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giovedì 6 settembre 2012

L’APOSTOLICITÀ DELLA CHIESA E LA SUCCESSIONE APOSTOLICA BASATA SU PIETRO, sucessore dei vescovi di roma


.. è vero che nelle chiese ortodosse esiste storicamente parlando una sucessione apostolica che ha origine dai primi apostoli, ma se ci basiamo sulla sacra scrittura essa, in Mat. 16, 18-19, aiuta a capire, e acredere, che: la successione apostolica non basta da sola, infatti una sola chiesa vanta il primato di pietro, ed è la Chiesa cattolica, v. versetto 18 " E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa"; v. 19 : "A te darò LE CHIAVI del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli».

Fonti:

ulteriori approfondimenti:
http://www.cristianicattolici.net/la_ver

.. siccome non siamo protestanti, il magistero della chiesa, per definire la fede e la prassi della chiesa, si basa su due fonti della rivelazione: la scrittura e la tradizione. ora, anche la tradizione, con i padri della chiesa in primis, supporta la scrittura, e CIOè CHE NON V'è VERA E PIENA CHIESA CATTOLICA SE NON NELLA CHIESA DI ROMA, e chi non riconosce la supremazia non solo di onore ma di autorità e di giurisdizione del papa, ma una semplice sucessione apostolica senza quella petrina, ebbene, non può affermare che la sua chiesa sia cattolica, per quanto ortodossa..
 
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COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE

L’APOSTOLICITÀ DELLA CHIESA E LA SUCCESSIONE APOSTOLICA*

(1973)



Proemio

Il presente studio vorrebbe chiarire il concetto di successione apostolica, da una parte perché la presentazione della dottrina cattolica al riguardo appaia di maggiore utilità per la vita della Chiesa cattolica, e d’altra parte perché lo esige il dialogo ecumenico.

Il dialogo ecumenico, infatti, è avviato un po’ dappertutto nel mondo, con prospettive d’un avvenire fruttuoso, qualora i cattolici vi parteciperanno nella fedeltà alla loro identità cattolica. Vorremmo dunque presentare la dottrina della Chiesa cattolica relativa alla successione apostolica, allo scopo di confortare i nostri fratelli nella fede e per contribuire allo sviluppo e alla maturazione del dialogo ecumenico.

Enumeriamo alcune difficoltà nelle quali più spesso ci si imbatte:

- Che cosa si può ricavare dalla testimonianza del Nuovo Testamento, considerato scientificamente? Come dimostrare la continuità tra il Nuovo Testamento e la Tradizione della Chiesa?

- Qual è la funzione dell’imposizione delle mani nella successione apostolica?

- Non è forse la tendenza, in certi ambienti, a ridurre la successione apostolica all’apostolicità comune a tutta la Chiesa, o, al contrario, a ridurre l’apostolicità della Chiesa alla successione apostolica?

A monte di tutti questi interrogativi si pone il problema dei rapporti tra la Scrittura, la Tradizione e le dichiarazioni solenni della Chiesa.

Ogni riflessione è subordinata alla visione della Chiesa che, per volontà del Padre, sgorga tutt’intera dal mistero del Cristo nella sua Pasqua, animata dallo Spirito e organicamente strutturata. Noi intendiamo collocare la funzione propria ed essenziale della successione apostolica nella Chiesa intera che confessa la fede apostolica e che rende testimonianza al suo Signore.

Ci appoggiamo alla Sacra Scrittura, che ha per noi il duplice valore di documento storico e di documento ispirato. Come documento storico, il Nuovo Testamento racconta i fatti principali della missione di Gesù e della Chiesa del primo secolo; come documento ispirato, esso attesta questi fatti fondamentali, li interpreta e manifesta il loro vero significato interiore e la loro coerenza dinamica. Come espressione del pensiero di Dio nelle parole degli uomini, la Scrittura ha valore direttivo per il pensiero della Chiesa di Cristo in ogni tempo.

Una lettura della Scrittura che riconosca ad essa, in quanto libro ispirato, un carattere normativo per la Chiesa di tutti i tempi, è necessariamente una lettura all’interno della Tradizione della Chiesa, che ha riconosciuto la Scrittura come ispirata e normativa. Questo riconoscimento del carattere normativo della Scrittura implica fondamentalmente il riconoscimento della Tradizione, in seno alla quale la Scrittura si è maturata ed è stata considerata ed accettata come ispirata. Il suo carattere normativo e il suo rapporto alla Tradizione si condizionano, dunque, scambievolmente. Ne segue che ogni considerazione propriamente teologica della Scrittura è, al tempo stesso, considerazione ecclesiale.

L’insieme del documento ha dunque questo punto metodologico di partenza: ogni tentativo di ricostruzione, che pretendesse isolare le fasi particolari della costituzione degli scritti neotestamentari e separarli dal loro vivo accoglimento da parte della Chiesa, è in sé contraddittorio.

Questo metodo teologico, che vede nella Scrittura un insieme indivisibile legato alla vita e al pensiero della comunità, in seno alla quale è conosciuta e riconosciuta come Scrittura, non significa per nulla neutralizzare il punto di vista della storia in nome d’un apriorismo ecclesiastico che dispenserebbe da una lettura rispondente all’esigenze del metodo storico.

Il metodo adottato permette di percepire i limiti d’un puro storicismo: esso sa bene che un’analisi puramente storica d’un libro preso isolatamente e separato dalla storia del suo influsso non può dimostrare con certezza che il cammino della fede nella storia è il solo possibile. Ma questi limiti della dimostrabilità storica, della quale non è consentito dubitare, non distruggono affatto il valore e il peso proprio della conoscenza storica. Al contrario, il fatto dell’accettazione della Scrittura come tale, che per la Chiesa primitiva ha valore costitutivo, deve sempre essere di nuovo pesato nel suo significato: bisogna cioè ripensare il rapporto fra le parti nelle loro differenze, con l’unità dell’insieme. Ciò implica pure che non si può ridurre la Scrittura stessa a una serie di abbozzi messi uno accanto all’altro, ciascuno dei quali sarebbe alla base di un progetto di vita orientato su Gesù di Nazareth, ma che bisogna comprenderla come espressione di un cammino storico che manifesta l’unità e la cattolicità della Chiesa.

In questo cammino, che comprende tre grandi tappe: il tempo precedente alla Pasqua, il tempo apostolico e quello post-apostolico [1], ogni momento ha la sua propria importanza, ed è significativo che gli uomini apostolici di cui parla la Dei Verbum (n. 18), abbiano potuto elaborare una parte degli scritti del Nuovo Testamento. Allora appare chiaramente in che maniera la comunità di Gesù Cristo ha risolto il problema di rimanere apostolica pur essendo diventata post-apostolica. Esiste per conseguenza un carattere normativo specifico della parte post-apostolica del Nuovo Testamento per il tempo della Chiesa dopo gli Apostoli, edificata certamente sugli Apostoli, i quali hanno essi stessi Cristo per fondamento.

Negli scritti post-apostolici, la Scrittura stessa rende testimonianza alla Tradizione, e già comincia a manifestarsi il Magistero nel richiamo all’insegnamento degli Apostoli (cf. Act 2, 42; 2 Pt 1, 20). Questo Magistero avrà la sua piena fioritura nel secondo secolo, nel momento in cui si espliciterà pienamente il concetto di successione apostolica.

Insieme, Scrittura e Tradizione, meditate e autenticamente interpretate dal Magistero, ci trasmettono fedelmente l’insegnamento di Cristo, nostro Dio e Salvatore, e regolano la dottrina che la Chiesa ha la missione di proclamare a tutti i popoli e di applicare ad ogni generazione fino alla fine dei secoli.

In questa prospettiva propriamente teologica — secondo la dottrina del Vaticano II — noi abbiamo redatto gli enunziati seguenti circa la successione apostolica e sulla valutazione dei ministeri che esistono nelle Chiese e Comunità non aventi ancora piena comunione con la Chiesa cattolica.

I. L’apostolicità della Chiesa e il sacerdozio comune

1. I Simboli di fede confessano che la Chiesa è apostolica. Ciò non significa soltanto che essa continua a confessare la fede apostolica, ma che è decisa a vivere sotto la norma della Chiesa primitiva, espressa dai primi testimoni del Cristo e retta dallo Spirito Santo, che il Signore le ha donato dopo la sua risurrezione. Le Lettere e gli Atti degli Apostoli ci mostrano la presenza efficace di questo Spirito nella Chiesa intera, non solo per quanto concerne la sua diffusione, ma più ancora nella trasformazione dei cuori: egli li rende conformi agli intimi sentimenti di Cristo. Stefano martire ripete le parole di perdono del Signore morente; Pietro e Giovanni, flagellati, gioiscono d’essere stati degni di soffrire per lui; Paolo porta le stigmate (Gal 6, 17), vuol essere configurato alla morte di Cristo (Phil 3, 10), non vuol conoscere altro che il crocifisso (1 Cor 1, 23; 2, 2), e comprende la sua esistenza come un’assimilazione al sacrificio espiatorio della croce (Phil 2, 17; Col 1, 24).

2. Quest’assimilazione ai sentimenti del Cristo e soprattutto alla sua morte sacrificale per il mondo costituisce il significato ultimo di ogni vita che vuol essere cristiana, spirituale, apostolica.

Perciò la Chiesa primitiva adatta il vocabolario sacerdotale dell’Antico Testamento a Cristo, agnello pasquale della Nuova Alleanza (1 Cor 5, 7) e — per riferimento a lui — ai cristiani la cui vita si specifica in rapporto al mistero pasquale. Convertiti dalla predicazione del Vangelo, essi sono convinti di vivere un sacerdozio santo e regale, trasposizione spirituale di quello dell’antico popolo (1 Pt 2, 5. 9; cf. Ex 19, 6; Is 61, 6), resa possibile dall’intervento dell’offerta sacrificale di Colui che ricapitola in sé tutti gli antichi sacrifici ed apre la strada verso il sacrificio totale ed escatologico della Chiesa (cf. S. Agostino, De Civitate Dei, X, c. 6).

Di fatto i cristiani, pietra viva del nuovo edificio che è la Chiesa fondata su Cristo, offrono a Dio un culto nella novità dello Spirito, culto personale, giacché si tratta d’offrire la vita «in sacrificio vivente, santo e gradito a Dio» (Rom 12, 1; cf. 1 Pt 2, 5), e insieme comunitario, perché tutti insieme rappresentano quell’«edificio spirituale», quel «sacerdozio santo» e «regale» (2 Pt 2, 9), il cui scopo è di offrire «sacrifici spirituali, graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo» (1 Pt 2, 5).

Questo sacerdozio ha insieme una dimensione morale — deve essere esercitato ogni giorno ed in ogni atto della vita quotidiana —, una dimensione escatologica, in vista dell’eternità futura giacché Cristo ha fatto di noi «un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre» (Ap 1, 6; cf. 5, 10; 20, 6), e una dimensione propriamente culturale, poiché l’Eucaristia di cui vivono è paragonata da San Paolo ai sacrifici dell’Antica Legge ed anche — per con­trasto — a quelli dei pagani (1 Cor 10, 16-21).

