Translate

domenica 11 agosto 2013

Pio XII e lo sterminio degli ebrei

Pio XII e lo sterminio degli ebrei
Per tutta la durata del regime nazista in Germania, le gerarchie cattoliche – sulla scorta anche di una lunga tradizione antiebraica – cercarono di evitare lo scontro con il Reich. Le ragioni furono molteplici, ma è indubbio che l’episcopato tedesco e la Santa Sede – soprattutto per difendere ‘l’Europa cristiana’ dal pericolo rosso – contribuirono a quel clima di rimozioni e reticenze che rese possibile la Shoah.
di Giovanni Miccoli, da MicroMega 6/2008
Su Pio XII e la questione del suo atteggiamento verso lo sterminio degli ebrei sembra quasi di essere ritornati agli anni Sessanta e Settanta quando, dopo la presentazione a Berlino, nel gennaio del 1963, del Vicario di Rolf Hochhuth, si scatenò la polemica tra apologeti e accusatori del suo operato, ossia tra quanti sostenevano che aveva fatto tutto ciò che poteva fare per la difesa degli ebrei e quanti affermavano il contrario, denunciandone il sostanziale silenzio. Non fu un buon inizio per studiare e capire quale era stato l’atteggiamento della Chiesa cattolica di fronte alla Shoah. Il Vicario infatti era un testo ambiguo che per molti aspetti, come scrissi già allora, sembrava, accusando Pio XII, voler trovare un capro espiatorio che esentasse il popolo tedesco dalle sue responsabilità. Inoltre, facendo del papa il bersaglio pressoché unico delle sue accuse, lo isolava dal contesto complessivo della Chiesa, ne faceva il protagonista e il responsabile assoluto di orientamenti e scelte che andavano ben oltre la sua persona. Da allora, con pause e recrudescenze, la discussione si è trascinata, dando solo lentamente spazio a ricerche storiche degne di questo nome. Oggi siamo di nuovo là, anche se ora, dopo gli estremismi denigratori di qualche anno fa dei Cornwell e dei Goldhagen, sembrano prevalere, con i Napolitano e i Tornielli, gli apologeti. Si ripropone così ancora una volta quella sorta di processo parallelo, in cui alla «condanna» ad opera degli uni corrisponde l’«assoluzione» quando non l’esaltazione ad opera degli altri: «assoluzione» ed esaltazione funzionali anche al processo di beatificazione di Pio XII.
Le iniziative in corso in questo scorcio del 2008, in occasione del cinquantesimo dalla sua morte, allargano in realtà la prospettiva, in un impegno di valorizzazione e rivalutazione globale della sua figura e della sua opera che coinvolge le massime autorità della Chiesa. In settembre si è svolto a Roma un simposio su di lui promosso dalla Pave the Way Foundation con lo scopo di metterne in luce l’azione in favore degli ebrei perseguitati. «Quando ci si accosta senza pregiudizi ideologici alla nobile figura di questo papa», ha rilevato Benedetto XVI nel suo saluto ai convegnisti, «oltre ad essere colpiti dal suo alto profilo umano e spirituale […] si apprezza la saggezza umana e la tensione pastorale che lo hanno guidato nel suo lungo ministero e in modo particolare nell’organizzazione degli aiuti al popolo ebraico». Dal 6 all’8 novembre si è tenuto un convegno organizzato dalle Università pontificie Lateranense e Gregoriana con l’intento di affrontare «lo studio delle connessioni tra i tanti insegnamenti di Pio XII e le tematiche del Vaticano II, al fine di evidenziare la continuità del magistero conciliare con quello di papa Pacelli». Pio XII dunque precursore del Vaticano II, come si va ripetendo non senza significative forzature, del tutto dimentiche della repressione da lui esercitata verso quelle correnti promotrici di un rinnovamento teologico e pastorale, che proprio nel concilio avrebbero trovato la propria rivincita, realizzando almeno in parte le proprie aspirazioni. Sono forzature peraltro pienamente in linea con i criteri ermeneutici proposti da Benedetto XVI per valutare e ridimensionare l’opera del concilio, secondo una tendenza da tempo operante negli ambienti di curia, in aperta polemica con quanti hanno insistito e insistono invece sugli aspetti di novità e di rottura rispetto alla tradizione che lo hanno caratterizzato.
Nell’omelia della messa celebrata il 9 ottobre, anniversario della morte di Pio XII, Benedetto XVI ne ha ribadito i meriti, ricordando ancora una volta l’«intensa opera di carità che promosse in difesa dei perseguitati, senza alcuna distinzione di religione, di etnia, di nazionalità, di appartenenza politica». Ha citato anche le parole con cui, nel radiomessaggio del Natale 1942, egli aveva deplorato, «con un chiaro riferimento alla deportazione e allo sterminio perpetrato contro gli ebrei», la condizione delle «centinaia di migliaia di persone, le quali, senza veruna colpa propria, talora solo per ragioni di nazionalità o di stirpe, sono destinate alla morte o ad un progressivo deperimento», e ha riproposto infine la classica giustificazione del suo riserbo dettato dalla volontà di evitare mali maggiori: «Agì spesso in modo segreto e silenzioso proprio perché, alla luce delle concrete situazioni di quel complesso momento storico, egli intuiva che solo in questo modo si poteva evitare il peggio e salvare il più grande numero possibile di ebrei».
Il giorno precedente L’Osservatore Romano aveva pubblicato una lunga intervista al direttore del Corriere della Sera, Paolo Mieli, che sembrava quasi anticipare queste considerazioni, in una rivalutazione complessiva che non lasciava spazio a domande o a dubbi: «Pio XII è stato un grande papa, all’altezza della situazione. […] Ma insomma: chi può essere indicato come qualcuno che ha fatto per gli ebrei qualcosa che il papa non ha fatto? Io non ne conosco. Ci saranno casi singoli, come ci sono stati casi singoli di alti prelati della Chiesa. Almeno questo papa tutto ciò che era nelle sue possibilità lo ha fatto. […] Sinceramente quella parte di sangue ebraico che corre nella mie vene mi fa preferire un papa che aiuta i miei correligionari a sopravvivere, piuttosto di uno che compie un gesto dimostrativo».
Non diversamente si era espresso il cardinale Bertone già un anno fa, presentando un volume di Andrea Tornelli sulla vita di Pio XII. I papi «hanno a cuore la sorte degli uomini e delle donne in carne ed ossa, non il plauso degli storici», era stato il suo giudizio, che non si può dire sprizzasse simpatia nei confronti di questi ultimi, e aveva rilevato anche lui come egli si fosse mosso con prudenza nell’ambito delle pubbliche denunce nell’interesse dei sofferenti stessi per non rendere più grave la loro situazione. Per Mieli come per Bertone (che si è ripetuto il 6 novembre nella sua prolusione al convegno cui si è accennato) la «leggenda nera» su Pio XII è nata nel corso della guerra fredda, ad opera in primo luogo dei comunisti: «La verità», ha detto Mieli, «è che l’odio per Pio XII nacque in un contesto preciso, quello dell’inizio della guerra fredda. Ricordiamo che fu il papa che rese possibile la vittoria della Democrazia cristiana nel 1948. Io sono convinto che le accuse nei suoi confronti siano lo spurgo di un odio nato nella seconda metà degli anni Quaranta e negli anni Cinquanta. La letteratura ostile a Pio XII è successiva alla fine della guerra».
La categoricità dei giudizi va di pari passo con la semplificazione del discorso. Resta così ancora una volta sullo sfondo, per non dire accantonata, l’unica questione che in sede di storia veramente conta, in questa come in ogni altra vicenda riguardante il passato. Non si tratta infatti di stabilire ciò che il papa avrebbe dovuto fare e non ha fatto, o di sostenere che egli ha fatto tutto ciò che doveva perché non poteva fare altrimenti, ma di determinare in primo luogo ciò che egli ha fatto e perché ha fatto così, alla luce del contesto nel quale lui e i suoi collaboratori hanno dovuto operare, e secondo le idee, le attese, le preoccupazioni e i giudizi che li hanno di volta in volta orientati e motivati. Inoltre, per cercare di rispondere adeguatamente a quella questione, non ci si può limitare agli anni della guerra e del pontificato di Pio XII. Una persecuzione di Stato contro gli ebrei inizia già negli anni Trenta, con l’avvento al potere in Germania del nazismo. Il fascismo italiano venne a ruota già prima dello scoppio della guerra. E lo stesso si fece o si cercò di fare anche altrove. Da lì dunque bisogna partire per cercar di capire quello che fu l’atteggiamento della Santa Sede e della Chiesa cattolica in generale rispetto alla cosiddetta «questione ebraica».
Sarebbe del tutto mistificatorio tuttavia non riconoscere che le implicazioni di tale problema mettono duramente alla prova l’impegno conoscitivo degli storici. Il fatto della Shoah non può non condizionare, intellettualmente ed emotivamente, ogni discorso sugli ebrei e l’antisemitismo, tranne che si condivida più o meno esplicitamente quei presupposti di odio che l’hanno prodotta. Non si può sfuggire alla constatazione che ciò che è avvenuto è avvenuto in Europa, in paesi, come si dice, di alta civiltà e di millenarie tradizioni cristiane: fu il loro tradimento e abbandono, come una troppo rassicurante apologetica talvolta sostiene, a condurre ad Auschwitz? Non mi pare facile il sostenerlo. E comunque una tale spiegazione sarebbe quantomeno semplificatoria di un nodo ben altrimenti complesso: il non essere cristiani non abilita di per sé a divenire massacratori, così come l’esserlo non rende immuni dal diventarlo. Il «come tutto ciò è potuto avvenire» costituisce in ogni caso una domanda ineludibile (o che tale dovrebbe essere) per la coscienza civile e le vita morale del nostro stesso presente. Ma proprio la gravità di tali implicazioni esige risposte alla loro altezza, prive di rimozioni e di reticenze.
Il tentativo di dare una risposta chiama in primo luogo in causa – è un’ovvietà – i nazisti e la loro ideologia, come anche i loro alleati fascisti e i loro collaboratori. E dunque chiama in primo luogo in causa il loro particolare antisemitismo, la feroce determinazione cioè, che si manifestò e trovò attuazione da un certo momento in poi, di sterminare un intero gruppo umano, identificato negli ebrei e in quanti secondo i loro criteri venivano considerati tali, fino all’ultimo uomo, donna, bambino. Non credo tuttavia che ci si possa fermare a questo. La persecuzione antiebraica che si sviluppa nel corso degli anni Trenta, e che nel corso della guerra si estese all’intera Europa occupata dai tedeschi, chiama in causa anche l’impregnazione di antisemitismo di cui settori rilevanti della società europea erano affetti da decenni. Credo tuttavia che a questo riguardo bisogna intendersi chiaramente. Richiamando la necessità di guardare al contesto complessivo per capire lo svolgersi della persecuzione prima e della Shoah poi, non si intende sostenere che fu quel contesto a portare necessariamente allo sterminio, che le varie forme di ostilità antiebraica allora presenti pensassero o mirassero all’eliminazione fisica degli ebrei o implicassero inevitabilmente un tale sbocco. Non è dunque a responsabilità soggettive, a volontà consapevoli, che ci si intende riferire, ma a situazioni e condizioni oggettive, a premesse di fatto, che non portavano necessariamente alla Shoah (pur essendo grevi anch’esse di una pesante carica di discriminazione e di persecuzione), ma senza le quali peraltro tanto le misure persecutorie via via emanate quanto la stessa Shoah non sarebbero state possibili. Si tratta insomma di una sorta di catena, in cui ogni anello richiama il precedente, senza però che il precedente imponga necessariamente quello successivo.
