ascendere e discendere lungo la misteriosa scala (Genesi, 28, 12); analoga a quella scala che colle­gava la terra col cielo, sarà la missione di Gesù della quale saranno testimoni quei suoi primi discepoli, discendenti da Giacobbe e dav­vero israeliti. Questo Nathanael non è mai nominato dai Sinottici, ma solo da Giovanni; al contrario i Sinottici nominano fra gli Apostoli un Bar­tolomeo, che non è mai nominato da Giovanni. lì molto probabile che, come avveniva spesso a quei tempi, la stessa persona avesse i due nomi di Nathanael e di Bartolomeo, tanto più che nelle liste degli Apostoli Bartolomeo è nominato di solito insieme con Filippo, cioè proprio l'amico di Nathanael.

Le nozze di Cana

§ 281. Il colloquio con Nathanael è un nuovo punto di partenza per la cronologia dell'evangelista Giovanni; egli fa sapere che il terzo giorno dopo quel colloquio si fecero nozze in Gana della Ga­lilea, ed era la madre di Gesu' colà; e fu invitato anche Gesu', e i suoi discepoli, alle nozze (Giov., 2, 1-2). Poiché, come abbiamo visto, Nathanael era appunto di Cana, è verosimile che egli stesso abbia invitato Gesù e i suoi discepoli Andrea, Pietro, Giovanni e Filippo alle nozze, le quali saranno state di qualche parente o amico di Nathanael stesso; tuttavia dalle parole di Giovanni sembra risultare chiaramente che era la madre di Gesu' colà anche prima dell'arrivo del figlio, e ciò induce a congetturare che pure tra Maria e uno degli sposi esistesse qualche legame: come parente o amica, ella si sarà recata là qualche giorno prima per aiutare le donne di casa nei preparativi, specialmente della sposa, ch'erano lunghi. Non han­no invece alcuna verosimiglianza certi almanaccamenti tardivi che vedono nello sposo o Nathanael stesso, l'evangelista Giovanni, o altri. La Cana visitata comunemente oggi in Palestina è Kefr Kenna, che seguendo la strada maestra sta circa a 10 chilometri a nord-est di Nazareth sul percorso verso Tiberiade e Cafarnao, mentre ai tempi di Gesù la distanza fra questa Cana e Nazareth era 3 o 4 chilometri più breve. Ma anticamente esisteva un'altra Cana ridotta oggi a un campo di ruderi, Kirbet Qana, a 14 chilometri a nord di Nazareth. Si disputa fra gli archeologi quale di questi due luo­ghi sia la Cana del IV vangelo; in favore di ambedue i luoghi esi­stono ragioni non spregevoli, sebbene non decisive, e le stesse rela­zioni scritte degli antichi visitatori sono applicate in favore dell'uno o dell'altro. La questione dunque è tuttora incerta, e d'altra parte non è cosa indispensabile risolverla. Le nozze di Cana furono i nissu’in del cerimoniale giudaico (§ 231). La festa che li accompagnava era certamente la più solenne di tutta la vita per la gente di basso e medio grado sociale, e poteva du­rare anche più giorni. La sposa usciva dalle mani delle parenti e delle amiche tutta ag­ghindata pomposamente, con una corona in testa, imbellettata in viso, con gli occhi splendenti di collirio, con i capelli e le unghie dipinti, carica di collane, braccialetti e altri monili per lo più falsi o presi in prestito. Lo sposo, incoronato anch'esso e circondato da­gli “amici dello sposo”, andava sul far della sera a rilevare la sposa dalla casa di lei, per condurla alla propria; la sposa io atten­deva circondata dalle sue amiche, munite di lampade ed acclamanti al giunger dello sposo. Dalla casa della sposa a quella dello sposo si procedeva in corteo, a cui prendeva parte tutto il paese, con luminarie, suoni, canti, danze e grida festose. Tanta era l'autorità morale di siffatti cortei, che perfino i rabbini interrompevano le lezioni nelle scuole della Legge ed uscivano con i loro discepoli a festeggiare gli sposi. A casa dello sposo si teneva il pranzo, con canti e discorsi augurali, i quali talvolta non erano immuni da allusioni ardite, specialmente quando il pranzo era inoltrato e la comitiva era tutta più o meno brilla. Si beveva infatti senza parsimonia, si tracannava cordialmente, es­sendone tanto rara l'occasione per gente che tutto l'anno faceva vita grama e stentata. E si bevevano vini speciali, messi in serbo da gran tempo e custoditi appunto per quella festa; ancora oggi si possono scorgere in un oscuro angolo di qualche casa araba file di misteriose giarre, e il padrone di casa dirà con compunzione grave che non devono toccarsi perché è vino per nozze. Del resto nelle sacre Scritture ebraiche si leggeva che il vino letifica il cuore dell'uomo, e quella gente voleva obbedire alle Scritture almeno nella letizia nuziale.

§ 282. A tale festa così cordiale, così umana anche nelle sue debolezze, volle partecipare Gesù, come certamente pure Maria avrà con­tribuito al pomposo rivestimento della sposa. Quando Gesù era an­cora ragazzo a Nazareth, sua madre gli avrà più volte narrato che un po' di festicciuola era stata fatta anche quando si erano celebrati i nissu'in per lei, ed ella era entrata in casa di Giuseppe (§ 239). Allora era sorta una nuova famiglia, che Gesù aveva onorata e santificata con un'obbedienza trentennale; adesso, ch'egli sta per uscire da questa famiglia, quasi si volge addietro con rimpianto e vuole onorare e santificarne il principio morale costitutivo. Per questa ragione Gesù, il nato da vergine e che morirà vergine, in­terviene a nozze al termine della sua vita privata e al cominciare di quella pubblica. Anzi, la cominciò con un miracolo tale che, mentre dimostrava la potenza di lui, direttamente servì a rendere sempre più liete e fe­stose quelle nozze. Accortamente Giovanni (2, 11), dopo aver raccontato il miracolo, conclude osservando che quello di Cana fu l'inizio dei “segni” miracolosi di Gesù. A Cana Gesù ritrovò sua madre dopo circa due mesi d'assenza. Era stata forse la prima lunga assenza di lui dalla casa paterna; essendo già morto Giuseppe, la bottega in quel tempo era rimasta inope­rosa e Maria senza compagnia. In quella prima solitudine, più che mai, ella avrà ripensato a lui, alla sua nascita e alla sua preannun­ziata missione, intravedendo che questa stava per cominciare: e avrà fatto ciò, mentre doveva schermirsi dalle domande delle indi­screte donne del paese, o anche dai frizzi degli acrimoniosi parenti (§ 264), che avranno voluto sapere perché Gesù l'avesse la­sciata sola, e dove fosse andato, e a quale scopo, e quando sarebbe tornato. Adesso, a Cana, ella se lo rivedeva davanti, già chiamato Rabbi, considerato come un maestro e circondato da alcuni fervo­rosi discepoli: indubbiamente la previsione fatta nella sua solitudine stava per avverarsi. Ma, anche davanti al Rabbi, Maria rimase sem­pre madre, quale si era mostrata davanti al ragazzo dodicenne di­sputante nel Tempio. Da buona madre di famiglia Maria, durante quel pranzo di nozze, avrà sorvegliato insieme con le altre donne che tutto procedesse regolarmente, e le vivande e ogni cosa fossero pronte. Senonché sul finire del pranzo - o perché si erano fatti male i calcoli, o perché erano sopraggiunti convitati imprevisti - venne a mancare proprio il principale, il vino. Le massaie che amministravano ne furono costernate. Era il diso­nore per la famiglia che ospitava; i convitati non avrebbero rispar­miato proteste e schemi, e la festa sarebbe finita bruscamente e ignominiosamente, come quando a teatro in una scena decisiva viene a mancare la luce.