3. Ora, per la costituzione, l’animazione e la conservazione di questo sacerdozio dei cristiani, Cristo ha istituito un ministero, attraverso il segno e la strumentalità del quale egli comunica al suo popolo, nel corso della storia, i frutti della sua vita, della sua morte e della sua risurrezione. I primi fondamenti di questo ministero sono stati gettati fin dalla vocazione dei Dodici, che al tempo stesso rappresentano il nuovo Israele nella sua completezza e dopo la Pasqua saranno i testimoni privilegiati inviati per annunziare il Vangelo della salvezza, sono i capi del nuovo popolo, i collaboratori di Dio per l’edificazione del suo tempio (cf. 2 Cor 3, 9). La funzione di questo ministero è essenziale ad ogni generazione di cristiani. Deve dunque trasmettersi a partire dagli Apostoli attraverso una successione ininterrotta. Se si può dire che la Chiesa intera è stabilita sul fondamento degli Apostoli (Eph 2, 20; Ap 21, 14), bisogna anche e inseparabilmente affermare che questa apostoliche comune a tutta la Chiesa è legata alla successione apostolica ministeriale, che costituisce una struttura ecclesiale inalienabile al servizio di tutti i cristiani.

II. L’originalità del fondamento apostolico della Chiesa

Il fondamento apostolico ha come suo carattere proprio l’essere insieme storico e spirituale.

È storico nel senso che è posto da un atto di Cristo durante la sua vita terrestre: la chiamata dei Dodici fin dall’inizio del ministero pubblico di Gesù, la loro investitura per rappresentare il nuovo Israele e per essere associati sempre più strettamente al suo cammino pasquale che culmina nella croce e nella risurrezione (Mc 1, 17; 3, 14; Lc 22, 28; Io 15, 16). La risurrezione non rovescia ma conferma la struttura apostolica prepasquale. Cristo fa dei Dodici, in maniera speciale, i testimoni della sua risurrezione secondo lo stesso ordine che egli ha istituito prima della sua morte: la più antica confessione di fede nel Risorto include Pietro e i Dodici come testimoni privilegiati della risurrezione (1 Cor 15, 5). Coloro che Gesù aveva associati a sé dall’inizio del suo ministero fino alle soglie della sua Pasqua, possono testimoniare pubblicamente che proprio quello stesso Gesù è risuscitato (Io 15, 27). Dopo la defezione di Giuda e anche prima della Pentecoste, prima cura degli Undici è di far partecipare al loro ministero apostolico uno dei discepoli che hanno accompagnato Gesù dal tempo del suo battesimo, affinché sia insieme con essi testimone della sua risurrezione (Act 1, 17; 22 s.). Lo stesso Paolo, chiamato dal Risorto medesimo e così inserito nel fondamento della Chiesa, è consapevole di aver bisogno della comunione coi Dodici.

Tale fondamento non è solamente storico, ma anche spirituale. La Pasqua di Cristo, anticipata nella Cena, istituisce il popolo della nuova alleanza e avvolge quindi tutta la storia umana. La missione di evangelizzazione, di governo, di riconciliazione e di santificazione, affidata ai primi testimoni, non può essere ristretta al tempo della loro vita.

Per quanto concerne l’Eucaristia, la Tradizione, le cui linee fondamentali si stabiliscono già fin dal primo secolo (cf. Lc e Io), afferma che mediante questa partecipazione degli Apostoli alla Cena è stato loro conferito il potere di presiedere la celebrazione eucaristica. Il ministero apostolico è in tal modo un’istituzione escatologica. La sua origine spirituale trasparisce nella preghiera del Cristo, ispirata dallo Spirito Santo, nella quale egli discerne, come nelle grandi svolte della sua vita, la volontà del Padre (Lc 6, 12 s.). La partecipazione spirituale degli Apostoli al mistero del Cristo si completa nel dono pieno dello Spirito Santo, dopo la Pasqua (Io 20, 22; Lc 24, 44-49), e li introduce in una comprensione più profonda del mistero di lui (Io 16, 13-15). Così, per essere compreso in se stesso, il kèrigma non dev’essere separato né astratto dalla fede a cui i Dodici e Paolo hanno aderito nella loro conversione al Signore Gesù, né dalla testimonianza che ne hanno data con tutta la loro vita.

III. Gli Apostoli e la successione apostolica nella storia

I documenti del Nuovo Testamento mostrano una diversità nell’organizzazione delle comunità al principio della Chiesa, ancor viventi gli Apostoli, ma egualmente una tendenza del ministero di insegnamento e di direzione ad affermarsi e a rafforzarsi nel periodo successivo.

Gli uomini che dirigevano le comunità quando gli Apostoli erano ancora vivi o dopo la loro morte portano nei testi del Nuovo Testamento diversi nomi: presbytèroi-episkopoi, e sono descritti come poimènes, hégoumenoi, proistamenoi, kyberneseis. Ciò che caratterizza questi presbytèroi-episkopoi per rapporto al resto della Chiesa è il loro ministero apostolico d’insegnamento e di direzione. Quale che sia la maniera con cui sono stati scelti, per autorità o in dipendenza dai Dodici o da Paolo, essi partecipano all’autorità degli Apostoli istituiti da Cristo, i quali conservano per sempre la loro caratteristica unica.

Nel corso del tempo questo ministero ha conosciuto uno sviluppo, prodottosi in forza d’una conseguenza e di una necessità interne, e favorito da fattori esterni, soprattutto la difesa contro gli errori e la mancanza di unità fra le comunità. Ma quando le comunità furono private della presenza degli Apostoli e tuttavia vollero continuare a riferirsi alla loro autorità, fu necessario che venissero mantenute e continuate in maniera adeguata le funzioni degli Apostoli in seno a tali comunità e di fronte ad esse.

Già negli scritti neotestamentari che riflettono il passaggio dall’epoca apostolica a quella post-apostolica si delinea uno sviluppo che, nel secondo secolo, porta alla stabilizzazione e al riconoscimento generale del ministero del vescovo. Le tappe di questo sviluppo si scorgono negli ultimi scritti del corpus paolino e in altri testi che si riallacciano all’autorità degli Apostoli. Ciò che gli Apostoli avevano rappresentato per le comunità al tempo della fondazione della Chiesa, venne riconosciuto come essenziale per la struttura della Chiesa o per le comunità particolari, attraverso la riflessione del tempo post-apostolico al suo inizio. Il principio dell’apostolicità della Chiesa, acquisito in questa riflessione, portò con sé il riconoscimento del ministero d’insegnamento e di direzione come istituzione derivata da Cristo attraverso e mediante gli Apostoli. La Chiesa vive nella certezza che, prima di lasciare questo mondo, Gesù ha mandato gli Undici in missione universale, con la promessa di rimanere con loro tutti i giorni sino alla fine del mondo (Mt 28, 10-20). Il tempo della Chiesa, tempo di questa missione universale, resta dunque esso stesso compreso in questa presenza di Cristo, che è la medesima nel tempo apostolico e in quello post-apostolico, e che prende la forma d’un unico ministero apostolico.

Le tensioni tra comunità e soggetto d’un ministero d’autorità non possono essere totalmente evitate, come si vede già negli scritti del Nuovo Testamento. Paolo s’è applicato, da un lato, a comprendere il Vangelo con e nella comunità, e a trovare norme di vita cristiana; d’altro lato, però, egli si poneva di fronte ad essa col suo potere apostolico, quando trattavasi della verità del Vangelo (cf. Gal) e dei principi insostituibili di vita cristiana (cf. 1 Cor 7, ecc.). Similmente, il ministero di direzione non deve mai tagliarsi fuori dalla comunità ed elevarsi al disopra di essa, ma deve compiere il proprio servizio in seno ad essa e per essa. Tuttavia ricevendo la direzione apostolica — quella degli Apostoli medesimi o quella dei ministri che ad essi succedono — le comunità neotestamentarie si sottomettono alla direzione del ministero, riferito — per loro tramite — all’autorità del Signore stesso.

La scarsità di documenti non permette di precisare come si vorrebbe i passaggi operatisi. La fine del primo secolo ha conosciuto una situazione in cui gli Apostoli, i loro collaboratori immediati e infine i loro successori danno vita a collegi locali di presbytèroi e di episkopoi. Al principio del secondo secolo l’immagine del vescovo unico a capo delle comunità appare vigorosamente nelle lettere di sant’Ignazio, il quale afferma ancora che tale istituzione si trova stabilita «fino ai confini della terra» (Ad Ephesios, 3,2). Durante il secondo secolo questa istituzione è riconosciuta in maniera esplicita, nel solco della lettera di Clemente, come veicolo della successione apostolica. L’ordinazione con l’imposizione delle mani, attestata dalle Lettere pastorali, appare all’interno del processo di chiarificazione come un passo importante per la tutela della tradizione apostolica e per la garanzia della successione nel ministero. I documenti del terzo secolo (Tradizione d’Ippolito) mostrano che essa era specificamente acquisita, e considerata come istituzione necessaria.

Clemente e Ireneo sviluppano una dottrina del governo pastorale e della Parola, facendo derivare dall’unità della Parola, della missione e del ministero l’idea della successione apostolica, divenuta base permanente della maniera con cui la Chiesa cattolica comprende se stessa.

IV. Aspetto spirituale della successione apostolica

Se, dopo questo prospetto storico, cerchiamo di comprendere la dimensione spirituale della successione apostolica, bisogna anzitutto sottolineare che, pur rappresentando con autorità il Vangelo e manifestandosi fondamentalmente come un servizio verso la Chiesa nella sua totalità (2 Cor 4, 5), il ministero ordinato esige dal ministro che egli renda presente Cristo umiliato (2 Cor 6, 4 ss.) e crocifisso (cf. Gal 2, 19 s.; 16, 14; 1 Cor 4, 9 ss.).

La Chiesa che egli serve è, nella sua totalità come in ciascuno dei suoi membri, animata e mossa dallo Spirito, giacché ogni battezzato è «ammaestrato dallo Spirito» (1 Thess 4, 9; cf. Hebr 8, 11 ss.; Ier 31, 33 ss.; 1 Io 2, 20; Io 6, 45). Il ministero sacerdotale, quindi, non potrà se non ricordargli con autorità quanto incoativamente è già incluso nella sua fede battesimale, ma la cui pienezza egli non potrà mai esaurire quaggiù. Allo stesso modo il fedele dovrà nutrire la propria fede e la propria vita cristiana con la mediazione sacramentale della vita divina. La norma della fede — che nel suo carattere formale noi designiamo come «regola di fede» — è a lui immanente per l’azione dello Spirito, pur rimanendo trascendente per rapporto all’uomo, poiché non può mai essere puramente individuale essendo essenzialmente ecclesiale e cattolica.

In questa regola di fede l’immediatezza dello Spirito divino ad ogni persona è quindi necessariamente legata alla forma comunitaria di questa fede. L’affermazione di San Paolo, che «nessuno può dire "Gesù è Signore" se non sotto l’azione dello Spirito Santo» (1 Cor 12, 3) è sempre valida: senza la conversione che solo lo Spirito accorda ai cuori, nessuno è in grado di riconoscere Gesù nella sua qualità di Figlio di Dio, e solo chi lo conosce come Figlio conoscerà veramente colui che egli chiama «Padre» (cf. Io 14, 7; 8, 19; ecc.). Dunque, poiché lo Spirito ci comunica la conoscenza del Padre mediante Gesù, la fede cristiana è trinitaria: la sua forma pneumatica include necessariamente questo contenuto, che si esprime e si realizza in maniera sacramentale nel battesimo trinitario.