Se le cose stanno così – e mi pare difficile sostenere che non stiano così – una considerazione complessiva dell’intera vicenda chiama in causa non solo la volontà e gli atti dei persecutori, ma anche i consensi, l’indifferenza, le rimozioni, le reticenze con cui, per ragioni diverse, quelle persecuzioni, al loro primo manifestarsi, furono variamente accolte da tanti dei contemporanei che non ne erano né promotori né autori, e chiama in causa dunque la debolezza, per non dire la pressoché totale assenza, delle opposizioni ad esse. Ed è da questo punto di vista che il problema dell’atteggiamento della Chiesa cattolica, e in primo luogo della sua gerarchia, nei confronti della cosiddetta «questione ebraica» e dell’antisemitismo, rappresenta un elemento essenziale del quadro: sia per la lunga tradizione antiebraica che ne aveva caratterizzato, nell’arco di molti secoli, l’insegnamento, traducendosi alla fine dell’Ottocento nell’antisemitismo politico della stampa e di numerosi movimenti e partiti cattolici, sia per gli atteggiamenti e le scelte concretamente compiute allora, mentre la persecuzione andava prendendo corpo.
Prima però di cercare di prospettare una rapida e sommaria traccia dei diversi aspetti con cui tale problema si presenta converrà soffermarsi brevemente sul problema delle fonti già ora disponibili al riguardo, dal momento che periodicamente, un po’ da tutti i versanti, si ripropongono, più o meno pressanti, la richiesta o l’attesa o l’auspicio di una nuova e più ampia documentazione. Ora non c’è dubbio che le carte dell’Archivio Vaticano riguardanti il pontificato di Pio XII potranno offrire nuove e interessanti informazioni quando saranno rese tutte accessibili. Ritengo tuttavia che i materiali di cui possiamo disporre permettano già ora di raggiungere risultati più che esaurienti. Si tratta in effetti di un complesso imponente, anche limitandosi alle fonti di origine ecclesiastica, le prime del resto che vanno prese in esame, nella troppo ovvia persuasione che sono esse, innanzitutto, a dover offrire la chiave per capire decisioni, scelte, orientamenti e silenzi dei loro protagonisti. Ancora in gran parte inedita ma ormai aperta alla consultazione è tutta la documentazione riguardante il pontificato di Pio XI. Per gli anni di guerra abbiamo i documenti raccolti nei dodici volumi voluti da Paolo VI degli Actes et documents du Saint Siège relatifs à la seconde guerre mondiale, che l’opera di un gruppo di storici gesuiti ha selezionato, con indubbia onestà intellettuale, tra gli anni Sessanta e Settanta. Recentemente, a cura dello stesso Archivio Vaticano, è stato pubblicato l’inventario dell’amplissimo fondo dell’«Ufficio informazioni Vaticano», istituito da Pio XII fin dallo scoppio della guerra con l’incarico di occuparsi dei prigionieri, ma che in realtà, come risulta chiaramente da un secondo volume che raccoglie una selezione dei suoi documenti, allargò pressoché da subito la sua azione ai perseguitati per motivi politici, religiosi e razziali, ai deportati e ai dispersi. Eccezionale è stato il lavoro di edizione e raccolta di fonti riguardanti gli anni del nazismo compiuto dalla storiografia tedesca: un modello di rigore scientifico e di servizio civile, che da noi – e se ne sente pesantemente la mancanza da molteplici punti di vista – non abbiamo saputo compiere per gli anni del fascismo. In particolare per i rapporti tra Chiesa cattolica e Terzo Reich l’episcopato tedesco ha promosso una sistematica edizione di fonti prossima ormai ai quaranta volumi, straordinariamente ricca e illuminante anche per i rapporti con il Vaticano. I documenti insomma ci sono, sono tanti e sono disponibili; solo che bisogna leggerli e saperli leggere: ciò che, soprattutto per le fonti di parte tedesca sembra davvero raro fuori dalla Germania.

Gli anni Trenta

Dopo una campagna elettorale contrassegnata da violenze e assassini, il 5 marzo 1933 Hitler aveva vinto con largo margine le elezioni, ma non aveva raggiunto quella maggioranza dei due terzi necessaria per ottenere dal Reichstag l’assegnazione dei pieni poteri al suo governo. Li ottenne il 23 con il voto decisivo del partito cattolico, concesso dopo che Hitler aveva promesso da parte del governo il rispetto dei concordati locali e assunto l’impegno di assicurare a entrambe le confessioni cristiane l’influsso che loro spettava nell’educazione e nella scuola, ravvisando in esse «fattori essenziali per la tutela morale del nostro popolo». Il 28 marzo i vescovi tedeschi ritirarono, con una pubblica dichiarazione, i divieti e le riserve precedentemente formulati nei confronti del movimento nazionalsocialista. Il 1° aprile il partito nazista indisse il boicottaggio di tutti i negozi e le aziende ebraiche. Era un primo inequivocabile segnale. Ma a quanti sollecitavano dall’episcopato un intervento presso il governo a favore degli ebrei il cardinale Bertram, presidente della Conferenza episcopale di Fulda, aveva opposto un rifiuto, sulla base tra l’altro della considerazione che ogni passo in tal senso appariva un’intrusione in faccende che poco avevano a che fare con le competenze dell’episcopato. Il cardinale di Monaco, Michael von Faulhaber arrivava, anche se con argomentazioni diverse, alle stesse conclusioni, rispondendo ad alcuni autorevoli ecclesiastici che gli avevano chiesto un intervento in difesa degli ebrei, oggetto di continue violenze e allontanati, con un decreto del 7 aprile, da tutti gli uffici pubblici. Egli riconosceva che si trattava di un modo di procedere che dovrebbe comportare l’opposizione di ogni cristiano, ma affermava anche che per l’episcopato «sussistono attualmente problemi ben più importanti, perché scuola, mantenimento delle associazioni cattoliche, sterilizzazione sono, per il cristianesimo della nostra patria, ancora più importanti», concludendo che «non abbiamo alcun motivo di dare al governo un motivo per piegare l’odio contro gli ebrei in odio contro i gesuiti». Fu l’inizio, per i vescovi tedeschi, di una lunga catena di scelte simili che, anche se in situazioni diverse e con motivazioni almeno in parte diverse si ripeterà lungo tutti gli anni del Terzo Reich.
Sollecitazioni a intervenire erano giunte anche in Vaticano. Direttamente a Pio XI aveva scritto anche Edith Stein prossima a entrare nel Carmelo. L’arciabate di Beuron, che il 12 aprile ne aveva trasmesso a Roma la lettera, aveva definito l’autrice persona nota in tutta la Germania cattolica «tamquam mulier fide, morum sanctitate et scientia catholica […] praeclarissima». Era una lettera al tempo stesso forte e appassionata che denunciava le violenze in corso contro gli ebrei e la disperazione che si stava impossessando di molti di loro: numerosi infatti erano ormai i casi di suicidio. «Ci si può rammaricare», osservava la Stein, «che gli infelici non abbiano un più forte sostegno interiore per sopportare il loro destino. Ma la responsabilità ricade in gran parte su coloro che li hanno condotti a questo punto, e ricade anche su chi a questo riguardo tace». La Santa Sede era così esplicitamente chiamata in causa: «Noi tutti, che siamo i fedeli figli della Chiesa e consideriamo con occhi aperti i rapporti in Germania, temiamo il peggio per il buon nome della Chiesa, se essa mantiene ancora a lungo il silenzio». Il segretario di Stato, cardinale Pacelli, nella sua risposta del 20 aprile, dopo aver assicurato di aver sottoposto la lettera al papa, si era limitato a esortare al coraggio e alla preghiera, senza affrontare la questione di un intervento riguardo alle azioni antisemite.
Non si tratta di un caso: la questione se intervenire o meno era già stata risolta nelle settimane precedenti. Il 4 aprile infatti, su sollecitazione di «alte notabilità israelite» che si erano rivolte al papa «per invocare il suo intervento contro il pericolo di eccessi antisemitici in Germania», Pacelli aveva scritto al nunzio a Berlino, Cesare Orsenigo, per invitarlo a «vedere se e come sia possibile interessarsi nel senso desiderato». Nella sua risposta il nunzio si dichiarò nettamente contrario ad ogni intervento. Con il decreto del 7 aprile infatti la «lotta antisemita […] ha assunto carattere governativo». Un intervento del rappresentante della Santa Sede sarebbe equivalente a una protesta contro una legge del governo, e si configurerebbe dunque come un’intromissione nelle faccende interne tedesche. Orsenigo teneva certamente conto della delicatissima situazione generale, ancora largamente preda di tensioni e violenze che coinvolgevano anche fedeli cattolici, ma avanzava nello stesso tempo un criterio che la Santa Sede mostrò di accettare e che divenne anche negli anni seguenti la regola: la «questione ebraica» era una faccenda interna tedesca, su cui non era il caso di intervenire direttamente. Se questo è lo stato della documentazione, qui richiamata solo in parte, restano avvolti nelle più fitte nebbie del mistero i segreti impulsi che possono aver indotto Andrea Tornielli a scrivere che «la prima [nota di protesta della Santa Sede], depositata il 1° aprile del 1933, denunciava la messa al bando degli ebrei in Germania» (A. Tornielli, Pio XII. Il Papa degli Ebrei, prefazione di Mario Cervi, Piemme, Casale Monferrato 2001, p. 91).
In quelle condizioni dunque né la Santa Sede né l’episcopato si mostrarono disposti a fare qualcosa in difesa degli ebrei, che d’altra parte, era opinione corrente, sapevano difendersi da soli, né mai avevano protestato quando ad essere colpiti erano stati i cattolici. Certo, ci si poteva e doveva rammaricare che le misure assunte ne avessero coinvolto anche molti convertiti da lunga data al cattolicesimo, come il vicario capitolare di Monaco, Anton Scharnagl, scriveva il 18 aprile al cardinale Pacelli, mentre Orsenigo, in un rapporto dell’11 aprile, non esitava a riconoscere che gli atti e le misure antisemite resteranno come «una macchia sulle prime pagine della storia non priva di benemerenze del nazionalsocialismo»; ma su tutto, per lui come per la maggioranza dell’episcopato di cui chiaramente egli rifletteva il sentire, doveva prevalere lo sforzo di stabilire «una piena collaborazione da parte di tutti i cattolici col nuovo governo salvo i casi – che voglio sperare non arrivino – in cui si esigesse un lavoro in antitesi con i princìpi cattolici».
L’antisemitismo del regime, con le misure di discriminazione che ne conseguivano, risulta insomma come una sorta di dato di fatto, fa parte di un contesto considerato per dir così inevitabile, non passibile di opposizione. «Tutti coloro che portano in sé sangue ebraico sono irrimediabilmente perduti», scrisse monsignor Gröber, arcivescovo di Friburgo, al padre Leiber, che insegnava alla Gregoriana ed era da tempo uno stretto collaboratore del cardinale Pacelli, in riferimento ai docenti universitari, evidentemente perché lo facesse sapere in Vaticano. Era una constatazione. Ma anche un implicito riconoscimento che ogni opposizione era inutile.