§ 283. Maria s'avvide subito della mancanza, e previde la vergogna degli ospitanti; tuttavia non ne fu costernata come le altre donne. Al suo spirito la presenza del suo figlio Rabbi diceva tante cose che non diceva agli altri; soprattutto ella ricollegava quella presenza con la previsione da lei fatta nella sua solitudine di Na­zareth. Non era forse giunta l'ora di lui? Dominata da questi pensieri Maria, fra lo smarrimento generale a mala pena dissimulato, dice sommessamente a Gesù: “Non han­no vino”. E dice a lei Gesu': “Che cosa (é) a me e a te, donna? Non ancora e' giunta l'ora mia” (Giov., 2, 3-4). Gesù pronunziò queste parole in aramaico, e secondo questa lingua esse vanno interpretate. In primo luogo donna era un appellativo di rispetto, circa come l'appellativo (ma) donna nel Trecento italiano. Un figlio chiamava ordinariamente madre la donna che lo aveva ge­nerato, ma in circostanze particolari poteva chiamarla per maggior riverenza donna. E donna chiamerà nuovamente Gesù sua madre dall'alto della croce (Giov., 19, 26); ma anche prima, secondo un aneddoto rabbinico, un mendicante giudeo aveva chiamato donna la moglie del grande Hillel, come Augusto aveva chiamato donna Cleopatra (Cassio Dione, LI, 12), e così in altri casi. Più tipica è l'altra espressione che cosa (e') a me e a te...?, è certamente traduzione della fra­se fondamentale ebraica mahlz wal (ak) che ricorre più volte nella Bibbia. Ora, il significato di questa frase era precisato nell'uso molto più dalle circostanze del discorso, dal tono della voce, del gesto, ecc., che dal semplice valore delle parole; tutte le lingue han­no di tali frasi idiomatiche in cui le parole sono rimaste un semplice pretesto per esprimere un pensiero, e che verbalmente non si possono tradurre in altra lingua. Nel caso nostro una parafrasi, che tenga qualche conto anche delle parole ebraiche, potrebb'esser que­sta: Che (motivo fa fare) a me e a te (questo discorso)?; il che, indipendentemente dalle parole, equivale all'espressione italiana: Per­ché mi fai questo discorso? Era insomma una frase ellittica con la quale si ricercava la recondita ragione per cui tra due persone av­veniva un discorso, un fatto, e simili. Con questa risposta Gesù declinava l'invito fattogli da Maria, e ne adduceva come ragione il fatto che ancora non era giunta l'ora sua. Dunque in quelle tre sole parole di Maria non hanno vino (seppure furono dette quelle tre sole) era nascosto l'invito a com­piere un miracolo, e la mira dell'invito era nettamente designata dalle circostanze esterne ma soprattutto dai pensieri interni e dal volto materno di colei che invitava. Gesù, che si rende ben conto di tutto, rifiuta, come già nel Tempio aveva rifiutato di subordi­nare la sua presenza nella casa del Padre celeste a quella nella sua famiglia terrena (§ 262): ancora non è giunta l'ora di dimostrare con miracoli l'autorità della propria missione, poiché il precursore Giovanni sta ancora svolgendo la sua. Tuttavia il dialogo fra Maria e Gesù non è finito; anzi le sue più importanti parole non furono mai pronunziate da labbro, ma solo trasmesse da sguardo a sguardo. Come già nel Tempio Gesù dopo il rifiuto aveva obbedito lasciando subito la casa del Padre celeste, così dopo questo nuovo rifiuto accede senz'altro all'invito di Maria. La madre, nel dialogo muto seguito al dialogo parlato viene assicurata che il figlio acconsente; perciò senza perder tempo si volge agli inservienti e dice loro: Fate tutto ciò che vi dirà!

§ 284. Nell'atrio di quella casa erano sei grandi pile destinate alle abluzioni delle mani e delle stoviglie prescritte dal giudaismo: per­ciò le pile erano di pietra, perché secondo i rabbini la pietra non contraeva impurità come la terracotta. Ed erano pile grandi, contenendo ciascuna due o tre volte la normale ”misura” giudaica, la quale si aggirava sui 39 litri; dunque, tutte insieme avevano una capacità di circa 600 litri. Naturalmente il pranzo era lungo, i con­vitati erano molti, e quindi tutta quell'acqua necessaria era stata in gran parte consumata e le pile erano quasi vuote. Gesù allora dette ordine di riempire totalmente le pile; gl'inservienti corsero al pozzo o alla cisterna vicina, e in pochi viaggi le pile fu­rono colme. Non c'era altro da fare; e dice a quelli: “Attingete adesso, e portate al direttore di mensa”. E quelli portarono (Giov., 2, 8). Tutto si era svolto in pochi minuti, anche prima che il direttore di mensa notasse lo smarrimento delle donne e s'avvedesse che non c'era più vino; la discretezza di Maria aveva impedito an­che il dilagar dello scandalo familiare. Quando il direttore di mensa si vide davanti una nuova specie di vino, e l'ebbe assaggiata com'era suo ufficio, rimase strabiliato, tan­to che dimenticò anche il sussiego della sua carica e parlò con la schiettezza del buon popolano. Avvicinatosi allo sposo, gli dice: Ogni uomo passa prima il vino buono, e quando sono brilli quello peg­giore; tu (invece) hai serbato il vino buono fin qui! (Giov., 2, 10). Le parole del direttore di mensa non alludono a qualche uso cor­rente, che non ci è attestato da nessun documento antico; vogliono esser piuttosto un complimento spiritoso, che fa notare quanto fosse inaspettata sul finire del pranzo quell'ambresia e in quella quan­tità. Ma, a quelle parole, lo sposo probabilmente guardò ben bene in faccia il direttore di mensa, domandandosi se proprio lui non fosse il più brillo di tutti: egli, lo sposo, non si era mai sognato di riserbare per la fine del pranzo quella sorpresa del vino miglio­re. Alcune poche interrogazioni rivolte agli inservienti e alle don­ne indirizzarono le ricerche su Maria e poi su Gesù, e tutto fu spiegato. Così questo primo miracolo, dice Giovanni, Gesù manifestò la sua gloria e credettero in luie i suoi discepoli. Ciò non meraviglia, se si pensa all'entusiasmo che già avevano per Gesù i suoi pochi disce­poli. Ma quale sarà stata l'impressione prodotta sui commensali dal miracolo? Dissipati i fumi del convito e dimenticato i1 sapore di quel misterioso vino, avranno essi ripensato al significato morale dell'avvenimento?
§ 285. Dopo la festicciuola e il miracolo Gesù si recò a Cafarnao, egli e la madre di lui e i fratelli e discepoli di lui, e colà rima­sero non molti giorni (Giovanni, 2, 12). Questa permanenza a Cafarnao fu breve, perché Gesù aveva deciso dì recarsi a Gerusalemme per l'imminente Pasqua; ma fin da allora Cafarnao servì a Gesù come abituale dimora in Galilea, divenendo sua patria adottiva invece di Nazareth. Dalla sua famiglia egli già si era staccato, e all'istituzione familiare aveva anche dedicato in omaggio il suo primo miracolo: adesso si staccava anche dall'umi­lissimo suo paese, trasferendosi in luogo più opportuno per la sua missione che cominciava. Cafarnao era sulla riva nord-occidentale del lago di Tiberiade non lontano dallo sbocco del Giordano nel lago. Situata a 13 chilometri a nord della città di Tiberiade e a circa 30 a oriente di Nazareth, era presso i confini fra il territorio di Erode Antipa e quello di Fi­lippo; perciò era fornita anche d'un ufficio di dogana, ed era luogo di transito. Sul lago aveva un piccolo porto conveniente per i pe­scatori. La vita religiosa vi doveva essere intensa e non molto di­sturbata dall'ellenismo insediato poco sopra; suo presidio ivi era, come sempre, l'edificio della sinagoga oggi fortunatamente conservato e ritornato alla luce, sebbene nella precisa forma in cui è stato ri­trovato sembri appartenere a tempi posteriori a quelli di Gesù. Il suo nome Kephar Nahum, “ villaggio di Nahum”, proveniva da un personaggio Nahum a noi ignoto; in tempi molto posteriori si venerò ivi la tomba di un rabbino Tanhum, il cui nome fu poi deformato in Teli Hum, che è l'odierno nome del luogo. A imitazione di Gesù, man mano verranno a stabilirsi a Cafarnao anche i suoi primi discepoli oriundi della vicina Bethsaida, quali Simone Pietro e Andrea. Quanto a Simone Pietro, è probabile che già avesse a Cafarnao legami di parentela; se egli, genero generoso, alberga ivi in casa sua la propria suocera (§ 300), non è arrischiato supporre che la moglie di lui fosse appunto di Cafarnao. Più tardi poi, per designare Cafarnao, si finirà per chiamarla senz'altro la città propria di Gesù (Matteo, 9, 1), sebbene lo stesso documento poco appresso designi Nazareth ancora come la patria di lui (Matteo, 13, 54).