La regola di fede, cioè il tipo della catechesi battesimale nella quale si estrinseca il contenuto trinitario, costituisce, in quanto unione della forma e del contenuto, il perno permanente dell’apostolicità e della cattolicità della Chiesa. Essa realizza l’apostolicità in quanto lega gli araldi della fede alla regola cristo-pneumatologica: essi non parlano in nome proprio, ma testimoniano ciò che hanno ascoltato (cf. Io 7, 18; 16, 13 ss.; ecc.).

Gesù Cristo si rivela come Figlio in quanto annunzia ciò che viene dal Padre. Lo Spirito si rivela come lo Spirito del Padre e del Figlio perché non prende del suo, ma li rivela e richiama quanto viene dal Figlio (Io 16, 13 s.). Ciò diventa, nel prolungamento del Signore e del suo Spirito, il carattere distintivo della successione apostolica. Il Magistero della Chiesa si distingue tanto da un puro magistero di dottori quanto da un potere autoritario. Qualora il magistero della fede passasse ai professori, la fede sarebbe legata ai lumi individuali, e così assoggettata in gran parte allo spirito del tempo. E qualora la fede dipendesse dal potere dispotico di certe persone individuali o collettive, chiunque di loro fosse a decretare ciò che è normativo, la verità sarebbe rimpiazzata da un potere arbitrario. Al contrario, il vero magistero apostolico è legato alla Parola del Signore e così introduce nella libertà di lui quanti l’ascoltano.

Nulla, nella Chiesa, sfugge alla mediazione apostolica: né i pastori né il gregge, né gli enunziati di fede né le norme di vita cristiana. Il ministero ordinato si trova anche doppiamente riferito a tale mediazione, essendo esso stesso sottoposto da una parte alla regola delle origini cristiane, e dall’altra — come dice Agostino — obbligato a lasciarsi istruire dalla comunità dei credenti che lui stesso ha l’obbligo di istruire.

Da quanto fin qui detto ricaveremo due conclusioni:

1. Nessun predicatore del Vangelo ha il diritto di escogitare un piano di annunzio evangelico secondo le proprie ipotesi. Egli annunzia la fede della Chiesa apostolica e non la propria personalità o le proprie esperienze religiose. Ciò comporta che ai due elementi menzionati della regola di fede — forme e contenuto — viene ad aggiungersene un terzo: la regola di fede esige un testimone inviato, che non s’autorizzi da se stesso e che nessuna comunità particolare è capace di autorizzare, e ciò in forza della trascendenza della Parola. L’autorizzazione non può venirgli se non sacramentalmente attraverso quelli che sono già inviati. Certo, lo Spirito suscita sempre liberamente nella Chiesa differenti carismi di evangelizzazione e di servizio, animando tutti i cristiani alla testimonianza della loro fede, ma queste attività devono essere esercitate in riferimento ai tre elementi della regola di fede ora menzionati (cf. Lumen Gentium, n. 12).

2. La missione che in tal modo — ancora una volta secondo il principio trinitario — fa parte della regola di fede, si riferisce alla cattolicità della fede, che è una conseguenza della sua apostolicità e al tempo stesso la condizione della sua permanenza. Nessun individuo e nessuna comunità isolata, infatti, hanno il potere di inviare. Solo il legame al tutto (kat’holon) — la cattolicità nello spazio e nel tempo — garantisce la permanenza nella missione. Così la cattolicità spiega ancora che il fedele, in quanto membro della Chiesa, è introdotto alla partecipazione immediata della vita trinitaria attraverso la mediazione non solo dell’Uomo-Dio, ma anche della Chiesa, a lui intimamente associata.

Questa mediazione della Chiesa deve, in virtù della dimensione cattolica della sua verità e della sua vita, effettuarsi in maniera normativa, cioè mediante un ministero che le è conferito come forma costitutiva. Questo non dovrà soltanto riferirsi a un’epoca storicamente finita (rappresentata eventualmente da una serie di documenti); ma in questo riferimento dev’essere munito del potere di rappresentare esso stesso l’origine, il Cristo vivente, mediante un annunzio del Vangelo ufficialmente autorizzato e mediante la celebrazione, con autorità, di atti sacramentali, prima di tutto dell’Eucaristia.

V. La successione apostolica e la sua trasmissione

Poiché la Parola divina fatta carne è essa stessa l’annunzio e il principio della comunicazione della vita divina che ci si manifesta in essa, il ministero della Parola nella sua pienezza è anche ministero dei sacramenti della fede, prima di tutto dell’Eucaristia, nei quali la Parola, il Cristo, non cessa d’essere per gli uomini avvenimento attuale di salvezza. L’autorità pastorale è la responsabilità del ministero apostolico verso l’unità della Chiesa e il suo sviluppo, di cui la Parola è sorgente e di cui i sacramenti sono al tempo stesso manifestazione e luogo fondamentale di realizzazione.

La successione apostolica è dunque quest’aspetto della natura e della vita della Chiesa, che mostra la dipendenza attuale della comunità in rapporto a Cristo attraverso i suoi inviati. Il ministero apostolico è in tal modo il sacramento della presenza operante di Cristo e dello Spirito in seno al popolo di Dio, senza che però venga minimizzato l’influsso immediato del Cristo e dello Spirito su ogni fedele.

Il carisma della successione apostolica è ricevuto nella comunità visibile della Chiesa. Esso suppone che colui che viene inserito nel corpo dei ministri abbia la fede della Chiesa. Ma questo non basta. Il dono del ministero viene accordato in un’azione che è segno visibile ed efficace del dono dello Spirito, azione che ha come strumenti uno o alcuni degli stessi ministri già inseriti nella successione apostolica.

La trasmissione del ministero apostolico avviene dunque mediante l’ordinazione, che comprende un rito con un segno sensibile e un’invocazione a Dio (epiclèsi) affinché voglia accordare all’ordinando il dono del suo Spirito Santo insieme coi poteri necessari all’adempimento del suo compito. Fin dal Nuovo Testamento questo segno sensibile è l’imposizione delle mani (cf. Lumen Gentium, n. 21). Il rito dell’ordinazione sta a manifestare che quanto avviene in colui che è ordinato non è di origine umana, e che la Chiesa non dispone a suo piacimento del dono dello Spirito.

Consapevole che la propria esistenza è legata all’apostolicità, e che il ministero trasmesso mediante l’ordinazione inserisce l’ordinato nella confessione apostolica della verità del Padre, la Chiesa ha giudicato necessaria alla successione apostolica nel senso stretto della parola l’ordinazione data e ricevuta nella fede che essa stessa vi ripone.

La successione apostolica del ministero riguarda tutta la Chiesa, ma non procede dalla Chiesa presa globalmente, bensì da Cristo agli Apostoli e, negli Apostoli, a tutti i vescovi sino alla fine dei tempi.

VI. Elementi per una valutazione dei ministeri non cattolici

Questa sintesi finora compiuta del modo come i cattolici comprendono la successione apostolica ci consente di presentare le linee generali per una valutazione dei ministeri non cattolici. In tale contesto è indispensabile avere sott’occhi le differenze di origine, le evoluzioni di queste Chiese e Comunità, è la concezione che esse hanno di se stesse.

1. Malgrado la diversa valutazione che esse fanno dell’ufficio di Pietro, la Chiesa cattolica, la Chiesa ortodossa e le altre Chiese che hanno conservata la realtà della successione apostolica, sono unite in una medesima comprensione fondamentale della sacra mentalità della Chiesa, sviluppatasi fin dal Nuovo Testamento attraverso i Padri comuni, in particolare sant’Ireneo. Queste Chiese considerano l’inserimento sacramentale nel ministero ecclesiale, realizzato attraverso l’imposizione delle mani con l’invocazione dello Spirito Santo, come la forma indispensabile per la trasmissione della successione apostolica, che sola fa perseverare la Chiesa nella dottrina e nella comunione. Questa unanimità nella coerenza mai interrotta tra Scrittura, Tradizione e sacramento, costituisce il motivo per cui la comunione tra queste Chiese e la Chiesa cattolica non è mai cessata del tutto e può essere oggi ravvivata.

2. Dialoghi fruttuosi si continuano con le Comunioni anglicane che hanno conservata l’imposizione delle mani, la cui interpretazione è cambiata. Non è qui possibile anticipare gli eventuali risultati di questo dialogo che indaga in quale misura gli elementi costitutivi dell’unità sono inclusi nella conservazione del rito dell’imposizione delle mani e delle correlative preghiere.

3. Le Comunità uscite dalla Riforma del sec. XVI si differenziano tra loro al punto che la descrizione dei loro rapporti con la Chiesa cattolica dev’essere considerata secondo le sfumature di ogni caso particolare. Tuttavia si possono individuare alcune linee comuni.

Il movimento comune della Riforma ha negato il legame tra la Scrittura e la Tradizione della Chiesa in favore della normatività della sola Scrittura. Anche se in seguito ci si richiama in diversa maniera alla Tradizione, tuttavia non si riconosce ad essa la medesima dignità di cui godeva nell’antica Chiesa. Poiché il sacramento dell’ordine è l’espressione sacramentale indispensabile della comunione nella Tradizione, la proclamazione della sola Scriptura ha comportato l’oscuramento dell’antica nozione della Chiesa e del suo sacerdozio. E così, di fatto, attraverso i secoli si è spesso rinunziato all’imposizione delle mani sia da parte di uomini già ordinati, sia da parte di altri. Là dov’è stata praticata, non sempre ha avuto il medesimo significato che nella Chiesa della Tradizione. Questa divergenza nel modo di introdurre nel ministero e di interpretarlo non è che il sintomo più rilevante della differente comprensione delle nozioni di Chiesa e di Tradizione.

Numerosi promettenti approcci [2] hanno cominciato a ristabilire dei contatti con questa Tradizione, anche se la rottura non è ancora effettivamente superata. In tali circostanze l’intercomunione eucaristica resta per il momento impossibile [3], perché la continuità sacramentale nella successione apostolica fin dalle origini costituisce per le Chiese ortodosse, come pure per la Chiesa cattolica, un elemento indispensabile della comunione ecclesiale.

Questa costatazione non significa affatto che le qualità ecclesiali e spirituali dei ministeri e delle Comunità protestanti siano per questo da tenere in poco conto. I ministri hanno edificato e nutrito le comunità. Mediante il battesimo, mediante lo studio e la predicazione della Parola, mediante la preghiera comune e la celebrazione della Cena, col loro zelo, essi hanno guidato gli uomini verso la fede nel Signore, aiutandoli così a trovare la via della salvezza. Ci sono dunque in queste comunità elementi che certamente appartengono all’apostolicità dell’unica Chiesa di Cristo [4].

Anche se l’unione con la Chiesa cattolica non può effettuarsi se non sacramentalmente — e mai con mezzi puramente giuridici o amministrativi [5] —, è evidente che la qualità spirituale di questi ministeri non può mai essere trascurata. Un tale atto sacramentale dovrebbe integrare nella Catholica i valori esistenti, e il suo rito dovrebbe indubbiamente esprimere che vengono assunti carismi già reali.



* Documento del gruppo di lavoro sui ministeri approvato «in forma generica» dalla Commissione Teologica Internazionale

[1] La presenza personale degli Apostoli caratterizza l’epoca apostolica; essa tuttavia non potrebb’essere delimitata da un’esatta cronologia, essendo gli Apostoli scomparsi nelle varie Chiese in epoche diverse. Il tempo post-apostolico è qui inteso come il periodo che va dalla morte degli Apostoli fino al compimento degli scritti canonici, che spesso si presentano sotto il nome e con l’autorità degli Apostoli a motivo della continuità col loro messaggio che essi rendono attuale.