Al di là delle molteplici ragioni, sia immediate sia di più lontane radici, che dettarono alle gerarchie vaticane e all’episcopato tedesco questo atteggiamento, resta comunque il fatto che tale questione non entrò in alcun modo nel contenzioso che progressivamente venne a opporre la Santa Sede e la Chiesa tedesca al Terzo Reich, e ciò almeno fino allo scorcio del pontificato di Pio XI, quando, come si vedrà, tale prospettiva sembrò mutare. Del resto il resoconto che monsignor Berning, vescovo di Osnabrück, scrisse per i suoi confratelli su ciò che Hitler aveva detto della «questione ebraica» nel corso di un incontro con una delegazione episcopale il 26 aprile 1933, attesta una sorta di sintonia di fondo con settori non irrilevanti del mondo cattolico su cui il regime poteva contare riguardo alle misure assunte contro gli ebrei: «Hitler parlò con calore e calma, qua e là pieno di fervore. Contro la Chiesa non una parola, solo apprezzamento per i vescovi. Sono stato attaccato per il mio modo di trattare la questione ebraica. Per 1.500 anni la Chiesa ha considerato gli ebrei come esseri nocivi, li ha esiliati nel ghetto eccetera, in quanto ha riconosciuto ciò che gli ebrei sono. Al tempo del liberalismo non si è più visto questo pericolo. Io risalgo nel tempo e faccio ciò che si è fatto per 1.500 anni. Io non metto la razza al di sopra della religione, ma vedo nei membri di questa razza esseri nocivi per lo Stato e la Chiesa, e forse fornisco così al cristianesimo il più grande servizio; da qui il loro allontanamento dall’insegnamento e dagli impieghi statali».
Hitler non mentiva ma era solo reticente quando affermava di non mettere la razza al di sopra della religione: ne faceva infatti una componente costitutiva di essa, pur ironizzando sulle fumisterie dell’ideologia völkisch. Né aveva difficoltà a richiamarsi alla tradizione ecclesiastica per le misure adottate contro gli ebrei. Il richiamo era indubbiamente strumentale, ma non era solo strumentale. Non a caso Karl Lueger e le agitazioni di massa promosse contro gli ebrei a Vienna dai cristiano-sociali figurano nel Mein Kampf tra i suoi modelli, anche se il loro limite restava per lui di aver fondato il loro antisemitismo non sulla razza ma su una visione religiosa. È probabile che egli pensasse davvero di poter in qualche modo contare, nella lotta contro gli ebrei, sulla tradizione antiebraica cristiana, nella non infondata consapevolezza che sul piano pratico, operativo, non pochi erano i punti di contatto. Pochi mesi dopo l’incontro con Berning, discutendo nel consiglio dei ministri del Concordato concluso con la Santa Sede, egli non mancò di rilevare le opportunità che esso offriva alla Germania, per l’atmosfera di fiducia che esso creava nella lotta contro l’ebraismo internazionale.
Il calcolo, entro certi limiti, non era sbagliato. Non è privo di significato il fatto che monsignor Berning – il suo resoconto non lascia dubbi al riguardo – non trovò difficoltà né avanzò obiezioni di fronte alle affermazioni e ai propositi di Hitler. Erano altre le rassicurazioni che gli premevano, e quei propositi non erano certo tali da poterlo particolarmente inquietare: per decenni voci autorevoli della pubblicistica cattolica avevano avanzato proposte non dissimili. La rarità di pubbliche ed esplicite voci di dissenso da parte della Chiesa nei confronti della politica antiebraica e della propaganda antisemita promosse dal governo e dal partito non potevano non confermare Hitler e i dirigenti nazisti nell’opinione che, su tali questioni, nessuna seria opposizione sarebbe venuta loro dall’episcopato.
In quei primi mesi del potere nazista la Santa Sede e la Chiesa cattolica tedesca si mostrarono dunque concentrate soprattutto a tutelare la propria condizione in Germania, stipulando con il regime a titolo di garanzia (ben presto rivelatasi illusoria) quel Concordato valido per tutto il Reich quale vanamente la curia aveva auspicato nel passato decennio. Resta almeno in parte ancora aperta la questione della percezione che del nazionalsocialismo e dei suoi effettivi orientamenti si aveva in Vaticano. Non va dimenticato il ripetuto, esplicito riconoscimento espresso da Pio XI nei confronti di Hitler dopo la sua nomina a cancelliere il 30 gennaio 1933 e già prima della vittoria elettorale del 5 marzo: «Hitler è il primo e unico uomo di Stato che parla pubblicamente contro i bolscevichi. Finora era stato unicamente il papa». Meriterebbe da questo punto di vista analizzare con cura le informazioni contraddittorie sul nazionalsocialismo e le sue imprese che nei primissimi anni Trenta e anche dopo la sua conquista del potere pervenivano alla segreteria di Stato e di cui la documentazione vaticana offre ricca testimonianza. D’altra parte la lunga tradizione di antiebraismo cristiano, rinverdita nel secondo Ottocento di nuove motivazioni ad opera dei movimenti cattolici, faceva sì che gli ambienti ecclesiastici non avevano certo dovuto aspettare la propaganda nazista per pensare che gli ebrei godevano in Germania di uno spazio eccessivo. Spiaceva che con gli ebrei e l’ebraismo si colpissero e si rifiutassero capisaldi della tradizione cristiana come il Vecchio Testamento, spiacevano certi metodi di lotta, spiaceva soprattutto che le misure adottate si fondassero su premesse ideologiche che si ispiravano ad un razzismo estremo, sostanzialmente incompatibile con il credo cristiano. Nelle famose prediche dell’Avvento del 1933 il cardinale Faulhaber scese perciò in campo a difesa del Vecchio Testamento e della tradizione cristiana, Rosenberg e il suo Mythus des XX. Jahrhunderts, così come i maestri del neopaganesimo germanico, divennero il bersaglio di molta pubblicistica cattolica. Ma ci si guardò bene dal coinvolgere nella polemica e nella condanna l’antisemitismo. Non erano del resto pochi a ritenere che, se vi era un antisemitismo razzistico vietato ai cattolici, ne esisteva un altro, spirituale ed etico («geistiger und ethischer»), che era «stretto dovere di coscienza di ogni cristiano consapevole», come scrisse il vescovo di Linz, monsignor Gföllner, nel gennaio 1933, in una pastorale che ebbe larga diffusione negli ambienti cattolici europei.
Il fatto che l’antisemitismo nazista rivelasse sempre più chiaramente tendenze che erano anche accesamente anticristiane non determinò nella Chiesa cattolica un diverso atteggiamento verso la persecuzione degli ebrei (così avvenne del resto anche nella bekennende Kirche, la Chiesa confessante evangelica che pur aveva preso le distanze dal grosso del protestantesimo tedesco, considerandolo troppo compromesso con le dottrine völkisch e il razzismo biologico dei nazisti). Dominò una linea di autodifesa, volta a «durare», non senza pubbliche ripetute denunce delle violenze subite, nella ricorrente speranza però, dura a morire, che all’interno del regime e del partito prevalessero quanti sembravano disposti a soluzioni più concilianti nei reciproci rapporti. Le confidenze di un cappellano cattolico, registrate nel suo diario da Victor Klemperer (lo storico della letteratura francese dell’Università di Dresda, membro della Chiesa evangelica ma allontanato ugualmente dall’insegnamento perché di origini ebraiche), sembrano corrispondere ad un atteggiamento che fu largamente comune negli ambienti ecclesiastici ben addentro agli anni Trenta: «Dice che la Chiesa fin che può evita lo scontro, che tutto questo non è per lei così importante, che questo passerà ed essa resta – perché dunque esporsi a seccature?». In un’assemblea di religiosi il presidente avrebbe tranquillamente spiegato che l’attuale situazione non era così importante: «Abbiamo sperimentato il Terzo Reich e sperimenteremo anche il Quarto». Il nunzio Orsenigo per parte sua, pur segnalando con preoccupazione le misure anticattoliche assunte dalle gerarchie locali del partito, non perdeva occasione, nei suoi rapporti alla segreteria di Stato, per rimarcare con speranza ogni dichiarazione di esponenti del governo che esprimesse apprezzamento per la Chiesa. Non a caso, negli incontri romani del gennaio 1937, il cardinale Bertram, che non era certo uomo di battaglia, attento sempre nei limiti del possibile a evitare nuovi attriti con il regime, traccerà di lui un ritratto che, sotto il velo dell’ironia, suonava come una pesante critica: «Gli manca la “pars irascibilis”. Egli è troppo devoto. “Semper devotissimus”. Con le caratteristiche degli attuali signori di Berlino ciò risulta inefficace».
Se grande è la cautela con cui vanno accolte le notizie offerte dalle carte di polizia, resta tuttavia significativo il fatto che ben rari sono i casi che segnalano affermazioni o prese di posizione favorevoli agli ebrei da parte di parroci cattolici e di pastori della bekennende Kirche. Dopo le leggi di Norimberga del settembre 1935 e dopo il pogrom della Kristallnacht del novembre 1938 si rileva in termini generali che solo alcuni ambienti cattolici e protestanti si mostrano ancora restii ad allinearsi pienamente alla politica antiebraica del regime. Ma per gli anni Trenta offrono ben poco d’altro. In riferimento al congresso di Norimberga Orsenigo rilevò che «la caccia antisemita […] viene così abilmente legittimata agli occhi del popolo dall’accusa di bolscevismo, che qui torna difficile disapprovarla completamente; i più miti si limitano a fare qualche riserva circa i metodi, coi quali viene condotta la lotta. La campagna poi è così sconfinata, che travolge nella repressione anche i giudei battezzati da lunga data». Orsenigo naturalmente non mancava di rammaricarsi di ciò, ma non senza ambiguità così concludeva la sua esposizione: «Non so se tutto il bolscevismo russo sia stato opera esclusiva dei giudei; ma qui si è trovato modo di farlo credere e di agire di conseguenza contro il giudaismo. Se, come pare, il governo nazionalsocialista avrà vita lunga, i giudei sono destinati a scomparire da questa nazione». In riferimento alla Kristallnacht, per quel che se ne sa, nel campo cattolico solo il prelato Lichtenberg, rettore della cattedrale di Berlino (durante la guerra subirà l’arresto e morirà nel corso della deportazione verso Dachau), parlò pubblicamente delle sinagoghe che bruciavano come di «case di Dio», invitando a pregare per gli ebrei perseguitati, e altrettanto rare furono le voci di pastori protestanti. Forzata indubbiamente nella sua generalizzazione l’amara notazione di Victor Klemperer del dicembre 1939, ma espressiva insieme del profondo isolamento sociale in cui gli ebrei tedeschi, o quelli come lui che il regime considerava tali, si erano sentiti ridotti: «Credo che sul popolo i pogrom del novembre 1938 abbiano fatto meno impressione del taglio della tavoletta di cioccolata questo Natale». Voci di protesta si levarono all’estero, ad opera di personalità e gruppi che, sia in ambito cattolico sia in ambito protestante, avevano iniziato un lento ripensamento della tradizione cristiana verso gli ebrei. Tra i cattolici L’impossible antisémitisme di Jacques Maritain ne fu l’espressione più famosa. Furono, a considerarle nel contesto complessivo delle Chiese, voci minoritarie, non di rado oggetto di aspre critiche da parte di loro stessi correligionari. Il fallimento della conferenza di Evian, nell’estate del 1938 (nella mente dei suoi promotori americani avrebbe dovuto affrontare tra l’altro il problema dell’emigrazione ebraica dalla Germania), aveva del resto mostrato chiaramente come la condizione degli ebrei non fosse propriamente all’ordine del giorno dell’opinione pubblica internazionale.