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06/08/2012 17:32



DALLA PRIMA PASQUA FINO ALLA SECONDA

I mercanti del Tempio


§ 286. Dal battesimo di Gesù erano trascorsi pochi mesi: ormai era vicina la Pasqua del nuovo anno che, secondo le nostre prefe­renze giustificate a suo luogo (§ 176), era l'anno 28 dell'Era Volga­re. Per questa Pasqua Gesù aveva deciso di compiere il pellegrinag­gio (§ 74), perciò partì da Cafarnao alla volta di Gerusalemme. Giunto nella capitale e recatosi al Tempio, egli si trovò davanti alla solita scena che avveniva colà più che mai in occasione delle grandi feste. L'atrio esterno del Tempio era diventato una stalla appestata dal fetore del letame, e risonava del muggito dei bovi, del belato delle pecore, del pigolar dei colombi, e soprattutto delle alte grida dei mercanti e dei cambiavalute istallatisi per ogni dove (§ 48); da quell'atrio si poteva solo remotamente udire una debole eco dei canti liturgici che s'innalzavano al di dentro e intravedere un debole chiarore della lontana luminaria sacra.
Altri segni religiosi non ap­parivano in quel vasto recinto, che si sarebbe detto una fiera di bestiame e un convegno di truffatori, piuttosto che l'anticamera della casa ove abitava l'immateriale Dio d'Israele. Gesù era stato certamente testimone di tale scena altre volte nei suoi precedenti pellegrinaggi a Gerusalemme, ma allora la sua vita pubblica non era ancora cominciata; adesso invece la sua missione doveva svolgersi in pieno, ed egli doveva agire come avente autorità (Matteo, 7, 29; Marco, 1, 22) anche per dimostrare la sua missione. Riunite perciò delle corde a mazzo, si dette a percuotere bestie e uomini, rovesciò tavoli di cambiavalute, sparpagliò a terra muc­chietti di monete, scacciò via tutti liberando il sacro recinto: Fuori di qua! Non fate la casa del Padre mio casa di traffico! (Giov., 2, 16). - Non sta scritto “La casa mia casa di preghiera sarà chiamata per tutte le genti”? (Isaia, 56, 7). Voi invece l'avete ridotta a spe­lonca di ladroni (Marco, 11, 17). Già sei secoli prima il profeta Geremia aveva visto il Tempio ri­dotto a spelonca di ladroni (Ger., 7, 11); ma i sacerdoti e i magi­strati sacri contemporanei a Gesù dovevano pensare che la voce di Geremia era troppo lontana, mentre troppo vicino era il vantaggio che l'amministrazione del Tempio ricavava da tutto quel mercan­teggiare perché fosse conveniente farlo cessare. E Gesù lo fece ces­sare a suon di flagelli.

§ 287. In teoria non c'era nulla da eccepire, come ben vedevano gli stessi Farisei; ma in pratica si poteva sempre domandare a Gesù perché aveva compiuto egli personalmente quell'atto di autorità, e non aveva invece invitato a compierlo i magistrati che avevano la direzione del Tempio. Chi aveva dato a lui l'autorità di far ciò? Anzi, più ampiamente, perché mai egli piovuto giù dalla Galilea aveva preso, come appariva dalle sue prime azioni, un atteggiamento del tutto indipendente dalle autorità costituite e molto simile a quello di Giovanni il Battista? Gli si avvicinarono pertanto alcuni Giudei, certamente insigni, e gli dissero: “Quale segno ci mostri che fai ciò (legittimamente)?“. Rispose Gesu' e disse loro: “Demolite questo santuario, e in tre gior­ni lo farò sorgere!”. Dissero pertanto i Giudei: “In quarantasei anni fu costruito questo santuario, e tu in tre giorni lo farai sor­gere?”. Già vedemmo che questa risposta dei Giudei contiene un'indicazione molto importante per stabilire la cronologia della vita di Gesù (§ 176); ma la stessa risposta mostra anche che quegli inter­locutori non avevano capito a che cosa alludesse Gesù, e con essi certamente anche l'evangelista testimonio che narra questo fatto.
I Giudei avevano chiesto un segno ossia un miracolo: ciò era troppo, perché l'azione di Gesù si giustilicava da se stessa, tanto più che i magistrati del Tempio avevano trascurato d'intervenire per far cessare quella profanazione come sarebbe stato loro dovere. Ad ogni modo, essendo stata chiamata in causa la missione di Gesù, egli ne offre una prova vera e reale ma che sarà compresa soltanto dopo molti mesi, mentre al presente non appagherà affatto la cu­riosità maligna degli interroganti. Il santuario a cui alludono le parole di Gesù è il suo stesso corpo; quando i Giudei avranno disfatto quel santuario vivente, egli lo farà sorgere di nuovo entro tre giorni. Pronunziando queste parole, può darsi che Gesù abbia anche accennato a se stesso con un gesto; comunque fosse, tutti gli ascoltatori pur non comprendendo la ri­sposta se ne ricordarono più tardi, i Giudei per accusare Gesù (§ 565), i suoi discepoli per credere in lui riconoscendo nella sua resurrezione il segno offerto agli interroganti (Giov., 2, 22). Sebbene i maligni non fossero stati appagati da Gesù nella loro richiesta del segno, tuttavia già in quella sua prima permanenza pasquale in Gerusalemme, molti credettero nel nome di lui, vedendo i segni di lui che faceva (Giov., 2. 23). Ma più che fede di cuore, era fede di cervello, mentre Gesù cercava assai più quella che questa; perciò anche non affidava se stesso a loro, perché egli conosceva tutti (Giov., 2,24), mentre agli incolti ma generosi discepoli della Galilea egli si era affidato. Ad ogni modo anche La fede di cervello è preparazione ed invito a quella di cuore, e appunto qui l’evangelista “spirituale” fa assistere ad un colloquio tra uno che aveva già fede di cervello e Gesù che invece lo solleva in tutt’altra sfera: pare di assistere ad una scena di un pulcino sollevato sopra le nubi dell’aquila, ed è scena prediletta dell’evangelista “spirituale” che la riprodurrà in altre occasioni. (§ 294).


[SM=g27998] Nicodemo

§ 288. C’era allora in gerusalemme un insigne Fariseo e “maestro” della Legge, uomo onesto e di rette intenzioni; ma era anche membro del Sinedrio, e questa sua condizione sociale imponeva evidentemente molta cautela e prudenza alla sua condotta pubblica. Si chiamava Nicodemo: il nome ritorna negli sritti rabbinici, ma è ben difficile che designi la stessa persona di qui. A vedere i segni fattio da Gesù, egli rimane scosso; forse era stato dei pochi Farisei che avevano riconosciuto la missione del precursore Giovanni accettandone il Battesimo. D’altra parte la sua condizione sociale, e più ancora la sua formazione intellettuale farisaica, gli consigliavano oculato riserbo di fronte all’ignoto traumaturgo. Fra questo ansioso contrasto egli prende una via di mezzo, e si reca a visitare Gesù di notte: alla penombra d'una lucerna si ragiona con più raccoglimento, e soprattutto non si è facilmente riconosciuti da estranei. Il colloquio fu lungo e forse si protrasse per tutta la notte, ma l'evangelista “spirituale” ne riferisce solo i punti più salienti che meglio rispondevano agli scopi del suo vangelo “spirituale”. Co­minciò Nicodemo, e riferendosi a ciò che l'aveva scosso intimamente disse a Gesù: Rabbi, sappiamo che da Dio sei venuto (quale) “mae­stro”, poiché nessuno può fare questi “segni” che tu fai se non sia Iddio con lui.