[2] Si vedano i risultati di alcuni dialoghi bilaterali.

[3] Per l’ospitalità eucaristica in casi particolari cf. il Direttorio Ecumenico, n. 38 e ss.

[4] Cf. la Cost. Dogmatica Lumen Gentium, n. 15, e il Decreto Unitatis Redintegratio, nn. 3 e 19-23.

[5] Se si volesse rimpiazzare questo rito con un semplice decreto, qualunque sia l’autorità che lo emani si rischierebbe di sostituire il dono sacramentale, di cui non si può disporre a piacimento, col potere proprio dei ministri.


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Fede apostolica
IL CREDO APOSTOLICO

Credo in Dio, Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra.

E in Gesù Cristo, Suo Figlio unigenito, Signore nostro; il quale fu concepito di Spirito Santo, nato dalla vergine Maria; soffrì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto; discese agli inferi; il terzo giorno risuscitò dai morti; ascese al cielo; siede alla destra di Dio Padre onnipotente; da dove verrà per giudicare i vivi ed i morti.

Io credo nello Spirito Santo; la santa Chiesa universale; la comunione dei santi; la remissione dei peccati; la risurrezione della carne; la vita eterna.

Amen.

Tale Simbolo di Fede fu fatto scolpire da papa Leone III in greco e latino su due scudi d'argento che furono affissi all'ingresso dell'antica basilica petrina in Vaticano.

LE DOTTRINE DI BASE

Concili e confessioni di fede

Tutte le formule di fede ortodosse, i testi liturgici e le asserzioni dottrinali dichiarano che la Chiesa Ortodossa ha conservato l'originale fede apostolica, espressa pure nella comune tradizione cristiana dei primi secoli. La Chiesa Ortodossa riconosce come ecumenici i sette concili di Nicea I (325), Costantinopoli I (381), Efeso (431), Calcedonia (451), Costantinopoli II (553), Costantinopoli III (681), e Nicea II (787). Vengono pure considerate le delibere di altri Concili più recenti in quanto riflettono la stessa originale fede (ad esempio i concili tenutisi a Costantinopoli che hanno approvato la teologia di San Gregorio Palamas nel XIV secolo). Così la Chiesa si riconosce come portatrice di una ininterrotta vivente tradizione, dell'autentico Cristianesimo espresso nel culto, nelle vite dei santi e nella fede del popolo di Dio.

Nel XVII secolo come controparte alle varie "confessioni" della Riforma, si formularono diverse "confessioni Ortodosse" espresse in concili locali ma, di fatto, espressione di singoli autori (ad es. Mitrophane Critopoulos, 1625; Pietro Mogila, 1638; Dositheos di Gerusalemme, 1672). Oggi non si riconosce alcuna particolare importanza storica a queste confessioni. Quando il teologo ortodosso esprime la fede della sua Chiesa piuttosto di aderire ad un costante conformismo con alcune di queste particolari confessioni, cerca, piuttosto, la consistenza delle sue affermazioni con le Sacre Scritture e la Tradizione, com'è stata espressa negli antichi Concili, tra i Padri, e nell'ininterrotta vita liturgica. Se tale tradizione è conservata non ha timore di affermare qualcosa di apparentemente nuovo.

Una peculiare caratteristica di quest'atteggiamento verso la fede è l'assenza della preoccupazione di stabilire dei criteri esterni e oggettivi di verità come sono cominciati ad esistere presso il pensiero cristiano occidentale a partire dal basso Medioevo. La verità appare come un'esperienza vivente ed accessibile nella comunione della Chiesa. Essa è normalmente espressa dalle Sacre Scritture, dai Concili, e dalla teologia. Pure i Concili ecumenici, nella prospettiva Ortodossa, hanno bisogno di essere ricevuti e "convalidati" dal corpo della chiesa per essere veramente riconosciuti come tali. Ultimamente, perciò, la verità è vista con un suo proprio criterio: ci sono dei segni che la dimostrano ma nessuno di questi si sostituisce ad una libera e personale esperienza della verità, resa possibile nella prassi sacramentale della Chiesa.

A causa di questa visione della verità, il cristiano ortodosso è tradizionalmente riluttante a coinvolgere le autorità della Chiesa nel definire delle materie di fede in forma precisa e dettagliata. Questa riluttanza non è dovuta a relativismo o indifferenza quanto, piuttosto, alla convinzione che la verità non ha bisogno di definizione essendo oggetto di esperienza. Perciò ogni legittima definizione, quando viene fatta, dovrebbe mirare principalmente a escludere l'errore e non a fingere di rivelare la verità dal momento che essa è sempre creduta e pienamente vissuta nella Chiesa.

Dio e l'uomo

Le dottrine concernenti la Trinità e l'incarnazione, durante i primi otto secoli della storia del cristianesimo, sono state strettamente collegate al concetto di partecipazione dell'uomo alla vita divina.

I Padri greci della Chiesa hanno sempre spiegato che la frase "ad immagine e somiglianza di Dio" (Gen 1, 26), rinvenibile nella storia biblica della creazione dell'uomo, significa che quest'ultimo non è un un essere autonomo e che la sua definitiva natura è rivelata dalla sua relazione con Dio, suo "prototipo". In paradiso Adamo ed Eva furono chiamati a partecipare alla vita di Dio e a trovare in Lui la crescita naturale della loro umanità per passare "da gloria in gloria". Essere "in Dio" è, perciò, lo stato naturale dell'uomo. Questa dottrina è particolarmente importante in relazione all'opinione patristica della libertà umana. Per teologi come Gregorio di Nissa (IV secolo) e Massimo il Confessore (VII secolo) l'uomo è veramente libero solo quando è in comunione con Dio; altrimenti è solo schiavo del suo corpo o del "mondo" al di sopra dei quali, originalmente e per comando divino, era stato destinato a dominare.

Così, il concetto di peccato implica la separazione da Dio e la riduzione dell'uomo ad un'esistenza separata ed autonoma, nella quale egli è privato sia della sua naturale gloria che della sua libertà. In questa condizione l'uomo diviene un elemento sottoposto al determinismo cosmico e l'immagine di Dio in lui è distorta.

La libertà in Dio, com'era goduta da Adamo, implica la possibilità di allontanarsi da Dio. Questa scelta sfortunata è stata compiuta dall'uomo e ha condotto Adamo (prototypos dell'uomo oramai decaduto) ad un'esistenza subumana e innaturale. L'aspetto più innaturale del nuovo stato è la morte. In questa prospettiva il "peccato originale" non è compreso come uno stato di colpa ereditato da Adamo ma come una condizione innaturale della vita umana che finisce nella morte. La mortalità è quello che ora eredita ciascun uomo dalla sua nascita e questo è quanto lo fa lottare per vivere, per auto-affermarsi a spese di altri, e, finalmente, per sottomettersi alle leggi di vita animale. Il "principe di questo mondo" (cioè Satana), Colui che fu l' "assassino dall'inizio," esercita il suo dominio sull'uomo. L'uomo è stato liberato da questo cerchio vizioso di morte e peccato dalla morte e Risurrezione di Cristo, che viene infusa nel Battesimo e nella vita sacramentale nella Chiesa.

Il quadro generale della comprensione delle relazioni tra Dio e l'uomo è evidentemente diverso rispetto da quello che s'è imposto nel Cristianesimo occidentale. In Occidente s'è imposta una visione per cui la "natura" è distinta dalla "grazia" e il peccato originale consiste in una colpa ereditata invece della privazione della libertà originale. In Oriente, l'uomo è pienamente tale quando partecipa in Dio; in Occidente si pensa che la natura decaduta dell'uomo possa essere autonoma, mentre il peccato è visto come un crimine punibile e la grazia come un perdono accordato. Con questi presupposti giuridici ne consegue che lo scopo principale dell'Occidente cristiano è la giustificazione, mentre nell'Oriente è la comunione con Dio che porta alla deificazione dell'uomo. In Occidente la Chiesa è concepita in termini di mediazione (attraverso di lei giunge la grazia) e di autorità (è garante della giusta dottrina); mentre in Oriente la Chiesa è quella realtà nella quale avviene la comunione tra Dio e l'uomo, dove quest'ultimo ha modo d'incontrare Dio e di giungere ad una vera e possibile esperienza personale della vita divina in lui.

Cristo

La Chiesa Ortodossa è la formale artefice della cristologia (= la dottrina su Cristo) definita dai Concili dei primi otto secoli. Insieme con la sua parte occidentale latina (il Patriarcato di Roma), ha rigettato l'arianesimo (che riteneva il Figlio una creatura rispetto al Padre) a Nicea (325), il nestorianesimo (che accentuava l'indipendenza tra la natura divina e quella umana di Cristo) a Efeso (431) e il monofisismo (che vedeva in Cristo solo la natura divina) a Calcedonia (451). Oriente e Occidente cristiano, sotto la formale tradizione cristologica, aggiunsero ulteriori considerazioni, sebbene la famosa formula calcedonese "una persona in due nature" non venisse dappertutto intesa allo stesso modo. Sulle icone romano-bizantine sono spesso dipinte attorno al volto di Cristo, delle lettere greche che equivalgono al tetragramma ebreo YHWH, nome di Dio nell'antico Testamento. In tal modo Gesù Cristo è visto nella sua identità divina. Similmente, la liturgia si rivolge spesso alla Vergine Maria come Theotokos (= Colei che ha dato nascita a Dio), e questo termine è stato ammesso come formalmente ortodosso a Efeso. Questo è l'unico dogma concernente la Santissima Genitrice di Dio accettato dalla Chiesa Ortodossa e riflette la dottrina sulla persona divina di Cristo contro Ario che la negava. La Theotokos viene così venerata perché è madre "secondo la carne" di Cristo Dio-Uomo.
Tuttavia quest'enfasi sull'identità divina personale di Cristo, basata sulla dottrina di San Cirillo d'Alessandria (V secolo), non implica il rifiuto della sua umanità. L'antropologia (= la dottrina sull'uomo) dei Padri orientali non rappresenta l'uomo come un essere autonomo ma piuttosto implica quella comunione con Dio che rende l'uomo pienamente umano. Così la natura umana di Gesù Cristo, pienamente assunta dalla Parola divina (Logos), è davvero il "nuovo Adamo" nel quale tutta l'umanità riceve nuovamente la sua originale gloria. L'umanità di Cristo è pienamente "nostra"; Egli ha posseduto tutte le caratteristiche dell'essere umano. Seguendo papa Leone, il Concilio calcedonese ha proclamato a tal proposito: "Ciascuna natura (di Cristo) agisce secondo le sue proprietà senza separare se stessa dalla Parola divina [cioé dal Logos, ossia dalla persona del Figlio]". Così, la morte stessa di Cristo fu davvero una morte pienamente umana e il Figlio di Dio fu "soggetto" alla Passione. Ciò ha implicato che l'umanità di Cristo fosse davvero reale non solo per Lui ma anche per Dio, dal momento che è stato condotto a morire sulla croce, e che la salvezza e la redenzione dell'umanità potesse essere compiuta unicamente da Dio. Questo spiega la necessità divina di accondiscendere alla morte dal momento che la morte stessa ha tenuto prigioniera l'umanità.