La Chiesa cattolica tedesca dunque, come del resto la stessa Santa Sede, arrivò alla guerra e affrontò gli anni di guerra – quando la persecuzione si mutò gradualmente in assassinio di massa esteso agli ebrei dell’intera Europa occupata – gravata dalla lunga rimozione e condizionata dai persistenti silenzi che ne avevano caratterizzato gli atteggiamenti negli anni di pace. Tale processo tuttavia non fu così rettilineo. Perché nel corso del 1938 venne configurandosi da parte di Pio XI la prospettiva di un intervento diretto sulla «questione ebraica» e l’antisemitismo che abbandonava il riserbo fino allora mantenuto.

La ‘svolta’ di Pio XI

Non è possibile in questa sede seguire nel dettaglio i pronunciamenti pubblici e le iniziative del vecchio papa, che soprattutto a partire dal Natale del 1937 segnarono un costante accentuarsi dello scontro con il Terzo Reich e l’ideologia e la prassi del nazismo. L’avvicinamento anche ideologico dell’Italia fascista alla Germania, che lo stesso rumoroso lancio nel paese di una campagna razzista e antisemita stava ad attestare, aveva indubbiamente accentuato le sue preoccupazioni. Ma lo aveva anche persuaso, come egli stesso ebbe a confessare, che la questione del razzismo e dell’antisemitismo era una delle questioni più brucianti del nostro tempo, gravida di conseguenze per la coscienza cristiana e la stessa vita civile. Si spiegano così le sue dichiarazioni pubbliche che definiscono il manifesto razzista degli «scienziati» fascisti, pubblicato il 14 luglio 1938 sul Giornale d’Italia, una vera e propria apostasia che tocca i gradini dell’altare, lamentano la malaugurata imitazione che su questi temi l’Italia veniva facendo della Germania, affermano l’incompatibilità tra antisemitismo e cristianesimo, e dichiarano la svastica «croce nemica della croce di Cristo». Ma si spiegano così anche le sue iniziative riservate, come la lettera inviata nell’agosto 1938 ai vescovi tedeschi di esplicita messa in guardia contro la speranza di poter ottenere qualcosa dal regime attraverso sempre nuove rinunce e compromessi, e soprattutto l’incarico conferito ad un gesuita americano, il padre John La Farge, di preparare il testo di un’enciclica contro il razzismo e l’antisemitismo. Ed è appunto in riferimento a questo complesso di giudizi e di iniziative che sembra emergere un sempre più accentuato isolamento di Pio XI rispetto agli orientamenti della segreteria di Stato e di una parte almeno dello stesso mondo cattolico. Ulteriori dettagli potranno venire in luce, ma già ora sono disponibili segni inequivocabili che la cose stavano effettivamente così.
Di una divergenza tra Pio XI e il cardinale Pacelli, alieno da atteggiamenti di rottura con le potenze totalitarie, fa esplicita menzione nelle sue Memorie il direttore dell’Osservatore Romano, Giuseppe Dalla Torre, e tale testimonianza, di non piccolo peso, trova conferma nell’iniziativa di Pacelli, fin dall’indomani della sua elezione a pontefice, di avviare un tentativo di distensione con il Terzo Reich, con il pieno consenso dei cardinali tedeschi, che per parte loro non nascosero alcune critiche esplicite ad alcuni giudizi e atteggiamenti del suo predecessore. Che il dissenso verso certe prese di posizione di Pio XI sulla campagna razzista e antisemita scatenata in Italia dal regime coinvolgesse personaggi importanti della segreteria di Stato e della curia è attestato dai pesanti giudizi nei suoi confronti che il nunzio in Italia, monsignor Borgongini Duca non esitò a formulare in un colloquio con Galeazzo Ciano il 26 agosto 1938, nell’evidente volontà di comunicare al governo italiano che non tutti in Vaticano condividevano ciò che il papa stava dicendo contro quelle iniziative, attizzando così uno scontro che erano in molti, nel mondo cattolico italiano, a voler sopire. E che un desiderio di pacificata distensione dominasse gli ambienti curiali risultò chiaro all’ambasciatore francese Charles Roux, che vi rilevò come una sorta di rassicurato sollievo all’indomani della morte di Pio XI. Né diverse furono le impressioni del nunzio a Berna, monsignor Bernardini, che, rientrando a Roma a qualche mese dall’elezione di Pio XII, trovò l’aria completamente cambiata, con grande soddisfazione dei cardinali. Non mancano d’altra parte attestazioni che nella perplessità e nella critica di ciò che il papa stava facendo si andò anche oltre. Tali infatti sono le espressioni durissime che monsignor Ciriaci, nunzio in Portogallo, avrebbe usato in un colloquio con l’ambasciatore italiano alla fine del dicembre 1938. Per lui, infatti, «i vertici della gerarchia sono ormai sotto l’influenza ebraica e massonica; da qui la simpatia evidente che si mostra agli elementi di sinistra, ciò che fa sì che invece di occuparci delle cose nostre, noi ci perdiamo nella difesa dei diritti dell’uomo e del giudeo. Questa è la causa dell’attuale situazione della Chiesa in Italia, in Francia, in Germania e in Spagna». Di tale nuovo indirizzo di Pio XI nei confronti del Terzo Reich e in particolare della «questione ebraica» si era ben consapevoli anche al di fuori degli ambienti di curia. E se l’incaricato di affari inglese presso la Santa Sede, Francis Osborne, giudicava, dopo un lungo colloquio con il papa, che ai suoi occhi il nazismo stava sostituendo il comunismo come maggiore minaccia per la Chiesa e per l’umanità, vi era anche chi, completamente estraneo a quegli ambienti, non esitava a richiamarsi al Vangelo per ammonire Pio XI a non scendere in campo in difesa degli ebrei, «sinagoga di Satana». Così un dottor Gotthold Steinführer, in una lettera del 12 agosto 1938 da Chicago, gli ricordava le parole di Cristo, secondo le quali «si schiera con Satana chi scende in campo per gli ebrei. L’intero Vangelo di Giovanni mostra la lotta degli ebrei contro Cristo. Da Paolo ad oggi gli ebrei sono i più grandi nemici di tutto il cristianesimo». Erano dunque percezioni relativamente diffuse, su cui la propaganda fascista non mancava di insistere per accentuare le divisioni nel mondo cattolico. Ed è significativo che esse nascessero prevalentemente dai discorsi pubblici del papa, pur ignorando del tutto la sua iniziativa che, da questo punto di vista, era la più pregnante, ossia l’idea di pubblicare un’enciclica contro il razzismo e l’antisemitismo.
La vicenda è ormai largamente nota, anche se generalmente viene sottovalutata dalla storiografia, sulla base del rilievo che dopo tutto nel progetto consegnato al papa ciò che vi si diceva degli ebrei era in linea con la tradizionale teologia cattolica sull’ebraismo. Ma se ne trascurano così alcuni aspetti fondamentali. Di contenuto in primo luogo: perché al di là delle tradizionali affermazioni sull’ebraismo ve ne sono altre del tutto nuove, che, proprio perché assenti nel discorso cattolico corrente, è difficile attribuire all’iniziativa dei redattori (si sa del resto, come La Farge attesta esplicitamente, che Pio XI «gli aveva esposto il tema nelle sue grandi linee, il metodo da seguire e i princìpi da osservare»). Nuovo infatti è il pressante ripetuto invito rivolto a tutti i fedeli ad opporsi all’antisemitismo e ad aiutare i perseguitati; e nuova è l’affermazione che l’imperante razzismo era in sostanza un pretesto per colpire gli ebrei, stabilendo così un nesso tra razzismo e antisemitismo fino allora accuratamente evitato dalla polemica cattolica antirazzista. Vi era inoltre, a rendere dirompente un’enciclica così concepita, il contesto in cui si sarebbe inserita e le inevitabili conseguenze che avrebbe provocato. Ne dà indiretta conferma l’evidente sabotaggio che il progetto subì ad opera del preposito generale della Compagnia di Gesù, Wladimir Ledochowski, cui il testo era stato consegnato da La Farge: per quasi quattro mesi infatti egli evitò di inoltrarlo a Pio XI, un ritardo attribuito dal padre Gundlach (che era stato affiancato a La Farge nella preparazione dell’enciclica) alla sua persuasione che un tale testo avrebbe provocato una rottura con il Terzo Reich e gravissime ripercussioni anche per la situazione della Chiesa in Italia. Si tratta indubbiamente di un’interpretazione, che tuttavia sembra difficile poter mettere in discussione; tanto più se si considera ciò che un tale ritardo poteva significare per il destino dell’enciclica, dal momento che in quello scorcio del 1938 era lo stesso entourage del papa a prevedere imminente la sua fine.
Non tutto è ancora chiaro né forse tutto si potrà chiarire di quegli ultimi sette/otto mesi del pontificato di Pio XI (egli morì il 10 febbraio 1939). È un fatto comunque che le reazioni della Santa Sede di fronte alle leggi razziali varate dal regime fascista si limitarono alla fin fine a denunciare il vulnus inferto al concordato con il divieto dei matrimoni «misti», dopo aver tentato vanamente di togliere loro il carattere razzistico esentandone gli ebrei divenuti cristiani. Indubbiamente Pio XI era vecchio e gravemente ammalato. In una sua lettera del maggio 1939, il padre Gundlach, riferendosi al lavoro compiuto, scriverà del tardo autunno e dell’inverno precedenti come di un periodo in cui Pio XI non sarebbe stato più in grado, a causa del suo stato di salute, di trattare questo affare. E in una lettera del novembre precedente, riferendosi alla condizione e allo stato fisico del papa, egli aveva scritto «che a lui arriva solo ciò che gli altri gli lasciano arrivare». Si tratta di voci e di illazioni tutte da verificare (anche se Gundlach, che viveva a Roma, può essere considerato un testimone informato e attendibile). È difficile comunque pensare che le ricorrenti crisi cardiache da lui sofferte in quei mesi non abbiano reso precario e intermittente il suo stesso esercizio del governo. Ma ciò che conta, mi pare, in un contesto non ancora tutto pienamente decifrabile, è il chiaro emergere nei discorsi e nelle iniziative di Pio XI di alcuni tratti di un orientamento nuovo in riferimento ai rapporti con le potenze totalitarie e in particolare al razzismo e all’antisemitismo. Egli stesso del resto, nel discorso alle suore di Nostra Signora del Cenacolo del 15 luglio 1938, ne parlò in termini che suggeriscono persuasioni e chiarificazioni solo recentemente raggiunte, quasi una svolta nel suo modo di pensare intorno a quelle questioni e a quei rapporti. E ciò che anche conta è il malcelato dissenso di una parte almeno della curia nei confronti del nuovo indirizzo che in tal modo egli avrebbe impresso alla politica vaticana verso il Terzo Reich e l’Italia fascista. Non è certo frutto del caso il cambio di rotta attuato a questo riguardo dal suo successore: un cambio di rotta che rese ovviamente impossibile che della progettata enciclica si potesse continuare a parlare.