L'onesto Fariseo riconosceva che la missione di Gesù non era uma­na, ma proveniva da una sfera più alta cioè divina. Gesù gli ri­spose ricollegandosi a questa allusione: In verità, in verità ti dico, se alcuno non sia nato dall'alto, non può vedere il regno d'Iddio. Nicodemo era troppo intelligente per interpretare queste parole in senso materiale: anche i suoi colleghi rabbini parlavano di rinascita in senso spirituale applicandola specialmente a chi si riavvi­cinava al Dio d'Israele o dall'empietà o dal paganesimo, e altret­tanto faceva con diverso impiego Filone in Alessandria. Ma a Ni­codemo sfuggiva appunto il senso racchiuso nelle parole di Gesù, e quindi per provocarne la spiegazione s'atteggia a ottuso di mente: Come può nascere un uomo che sia vecchio? Può forse entrare nel ventre di sua madre una seconda volta e (ri)nascere? Senonché il finto ottuso è più acuto di quanto sembri: egli s'impanca a giudice della dottrina che Gesù sta per esporgli, ma Gesù gli risponde in modo da ricondurlo alla sua condizione di ignaro apprendista; non si può “vedere il regno d'Iddio” se non si è già entrati in esso, e l'entrarvi non è effetto d'industrie umane: In verità, in verità ti dico, se alcuno non sia nato da acqua e (da) Spirito, non può en­trare nel regno d'Iddio. Ciò ch'e' nato dalla carne, e' carne; e ciò ch'e' nato dallo Spirito, e' spirito. In ebraico spirito significava anche soffio (di vento); Gesù prende occasione del doppio significato per sog­giungere un esempio materiale: Non ti meravigliare perché ti dissi “Bisogna che voi nasciate dall'alto”; (anche) il soffio (di vento) dove vuole soffia e il rumore di esso (tu) ascolti, ma non sai donde e dove va. Casì è (di) chiunque e' nato dallo Spinto. Benché incon­tenibile ed invisibile il soffio del vento è reale nel campo fisico; così nel campo morale, l'azione dello Spirito divino non è moderabile da argomenti umani né è scrutabile nella sua essenza, ma ben si manifesta nei suoi risultati. Questo Spirito fa nascere ad una vita nuova invisibile, in maniera tale che ricorda come la prima vita visibile del cosmo si sprigionasse dalla materia bruta e insieme dal soffio di Dio che si librava sulle acque del caos (Genesi, 1, 2). L'allusione al battesimo di Giovanni è chiara, e forse nel colloquio fra i due se ne parlò esplicitamente se anche Nicodemo aveva rice­vuto quel rito; ad ogni modo la vita nuova qui annunziata da Gesù come data dallo Spirito e dall'acqua non è prodotta dal rito di Giovanni, ch'era soltanto di acqua e prefigurativo, bensì dal rito adempitivo amministrato in acqua e Spirito santo: questo secondo era il battesimo di Gesù, a testimonianza dello stesso precursoie Gio­vanni (Matteo, 3, 11 e paralleli; Giovanni, 1, 33).

§ 289. Il paragone fra l'azione dello Spirito e quella del vento ha trasportato Nicodemo in un mondo a lui ignoto, in cui il Fariseo si sente sperduto. Cessa allora d'atteggiarsi a finto ottuso, ma ancora non si vuol riconoscere ignaro apprendista, e con sincerità non pri­va d'una certa sfiducia esclama: Come può avvenire ciò? La replica di Gesù s'inizia con una spontanea riflessione sull'ufficio di Nicodemo: Ma come? Tu sei il «maestro» d'Israele, e non sai queste cose? E che cosa insegni, se non tratti dell'azione dello Spi­rito sugli spiriti? - Dopo questo inizio il discorso di Gesù si dovette prolungare assai, non senza interruzioni e repliche da parte di Ni­codemo. L'evangelista tralascia totalmente le parole del Fariseo, e delle sentenze di Gesù fa soltanto una silloge; ma non è arrischiato riconoscere in questa silloge talune repliche ad osservazioni di Nicodemo (come là ove si accenna al serpente del deserto) o anche talune metafore tratte dalle circostanze del colloquio che si svolgeva al lume d'una lucerna (come là ove si accenna a luce e a tenebra). Ecco la silloge: In verità, in verità ti dico, che di ciò che sappiamo parliamo, e ciò che abbiamo veduto testimoniamo: e la testimonianza nostra non ricevete. Se le cose terrestri vi dissi e non credete, come crederete se io vi dica le celestiali? E(ppure) nessuno e' salito nel cielo se non il disceso dal cielo, il figlio dell'uomo.' E come Mose' innalzò il serpente nel deserto (cfr. Numeri, 21, 8-9), cosi bisogna che sia innalzato il figlio dell'uomo affinché ogni cre­dente in lui abbia vita eterna.'

Cosi invero amò Iddio il mondo, che dette il Figlio, l'unigenito, af­finché ogni credente in lui non perisca ma abbia vita eterna. Non inviò infatti Iddio il Figlio nel mondo per giudicare (a con­danna) il mondo, bensì affinché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Il credente in lui non e' giudicato (a condanna): il non credente già e' stato giudicato (a condanna), perché non ha creduto nel nome dell'unigenito Figlio d'Iddio. Questo poi e' il (motivo del) giudizio (di condanna): che la luce è venuta nel mondo, ed amarono gli uomini piuttosto la tenebra che la luce; di essi infatti erano malvage le azioni. Ognuno invero che opera male, odia la luce e non viene verso la luce; chi invece fa la verità viene verso la luce, affinché siano mani­festate le sue azioni (e si veda) che sono state fatte in Dio (Giov., 3, 11-21).

§ 290. In quale stato d'animo avrà ascoltato Nicodemo queste sen­tenze? Probabilmente in uno stato simile a quello di Agostino nel periodo delle sue titubanze, quando leggendo le Lettere di Paolo gli sembrava di sentire come un profumo di vivande squisite, che tuttavia non riusciva ancora a mangiare, quasi olfacta desideran­tem, qua' comedere nondum posset. Del resto alcune sentenze, se non furono schiarite da Gesù con spiegazioni omesse dall'evangelista, non potevano essere ben comprese da Nicodemo: tale l'allusione alla crocifissione, prefigurata nel ser­pente nel deserto. A ogni modo Gesù, come già aveva fatto con i Giudei del Tempio dopo la cacciata dei mercanti (§ 287), non parlava per Nicodemo soltanto. Se il Fariseo andò a lui di notte, non è detto che lo trovasse assolutamente solo; in un angolo semi-buio di quella stanza è ben lecito intravedere gli occhi intenti di un adolescente che segua con ansia il dialogo e stampi quelle parole nella sua vigile memoria: è il discepolo prediletto, colui che vecchissimo sarà il narratore dell'episodio.
Nonostante il colloquio, Nicodemo più tardi non fu vero discepolo di Gesù, quasi a dimostrar esatte le parole allora udite che il soffio di Dio soffia dove vuole. Tuttavia a Gesù egli rimase benevolo fin dopo la crocifissione: nel Sinedrio oserà spendere una parola in favore di Gesù (Giov., 7, 50-51), e anche più spenderà material­mente per acquistare cento libbre d'aromi onde curare la salma di lui (Giov., 19, 39). Non era un generoso di animo, ma era almeno un generoso di borsa; se non fu un Pietro, non fu neppure un Giuda.