Questa teologia della redenzione e della salvezza è splendidamente espressa negli inni liturgici romano-bizantini della Settimana Santa e di Pasqua: Cristo è Colui che "ha calpestato la morte con la morte" e, la sera del Grande Venerdì (precedente la Pasqua), gl'inni liturgici cantano già vittoria. La salvezza non è concepita nei termini di una soddisfazione della giustizia divina, stabilita dal pagamento di un debito per il peccato di Adamo (come la Cristianità occidentale ha compreso ed espresso a partire dal Medioevo) ma nei termini di un'unione dell'umano con la divina vittoria della mortalità e della debolezza umana e, finalmente, esaltando l'uomo nella vita divina.

Quello che Cristo ha compiuto una volta per tutte deve essere liberamente acquisito da coloro che sono "in Cristo"; il loro fine è la "deificazione" che non significa disumanizzazione ma esaltazione della dignità umana preparata per l'uomo prima della creazione. Le feste liturgiche della Trasfigurazione e dell'Ascensione sono estremamente popolari in Oriente perché celebrano precisamente l'umanità glorificata in Cristo, una glorificazione che anticipa la venuta del Regno di Dio quando Dio sarà "tutto in tutti".

La partecipazione nella già deificata umanità di Cristo è la vera meta della vita cristiana, ed è compiuta attraverso lo Spirito Santo.

Lo Spirito Santo

Il dono dello Spirito Santo "ha chiamato tutti gli uomini all'unità", secondo l'inno liturgico romano-bizantino della festa di Pentecoste; in quella nuova unità che San Paolo denomina il "Corpo di Cristo" nel quale entra ogni cristiano con il Battesimo e il Crisma (= la Cresima per il Cristianesimo occidentale) quando il prete unge il neofita dicendo: "Sigillo del dono dello Spirito Santo".

Questo dono, comunque, richiede dall'uomo una libera risposta. I santi ortodossi come San Seraphim di Sarov (morto nel 1833) hanno descritto l'intero contenuto della vita cristiana nei termini di una "raccolta dello Spirito Santo". Lo Spirito Santo è così concepito come l'agente principale del rinnovamento dell'uomo; è Colui che, con il concorso delle altre persone trinitarie, ripristina l'originale stato naturale dell'uomo attraverso la comunione nel Corpo di Cristo. Questo ruolo dello Spirito è riflesso in una ricca varietà di atti liturgici e sacramentali. Ogni atto di culto inizia solitamente con una preghiera indirizzata allo Spirito, e tutti i Sacramenti si amministrano invocando lo stesso Spirito. Le liturgie eucaristiche dell'Oriente attribuiscono la causa della misteriosa presenza di Cristo nel pane e nel vino consacrato per opera dello Spirito Santo. Il significato di quest'invocazione (epiklesis, in greco) è stato dibattuto appassionatamente tra i cristiani orientali e quelli latini nel Medioevo. Dal momento che il canone romano della Messa non riporta una chiaro riferimento allo Spirito Santo, ciò è stato considerato come insufficiente per operare il Sacramento dell'Eucarestia.

A partire dal Concilio costantinopolitano del 381, che ha condannato i pneumatomachi (coloro che combattevano contro lo Spirito), nessuno nell'Oriente ortodosso ha più negato che lo Spirito non è solo un "dono" ma è pure il donatore, ossia, la terza Persona della Santa Trinità. Nel passo di Gen 1,2 i Padri greci vedevano un chiaro segno della cooperazione dello Spirito nell'atto divino della creazione; è stato pure riconosciuto il ruolo attivo dello Spirito in quella "nuova creazione" iniziata nell'utero della Vergine Maria al momento del concepimento di Cristo (Lc 1,35) . Finalmente, nella Pentecoste lo Spirito è stato compreso come Colui che anticipa gli "ultimi giorni" (Atti 2, 17) quando, alla fine della storia, sarà raggiunta una comunione universale con Dio. In tal modo, tutti gli atti decisivi di Dio sono compiuti "dal Padre nel Figlio, attraverso lo Spirito Santo".

La Santa Trinità

Dal IV secolo in poi s'è sviluppato un modo diverso nell'intendere e spiegare la Santa Trinità. Alcuni cristiani occidentali, non comprendendo bene i termini del dibattito trinitario (che allora si svolgeva prevalentemente in greco) cercarono di comprendere e spiegare la Santa Trinità come meglio potevano per difendere l'Ortodossia rivelata dagli attacchi eretici che la minavano. In Occidente l'unità di Dio è stata capita in termini di un'essenza (come d'altra parte era stato più volte affermato in Oriente) e il discorso si arrestava su questo punto. In Oriente, invece, si affermava sempre più frequentemente che l'unico Dio si rapporta con l'uomo che ne fa esperienza in termini energetici (le energie divine). Per la maggior parte dei Padri greci non era la Trinità ad aver bisogno di una prova teologica (i vangeli ne parlano chiaramente) quanto piuttosto l'unità essenziale di Dio. I Padri cappadoci (Gregorio di Nissa, Gregorio di Nazianzo e Basilio di Cesarea) per aver particolarmente insistito sull'esistenza delle persone trinitarie sono stati mal compresi e accusati di triteismo. Essi esprimevano il mistero trinitario come un'essenza in tre ipostasi (il termine greco hypostasis equivaleva in un primo tempo a quello latino di substantia e designava una realtà concreta. Di qui la confusione e la difficile comprensione tra alcuni padri latini con le definizioni patristiche greche). I teologi greci per hypostasis non intendevano substantia (cioè ousia) ma le persone trinitarie rivelate nel Nuovo Testamento: il Figlio e lo Spirito Santo, esseri distinti dal Padre.

Oggi alcuni teologi ortodossi, partendo da presupposti filosofici moderni, si soffermano a considerare le persone divine e parlano d'un "rapporto personalistico in Dio". Essi dichiarano d'aver scoperto un originale personalismo biblico, non adulterato nel suo contenuto da una speculazione filosofica posteriore. In essi, tuttavia, è carente una vera conoscenza patristica sicché, nel lodevole tentativo di comunicare il Credo ortodosso e patristico al mondo moderno, finiscono per divenire succubi di categorie filosofiche secolarizzate lontane dal modo di essere e pensare dei Padri.

Le difficoltà di comprensione teologica tra Oriente e Occidente, dovute come abbiamo visto anche da un diverso significato sotteso ai termini utilizzati, sono alla radice della famosa disputa sul Filioque. La parola latina Filioque ("e dal Figlio") è stata aggiunta al Credo in Spagna nel VI secolo. L'aggiunta in questo contesto non aveva alcun risvolto polemico e politico contro i fratelli della stessa fede, anzi, voleva assolutamente rimarcare la comunione con quanto i Concili orientali avevano affermato. L'incomprensione dei termini usati suggeriva di aggiungere la parola Filioque per salvaguardare la divinità del Figlio di fronte all'eresia adozionista che la negava. Più tardi, comunque, la questione fu ripresa dai teologi franchi sobillati da Carlomagno (IX sec.) per dei motivi sostanzialmente politici. Carlomagno, eletto a capo del Sacro Romano Impero, voleva affermare il suo legittimo dominio in Occidente e cercava ripetutamente di negare la legittimità dell'imperatore romano orientale. A tal fine si servì della questione teologica per ingaggiare una vera e propria battaglia anti-greca. L'addizione al Credo è stata rifiutata costantemente dai papi romani per dei motivi dogmatici (essi da soli non potevano né aggiungere né modificare alcunché al patrimonio di fede dell'unica Chiesa) e politici (era evidente che sotto il pretesto teologico si agitassero questioni politiche e di rottura tra Occidente e Oriente romano, cosa che i papi non potevano assolutamente accettare). Quando tra l'XI e il XII sec. Roma fu invasa dai tedeschi, essi imposero forzatamente un papa della loro etnìa a loro obbediente e debitore. Egli inserì l'addizione Filioque al Credo rifiutata dai suoi predecessori romani. Tale variazione ha fondato e giustificato una concezione occidentale della Trinità che, se non si fosse imposto un isolamento politico tra il mondo occidentale e quello orientale, avrebbe trovato la possibilità d'una correzione prima che si fissasse dogmaticamente. Nella concezione occidentale trinitaria il Padre e il Figlio sono causa dell'esistenza dello Spirito Santo.

I teologi romano-bizantini si sono opposti a tale aggiunta per diversi motivi. Prima di tutto perché, coerentemente con l'ecclesiologia del primo millennio (alla quale era fedele anche papa Leone III), il Patriarcato di Roma non aveva alcun diritto a cambiare unilateralmente un testo approvato coralmente da tutta la Chiesa. In secondo luogo perché la clausola del Filioque implicava la riduzione delle persone divine a semplici relazioni (il Padre e il Figlio sono entrambi in relazione tra loro ma unici in relazione allo Spirito). Per la teologia ortodossa e patristica il Padre è l'unico ad originare sia il Figlio che lo Spirito. Il Patriarca San Fozio (IX secolo) fu il primo teologo ortodosso a dibattere esplicitamente contro il concetto del Filioque e tale dibattito continuò polemicamente per tutto il Medioevo.

La trascendenza di Dio

Un importante elemento nel Cristianesimo indiviso ortodosso è la comprensione di Dio come totalmente trascendente e inconoscibile nella sua essenza. Perciò Dio può essere designato solo con attributi negativi: è possibile dire di Dio solo ciò che non è, non ciò che è.
La teologia ortodossa puramente "apofatica" (= negativa, che procede per negazioni) applicabile unicamente all'essenza divina, non conduce all'agnosticismo perchè Dio si rivela pienamente relazionandosi con il cosmo e le creature non in termini personali (come Padre, Figlio e Spirito) ma nei suoi atti o "energie". Così la vera conoscenza di Dio include tre elementi: reverenziale timore religioso; incontro personale tra l'uomo e la presenza energetica di Dio; conseguente partecipazione agli atti, o energie, che Dio diffonde liberamente nella creazione.
Questa concezione di Dio non è connessa alla personalistica comprensione del Trinità, come ritiene una certa teologia moderna dal momento che le Persone trinitarie, per i Padri, sono delle distinzioni all'interno della Trinità incomunicabili tra di loro e al mondo esterno a loro. Le persone comunicano solo attraverso la loro comune sostanza-energia. Tale prospettiva ha condotto a confermare ufficialmente la teologia di San Gregorio Palamas, esponente di spicco tra gli esicasti romano-bizantini (= monaci dedicati a praticare un'incessante preghiera nella quiete). La conferma di questa dottrina da parte della Chiesa ortodossa è avvenuta nei Concili costantinopolitani del 1341 e del 1351. I Concili hanno solennemente proclamato una reale distinzione in Dio, tra l'essenza inconoscibile e gli atti, o "energie", che rendono possibile una reale comunione con Dio. La deificazione dell'uomo, realizzata in Cristo una volta per tutte, è compiuta, così, nella comunione con l'energia divina e nell'umanità glorificata di Cristo.

Apporti teologici moderni

Fino alla sua conquista da parte dei Turchi (1453), Costantinopoli era il centro intellettuale incontestato della Chiesa Ortodossa. Lungi dall'essere monolitico, il pensiero teologico romano-bizantino fu influenzato da una corrente umanistica che favoriva l'utlizzo della filosofia greca nel modo teologico di pensare, e dalla teologia mistica più austera e classica dei circoli monastici. La preoccupazione per la conservazione della cultura greca e per la salvezza politica dell'Impero ha condotto diversi umanisti ad adottare una posizione favorevole all'unione con l'Occidente. I teologi più creativi (come ad es., Simeone il Nuovo Teologo, morto nel 1033; San Gregorio Palamas, morto nel 1359; Nicola Cabasilas, morto nel 1390) si sono piuttosto fondati nella parte monastica e hanno continuato la tradizione della spiritualità patristica basata sulla teologia della deificazione.