È vero, sono molti a rilevarlo con varietà di intenti: non si poteva prevedere che la discriminazione e la persecuzione degli ebrei in atto negli anni Trenta avrebbero portato allo sterminio di pochi anni dopo. Ma è ugualmente vero che negli anni Trenta le proteste in genere, e le proteste da parte cattolica in particolare, mancarono o furono isolate e sporadiche, opera di piccole minoranze, anche perché quegli atti di persecuzione non furono considerati così gravi e immotivati, tali da ferire la coscienza cristiana, perché in troppi loro aspetti ricordavano le abitudini e la prassi che erano state della cristianità, perché troppo insistite e martellanti, fino agli ultimissimi anni, erano state voci autorevoli del mondo cattolico che avevano indicato negli ebrei una minaccia grave per la Chiesa e per la società. Il progetto di enciclica di Pio XI si muoveva in una direzione opposta, avrebbe colmato la pressoché totale assenza di magistero su tali questioni. Era quanto Edith Stein aveva chiesto cinque anni prima. Era quanto pensavano i gesuiti che avevano collaborato alla stesura dell’enciclica: «La Chiesa potrà esistere onorevolmente e con successo solo se prende chiaramente partito per le sfide del Vangelo e del diritto naturale, dovunque e verso tutti». Non sembra una piccola cosa. Quell’assenza infatti avrebbe gravemente pesato nelle vicende degli anni seguenti. Non si tratta di un’affermazione astratta. Lo attesta tra l’altro il fatto che nel settembre 1941, quando il governo slovacco emanò un «codice ebraico», ispirato ai «princìpi del razzismo e in stretta aderenza alle note leggi di Norimberga», tale cioè da colpire e discriminare con straordinaria pesantezza la comunità ebraica slovacca, all’esponente dell’episcopato che gli aveva chiesto di mandargli «enuntiationes S. Sedis et Episcoporum Italicorum Germanicorumque de ista re», in vista dell’assemblea dei vescovi slovacchi che doveva prendere posizione sulla faccenda, l’incaricato d’affari della Santa Sede a Presburgo, Giuseppe Burzio, non fu in grado di mandare nulla di specifico. Non è da stupirsi dunque se i vescovi, nel memoriale indirizzato al presidente Tiso, si limitarono a richiedere l’esenzione degli ebrei battezzati da quelle disposizioni discriminatorie.
Non a torto si è scritto che il destino degli ebrei negli anni Trenta non era all’ordine del giorno per la maggioranza dell’opinione pubblica europea. Non lo era nemmeno per le Chiese. L’idea di Pio XI di pubblicare un’enciclica che affrontasse il problema rappresentò una sterzata solitaria. Auschwitz, si è detto, era ancora lontana, né era certo prevedibile. Ma ciò che stava avvenendo sotto i suoi occhi gli era sembrato già tale da dover richiedere il suo intervento. Ma restò solo. L’iniziativa del suo successore di avviare, fin dall’indomani della sua elezione, e con il pieno appoggio dei cardinali tedeschi, un tentativo di distensione con il Terzo Reich (si era a pochi mesi di distanza dalla Kristallnacht) confermò ancora una volta che, nell’ottica vaticana, la «questione ebraica» e l’antisemitismo non costituivano un ostacolo a questo fine. Si ripropose così su tale problema quella linea di rimozione e di silenzio che non avrebbe mancato di pesare negli anni della guerra.

Negli anni della guerra: l’atteggiamento dell’episcopato tedesco

Non vi è dubbio che l’atteggiamento assunto dalla Santa Sede, dall’episcopato tedesco e dalle altre Chiese locali di fronte all’accentuarsi della persecuzione antiebraica, sfociata poi nello sterminio, vada valutato e compreso nel contesto complessivo delle situazioni, delle preoccupazioni e degli orientamenti che ne condizionarono e ne guidarono l’azione. Molteplici sarebbero dunque le questioni da affrontare. Qui mi limiterò necessariamente a trattare alcuni aspetti soltanto. Preliminarmente credo si debba ribadire, di contro a ricorrenti tentativi di affermare il contrario, che non solo in riferimento alla persecuzione antiebraica, alle ghettizzazioni e alle deportazioni (avvenivano per dir così sotto gli occhi di tutti), ma anche allo stesso sterminio la sostanza delle cose era nota sia alla Santa Sede sia all’episcopato tedesco (non erano del resto i soli: perché dello sterminio sapeva il governo fascista, sapevano gli alleati come non pochi altri ambienti). Mancavano molti dettagli, ma era largamente noto che un sistematico sterminio di massa degli ebrei era in corso nei ghetti e nei campi polacchi così come nei territori occupati della Russia, e che tale era il destino riservato agli ebrei razziati nei territori soggetti al dominio tedesco. Non starò a ripercorrere l’elenco delle notizie, sempre più drammatiche e precise, pervenute a Roma già nel corso del 1942. L’attendibilità delle fonti di informazione, non soggette al sospetto di fare della propaganda (nunzi, vescovi, cappellani militari eccetera), non poteva lasciare dubbi in proposito: né i testi che le registrano suggeriscono l’idea che dubbi vi siano stati. L’assenza nei documenti vaticani dell’espressione «soluzione finale» non può cancellare il fatto che si sapeva che per gli ebrei essere o cadere nelle mani dei tedeschi significava morire. Non è un caso che monsignor Montini, poche settimane dopo la razzia degli ebrei romani compiuta il 16 ottobre 1943, registrasse le informazioni fornite da un funzionario della polizia tedesca come un dato di fatto non suscettibile di smentite: «questi ebrei non torneranno mai più alle loro case»; e che nel luglio dello stesso anno monsignor Roncalli, delegato apostolico a Istanbul, replicasse così a von Papen, per il quale, dopo la scoperta del massacro di Katyn, i polacchi avrebbero dovuto trovare conveniente «volgersi verso i tedeschi»: bisognerebbe «innanzi tutto far dimenticare i milioni di ebrei inviati e soppressi in Polonia». Sostanzialmente non diversa era la condizione dell’episcopato tedesco. Tributario con ogni probabilità delle notizie che provenivano dal fronte russo, già nel giugno 1942 l’arcivescovo di Friburgo, monsignor Gröber, poteva scrivere a Pio XII in questi termini, non senza offrire nel prosieguo alcuni dati precisi: «La concezione del mondo dei nazionalsocialisti si caratterizza, sia nella teoria sia nella prassi, come il più radicale antisemitismo fino all’annientamento (Vernichtung ) dell’ebraismo, non solo nel suo atteggiamento spirituale ma anche nei suoi membri». E una nota del vescovo di Osnabrück, monsignor Berning, del 5 febbraio 1942, lascia chiaramente trasparire che si era consapevoli del programma nazista: «Tutto sembra mostrare che sussiste il piano di distruggere completamente gli ebrei». Nel gennaio 1944 il cardinale Bertram, destinatario fin dall’agosto dell’anno precedente di una drammatica lettera di denuncia di una ebreo di Cracovia, scrivendo alle diverse istanze ministeriali competenti per protestare contro la prospettiva che i Mischlinge (ossia i figli dei matrimoni misti, spesso cristiani) venissero coinvolti nelle leggi riguardanti gli ebrei, mostra chiaramente di sapere ciò che questo significava: «Tutte queste misure mirano chiaramente a una [loro] separazione, alla fine della quale incombe l’eliminazione [Ausmerzung].[…] I cattolici tedeschi, anzi i numerosi cristiani in Germania sarebbero colpiti nel modo più grave se questi loro correligionari dovessero subire un destino simile agli ebrei».
Non mancarono anche in quegli anni singoli e gruppi che cercarono di premere sull’episcopato perché denunciasse pubblicamente il massacro in corso. Monsignor Berning se l’era chiesto dopo aver preso atto dei propositi dei nazisti: «Che cosa può succedere? Possono i vescovi levare pubblica accusa dal pulpito contro tutto ciò?». Domande non diverse si era posto, «con il cuore angosciato», il vescovo di Hildesheim, Joseph Godehart Machens, in una drammatica lettera indirizzata il 6 marzo 1943 al cardinale Bertram all’indomani di una razzia di bambini zingari compiuta dalla polizia nella sua diocesi.
Furono pressioni e domande che restarono ancora una volta sostanzialmente senza risposta. Perché se non mancarono dichiarazioni pubbliche di singoli vescovi che richiamavano i diritti della persona umana alla libertà e alla vita, a essere giudicata secondo giustizia, a non venir privata dei propri beni o addirittura della propria vita «se innocente, soltanto perché appartiene ad un’altra razza», se la pastorale sui dieci comandamenti ripeté l’antica condanna di ogni uccisione, fosse pure compiuta nell’interesse generale – si trattasse di malati mentali o di vecchi inabili, di prigionieri di guerra o di uomini «di razza e di origine straniera» – se non infrequenti furono gli arresti e le condanne a morte di preti cattolici e di pastori protestanti per dichiarazioni e atti che, incrinando in qualche modo il muro di silenzio e di reticenza intorno ai crimini in atto, minacciavano l’obbedienza e la fedeltà verso la patria in guerra, mancò tuttavia quella denuncia collettiva e aperta dal pergamo, quella kräftige Sprache, quella massive Sprache, che da più parti erano state richieste ai vescovi. Ne offrì una spiegazione almeno parziale un intervento del cardinale Faulhaber, alla conferenza dell’episcopato bavarese del 30 e 31 marzo 1943: «Tensione e dissenso vengono diffusi anche in ambienti cattolici da domande come queste: perché i vescovi non entrano in campo? Perché i vescovi non parlano? Si risponde: noi non potremmo fare un piacere più grande agli avversari della Chiesa se mettessimo ora in batteria i grossi calibri. Ora che ci si trova in difficoltà [si era a pochi mesi dalla caduta di Stalingrado] si farebbe subito rinascere ancora una volta la storia della pugnalata alla schiena. La mia impressione è che si aspetta proprio questo. È vero, il vescovo protestante di Norvegia si è comportato in modo splendido. I vescovi olandesi hanno pubblicato il 17 febbraio 1943 uno scritto pastorale contro le deportazioni forzate dei giovani al servizio del lavoro e contro l’assassinio degli ebrei». Ma noi, questo sembra il sottinteso del cardinale, queste cose non possiamo né dirle né farle, perché siamo tedeschi, perché ogni nostro intervento verrebbe tacciato di servire alla propaganda nemica, perché rischieremmo di venir meno alla solidarietà nazionale, ai doveri verso la patria in guerra. Fu questa l’ultima soglia che la gran parte dei vescovi tedeschi non si sentì di superare, fu questo l’estremo rischio che essi non si sentirono di correre, soprattutto dal momento che, tra il 1942 e il 1943, le sorti del conflitto cominciarono a volgere lentamente a sfavore della Germania.