[SM=g27998] Il tramonto di Giovanni

§ 291. Nel colloquio con Nicodemo era stato accennato al battesimo in acqua e Spirito, che non era certamente quello di Giovanni. Nel frattempo Giovanni continuava ad amministrare il suo rito, e a tale scopo si era recato ad Amon presso Salim (§ 269). Dopo il colloquio con Nicodemo, Gesù rimase ancora qualche tem­po in Giudea, ma sembra che si allontanasse alquanto dalla malfida capitale recandosi più a settentrione: l'aperta campagna offriva più libertà d'azione a lui e a chi voleva ricorrere a lui, lontano dalla sospettosa sorveglianza dei maggiorenti sacri e dei Farisei. Cer­tamente il luogo ove egli s'intratteneva era ben provvisto d'acqua, forse un'insenatura del Giordano, perché troviamo inaspettatamente che anche i discepoli di Gesù amministrano un rito battesimale come quello di Giovanni. Era questo il battesimo in acqua e Spirito a cui si era accennato nel colloquio con Nicodemo? No, quasi certamente. Il IV vangelo, infatti, fa espressamente rilevare che non Gesù personalmente am­ministrava questo battesimo, bensì i suoi discepoli (Giov., 4, 2); del resto lo Spirito non era stato ancora dato (Giov., 7, 39; 16, 7), nè i discepoli di Gesù erano stati ancora edotti sulla Trinità divina e sulla morte redentrice del Cristo, che saranno elementi essenziali del futuro battesimo in acqua e Spirito (Matteo, 28, 19; Romani, 6, 3 segg.).
Era dunque anch'esso un rito puramente prefigurativo e sim­bolico, analogo a quello di Giovanni; perciò Giovanni continuò ad amministrare il suo, anche quando i discepoli di Gesù battezzavano, mentre avrebbe dovuto cessare se avessero battezzato in acqua e Spirito. Tuttavia avvenne un dissenso. Un giorno fra i discepoli di Gio­vanni ed un Giudeo' sorse una disputa a proposito di purificazio­ne; forse il Giudeo, dei dintorni di Gerusalemme e non Galileo, stimava più purificativo perché più peregrino il rito amministrato dai discepoli del Rabbi galileo, e quindi lo preferiva a quello di Gio­vanni. Amareggiati, i discepoli di costui ricorsero al loro maestro e gli riferirono la presunta rivalità di Gesù: Rabbi, quello ch'era in­sieme con te di là dal Giordano, al quale tu hai reso testimonian­za - guarda! - costui battezza e tutti vengono a lui! I focosi discepoli forse s'aspettavano che Giovanni inveisse ingelo­sito, e invece l'udirono rallegrarsi consolato: Non può un uomo ac­quistar nulla, se non gli sia dato dal cielo. Voi stessi mi rendete testimonianza che dissi:”Non sono io il Cristo (Messia), ma sono stato inviato avanti a lui” (§ 269). Chi ha la sposa e sposo: ma l'amico dello sposo, che sta (presente) e l'ascolta, gioisce di gioia per la voce dello sposo. Questa mia gioia, dunque, e' compiuta. Bi­sogna che egli cresca, e io invece diminuisca (Giov., 3, 27-30). Frequentissimo negli scritti poetici dell'Antico Testamento era stato l'uso di presentare il Dio Jahvè come lo sposo della nazione d'I­sraele.
Qui, per Giovanni, lo sposo è il Messia Gesù, e in queste mi­stiche nozze egli, come precursore, ha l'ufficio di “amico dello spo­so” (§ 281). Ma lo sposo è già alla porta, ed egli ne ha udito la voce; gioire quindi bisogna, non già attristarsi e ingelosire! Lo splen­dore lunare diminuisce e si perde man mano che quello solare s'ac­cresce: e cosi bisogna ch'e gli cresca e io invece diminuisca.
§ 292. Fu l'ultima testimonianza di Giovanni. Qualche settimana dopo, probabilmente nel maggio, l'austero censore dello scandalo di corte finiva imprigionato a Macheronte (§ 17). E’ difficile che i Farisei fossero del tutto estranei a questo imprigio­namento, e non vi avessero una parte occulta e indiretta. I Sinot­tici attribuiscono l'imprigionamento alla riprovazione dello scandalo, Flavio Giuseppe alla malvista popolarità di Giovanni, ma ambedue i motivi sono giusti e si assommano insieme benissimo; tuttavia il IV vangelo ci fa intravedere anche un terzo motivo: Udirono i Fa­risei che Gesu' fa discepoli e battezza piu' che Giovanni (Giov., 4, 1), e allora Gesù abbandona la Giudea e fa ritorno in Galilea. Cosic­ché Gesù teme che la sua popolarità, maggiore di quella di Gio­vanni, lo esponga alle gelose insidie dei Farisei; per questo motivo s'allontana. Era dunque Giovanni già caduto in quelle insidie? Nessuno ce lo dice espressamente, ma in equivalenza i Sinottici ci comunicano che Gesù si allontanò dalla Giudea appena si riseppe dell'imprigionamento di Giovanni.

Questa, dunque, fu l'insidia in cui era caduto Giovanni per colpa dei Farisei, oltreché per il suo merito d'aver censurato lo scandalo di corte. I Farisei, volendo di­sfarsi dal fastidioso e vigilato riformatore, astutamente si sarebbero serviti del rancore che la corte di Erode Antipa aveva contro di lui, aizzando il tetrarca ad imprigionare l'austero censore dello scan­dalo e il popolare dominatore di turbe. Se Giovanni si tratteneva ancora ad Amon presso Salim, non era sul territorio del tetrarca Antipa, ma su quello della città libera di Scitopoli che faceva parte della Decapoli (§ 4), e quindi non po­teva essere arrestato colà dal tetrarca. Ma Scitopoli s'incuneava fra i due tronconi del territorio di Antipa, la Galilea e la Perea; fu dunque facile attirare Giovanni sul territorio di Antipa con qual­che pretesto presentato abilmente da compiacenti mediatori. Più tardi i Farisei tenteranno una mediazione inversa, perché fingen­dosi protettori di Gesù vorranno che egli si allontani spontanea­mente dal territorio di Antipa: probabilmente anche questa nuo­va mediazione fu sollecitata dallo stesso Antipa, il quale perciò in questa occasione fu chiamato volpe da Gesù (Luca, 13, 31-32) (§ 463). Nelle oscure segrete di Macheronte, Giovanni langui molti mesi in estenuante attesa.

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06/08/2012 17:34


[SM=g27998] La Samaritana

§ 293. Per tornare in Galilea Gesù scelse la strada che correva lun­go il mezzo della Palestina, e perciò attraversava la Samaria; avreb­be potuto evitare questo passaggio se avesse seguito l'altra strada più a oriente che risaliva lungo il Giordano, ma la prima era più frequentata dai Galilei per il viaggio di Gerusalemme come ci atte­sta Flavio Giuseppe (cfr. Antichità giud., xx, 118; Vita, 269). Seguendo la strada scelta da Gesù, ad un certo punto s'entrava in una stretta valle, formata al nord dal monte Hebal e al sud dal monte Garizim: è la valle dove sta oggi la cittadina di Nabulus, fondata nel 72 d. Cr. sotto Vespasiano e Tito, e chiamata ufficiaimente Flavia Neapolis (donde Nabulus) ma usualmente Mabortha (cioè “passaggio”, attraversata”) a causa della sua situazione geo­grafica (cfr. Guerra giud., IV, 449). Poco prima di entrare nella valle da oriente, si trovava un luogo celebre nella storia dei patriarchi ebrei (Genesi, 12, 6; 33, 18; 48, 22) ove stava il “pozzo di Giacobbe” tuttora superstite. Inoltrandosi ancora poche centinaia di metri nella valle si raggiungeva sulla destra l'antichissima città di Sichem, esistente già verso il 2000 av. Cr. ma che ai tempi di Gesù era in piena decadenza e scarsamente abitata: presso le sue rovine, recen­temente investigate dagli archeologi, sorge il villaggio di Balata. Ad oriente di Balata-Sichem è situata la cosiddetta “tomba di Giuseppe”, l'antico patriarca ebreo, e circa un chilometro e mezzo più in là verso nord-est si raggiunge il villaggio di Askar. Questo, lo sfondo geografico a cui si riporta la narrazione evange­lica; essa presuppone anche la tradizionale avversione fra i Sama­ritani abitanti di quel luogo e i Giudei in genere, alla quale già accennammo in precedenza (§ 4).
Partito dunque dalla Giudea, Ge­sù giunge nella città della Samaria chiamata Sychar, presso il luogo che Giacobbe dette a Giuseppe suo figlio: era poi colà la fonte di Giacobbe. Gesu' pertanto, straccato dal cammino, si sedette così presso la fonte. Era circa l'ora sesta (Giovanni, 4, 5-6). Queste mi­nuziose indicazioni di luogo pienamente confermate dai più recenti scavi, queste esatte indicazioni del tempo e delle altre particolarità dell'episodio, sono quanto si può immaginare di più alieno da un'in­venzione puramente fantastica e d'indole simbolica: con tutto ciò le esigenze di teorie preconcette hanno indotto alcuni studiosi mo­derni a giudicare la narrazione una mera allegoria, scritta da un mistico dell'Asia Minore che forse non aveva mai visitato la Pa­lestina. Senonché mai le teorie filosofiche prevarranno sulla realtà dei fatti, e sempre basterà rileggere spassionatamente la narrazione evangelica per ritornare alla vecchia conclusione del non sospetto Renan: Soltanto un Giudeo della Palestina ch'era passato spesso per l'entrata della valle di Sichem, ha potuto scrivere queste cose.