I secoli XVI-XVII-XVIII contrassegnano un periodo oscuro nella teologia ortodossa. Né in Medio Oriente, né nei Balcani, né in Russia emerse qualche nome o qualche teologo particolarmente significativo. Non era possibile e accessibile alcuna formale istruzione teologica, eccettuata quella che poteva venire dalle scuole cattolico-romane occidentali o da quelle protestanti. La tradizione ortodossa era primariamente conservata attraverso la liturgia, che esprimeva tutta la ricchezza patristica e spesso serviva da valido sostituto per un'istruzione formale. Asserzioni dottrinali di questo periodo, venivano emesse da Concili locali e da individuali teologi che si esprimevano in polemici documenti diretti contro l'aggressiva opera missionaria occidentale

Dopo le riforme di Pietro il Grande (morto nel 1725), si organizzò in Russia un sistema scolastico teologico. Plasmato originalmente secondo i modelli latini Occidentali, tale sistema era fornito di insegnanti gesuiti ucraini. La scuola sviluppata nel XIX secolo era pienamente indipendente e forniva potenti mezzi d'istruzione teologica. L'impostazione intellettualistica occidentale contrastava, però, con l'identità profonda dell'Ortodossia che, prima di toccare l'intelletto e di esercitare in dissertazioni filosofiche richiedeva la prassi ascetica. La fioritura dell'esicasmo russo avenne per opera di Paisios Velitchkovsky di Moldavia (morto nel 1817) e dei suoi discepoli. Essi tornarono a fornire alla Russia quei mezzi che l'Ortodossia aveva sempre ritenuto indispensabili per una vera attività teologica. I secoli XIX e XX hanno prodotto molti studiosi, specialmente nel campo storico (ad es., Philaret Drozdov, morto nel 1867; V.O. Klyuchevsky, morto nel 1913; V.V. Bolotov, morto nel 1900; E.E. Golubinsky, morto nel 1912; N.N. Glubokovsky, morto nel 1937). Indipendenteménte delle scuole teologiche ufficiali una discreta quantità di laici sono stati alla base di vere e proprie correnti teologiche e filosofiche e hanno esercitato (con risultati più o meno positivi) una grande influenza nella moderna teologia ortodossa (ad es. A.S. Khomyakov, morto 1860; V.S. Solovyev, morto 1900; N. Berdyayev, morto 1948). Alcuni di essi sono divenuti preti (P. Florensky, morto nel 1943; S. Bulgakov, morto nel 1944). Un gran numero dell'intelligentzia teologica russa (ad es. S. Bulgakov, G. Florovsky) è emigrata nell'Europa occidentale dopo la Rivoluzione russa (1917) e ha giocato un ruolo importante nel movimento ecumenico.

Con l'indipendenza dei Balcani dalla turcocrazia sono state create delle scuole teologiche anche in Grecia, Serbia, Bulgaria e Romania. Moderni studiosi greci hanno pubblicazione importanti testi ecclesiastici romano-bizantini e scritto molti manuali teologici.

La diaspora ortodossa (il flusso migratorio delle popolazioni del Medio Oriente e dell'Europa Orientale) nel XX secolo ha contribuito all'instaurarsi di uno sviluppo teologico in centri teologici situati in Europa Occidentale e in America.

La Chiesa Ortodossa ha reagito negativamente ai nuovi dogmi proclamati da papa Pio IX: l'Immacolata Concezione della SS. Vergine Maria (1854) e l'infallibilità papale (1870). Riguardo al dogma dell'Assunzione in Cielo della SS. Vergine Maria, proclamato da papa Pio XII (1950), le obiezioni toccavano principalmente la non opportunità di elevare a dogma questo tipo di tradizione.

In contrasto con la recente moda generale del pensiero occidentale cristiano che sottolinea molto l'impegno sociale, i teologi ortodossi sottolineano generalmente che la fede cristiana è primariamente un'esperienza diretta del Regno di Dio, dono sacramentale che avviene nella chiesa. Senza negare che i cristiani hanno una responsabilità sociale nel mondo, considerano questa responsabilità come una conseguenza della vita in Cristo. Questa posizione tradizionale è testimoniata dalla straordinaria sopravvivenza delle Chiese Ortodosse sotto le più contraddittorie e sfavorevoli condizioni sociali. Tuttavia, agli occhi occidentali, tutto ciò appare come una forma di passivo fatalismo.

LA STRUTTURA DELLA CHIESA

I canoni

Oggi il criterio permanente di riferimento per la struttura della Chiesa, oltre agli scritti Neotestamentari, sono i canoni (regole e decreti) stabiliti nei primi sette Concili ecumenici; i canoni di alcuni Concili locali o provinciali, la cui autorità è stata riconosciuta da tutta la Chiesa; i cosiddetti canoni apostolici (alcune regole della Chiesa in Siria risaltenti al IV secolo) e i "canoni dei Padri", o parti estratte da eminenti ecclesiastici aventi un consistente rilievo canonico.
Una collezione di questi testi fu fatta nel nomocanone romano-bizantino, attribuito nella sua forma finale al patriarca San Fozio (IX sec.). La Chiesa romano-bizantina come le Chiese ortodosse moderne, ha adattato i principi generali di questa normativa alla sua particolare situazione, e le Chiese autocefale si governano secondo dei loro particolari statuti benché tutte accettino gli antichi canoni come comune riferimento canonico.
Gli stessi canoni non rappresentano un sistema fisso di leggi o un codice. Essi, piuttosto, danno un’ampia visione sulla Chiesa, sulla sua missione e i vari ministeri nelle quali si esprime; essi mostrano pure un’evoluzione della struttura ecclesiastica, ossia la progressiva centralizzazione nel quadro dell’impero romano cristiano. Per l’odierna Chiesa ortodossa, solo quando i canoni riflettono l’originale autocomprensione della Chiesa hanno un valore normativo. In tal modo quei canoni che riflettono la natura della Chiesa come Corpo di Cristo possiedono un’autorità indiscutibile; altri canoni, quando sono riconosciuti come il prodotto d’una particolare contingenza storica, possono essere soggetti a cambiamenti ad opera di un’autorità conciliare; altri ancora sono semplicemente caduti in disuso. L’utilizzo e l’interpretazione dei canoni è comunque possibile solo alla luce della comprensione della natura della Chiesa. Questa dimensione teologica è l’ultimo criterio attraverso il quale è possibile distinguere la sostanza permanente nei canoni dagli elementi contingenti e storici.

L'episcopato

La comprensione ortodossa della Chiesa è basata sul principio, attestato nei canoni e nell’antica tradizione cristiana, che ogni comunità cristiana locale, raccolta attorno al proprio vescovo mentre celebra l’Eucarestia, realizza localmente l’intero Corpo di Cristo. "Dov’è presente Cristo, è presente la Chiesa cattolica", scriveva Sant’Ignazio d’Antiochia attorno al 100. La teologia ortodossa moderna sottolinea che l’ufficio del vescovo è il più alto tra i ministeri sacramentali e che, comunque, non esiste un’autorità divinamente stabilita al di sopra del vescovo nella sua comunità o diocesi. Né le Chiese locali, né i loro vescovi, comunque, possono o devono vivere isolati gli uni dagli altri. La pienezza della vita ecclesiale, realizzata in ogni comunità locale è vista allo stesso modo in confronto ad altre Chiese locali presenti o passate. L’identità e la continuità è manifestata nell’atto dell’ordinazione dei vescovi, atto che richiede la presenza di diversi altri vescovi per poter costituire un’azione conciliare e testimoniare la continuità della successione e tradizione apostolica.
Il vescovo è primariamente custode della fede e, come tale, centro della vita sacramentale per la comunità. La Chiesa ortodossa conserva la dottrina della successione apostolica, ossia l’idea che il vescovo deve essere in diretta continuità con la linea iniziata dagli apostoli di Cristo. La tradizione ortodossa - com’è stata particolarmente espressa nella medioevale opposizione al papato romano - distingue l’ufficio di "Apostolo" da quello di vescovo. Il primo, infatti, non è che un testimone storico universale di Cristo e della sua Resurrezione mentre il vescovo è compreso nei termini d’una responsabilità sacramentale e pastorale nei riguardi d’una comunità o Chiesa locale. La continuità tra i due è una continuità nella fede, piuttosto che nella funzione. Questo concetto ortodosso sulla dottrina della successione apostolica è stato recentemente esposto in occasione dei frequenti incontri e consultazioni tra ecclesiastici ortodossi e anglicani. Gli ortodossi hanno sempre sottolineato l’unità della fede come requisito iniziale per riconoscere, dalla loro parte, la "validità" degli ordini anglicani.
Non può essere ordinato o esercitare il suo ministero alcun vescovo senza essere in unità con i suoi confratelli, cioè essere membro di un concilio episcopale, o un "sinodo". Dopo il Concilio di Nicea (325), i cui canoni sono ancora validi nella Chiesa ortodossa, ogni provincia dell’Impero romano ebbe il proprio sinodo di vescovi che agivano come un’unità totalmente indipendente per la consacrazione di nuovi vescovi e come tribunale ecclesiastico. Nella Chiesa ortodossa contemporanea queste funzioni sono compiute dal sinodo di ogni Chiesa autocefala. Nell’antica chiesa il vescovo della capitale d’una provincia agiva in qualità di presidente del sinodo ed era generalmente chiamato metropolita. Oggi questa funzione è adempiuta dal primate locale che alcune volte è patriarca (nelle Chiese autocefale di Costantinopoli, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme, Russia, Georgia, Serbia, Romania, e Bulgaria), altre arcivescovo (Cipro, Grecia) o metropolita (Polonia, Repubbliche Ceca e Slovacca, America). I titoli di arcivescovo e metropolita sono evidentemente utilizzati come distinzioni onorifiche.
Generalmente, anche se non sempre, la giurisdizione d’ogni sinodo autocefalo coincide con i confini nazionali – le eccezioni sono numerose in Medio Oriente (ad esempio la giurisdizione di Costantinopoli sopra le isole greche, la giurisdizione di Antiochia sopra alcuni stati arabi, ecc.) – e riguardano anche le diocesi nazionali della diaspora ortodossa (ad esempio l’Europa occidentale, l’Australia, l’America) che frequentemente sono sotto l’autorità delle loro madri Chiese. Quest’ultima situazione porta ad un’anticanonica sovrapposizione di giurisdizioni ortodosse basate tutte su origini etniche. Parecchi fattori, dovuti a contingenze storiche medioevali, hanno contribuito a formare il moderno nazionalismo ecclesiastico nella Chiesa ortodossa. Questo ha determinato l’utilizzo della lingua vernacolare nella liturgia e la successiva identificazione della religione con la cultura nazionale. Alcune volte tale identificazione ha aiutato la Chiesa a sopravvivere ad avverse condizioni politiche, ma ha pure impedito l’espansione missionaria e l’acquisizione d’una specifica identità cristiana nei fedeli.