Non credo tuttavia ci si possa fermare a questa spiegazione. I dubbi, i dilemmi, le spinte contraddittorie che agitarono allora gli alti dirigenti della Chiesa tedesca formano un viluppo di non facile decifrazione. L’esigenza di tutelare i propri fedeli da una persistente persecuzione strisciante, di difendere il clero e la rete del culto, ora come un tempo appariva primaria ai loro occhi. Domina in quegli anni nella cultura cattolica un ecclesiocentrismo che non può essere ignorato. L’idea inoltre che era in corso una guerra decisiva, il timore che «la posta in gioco di tale lotta comporti per il popolo tedesco l’essere o il non-essere», come nel novembre 1941 il vescovo di Regensburg Buchberger aveva scritto a Faulhaber per esprimergli la sua contrarietà alla pubblicazione di una lettera pastorale collettiva sulle illegalità e i crimini del regime, non era certo loro estraneo. Tutto spingeva insomma a concentrarsi sui propri problemi interni e sulle proprie difficoltà, non senza tener conto di ciò che la guerra non poteva non richiedere, di impegno e di sacrificio, a tutti i tedeschi. È il duplice versante di cui i capi della Chiesa tennero costantemente conto: rassicurare i propri fedeli che servendo la patria essi compivano «il santo volere di Dio» (come scrissero nella pastorale del 26 giugno 1941), e rafforzarli insieme nella loro fede cristiana difendendoli dagli influssi dell’ideologia del nazismo (non era Martin Bormann soltanto a considerare del tutto incompatibili ormai cristianesimo e nazionalsocialismo), ma cercando anche in ogni modo di evitare scontri e tensioni con il regime relativamente ad altre questioni. Per questo la condizione degli ebrei continuò a restare al margine dei loro interventi e delle loro riflessioni.
Quando, con le ordinanze del 1° settembre 1941, a tutti gli ebrei di età superiore ai sei anni fu imposto di portare nei luoghi pubblici la stella di David, come contrassegno che mirava ad additarli all’emarginazione e al disprezzo, grande fu l’imbarazzo dei responsabili delle Chiese per un provvedimento che, per i criteri adottati, colpiva all’interno dei loro fedeli. Secondo le informazioni della polizia di sicurezza la misura, che aveva creato profonda disperazione tra le vittime, sarebbe stata salutata positivamente dalla popolazione salvo «ristrette cerchie cattoliche e borghesi». Ma non mancarono fedeli che richiesero per gli ebrei una frequenza alle cerimonie del culto separata dalla loro. Il cardinale Bertram peraltro ritenne inopportuno pubblicare un’istruzione pastorale che ricordasse i doveri di carità reciproca e di fratellanza cristiana per evitare episodi di intolleranza e di discriminazione nelle chiese, mentre si mostrò incline a consigliare riservatamente gli ebrei cattolici di frequentare le funzioni di culto nelle ore di minor afflusso di gente.
Il 24 ottobre 1941, dopo che il giorno precedente era stata definitivamente sospesa l’emigrazione dalla Germania, iniziarono le deportazioni degli ebrei tedeschi verso est. «In tale occasione si svolgono scene», scrisse Faulhaber a Bertram, «che nelle cronache di questo tempo verranno un giorno messe in parallelo con i trasporti dei mercanti di schiavi africani», mentre cominciavano a diffondersi le prime voci e testimonianze sul trattamento riservato agli ebrei russi nei territori occupati. Già nella seconda metà di novembre Klemperer poteva scrivere nel suo diario: «Le notizie sulle deportazioni degli ebrei in Polonia e in Russia suonano catastrofiche da diverse parti». Ben più precisi e ricchi di dettagli erano i rapporti che Margarete Sommer, la coraggiosa dirigente dello Hilfswerk berlinese, poteva inoltrare all’episcopato (e per almeno uno di essi si sa che fu inoltrato anche in Vaticano): vi si evidenzia la «catastrofe» rappresentata dalle nuove discriminazioni e dalle successive deportazioni; vi si segnalano i sempre più frequenti casi di suicidio; vi si registra il fatto che i primi ebrei tedeschi deportati a Kovno furono massacrati direttamente sul posto, com’era avvenuto per gli ebrei lituani; vi si descrive la spaventosa situazione di vita nei diversi ghetti, caratterizzati da una mortalità altissima, rilevando infine, in tutto il loro sinistro significato, il rarefarsi e il progressivo venir meno di qualsiasi notizia diretta di quanti vi erano reclusi.
Ancora una volta però, alla notizia delle deportazioni, Bertram ritenne inutile e inopportuno un intervento dei vescovi: perché quella del nazismo era una concezione del mondo che non riconosceva una fede soprannaturale e riteneva di poter prescindere dal comune sentire degli uomini, ma anche perché l’episcopato doveva concentrare «la sua scarsa possibilità di influenza in primo luogo su altre questioni, ecclesiasticamente più importanti e di maggiore portata, […] specialmente sul problema, che diviene sempre più pressante, di come impedire efficacemente un’influenza anticristiana e antiecclesiastica nell’educazione della gioventù cattolica». Rispetto all’atteggiamento da assumere di fronte ai misfatti del regime nazista monsignor Gröber riteneva che raramente l’episcopato tedesco si era mostrato così diviso, ma il fatto che sia stato il punto di vista dell’anziano cardinale di Breslavia quasi sempre a prevalere mostra che alla fin fine, nonostante le tante perplessità e incertezze, la maggioranza dei vescovi condivideva nel fondo le sue argomentazioni.
Nei mesi successivi alla clamorosa denuncia delle uccisioni in corso di ammalati mentali e di handicappati, pronunciata da monsignor von Galen dal pergamo della cattedrale di Münster nel luglio 1941 (fu una denuncia che ottenne la sospensione di quelle uccisioni), gruppi autorevoli di religiosi e di laici spinsero per andare oltre, per allargare la pubblica denuncia anche alla persecuzione in corso contro gli ebrei. Fu un fallimento. L’imperativo categorico che aveva mosso von Galen a scendere in campo per la libertas Ecclesiae e per la vita dei suoi Volksgenossen senza cedere alle prudenze e alle ragionevolezze altrui, non operò in loro favore. È la constatazione di un fatto, per spiegare il quale non ci si può limitare all’osservazione che non vi era, in Germania, una pubblica opinione preparata ad accogliere e sostenere un’eventuale denuncia del genere. Perché non si può non aggiungere che per tale denuncia erano in primo luogo i vescovi ad essere impreparati, perché altri erano i problemi che li assillavano, e che l’opinione pubblica mancava non tanto perché gli orrori della persecuzione fossero sconosciuti o incredibili, ma perché si scontava il pressoché completo silenzio delle Chiese cristiane sulla persecuzione cui gli ebrei erano ed erano stati sottoposti dai nazisti fin dagli anni Trenta.
Non sono nodi facili da sciogliere, né si tratta di atteggiamenti e scelte riducibili ad una spiegazione univoca. Ai condizionamenti cui già si è accennato anche un altro elemento può essere aggiunto per quegli ultimi anni di guerra. Si può ritenere infatti che quando Bertram scriveva, il 9 agosto 1943, delle forme spaventose assunte dal conflitto, «che si presenta ormai come un omicida di massa di tanti uomini innocenti e annienta la ricchezza culturale dell’intero passato», egli pensasse anche allo sterminio degli ebrei. Ma accomunandolo, in un senso di desolata impotenza, alle tante altre calamità e sofferenze, alle migliaia di civili colpiti, alle stragi dei bombardamenti, egli ne rimuoveva e ne cancellava ogni specificità, riportandolo ai termini e agli orrori di una guerra atroce. Non diversamente si esprimerà il cardinale Faulhaber nelle settimane e nei mesi immediatamente successivi alla fine della guerra, contrapponendo agli orrori di Dachau e di Buchenwald gli orrori dei bombardamenti e negando che il popolo tedesco o gli stessi membri del partito potessero essere ritenuti responsabili dei crimini commessi nei campi di concentramento, che, egli affermava, erano rimasti sconosciuti ai più. L’appiattimento e la semplificazione per non dire la manipolazione dei fatti sembrano evidenti. Confusa nelle atrocità della guerra la Shoah continuava a restare priva di quella percezione specifica che sola avrebbe permesso forse di combatterla con una qualche efficacia. Non diversamente avvenne, per tanti aspetti, con la Santa Sede e le altre diverse Chiese dell’antica cristianità.

Negli anni della guerra: l’atteggiamento della Santa Sede

Non c’è dubbio: ben più complessi erano i problemi e più articolate e pesanti le responsabilità che la Santa Sede si era trovata a dover affrontare con lo scoppio della guerra. Il tentativo di Pio XII di avviare, fin dall’indomani della sua elezione, un processo di distensione nei rapporti con il Terzo Reich ne era rimasto travolto. Nonostante lo choc creato in Vaticano dal patto tedesco-sovietico l’atteggiamento scelto fu quello dell’imparzialità, ripetendo la linea che era stata di Benedetto XV durante la prima guerra mondiale, sulla base della considerazione che il papa, padre di tutti, non poteva schierarsi con l’uno o l’altro dei suoi figli in lotta. È tanto più una tale imparzialità era necessaria quale segno di riferimento e simbolo concreto della persistente unità della Chiesa, di fronte all’ovvio disporsi dei diversi cattolicesimi nazionali a sostegno delle rispettive patrie (Pio XII lo ribadì esplicitamente nella Mystici corporis del giugno 1943). Fino all’ultimo, nei mesi precedenti il suo scoppio, Pio XII si era speso in appelli per la pace, affiancandoli ad un sottile e intenso lavorio diplomatico. Il tentativo di esercitare un’opera di mediazione diretta o indiretta tra i fronti contrapposti fallì allora come fallirà in seguito. La deprecazione del papa per la guerra, i suoi disastri e le sue crudeltà, per i sistemi di distruzione sempre più estesi e feroci, per il larghissimo coinvolgimento delle popolazioni civili, fu costante e ripetuta. E costante e ripetuto fu il suo invito a mantenere nella guerra «quel nobile senso di umanità, che in ogni evento non fa agli altri ciò che non vorrebbe fosse fatto a sé e al proprio popolo», come disse nell’omelia del 24 novembre 1940. Così come costante e ripetuta fu da parte sua la sottolineatura che solo il pieno ripristino del ruolo del cristianesimo e della Chiesa nel regolare i costumi della vita politica e civile poteva permettere in futuro di realizzare e mantenere una vera pace.
All’indomani dello scoppio della guerra, insieme alla sua assoluta e doverosa imparzialità verso le contese politiche che dividevano i suoi figli, Pio XII non aveva mancato di ricordare, in particolare nella sua prima enciclica, la Summi pontificatus, anche il suo dovere di additare e condannare colpe ed errori che andavano evitati. E in effetti comportamenti e azioni che non avevano paragoni con il passato – inutile ricordarlo – caratterizzarono l’intero svolgimento del conflitto: i bombardamenti sistematici delle popolazioni civili, avviati fin dall’attacco tedesco alla Polonia, e proseguiti con spaventoso crescendo da entrambi i contendenti, fino all’uso della bomba atomica al chiudersi della guerra con il Giappone; la deportazione, ghettizzazione e poi sistematica uccisione degli ebrei europei; i massacri e le conversioni forzate dei serbo-ortodossi ad opera degli ustascia croati; le rappresaglie feroci compiute dai nazisti sulle popolazioni civili: sono i fatti maggiori sui quali si evitò di prendere esplicita posizione pubblica, nonostante i propositi inizialmente enunciati. Pio XII vi alluse talvolta in termini generali, senza peraltro nominare mai i responsabili. Le espressioni per lo più usate, di compatimento e di deplorazione, suggerivano piuttosto una colpa collettiva, che trovava nella guerra il suo castigo e nell’abbandono degli insegnamenti della Chiesa da parte degli Stati e delle società la sua ragione di fondo.