§ 294. E’ dunque verso il mezzogiorno (ora sesta), probabilmente di maggio (§ 177, nota). Gesù stanco e sudato si riposa presso il poz­zo: è solo, perché i discepoli sono andati nella città attigua a com­prar da mangiare. Dalla città di Sychar una donna Samaritana viene verso il pozzo per àttinger acqua.' Gesù le dice: Dammi da bere. La donna gli risponde con altezzosità: Come? Tu che sei Giudeo chiedi da bere a me che sono donna Samaritana? Veramente Gesù era Galileo, ma la donna indovinando che egli tornava dalla visita al Tempio di Gerusalemme lo ritiene giustamente per un seguace della reli­gione giudaica; ella, perciò, vuoi far risaltare l'umiliazione di un uomo e di un Giudeo che spinto dal bisogno si rivolge per aiuto a una donna e a una Samaritana. Gesù replica: Se sapessi il dono d'Iddio e chi e' che ti dice “Dammi da bere”, tu l'avresti pregato e ti avrebbe dato un'acqua viva. L'aquila ha già ghermito un nuovo pulcino e comincia a sollevano in alto (§ 278). Come già Nicodemo, la donna comprende che in quelle parole c'è un pensiero recondito che le sfugge; ad ogni modo si attiene ancora al loro senso materiale, pur cominciando ad usare una certa deferenza per lo sconosciuto: Signore, gli dice, non hai alcun oggetto per attingere e il pozzo e' profondo; donde hai dunque l'acqua viva? L'osservazione era giusta: il pozzo oggi è profondo 32 metri cioè uno dei più profondi di tutta la Palestina, sebbene ai tempi di Gesù potesse avere una misura alquanto minore. L'osser­vazione poi s'integrava con una considerazione storica: Sei tu forse maggiore del nostro padre Giacobbe, che dette a noi il pozzo, e da esso bevve egli stesso e i suoi figli e i suoi greggi? Il pulcino guarda ancora al suolo da cui è stato ghermito, e im­magina di stare ancora a raspare là in basso. Ma Gesù risponde: Chiunque beva di quest'acqua avrà sete di nuovo; ma colui che beva dell'acqua che io gli darò non avrà sete in eterno, bensi l'ac­qua che io gli darò diventerà in lui fonte d'acqua zampillante in vita eterna. La donna rimane ancora terra terra: Signore, dammi co­test'acqua, affinché (io) non abbia sete né venga qua ad attingere. Per far comprendere al pulcino che si trovava già sopra le nuvole, era necessario ampliare l'argomento del dialogo, offrendo nello stes­so tempo un “segno”. Perciò Gesù dice alla donna: Va', chiama il tuo marito, e vieni qua! In ebraico e in aramaico, come oggi nel contado toscano, “marito” si diceva “uomo”, e così disse certamente anche Gesù: Va', chiama il tuo uomo, ecc.
Su questo ter­mine equivoco giuoca la donna, che risponde impavida: Non ho uomo. Gesù schiva l'equivoco, approvando la risposta della donna nel suo significato peggiore: Giustamente dicesti “Non ho uomo”; cinque uomini infatti avesti, e quello che hai adesso non è (il) tuo uomo. Ciò che hai detto è vero. L'”uomo” di quei giorni non era dunque “marito” e molto probabilmente non erano stati tali anche altri fra i cinque uomini precedenti: due o tre di essi avran­no potuto o ripudiare la donna o anche esser morti, ma nelle cm­que unioni ve n erano state certo di illegittime com'era la sesta di allora. In conclusione, quanto a castigatezza di costumi quella Sa­maritana non era un modello.

§ 295. Il “segno” offerto da Gesù produce buon effetto. La donna, vedendo scoperti i suoi segreti, esclama: Signore, vedo che tu sei profeta! Ma questa stessa scoperta e questa esclamazione riconosco­no la superiorità di colui che appartiene agli odiati Giudei; quindi sulla causa di questo odio si svolge adesso il discorso, anche per evi­tare lo scottante argomento dei segreti scoperti: I padri nostri in questo monte adorano (Iddio), e voi dite che in Gerusalemme e' il luogo ove bisogna adorare. Il monte Garizira si erge sulle teste dei due interlocutori; ma da Gerusalemme torna l'ignoto Giudeo, certamente dopo aver laggiù adorato Iddio nel Tempio di Jahvè. Che cosa dunque pensa egli, che è profeta, di questa secolare questione fra Samaritani e Giudei? Alla domanda della donna Gesù attribuisce un valore quasi soltan­to storico, come di questione ormai inutile: ad ogni modo, pur sotto l'aspetto storico, Gesù parla da Giudeo e dà ragione ai Giudei con­tro i Samaritani; ma subito dopo, lasciato il passato, egli si trasfe­risce al presente in cui le vecchie odiose rivalità non hanno più ra­gione di essere: Credimi, donna, che viene l'ora quando né in que­sto monte né in Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate ciò che non sapete; noi adoriamo ciò che sappiamo, perché la salvezza è dai Giudei. Ma viene l'ora ed e' adesso - quando i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità. E, infatti, il Padre tali ricerca gli adoratori suoi Spirito e' Iddio, e gli adoratori suoi in spirito e verità bisogna che adorino. Il profeta ha dato la sua risposta: d'ora innanzi il culto di Dio non sarà legato né al monte Garizim né al colle di Gerusalemme né ad alcun altro luogo della terra, bensì alle sole condizioni di esser fatto in spirito e verità.

Parole rivoluzionarie e scandalose, queste, per un Fariseo che fosse stato lì ad ascoltare: non però del tutto nuove nella stessa tradizione d'Israele. Il novissimo profeta che le aveva pronunziate passava sopra alla “tradizione” farisaica e si riconnetteva con la tradizione an­teriore e genuina dei profeti: già sei secoli prima il profeta Geremia aveva proclamato che il Tempio di Jahvè in Gerusalemme non ser­viva a nulla se frequentato da adoratori indegni (Ger., 7, 4 segg.), e aveva anche preannunziato che ai tempi del Messia la stessa san­tissima Arca dell'alleanza non sarebbe più stata venerata da alcuno (Ger., 3, 16) perché tutti porterebbero la nuova alleanza e la legge di Dio scritta nei loro cuori e nei loro spiriti (Ger., 31, 33).

§ 296. A questo punto la donna s'avvede di ritrovarsi in una sfera sconosciuta. Nè Garizim né Gerusalemme, ma spirito e verità! Che mondo è questo? Certo non è il mondo piccino e pettegolo su cui stanno a battagliare Samaritani e Giudei; se i grandi dottori di Gerusalemme hanno praticamente dimenticato le predizioni di Geremia, tanto più può ignorarle una donnicciuola samaritana, che perciò si smarrisce in quel mondo predetto dall'antico profeta. Ella tuttavia intuisce che si tratta di visioni future, da contemplare attuate soltanto nei beati giorni del Messia; perciò nel suo smarrimento si rifugia col pensiero a quei giorni, e pur non osando contraddire l'ignoto profeta che le sta davanti esclama a guisa di consolazione. So che Messia verrà; quando sia giunto quello, ci annunzierà ogni cosa. Gesù le rispon­de Sono io, che ti parlo! I Samaritani infatti aspettavano il Messia, e ancora oggi l'aspettano i loro pochi discendenti. E chiamato da essi Taheb (Shaheb), “Colui che viene” o “Colui che farà rivenire (al bene)”; è immaginato come un riformatore simile a Mosè, che risolverà tutti i dubbi, com­porrà tutte le divergenze e ristabilirà per mille anni dopo la sua morte un regno beato.
L'interlocutrice di Gesù lo chiama qui Mes­sia, senza articolo, certamente perché l'appellativo valeva come no­me proprio. Ora, proprio a questa donna non giudea e di razza ostile ai Giudei, Gesù rivela di essere il Messia, mentre più tardi comanderà ai suoi stessi discepoli di non palesare questa sua qualità (Matteo, 16, 20). Ma appunto nell'ostilità dei Samaritani sta il segreto di questa pre­ferenza: presso di loro era ben difficile che a quell'annunzio si susci­tasse un movimento di entusiasmo politico, il quale invece era pro­babilissimo presso i Giudei, mentre Gesù voleva evitarlo ad ogni costo. Se Giovanni ha dato questa notizia taciuta dai Sinottici, si può vedere anche in tale aggiunta il suo proposito di supplire al­meno in parte alle narrazioni di quelli.