Chierici e laici

La forte sottolineatura della comunione ecclesiale e del culto, come principi-base della vita della Chiesa, ha impedito lo sviluppo del clericalismo. L’antica pratica cristiana d’avere il laicato come partecipante alle elezioni episcopali non è mai scomparsa in Oriente. Nei tempi moderni è stata ripristinata in diverse Chiese. Il Concilio di Mosca del 1917-18 la reintrodusse in Russia anche se gli eventi rivoluzionari ne impedirono il pieno funzionamento. I vescovi sono eletti da riunioni clerico-laicali in America e in altre parti del mondo ortodosso.
I chierici dei primi gradi dell’Ordine, i preti e i diaconi, sono generalmente uomini sposati. L’attuale legislazione canonica ammette l’ordinazione di uomini sposati al diaconato e al presbiterato, verifica che essi siano stati sposati solo una volta e che la loro moglie non sia stata vedova o divorziata. Queste disposizioni riflettono il principio generale di assoluta monogamia, che la Chiesa Ortodossa considera come strettamente normativo per i candidati al presbiterato. Diaconi e preti non possono sposarsi dopo la loro ordinazione. I vescovi, comunque, sono scelti tra i chierici non sposati o tra i preti rimasti vedovi. L’episcopato non sposato fu definito così a partire dal VI secolo quando i monaci rappresentavano l’elite del clero. L’attuale decremento del numero dei monaci nella Chiesa Ortodossa ha creato seri problemi in alcune Chiese nelle quali è difficile trovare nuovi candidati all’episcopato.
Oltre ad essere ammessi, in alcune zone, alla partecipazione attiva all’elezione episcopale, i laici ortodossi hanno spesso incarichi nell’amministrazione della Chiesa e nell’educazione teologica. In Grecia la maggioranza dei teologi d’un certo livello sono laici. Il laico preparato riceve la benedizione episcopale per poter predicare in chiesa.

Il monachesimo

La tradizione del monachesimo orientale risale al III-IV secolo dell'era cristiana. Ai suoi inizi era essenzialmente un movimento contemplativo che cercava l'esperienza di Dio in una vita di continua preghiera. Il carattere contemplativo è rimasto la caratteristica essenziale del monachesimo in tutti i tempi. Il cristianesimo orientale non ha mai conosciuto la presenza di ordini religiosi il cui fine fosse missionario o educativo, organizzati con precisione per diffondersi universalmente, come nel caso del Cristianesimo occidentale. La stessa divisione tra vita attiva e vita contemplativa non esiste in Oriente, dal momento che si ritiene che il contemplativo non dissoci da se stesso l'azione ma, anzi, sappia dirigerla con più saggezza e prudenza. Negli stessi primi secoli cristiani ciò non esisteva al punto che i monaci erano anche missionari.
Il fatto che la preghiera abbia una funzione centrale e principale nel monachesimo, non significa che quest’ultimo abbia un carattere singolo e uniforme. Il monachesimo eremitico (solitario), favorisce la pratica personale e individuale della preghiera e dell'ascetismo, ed è spesso più impegnato rispetto alla vita "cenobitica" (comune) nella quale la preghiera è principalmente quella comune e liturgica. Le due forme di monachesimo sono nate in Egitto e sono coesistite nell'impero romano-bizantino, in tutta l'Europa orientale diffondendosi pure in Occidente: il monachesimo irlandese aveva radici egiziane e San Cassiano, che scrisse le regole monastiche per i monaci occidentali, fu discepolo di San Giovanni Crisostomo!
A Costantinopoli il grande monastero Studion divenne modello per numerose comunità cenobitiche. (vedi nella sezione di Storia: La Chiesa nell'Impero costantinopolitano). È comunque nel quadro eremitico o nella tradizione esicasta (= della quiete spirituale) che si sono elevati i più noti mistici romano-bizantini: San Simeone il Nuovo Teologo, San Gregorio Palamas, ecc. Una delle maggiori caratteristiche della tradizione esicasta è la pratica della "preghiera di Gesù" o della continua invocazione del nome di Gesù, alcune volte in rapporto ritmico con il respiro. Questa pratica si è diffusa largamente anche nella Russia medioevale e moderna e non è semplicemente ristretta ai circoli monastici, dal momento che, pure in Grecia, viene praticata da laici.
Le tradizioni cenobitiche costantinopolitane sono state importate nelle terre slave. Nella Russia del nord hanno estesamente lavorato molti monaci come missionari e pionieri d’una nuova civiltà.
Nell'impero romano-bizantino, come in altre aree del mondo cristiano-ortodosso, i monaci furono spesso gli unici ad avere un'alta integrità morale e spirituale. In tal modo essi avevano il rispetto del popolo e la stima degli intellettuali. I famosi staretz russi del XIX secolo divennero padri spirituali di Dostoyevsky, Gogol, e Tolstoy e ispirarono molti filosofi religiosi nella ricerca d'una non illusoria esperienza religiosa.
Oggi il più famoso centro del monachesimo ortodosso è il Monte Athos (Grecia), nella cui regione vivono più di mille monaci di diversa nazionalità raggruppati di molte comunità. Tale regione è una repubblica monastica.

IL CULTO E I SACRAMENTI

Il ruolo della Liturgia

Per la sua ricchezza teologica, il suo significato spirituale e la varietà espressiva, il culto della Chiesa Ortodossa rappresenta uno dei fattori più significativi della continuità e dell'identità dell'Ortodossia. Aiuta a capire la sopravvivenza del Cristianesimo durante i diversi secoli del dominio musulmano in Medio Oriente e nei Balcani quando la liturgia era la sola fonte di conoscenza e di esperienza religiosa. In Unione Sovietica la prassi liturgica era praticamente l'unica espressione religiosa giuridicamente autorizzata. La continua esistenza di comunità Ortodosse nella regione era concentrata quasi esclusivamente attorno alla liturgia.

Il concetto che la Chiesa è rinvenibile autenticamente quando l'insieme dei fedeli è raggruppato nel culto, è un'espressione basilare dell'esperienza orientale cristiana. Senza questo concetto è impossibile capire gli essenziali fondamenti della struttura della Chiesa nell'Ortodossia, in cui il vescovo ricopre il ruolo d'insegnante e sommo sacerdote nella liturgia. Similmente, l'esperienza personale dell'uomo nella partecipazione alla vita divina è capita all'interno della continua azione liturgica della comunità.

Secondo molti, una delle ragioni che aiutano a spiegare perché la liturgia orientale ha avuto un impatto molto forte nella Chiesa, impatto che non ha eguale in paragone alle liturgie occidentali, è che la liturgia orientale è sempre stata vista come un'esperienza totale, che tocca l'uomo contemporaneamente nella sfera emotiva e intellettuale e colpendo pure la sua facoltà estetica. La liturgia include una varietà di modelli, o simboli, usa formali asserti teologici come percezioni fisiche e gesti (musica, incenso, prostrazioni) e arti visuali. Tutto ciò è mirato a portare il contenuto della fede cristiana al popolo colto e a quello meno colto. La partecipazione alla liturgia implica familiarità con le sue forme espressive, molte delle quali derivano da un contesto storico e culturale passato. Così, l'uso di tale antica elaborata liturgia presuppone una preparazione catechetica. In alcuni casi, queste forme espressive vengono adattate senza che, però, si crei un pregiudizio o un disprezzo verso quelle più antiche. Non fa parte della mentalità ortodossa né un disprezzo verso le forme liturgiche passate, né una rigida e legale esecuzione rituale attenta a non tralasciare neppure una virgola del testo. La Chiesa Ortodossa riconosce che le forme liturgiche possono essere soggette a cambiamenti dal momento che, a partire dalla Chiesa primitiva, è stata ammessa una grande varietà di tradizioni liturgiche, varietà che è possibile avere anche oggi. In tal modo, oggi in Europa occidentale e in America, esistono comunità Ortodosse con liturgie occidentali.

La Chiesa Ortodossa, comunque, è sempre stata conservativa in materia liturgica. Questa caratteristica è dovuta, in particolare, all'assenza di un'autorità ecclesiastica centrale che avrebbe potuto promuovere delle riforme e dalla ferma convinzione che la Chiesa deve essere concepita in forma unitaria: la liturgia non è un elemento che sta per conto suo essendo il principale mezzo attraverso il quale si comunica la fede e la vera esperienza cristiana. Conseguentemente una riforma della liturgia equivale ad una riforma della stessa fede. Nonostante che ad occhi non ortodossi questo conservatorismo possa parere un limite, è indubbio che grazie a ciò, la liturgia Ortodossa ha conservato molti essenziali valori cristiani provenienti direttamente dall'esperienza della Chiesa primitiva.

In tutti i secoli la liturgia Ortodossa è stata riccamente abbellita con composizioni innografiche di vari autori. A Costantinopoli (città in cui tale liturgia si è formata), il culto è stato impreziosito con espressioni tratte dalla Bibbia, con consuetudini tratte dal cristianesimo primitivo, con ampie citazioni tratte da fonti teologiche patristiche e da poesie greche e con gesti del cerimoniale imperiale, per comunicare simbolicamente le realtà del Regno di Dio.

Normalmente, il contenuto della liturgia è accessibile direttamente al fedele, perché la tradizione romano-orientale prevede l'uso della lingua vernacolare nella liturgia. La traduzione delle Sacre Scritture e della liturgia in varie lingue, è stata effettuata dai romano-orientali del Medioevo, come dai moderni missionari russi. Lo spirito conservativo liturgico mantiene, comunque, anche l'utilizzo delle lingue antiche. Il greco medioevale viene utilizzato dai greci attuali e l'antico slavonico viene conservato da tutti gli slavi. Entrambe le lingue sono distanti dalla parlata moderna come la versione biblica del Re Giacomo, usata in molte chiese protestanti, lo è dal moderno inglese.

Le liturgie eucaristiche

Generalmente nel culto ortodosso vengono celebrate due liturgie eucaristiche: la cosiddetta liturgia di San Giovanni Cristostomo e quella di San Basilio il Grande. Entrambe hanno acquisito la loro forma attuale nel IX secolo anche se è riconosciuto che il "canone" (preghiera) eucaristico della liturgia di San Basilio è precedente al IV secolo, ossia prima dello stesso San Basilio. La cosiddetta Liturgia di San Giacomo è usata di tanto in tanto, particolarmente a Gerusalemme. Durante il periodo quaresimale, viene celebrata una liturgia senza consacrazione, nella quale vengono offerti il pane e il vino consacrati la domenica precedente. Questa liturgia, celebrata in relazione con il Vespero, è chiamata "Liturgia del Presantificati" ed è attribuita a San Gregorio Magno.

Le liturgie di San Giovanni Crisostomo e di San Basilio differiscono tra loro solo nel testo del canone (preghiera) eucaristica: la maniera in cui sono strutturate, si è stabilita nel Medioevo ed è identica.

Queste liturgie eucaristiche cominciano con un elaborato rito di preparazione (la proscomidia). Un sacerdote su una "tavola di oblazione" non lontana dall'altare dispone su una patena (piatto) le particelle di pane che simboleggiano l'assemblea dei santi, sia vivi che morti, attorno a Cristo, "Agnello di Dio". A ciò segue la "Liturgia del Catecumeni" che inizia con un ingresso processionale del presbitero nel santuario con in mano il Vangelo (Piccolo Ingresso). Questa parte include la tradizionale "liturgia della parola", cioè, la lettura dalle lettere del Nuovo Testamento e i Santi Vangeli. In alcuni casi alla lettura del Vangelo segue un'omelia. Questa parte liturgica termina con l'allontanamento dei catecumeni che, prima d'essere battezzati, non sono ammessi alla parte sacramentale. Il "Liturgia dei fedeli" include un'altra processione del sacerdote nel Santuario. In questo caso egli reca il pane e il vino dalla tavola dell'oblazione all'altare (Ingresso Grande). A ciò segue la professione di fede con la recita o il canto del Credo niceno. Segue il canone eucaristico, il Padre nostro e la Comunione, con lo schema che è tipico anche nelle liturgie occidentali. Il pane utilizzato per la liturgia eucaristica viene fatto lievitare e la comunione è distribuita in entrambe le specie (pane e vino) con un particolare cucchiaio (lavis).