Furono reticenze e silenzi che suscitarono fin da allora – è un aspetto sovente dimenticato – critiche più o meno sommesse e domande di più esplicito intervento. E non alludo alle troppo ovvie e interessate richieste avanzate nei primi anni di guerra dagli alleati occidentali, che di un più esplicito intervento papale avrebbero potuto servirsi nella loro propaganda, ma di pressioni e domande che provenivano dall’interno stesso della Chiesa. E se riguardo alla lettera del cardinale Tisserant (che all’indomani della caduta della Francia lamentava, scrivendone all’arcivescovo di Parigi, l’inerzia del papa rispetto ai problemi che i metodi di guerra ponevano alla coscienza cristiana) si può anche pensare parlasse il sentimento patriottico del francese ferito, non altrettanto si può dire di monsignor Respighi, prefetto delle cerimonie pontificie, che nel maggio del 1943, chiedendo «una parola forte e solenne in difesa dell’umanità», affermava di avere «le orecchie intronate», «lo spirito sconvolto e addolorato» dalle richieste in questo senso che gli provenivano da più parti e si dichiarava preoccupato per il rischio che correva il prestigio del papa e della Santa Sede se il silenzio si fosse protratto; né questo si può dire dell’arcivescovo di Ferrara, Ruggero Bovelli, che nel dicembre del 1943 chiedeva un esplicito intervento in difesa dei «non-ariani», né del vescovo di Berlino, von Preysing, che, pur se con discrezione, si espresse più volte in questo senso nelle sue lettere al papa. Non vi è dubbio, del resto, che Pio XII stesso abbia avvertito il problema: ciò emerge dalla cura con cui più volte, in dichiarazioni pubbliche e in lettere private, egli cercò di spiegare le ragioni del suo riserbo, così come dalla domanda che rivolse al delegato apostolico in Turchia, Angelo Roncalli, ricevendolo il 10 ottobre 1941, se cioè «il suo silenzio circa il contegno del nazismo non è giudicato male».
Ragioni complesse e condizionamenti crescenti stavano alla base di quel riserbo. Le riassumerò schematicamente, cominciando da quella «volontà di evitare mali maggiori» che Pio XII stesso enunciò in un tempestoso colloquio con l’ambasciatore italiano Alfieri, come motivo fondamentale del suo silenzio di fronte alle «orribili cose che avvengono in Polonia». Tale volontà, ancor oggi largamente ripetuta per spiegare quell’atteggiamento, non fu peraltro la ragione esclusiva di quel riserbo, come un’analisi attenta e spassionata della documentazione disponibile attesta con chiarezza; va intesa inoltre in un’accezione larga, nel senso che non è riferibile esclusivamente alla condizione delle vittime via via colpite dalla repressione nazista. Si trattava infatti di evitare il crescere complessivo dei pericoli, delle sciagure e dei disastri, e dunque, tra l’altro, di continuare a tutelare il cattolicesimo tedesco, sottoposto a una strisciante persecuzione, che una denuncia aperta dei crimini nazisti da parte del papa avrebbe potuto rendere terribile.
Si trattava inoltre di mantenere in vita e di difendere su entrambi i versanti delle potenze in lotta quelle opere di assistenza e di informazione, da subito messe in campo dalla Santa Sede, per soccorrere le popolazioni, informare le famiglie interessate su prigionieri, internati, deportati e via dicendo. Ma in riferimento alla Chiesa e al cattolicesimo tedeschi anche un’altra considerazione suggeriva un atteggiamento di riserbo, ossia l’opportunità di tener conto anche del loro profondo e perdurante coinvolgimento patriottico. Credo vada cercato anche qui il perché di quella sorta di delega a parlare essi, in quanto pastori che si trovano sul posto, più volte ripetuta da Pio XII nelle sue lettere ai vescovi tedeschi. L’aspirazione a esercitare un qualche ruolo di mediazione fra le parti in lotta costituì comunque uno degli elementi che più profondamente condizionarono la Santa Sede in quegli anni. Si tratta di un capitolo complesso, cui posso solo accennare, dell’azione di Pio XII durante la guerra, un’azione in cui il desiderio di ristabilire la pace si mescolava ad altre pressanti preoccupazioni. Fu un’azione non esente da rischi, come quando, nell’inverno 1939-1940, egli si fece tramite fra l’opposizione interna tedesca e la Gran Bretagna in vista di un’eventuale accordo che presupponeva la caduta di Hitler. Le diffidenze inglesi nei confronti di una cospirazione sempre annunciata e mai operativa e le esitazioni dei «cospiratori» fecero fallire tale tentativo, definitivamente seppellito dalla folgoranti vittorie di Hitler sul fronte occidentale. Così come andò a vuoto l’ipotesi di un sua mediazione prospettata da Pio XII ai governi tedesco, italiano e inglese nell’estate del 1940, all’indomani della caduta della Francia. Dopo la richiesta di una resa senza condizioni formulata dalle potenze alleate nel gennaio 1943, la prospettiva che il Vaticano potesse svolgere un’effettiva opera di mediazione in vista del ristabilimento della pace venne di fatto meno.
Ma proprio questa nuova condizione, con le difficoltà che ne conseguivano sul piano diplomatico, ripropone con chiarezza nei documenti vaticani un’ulteriore preoccupazione che spinse la Santa Sede a cercare di mantenere a tutti i costi i rapporti anche con la Germania, rapporti che una rottura esplicita di quel riserbo avrebbe inevitabilmente interrotto. Fin dallo scoppio della guerra in effetti il timore che la Russia sovietica e il comunismo potessero approfittare del logorio dei paesi belligeranti per «dare all’Europa cristiana il colpo decisivo» (radiomessaggio del Natale 1939), è presente nelle dichiarazioni pubbliche di Pio XII e nei documenti vaticani. Tale preoccupazione traspare chiaramente nelle proposte di mediazione già ricordate sostenute o avanzate dal papa. All’indomani dell’attacco tedesco alla Russia la speranza vaticana, come si espresse in un appunto interno monsignor Tardini, è che la Russia ne esca sconfitta e la Germania gravemente indebolita e «da sconfiggere». In effetti la crescente persecuzione del cattolicesimo tedesco e soprattutto la pesantissima condizione cui vennero sottoposti i cattolici nel Warthegau (la regione della Polonia annessa al Reich, ma dove il governo si era rifiutato di applicare il concordato) non lasciavano nessuna illusione su quale sarebbe stata la sorte della Chiesa nel caso di una vittoria finale della Germania nazista.
Ma quando, con l’inverno 1942-1943, le vicende della campagna di Russia cominciarono a profilare la sconfitta della Germania, sempre più crescente divenne negli ambienti vaticani il timore di un’inarrestabile espansione comunista in Europa, sia attraverso gli eserciti sovietici, sia attraverso sovversioni interne. Tale prospettiva rappresentò indubbiamente una delle preoccupazioni maggiori della Santa Sede negli ultimi anni della guerra e ne condizionò profondamente la politica. Anche da ciò la volontà di evitare in ogni modo di rompere le relazioni diplomatiche con la Germania (ciò che in ultima istanza spiega anche il sostanziale silenzio del papa di fronte alla razzia di oltre mille ebrei romani il 16 ottobre 1943), nella speranza di poterla recuperare in qualche modo, nell’eventuale eliminazione o messa da parte dei capi nazisti, ad un rinnovato fronte antisovietico. Non ultima ragione della costernazione con cui la Santa Sede giudicò la richiesta di resa incondizionata avanzata dalle potenze alleate. Non per questo essa cessò di lasciar trasparire ai diplomatici anglo-americani il suo segreto auspicio di un qualche accordo tra essi e una Germania più o meno depurata dei personaggi di punta del nazismo.
Inoltre, a segnare l’atteggiamento della Santa Sede e degli episcopati locali verso il conflitto in corso, restavano in campo, più volte ribadite, le idee sui doveri di guerra e di obbedienza alle autorità cui i fedeli cattolici erano tenuti. Il «fortissimo amor di patria», la disponibilità a dare per essa la vita, l’«eroismo dei combattenti nell’adempimento del loro dovere, anche fino al sacrificio supremo per la difesa della patria», vengono salutati positivamente da Pio XII e ricordati tra gli obblighi dei militanti dell’Azione cattolica, insieme a quello di «leale e coscienziosa obbedienza alle Autorità civili e alle loro legittime prescrizioni», in un discorso tenuto ai loro dirigenti il 4 settembre 1940. Tale insieme di ragioni e di considerazioni, che di volta in volta variamente pesò sull’atteggiamento vaticano, costituì l’ostacolo maggiore nei confronti di una esplicita e pubblica presa di posizione di denuncia e di condanna della persecuzione e dello sterminio degli ebrei, e alimentò sino alla fine il suo riserbo al riguardo. Che d’altra parte ripeteva il riserbo già osservato negli anni precedenti.
Alla luce delle notizie sempre più drammatiche sulla deportazione degli ebrei europei e sul loro progressivo sterminio si pose e da più parti fu posta al papa la questione di un suo intervento pubblico. Fu una lunga sequela di pressioni cui corrisposero risposte elusive e ricorrenti momenti di incertezza, in cui sembrò inevitabile una pubblica denuncia. Pio XII si riferì due volte nei suoi discorsi alla condizione degli ebrei, in termini allusivi che evitavano di definire tali le vittime. Una prima nel radiomessaggio del Natale 1942, in un contesto che intendeva esprimere l’auspicio di pace che nasceva dagli orrori stessi del presente: «Questo voto [di pace in un ordine nuovo] l’umanità lo deve alle centinaia di migliaia di persone le quali, senza veruna colpa propria, talora solo per ragioni di nazionalità o di stirpe, sono destinate alla morte o ad un progressivo deperimento». Conformemente ai suoi precedenti interventi sugli aspetti più esecrandi della guerra egli si astenne da qualsiasi forma di condanna, scegliendo la strada della deprecazione e del compatimento. I rappresentanti delle potenze alleate si dichiararono delusi, ma agli occhiuti esperti del servizio di sicurezza del Reich non sfuggì né il senso complessivo del messaggio, che bandendo la «crociata sociale» si poneva in alternativa al «nuovo ordine europeo» patrocinato dal nazismo, né il senso del riferimento a quanti soffrono «per ragioni di nazionalità o di stirpe». «Qui, essi scrissero nel loro rapporto, egli virtualmente accusa il popolo tedesco di ingiustizia nei riguardi degli ebrei e si fa portavoce dei criminali di guerra ebrei». Von Ribbentrop incaricò l’ambasciatore tedesco presso il Vaticano, Diego von Bergen, di mettere in guardia il papa: «Da alcuni sintomi parrebbe che il Vaticano sia orientato ad abbandonare il suo normale atteggiamento di neutralità e a prendere posizione contro la Germania. Sta a voi informarlo che il governo del Reich non manca di mezzi per replicare efficacemente ad ogni colpo portato dal Vaticano contro la Germania».