§ 297. Mentre Gesù sta scambiando le ultime parole con la Samari­tana, i discepoli gli si avvicinano ritornando dalla città con i cibi comprati. Quando poi la donna ode da Gesù la dichiarazione ch'egli è il Messia, totalmente smarrita non ardisce replicare, bensì lascia la sua anfora al pozzo, corre alla città e a quanti incontra esclama: Venite! Vedete un uomo che mi disse tutte le cose che ho fatte! E’ costui forse il Cristo? I discepoli alla loro volta non ardiscono domandare a Gesù la ragio­ne di quel dialogo insolito, pur essendone meravigliati, giacché i rabbini di allora schivavano di parlare in pubblico con donne e per­sino con le proprie mogli. Gli sconcertati discepoli vengono presso al maestro soltanto dopo che la donna improvvisamente è fuggita in direzione della città. Rabbi, mangia! gli dicono essi, offrendogli i cibi comprati. Gesù in risposta continua con essi la metafora dell'acqua spirituale impiega­ta con la donna: egli si nutre soprattutto di un cibo spirituale, che è fare la volontà di chi lo ha inviato a compiere la sua opera. Egli è l'agricoltore di una messe spirituale. In Palestina alla fine di di­cembre, cioè terminati i lavori di semina, con un senso di sollievo si esclamava a guisa di proverbio “C'e' ancora un quadrimestre, e verrà la messe”, giacché i nuovi lavori di mietitura non cadevano che in aprile e maggio, cioè dopo un quadrimestre di riposo. Ma Gesù fa riscontrare ai discepoli che questo proverbio non ha valore per la sua messe spirituale essa è già matura e pronta, né può sopportare indugi; perciò pure i mietitori siano pronti, anche se non ebbero il merito di aver essi seminato nel passato. Mentre Gesù pro­nunzia queste parole, le messi quasi mature al periodo pasquale (§ 117, nota) ondeggiano al sole lungo l'ampia pianura di el-Makhneh, che si stende ai suoi piedi verso il Giordano. Della messe spirituale furono raccolti subito alcuni manipoli. Alla garrula loquacità della donna, uscirono dalle case molti Samaritani, e si recarono al pozzo a vedere il profeta giudeo. Dovettero rimaner soggiogati fin dalle sue prime parole, perché l'invitarono a rimaner qualche tempo presso di loro; eppure erano Samaritani, cioè coloro che ordinariamente preferivano bastonare a sangue o addirittura ammazzare i Giudei di passaggio sulle loro terre (cfr. Guerra giud., li, 232; Antichità giud., xx, 118), e che più tardi negheranno ospita­lità agli stessi discepoli dì Gesù (Luca, 8, 52-53).

Questa volta, o almeno questi Samaritani di Sychar, furono cortesi, certamente per­ché mansuefatti dalla virtù personale del profeta. Gesù accettò l'in­vito e rimase colà due giorni; e in molto maggior numero credettero per la parola di lui; alla donna poi dicevano: Non per la tua loquela crediamo! Noi stessi infatti abbiamo udito, e sappiamo che costui e veramente il salvatore del mondo (Giovanni, 4, 40-42).

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06/08/2012 17:35


Ritorno e prima operosità in Galilea

§ 298. Passati due giorni con i Samaritani di Sychar, Gesù rientrò in Galilea. La ragione di questo ritorno è comunicata da Giovanni (4, 44) con le seguenti parole: Gesu' stesso, infatti, attestò che un profeta nella propria patria non ha onore. Qual è la patria a cui al­lude qui Giovanni? I Sinottici attribuiscono la stessa sentenza a Gesù ma in un occasione posteriore, quando cioè egli sarà scacciato in malo modo da Nazareth (Luca, 4, 16-30, e paralleli), e allora si com­prende subito che la patria è Nazareth. In Giovanni ciò non è al­trettanto chiaro, ma non per questo è da pensare che egli alluda alla Giudea da cui si allontanava per gl'intrighi dei Farisei (§ 292). Si dica piuttosto che Giovanni, presupponendo già noti i Sinottici (§165) e la sentenza di Gesù da essi riportata, la anticipi qui all'mi­zio della sua operosità in Galilea quasi per preammonire del mesto risultato di essa. Tuttavia, a principio, i Galilei accolsero Gesù con gioia: parecchi di essi erano stati testimoni delle opere straordinarie fatte da Gesù in Giudea, e al loro ritorno ne avevano parlato in Galilea suscitando fierezza fra i compatrioti del profeta. Recatosi nuovamente a Cana, il paese del primo miracolo (§ 281), Gesù fu subito ricercato per la sua fama di taumaturgo. Giaceva gra­vemente malato a Cafarnao il figlio d'un impiegato della corte rea­le; suo padre, saputo dell'arrivo di Gesù, andò in fretta a Cana pre­gandolo di venir subito a guarire il malato, ormai agli estremi. A quella preghiera Gesù si mostrò retrivo, e preoccupandosi soprattutto della propria missione rispose: Qualora non vediate segni e prodigi, non (sarà) che crediate!

L'angosciato padre non si preoccupava che del figlio morente, e insistette: Signore, vieni giù (a Cafarnao) prima che il mio ragazzo muoia! Per esser sicuro della guarigione il padre esigeva la presenza personale di Gesù, come d'un medico. Gesù gli replicò: Va'; tuo figlio vive! Queste ferme parole infusero nel padre la fermezza di credere: se il taumaturgo aveva parlato così, non po­teva essere altrimenti. Era l'ora settima, cioè l'una del pomeriggio; dopo il viaggio affannato del mattino da Cafarnao a Cana che so­no più di 30 chilometri, non si poteva ripetere subito il percorso in­verso spossando le bestie e gli uomini di scorta. Perciò il padre ri­parti il mattino seguente. Nell'avvicinarsi a Cafarnao, i familiari gli vennero incontro per annunziargli che il ragazzo stava bene; alla sua domanda, da quando avesse cominciato a riaversi, risposero: Ieri, all'ora settima, lo lasciò la febbre. L'accurato Giovanni (4, 54) fa notare che questo fu il secondo mi­racolo di Gesù, dopo quello di Cana egualmente in Galilea, ma astraendo dalla permanenza in Giudea (§ 287, nota seconda). Anche qui appare la mira di Giovanni di integrare i Sinottici.

§ 299. Tornato così in Galilea, Gesù iniziò senz'altro la sua missione predicando la « buona novella » d'iddio e dicendo: Si é compiuto il tempo e si e' avvicinato il regno d'Iddio; cambiate di mente (= pentitevi; § 266) e credete alla “buona novella”. In questo tempo egli dovette recarsi volta a volta un po' dappertutto nei vari centri della Galilea, poiché ci si dice che insegnava nelle si­nagoghe di quelli ed era ascoltato da tutti con molta deferenza, e sicuramente anche con una certa fierezza regionale (Luca, 4, 14-15). Tuttavia i soggiorni più lunghi e più frequenti avvenivano a Cafarnao, ch'egli già aveva praticamente sostituita alla sua Nazareth (§ 285). Nulla vieta, anzi tutto induce a supporre che nel corso di queste peregrinazioni egli si recasse anche a Nazareth; ma l'episo­dio della sua predica nella sinagoga di Nazareth che si concluse con la sua cacciata dal villaggio (§ 357 segg.) dovette avvenire al termine e non al principio di questa operosità in Galilea, perché in quella oc­casione sono espressamente ricordati i miracoli fatti da lui a Cafar­nao (Luca, 4, 23).

Perciò, sebbene Luca ponga questo episodio a prin­cipio, è da preferirsi l'ordine cronologico qui seguito dagli altri due Sinottici (Matteo, 13, 54-58; Marco, 6, 1-6), i quali lo pongono sul finire di questo periodo di tempo, quando cioè Gesù era già stato lungo tempo a Cafarnao. Nelle varie borgate ove si recava, Gesù parlava soprattutto nella si­nagoga del posto. Come già sappiamo (§ 2), ogni minimo centro pa­lestinese ne era provvisto, e ivi puntualmente gli abitanti s'aduna­vano il sabbato e talvolta anche altri giorni; ma, oltre all'uditorio bell'e pronto, c'era anche l'opportunità di parlare ad esso in piena conformità con le norme tradizionali, quando cioè l'archisinagogo dopo la lettura della Bibbia invitava qualcuno dei presenti a tenere l'usuale discorso istruttivo (§ 67): è naturale che Gesù si offrisse fre­quentemente per tale incombenza, che rispondeva così bene ai suoi scopi. Altre volte, tuttavia, egli parlava all'aperto o in edifici privati, quando si presentava l'opportunità o si era adunata presso di lui una certa folla. I suoi ascoltatori, infatti, crescevano rapidamente, perché avevano notato subito che egli insegnava loro come avente autorita' e non come gli Scribi (Marco, 1, 22; Luca, 4, 32; cfr. Matteo, 7, 29). Anche la plebe, nel suo semplice buon senso, trovava una profonda differenza fra le dottrine di Gesù e quelle degli Scri­bi; costoro si rifugiavano sempre sotto l'autorità degli antichi, e il loro ideale era di trasmettere integralmente gl'insegnamenti ricevuti senza nulla aggiungere e nulla tralasciare: Gesù invece apriva certi forzieri di cui egli possedeva l'unica chiave e sui quali egli solo “ave­va autorità”, non rifuggendo neppure dal contraddire agli insegna­menti degli antichi quand'era necessario perfezionarli.
Fu detta agli antichi la tal cosa; io invece vi dico la tal altra (Matteo, 5, 21 segg.). Gli Scribi, insomma, erano la voce della tradizione; Gesù invece era la voce di se stesso, e si attribuiva il diritto tanto di approvare quella tradizione quanto di respingerla e correggerla. Indubbiamente chi si attribuiva questo diritto, sotto la dittatura spirituale degli Scribi e dei Farisei, agiva come avente autorità.