I cicli liturgici

Uno delle caratteristiche maggiori della tradizione liturgica romano-orientale è la ricchezza e varietà delle innografie che marcano i vari cicli dell'anno liturgico. Un particolare libro liturgico contiene gli inni per ciascun principale ciclo. Il ciclo quotidiano include gli uffici dell'Hesperinos (Vespero), dell'Apodeipnon (Compieta), del Mesoniktikon (la preghiera di mezzanotte), dell'Orthros (Mattutini) e delle quattro "ore" canoniche, cioè, gli uffici di "Prima" (6,00), "Terza" (9,00), "Sesta" (12,00) e "Nona" (15,00). Il libro liturgico che copre gli uffici quotidiani è chiamato Horologhion ("Libro delle ore"). Il ciclo pasquale è centrato sulla "Festa delle Feste", cioè sulla Risurrezione di Cristo; include il periodo della Grande Quaresima, preceduta da tre domeniche di preparazione, e il periodo di cinquanta giorni dopo la Pasqua. Gli inni del periodo quaresimale sono nel Triodion (Libro delle "Tre Odi"), quelli del periodo pasquale nel Pentekostarion. Il ciclo settimanale è la prosecuzione del ciclo di Risurrezione rinvenibile nel Triodion e nel Pentekostarion; ogni settimana segue la domenica dopo Pentecoste (50 giorni dopo Pasqua) possiede il suo tono musicale, cioè il modo in cui vengono cantati gli inni settimanali. Ci sono otto toni la cui composizione è attribuita tradizionalmente a San Giovanni di Damasco (VIII secolo). Ogni settimana è centrata attorno alla domenica, giorno della Risurrezione di Cristo.

I cicli pasquali e settimanali dominano tutti gli uffici dell'anno e illustrano la centralità fondamentale della Risurrezione nella comprensione orientale del messaggio cristiano. La data di Pasqua, stabilita nel Concilio di Nicea (325), cade la prima domenica dopo la luna piena che segue l'equinozio primaverile. Esiste, qui, una differenza tra l'Oriente e l'Occidente nel computo di tal data, dal momento che la Chiesa ortodossa utilizza il calendario Giuliano per stabilire la data dell'equinozio (il calendario ha una differenza di 13 giorni rispetto a quello normalmente usato). La differenza è stabilita anche dalla tradizione che impedisce alla Pasqua cristiana di precedere o coincidere con quella ebraica. Il ciclo annuale include inni per ciascun giorno dell'anno e per la festa e la commemorazione dei santi. Questi testi sono rinvenibili nei 12 volumi del Menaion ("Libro dei Mesi").

Dal VI al IX secolo la Chiesa romano-orientale ha avuto un periodo d'oro di creatività innografica per opera di grandi poeti tra i quali San Giovanni Damasceno. In tempi più recenti la composizione di inni ha generalmente seguito lo stile degli autori antichi, raramente ha raggiunto il loro livello poetico. La tradizione Orientale Ortodossa proibisce la musica d'accompagnamento al canto. Il canto viene sempre eseguito "a cappella" con qualche eccezione rinvenibile nelle parrocchie d'America. Dietro a questa proibizione c'è l'idea che regolava la pratica cultuale nelle prime comunità cristiane: la vera preghiera nasce unicamente dall'espressione naturale dei credenti riuniti nel culto. Oggi, in molte chiese Ortodosse c'è una grande ricchezza di nuovi canti composti per i testi liturgici.

I sacramenti

I contemporanei catechismi ortodossi e i manuali affermano che la Chiesa riconosce sette misteri o "sacramenti": il Battesimo, il Crisma (Cresima), la Comunione, gli Ordini Santi, la Penitenza, l'Unzione degli infermi (l' "estrema unzione" dell'Occidente medievale) e il matrimonio. Né il libro liturgico che riporta i testi per il conferimento dei sacramenti (L'Euchologhion) né la tradizione patristica limitano formalmente il numero dei sacramenti; non distinguono neppure chiaramente tra i sacramenti strictu senso e la benedizione dell'acqua nel giorno dell'Epifania o la tonsura di un monaco che in Occidente sono detti sacramentali. Di fatto nessun concilio riconosciuto dalla Chiesa ortodossa ha definito il numero dei sacramenti; è solo attraverso le "confessioni Ortodosse" del XVII secolo dirette contro la Riforma protestante che è stato generalmente accettato il numero sette. La teologia sacramentale della Chiesa Ortodossa è basata, comunque, sulla nozione che la comunità ecclesiastica è l'unico mysterion, del quale i vari sacramenti o sacramentali sono normali espressioni.

Nell'Occidente del periodo Scolastico (Basso Medioevo) e, specialmente, con la Riforma cattolica (XVI secolo), è stato particolarmente enfatizzato il potere giuridico vicario del ministro nell'amministrare validamente i sacramenti. L'Oriente ortodosso, comunque, interpreta ciascun atto sacramentale come una preghiera dell'intera comunità ecclesiastica, condotta dal vescovo o in sua rappresentanza, ed anche come una risposta di Dio, sulla promessa di Cristo d'inviare sulla Chiesa lo Spirito Santo. Questi due aspetti del sacramento escludono sia la visione magica che quella legalistica: implicano che lo Spirito Santo è stato dato per liberare gli uomini e attende da loro una risposta. Nel mysterion della Chiesa la partecipazione degli uomini in Dio è effettuata attraverso la loro "cooperazione" o "sinergia"; rendere possibile questa partecipazione è, d'altronde, il fine dell'incarnazione.

Battesimo e Crisma

Il battesimo è normalmente compiuto per tripla immersione come segno della morte e Risurrezione di Cristo; così, il sacramento è visto anche nella sua forma esterna come un dono di vita nuova. Al battesimo segue immediatamente il conferimento del Crisma, compiuto dal prete che unge il neobattezzato con il "Santo Crisma" (olio) benedetto dal vescovo. I bambini battezzati e cresimati sono ammessi alla Santa Comunione. Il fatto di ammettere i nuovi cristiani alla Comunione immediatamente dopo il loro Battesimo e dopo la Cresima, si motiva perché la tradizione cristiana orientale ha conservato il significato positivo del battesimo quale inizio di una vita nuova nutrita dall'Eucarestia.

L'Eucaristia

In Oriente non è mai esistita molta speculazione sulla natura del mistero dell'Eucaristia. Entrambe le anafore (preghiere) eucaristiche utilizzate (quella di San Basilio e quella di San Giovanni Crisostomo) includono il "racconto dell'istituzione eucaristica ("Questo è il mio Corpo...," "Questo è il mio Sangue..."). In Occidente la preghiera eucaristica è considerata necessaria per realizzare il sacramento. La differenza con l'Oriente, sta nel fatto che il punto culminante della preghiera eucaristica non è il ricordo dell'atto compiuto da Cristo ma l'invocazione del Santo Spirito che segue immediatamente al racconto evangelico: "Manda il tuo Santo Spirito su di noi e sopra i Doni qui presenti e fa' di questo Pane il prezioso Corpo del tuo Cristo ... e fa' di ciò che è in questo Calice il prezioso Sangue del tuo Cristo". In tal modo, il mistero centrale del Cristianesimo è realizzato non per virtù d'un uomo che agisce in persona Christi (è la posizione tradizionale dell'Occidente) ma attraverso la preghiera della Chiesa e l'azione dello Spirito Santo. La natura del mistero che coinvolge il pane e il vino viene espressa con il termine metabolé, cioé trasmutazione sacramentale. Il termine occidentale "trasustanziazione" ricorre solo in alcune confessioni di fede del XVII secolo.

Gli Ordini Sacri

La Chiesa Ortodossa riconosce tre ordini maggiori (il diaconato, il sacerdozio, e l'episcopato) e due ordini minori (il lettorato e il suddiaconato). Tutte le ordinazioni sono compiute da un vescovo e, normalmente, durante la liturgia eucaristica. La consacrazione di un vescovo richiede la partecipazione di almeno due o tre vescovi, come un'elezione da un sinodo canonico.

La Penitenza (Confessione)

Il sacramento della penitenza nella Chiesa primitiva era un solenne atto di riconciliazione attraverso il quale il peccatore scomunicato veniva riammesso nella comunione della Chiesa. Storicamente si è trasformato in un atto privato attraverso il quale ogni cristiano rinnovata periodicamente la sua appartenenza alla Chiesa. Oggi nella Chiesa Ortodossa esiste una certa varietà nella pratica del rito penitenziale. Nelle chiese balcaniche e del Medio Oriente, era caduta in disuso nei quattro secoli dell'occupazione turca mentre attualmente viene gradualmente ripristinata. Nelle chiese greche solo alcuni preti incaricati dal vescovo, hanno il compito di sentire le confessioni. In Russia le confessioni sono rimaste una pratica diffusa e vengono generalmente chieste prima di fare la comunione. La confessione generale o di gruppo è stata introdotta da Giovanni di Kronshtadt, un capo spirituale russo all'inizio del XX secolo, e viene praticata di tanto in tanto. Il rito della confessione nell'Euchologion ha la forma di una preghiera, o invocazione, recitata dal sacerdote per la remissione dei peccati del penitente. Il rituale slavo, ispirato da quello latino, ha una forma giuridica di assoluzione personale. Tale forma è stata introdotta da Pietro Mogila, metropolita di Kiev (XVII secolo). La confessione, nella pratica ortodossa, è generalmente vista come una forma spirituale di guarigione piuttosto che come un tribunale. La relativa mancanza di una visione legalistica riflette l'approccio patristico che vede il peccato come una passione interiore e una schiavitù. Gli atti esterni peccaminosi - che possono essere provati giuridicamente - sono solo una manifestazione di questa malattia interiore dell'uomo.

L'Unzione degli infermi

L'Unzione degli infermi è una preghiera di guarigione. Nella Chiesa greca è compiuta annualmente in chiesa per il beneficio di tutta la comunità dei credenti la sera del mercoledì Santo.

Il Matrimonio

Il Matrimonio è celebrato attraverso un rito d'incoronazione, compiuto con grande solennità, e significa un'unione eterna, sacramentalmente "realizzata" nel Regno di Dio. La teologia ortodossa insiste sull'eternità sacramentale del matrimonio piuttosto che sulla sua indissolubilità legale. Così, viene celebrato un secondo matrimonio con un rito penitenziale, in caso di vedovanza o di divorzio. Gli uomini sposati più d'una volta non vengono ammessi al sacerdozio. E' tollerato un nuovo matrimonio dopo il divorzio dal momento che si ritiene possibile che il sacramento del matrimonio, ricevuto la prima volta, non sia stato accolto con quella piena consapevolezza e responsabilità che lo rende pienamente effettivo. Per tale motivo viene concessa una seconda possibilità.

Fonte: http://digilander.libero.it/ortodossia/dottrina.htm

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