Secondo il rapporto di von Bergen la reazione di Pio XII fu serena e ferma («Pacelli non è più sensibile alle minacce di quanto lo siamo noi») e l’ambasciatore per parte sue non mancò di suggerire l’opportunità di un miglioramento dell’atmosfera, insistendo perché il Vaticano cessasse le sue lagnanze e L’Osservatore Romano i suoi attacchi. Ma il papa ribadì l’estrema preoccupazione che gli creava la situazione tedesca, riproponendo dunque in primo piano la condizione del cattolicesimo in Germania. Il secondo intervento pubblico di Pio XII avvenne il 2 giugno 1943, in occasione del consueto discorso al Sacro Collegio, riunito per la festività di Sant’Eugenio. Il riferimento alle persecuzioni antiebraiche è inserito in un ampio contesto che richiama i crescenti ostacoli frapposti all’opera della Chiesa. Ricordando come la sua missione si rivolga con uguale sollecitudine a tutti i popoli, egli rilevò il dovere di sventare ogni tentativo di chi intendesse offuscare la purezza della sua dottrina e del suo insegnamento, comprimere l’universalità del suo messaggio, negare il disinteresse del suo amore. Ma proprio tale «dovere» rende quanto mai difficile il compito «di Chi, in nome di Cristo e per suo mandato, ha la missione di farsi tutto a tutti, nella lotta di tutti contro tutti, per guadagnare tutti a Dio».
È un riconoscimento denso di implicazioni. Esprime la consapevolezza di Pio XII che la tutela della funzione universale e dell’immagine della Chiesa compete in primo luogo al papa, al vicario di Cristo. Da ciò un suo parlare che non può non «denunziare, con verità ma con amore, gli errori che sono alla radice di tanti mali, affinché gli uomini se ne guardino e tornino nella via della salvezza». Ma Pio XII non si limitò a tale affermazione: perché in quel contesto terribile tale denuncia non poteva rischiare di diventare «di parte», non poteva né doveva contraddire quell’«amore» che egli, per il suo stesso ufficio, era tenuto a mostrare a tutti. Da ciò la sua cura di precisare che, nel denunciare gli errori, «non è, né fu mai Nostra intenzione di muovere un atto di accusa, bensì di richiamare gli uomini al sentiero della verità e a salvamento», e il suo ribadito rammarico che la sua voce corra costantemente il rischio di venir alterata e deformata. È questo il lungo preambolo che introduce alla parte dedicata alle situazioni che Pio XII considerava come particolarmente dolorose: un preambolo che intende evidentemente offrire il criterio di lettura della parte che segue, nel senso che la denuncia di quelle situazioni dolorose non doveva in alcun modo menomare la sua «paternità universale», che nella scelta dell’imparzialità verso ognuno dei contendenti trovava la sua principale forma di salvaguardia e di espressione. Essa si apre con il passo che chiaramente allude alle persecuzioni antiebraiche (continuerà con un’illustrazione della condizione delle «minori nazioni» e della «tragica sorte del popolo polacco»): «Non vi meraviglierete, venerabili Fratelli e diletti Figli, se l’animo Nostro risponde con sollecitudine particolarmente premurosa e commossa alle preghiere di coloro, che a Noi si rivolgono con occhio di implorazione ansiosa, travagliati come sono, per ragione della loro nazionalità o della loro stirpe, da maggiori sciagure e da più acuti e gravi dolori, e destinati talora, anche senza propria colpa, a costrizioni sterminatrici. Non dimentichino i reggitori di popoli che colui il quale (per usare il linguaggio della S. Scrittura) porta la spada, non può disporre della vita e della morte degli uomini che secondo la legge di Dio, da cui viene ogni potestà».
A tali riferimenti pubblici, cui è difficile riconoscere una particolare incisività, si accompagnò una più o meno intensa attività diplomatica, soprattutto in direzione delle nazioni alleate della Germania, per limitare gli effetti delle leggi di discriminazione, ridurre o ritardare le deportazioni, esentarne gli ebrei cattolici, favorire l’emigrazione di singoli o di gruppi in direzione di paesi neutri. Fu un lavorio defatigante che registrò qualche successo parziale o momentaneo, ma anche molte sconfitte. Anche un altro aspetto tuttavia va rilevato. La difficoltà cioè, da parte vaticana, pur in una situazione così drammatica, di mettere in discussione e rivedere aspetti e schemi della propria tradizione antiebraica. Non sono solo brandelli di un pensiero e di un linguaggio antichi che emergono qua e là dalla documentazione disponibile. Vi è anche qualcosa di più corposo e sostanziale, che riporta ad atteggiamenti e a giudizi del passato, come ad esempio la difficoltà a sostenere, pur in un contesto ormai drammatico, l’emigrazione di gruppi ebraici in Palestina, nonostante i pericoli che li minacciavano, o l’atteggiamento assunto verso le leggi speciali contro gli ebrei, di cui si riprova l’impianto razzistico che le ispira, ma non il fatto discriminatorio in quanto tale. Non a caso, nell’agosto 1943, seguendo evidentemente le istruzioni della segreteria di Stato, il plenipotenziario vaticano, il gesuita Tacchi Venturi, nelle sue trattative con il ministro dell’Interno del governo Badoglio intorno alla legislazione razziale emanata dal regime fascista, si guardò bene, come scrisse nel suo rapporto al cardinale Maglione, «dal pure accennare alla totale abrogazione» di quella legge (tale era stata la richiesta dell’Unione delle comunità israelitiche italiane), sulla base della considerazione che essa, «secondo i princìpi e la tradizione della Chiesa Cattolica, ha bensì disposizioni che vanno abrogate, ma ne contiene pure altre meritevoli di conferma». Sono posizioni e giudizi chiaramente non riducibili alle estreme difficoltà e alla precarietà della situazione presente. Qui, come in relazione alle altre leggi di discriminazione emanate in Francia, come in Slovacchia, come in Ungheria, la memoria delle aspirazioni e degli orientamenti antichi preme ad impedire un’opposizione e un rifiuto globali.
Non vi è dubbio: di fronte alla ferocia e alla determinazione dei nazisti domina un desolato senso di impotenza e di frustrazione. Non era Orsenigo soltanto a commentare con un «non c’è nulla da fare» il fallimento dei suoi tentativi di intervenire a favore di singoli ebrei. Nonostante la crescente subordinazione dei governi satelliti della Germania alla volontà dei rappresentanti del Terzo Reich si riuscì ad ottenere talvolta qualche dilazione al compiersi delle misure più estreme, ma solo in Danimarca e Bulgaria l’azione congiunta dei poteri pubblici e delle gerarchie locali, protestante nel primo caso, ortodossa nel secondo, valse a strappare alla deportazione e allo sterminio gran parte delle comunità ebraiche locali. In altri casi le proteste pubbliche, come quella appassionata di monsignor Saliège, arcivescovo di Tolosa, di fronte alla deportazione che colpiva gli ebrei francesi anche nei territori non occupati, sollecitò la solidarietà delle popolazioni senza poter incidere sull’azione delle autorità. In Italia, dopo l’8 settembre 1943, gerarchie locali e conventi si attivarono, chi più chi meno, nell’offrire soccorso agli ebrei perseguitati, e un segnale preciso in questo senso lo diede la Santa Sede attraverso un articolo dell’Osservatore Romano che, all’indomani dei provvedimenti assunti dalla Repubblica di Salò contro gli ebrei, non solo ne contestò il merito, ma invitò anche con inconsueta esplicitezza a soccorrere e aiutare i colpiti. Sono iniziative collettive o individuali che si manifestarono pressoché dovunque, che comportarono rischi talvolta anche gravissimi per quanti ne furono i generosi protagonisti, ma che restarono, e a quel punto non potevano non restare, del tutto impari (una goccia nel mare) di fronte all’immensità della tragedia.
A leggere certe dichiarazioni si ha a volte l’impressione che anche un altro elemento si insinui nell’ottica di alcuni vescovi, a profilare per dir così l’ineluttabilità di quelle persecuzioni. Rappresentano un caso limite le parole che l’arcivescovo cattolico di Bucarest, monsignor Cizar, avrebbe opposto al gran rabbino Alexandre Safran venuto da lui a chiedere soccorso: «Signor gran rabbino, non comprendete che i vostri pagano oggi per ciò che hanno fatto un tempo a Gesù? Essi hanno assassinato il Cristo, essi devono espiare questo crimine. Vi è un solo modo per salvarli dallo sterminio: dire ai vostri correligionari di convertirsi e di accettare Gesù come loro salvatore». Ma il ritrovare in alcune prediche e pastorali vescovili dei primi anni Quaranta, come già era avvenuto del resto nel corso degli anni Trenta, il richiamo al grido imprecatorio degli ebrei ricordato nel versetto di Matteo 27,25 «Sanguis eius super nos et super filios nostros», quasi a spiegare la ragione profonda delle sofferenze che essi dovevano patire, suggerisce quanto meno il permanere di atteggiamenti di rassegnata passività di fronte al carattere inevitabile, iscritto in una storia che non era in potere degli uomini di modificare, di quelle sofferenze.
Non è evidentemente possibile, e tanto più in un’analisi lacunosa e inevitabilmente sommaria come questa, cercare di precisare più puntualmente il peso che di volta in volta questo complesso insieme di elementi e di circostanze ebbe nel determinare le scelte e gli atteggiamenti della Chiesa verso la persecuzione antiebraica e la Shoah. Parlare genericamente, per definirne i caratteri, di indifferenza offre una formula troppo semplificante quando non è una forzatura polemica. Ma non vi è dubbio che, per le molteplici ragioni che si è cercato di individuare, la condizione degli ebrei, anche quando li colpì lo sterminio, non figurò nell’ordine dei problemi maggiori che la Santa Sede e le varie Chiese locali si posero in quegli anni. Dopo essere rimasta sostanzialmente marginale nel corso degli anni Trenta, restò negli anni successivi sempre più mescolata e confusa tra gli orrori terribili di una guerra atroce. E ci volle ben più di un decennio (e non per la Chiesa cattolica soltanto) per cominciare a coglierne la terribile specificità, e le responsabilità diffuse, non limitabili a quella primaria e decisiva dei nazisti e dei loro complici, che l’avevano resa possibile.*
* Ho trattato più ampiamente l’intera questione in I dilemmi e i silenzi di Pio XII. Vaticano, Seconda guerra mondiale e Shoah, Bur-Storia, Milano 2007, pp. XV-608. In una bibliografia molto vasta vedi inoltre R. Moro, La Chiesa e lo sterminio degli ebrei, il Mulino, Bologna 2002. pp. 216 ss; Ph. Chenaux, Pie XII. Diplomate et pasteur, Cerf, Paris 2003, pp. 462 ss; E. Fattorini, Pio XI, Hitler e Mussolini. La solitudine di un papa, Einaudi, Torino 2007, pp. XXVIII-252.

Nessun commento:

Posta un commento