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A Cafarnao e altrove

§ 300. Ma il nuovo predicatore, se era avente autorità nel campo delle dottrine, si mostrava fornito di non minore autorità nel campo della natura operando “segni” straordinari; e questa seconda auto­rità, mentre confermava la prima, attirava sempre più l'attenzione delle folle, le quali su questo punto dovevano ragionare come Nico­demo: Nessuno può fare questi «segni »... se non sia Iddio con lui (§ 288). Ai due «segni » di Cana, il cui ricordo era recente, ne ten­nero dietro altri in altri luoghi. A Cafarnao un giorno di sabbato, dopo aver predicato nella sina­goga, Gesù guari pubblicamente un uomo indemoniato che, al co­mando di lui, prima dette in grida convulsive e poi rimase libero dal­l'ossessione; la gente che aveva udito la predica e visto la liberazione, ricollegando i due fatti si domandava: Che e' ciò? Un insegnamento nuovo secondo autorità!inoltre, comanda gli spiriti impuri e gli ob­bediscono! (Marco, 1, 27).

Mentre ancora risuonano queste esclamazioni, che diffondendosi por­teranno altrove la fama di Gesù, egli esce dalla sinagoga e subito si reca alla casa di Simone Pietro (§ 285) e di suo fratello Andrea, dove trova la suocera di Pietro che giace malata: l'evangelista me­dico fa notare che essa era in preda a febbre grande (Luca, 4, 38), la quale secondo la terminologia clinica d'allora era di genere diverso dalla « febbre piccola » (cfr. Galeno, Diflerent. febr., 1, 1). Insieme con Gesù stanno Giacomo e Giovanni, i due figli di Zebedeo, e cer­tamente anche altre persone che hanno assistito alla liberazione del­l'indemoniato e forse pregano il liberatore di far del bene anche alla vecchia malata Gesu' si curva sul giaciglio di lei, la prende per mano, e la rialza che è guarita. Sta cosi bene la donna appena in piedi, che si dà subito da fare per preparare qualcosa all'ospite straor­dinario e per servirlo. In paese si sta ancora parlando dell'indemoniato guarito, quando sopraggiunge la notizia che pure la suocera di Pietro è stata guarita. Avere un uomo di tal fatta in paese e non servirsene, sarebbe la massima delle stoltezze basterà portare alla sua presenza i malati che stanno per le case, e saranno guariti.
Ma è sabbato, e non si può trasportare alcunché né fare più d'un limitato numero di passi (§ 70); ebbene, si aspetterà il tramonto del sole, con cui cessa il ri­poso sabbatico e si può trasportare un malato. La sera, infatti, i malati d'ogni sorta e gli indemoniati furono radu­nati presso la casa di Pietro, e tutta la città si era radunata presso la porta (Marco, 1, 33). Gesù, su ciascuno di essi imponendo le mani, li guariva; uscivano poi da molti i demonii gridando e dicendo: « Tu sei il figlio d'iddio! ». E intimando (Gesu'), non permetteva loro di parlare perché sapevano esser lui il Cristo (Messia) (Luca, 4, 40-41).
Quel Gesù che in terra di Samaritani aveva spontaneamente dichia­rato di essere il Messia (§ 296), qua in terra di Giudei non permetteva che la stessa dichiarazione fosse fatta da un testimonio autore­vole in materia, quale il demonio; ma qua appunto esisteva il peri­colo che là mancava, ed era che i presenti seguendo la corrente co­mune considerassero quel Messia come condottiero politico: mentre come poco prima Giovanni il Battista non si era occupato di politica, cosi adesso non se ne occupava Gesù, né egli predicava un regno del mondo o dell'uomo, bensì il regno dei cieli e di Dio.

§ 301. Ad ogni modo, se Gesù era veramente il Messia ed era ve­nuto per farsi riconoscere come tale dai suoi connazionali, bisognava pur che una buona volta annunziasse apertamente ad essi questa sua qualità. Senza dubbio: e difatti questi annunzi palesi e ripetuti ver­ranno da parte di Gesù, ma solo più tardi. Da principio invece, cioè durante questa sua prima operosità in Galilea, egli non fa che pro­lungare la predicazione del precursore Giovanni, annunziando sol­tanto che si è avvicinato il regno di Dio (Matteo, 4, 17; Marco, 1, 15); parla cioè del regno ma non del suo capo, dell'istituzione ma non dell'istitutore. Quando poi in seguito egli avrà radunato attorno a sé un piccolo nucleo di seguaci, i quali abbiano compreso generi­camente che il suo regno non è un'istituzione politica e che ha per suo istitutore un re spirituale, allora a questi migliori intenditori egli confiderà di essere il Messia, sebbene anche a costoro da principio imporrà di non svelare ad altri questo segreto.

L'affermazione messianica, dunque, avvenne realmente e chiaramen­te da parte di Gesù, ma fu graduale: dapprima egli annunziò il re­gno messianico, quindi il Messia ad alcuni pochi in segreto, infine a tutti palesemente. Ora, questa graduazione d'annunzio fu cagionata soprattutto dalla preoccupazione d'evitare entusiasmi politici, che sarebbero stati troppo spontanei fra gente abituata da lungo tempo a raffigurarsi il futuro Messia nelle maniere nazionali-militaresche che già vedemmo (§ 83). In quel deposito di materie incendiarie, ch'era politicamente il giudaismo d'allora, troppo spesso venivano gettati accesi tizzoni da esaltati pseudoprofeti, mentre Gesù non voleva in nessuna maniera accomunarsi con essi; anzi espressamente seguì una condotta che era proprio l'opposta alla loro, circondando a princi­pio di segreto la sua persona con la mira di fare accettare l'idea.
Quando poi Gesù dovrà necessariamente parlare della sua persona, allora applicherà anche certi correttivi molto efficaci per raffreddare i bollenti spiriti degli stessi suoi confidenti: annunzierà perciò loro che egli è il Messia, si, ma anche che è destinato ad una morte vio­lenta e ignominosa, e che pure i discepoli i quali formano la sua corte sono destinati a ignominie e tribolazioni d'ogni genere. Era una delusione ben amara e una prospettiva assai mesta, per focosi messia­nisti giudei, quella di un re Messia che muore ammazzato invece di ammazzare i nemici d'Israele, e che ha per cortigiani un'accolta di miseri umiliati invece che di potenti umiliatori dei gojim! Ma ap­punto questo era il correttivo necessario per far comprendere l'indole del Messia Gesù e del regno da lui predicato.

La serata di quel sabbato era stata laboriosa, ma finalmente Gesù aveva potuto ritirarsi nella casa di Pietro. La mattina seguente, molto prima dell'alba, egli ne uscì segretamente e si appartò in un luogo solitario a pregare. Poco dopo cominciarono ad arrivare visi­tatori della borgata che avevano qualcosa da chiedere al taumatur­go, e soprattutto da pregarlo che non si allontanasse mai più da loro. Pietro e gli altri familiari, non trovando Gesù in casa, si dàn­no a cercarlo fuori; finalmente lo trovano, e gli comunicano l'aspet­tativa e il desiderio di tutti. Gesù risponde che anche altrove egli deve annunziare la buona novella del regno di Dio, e che appunto per questo egli è stato inviato. E riprese a recarsi qua e là per la Galilea, probabilmente senza avere con sé alcun discepolo.

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SCARICA QUI LA VITA DI GESU' CRISTO DI DOM RICCIOTTI (2)
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