Il primato di Pietro, compito che viene da Gesù
di Benedetto XVI (Omelia 29 giugno 2009)
“Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa” (Mt 16, 18). Che cosa dice propriamente il Signore a Pietro con queste parole? Quale promessa gli fa con esse e quale incarico gli affida? E che cosa dice a noi – al Vescovo di Roma, che siede sulla cattedra di Pietro, e alla Chiesa di oggi? Se vogliamo comprendere il significato delle parole di Gesù, è utile ricordarsi che i Vangeli ci raccontano di tre situazioni diverse in cui il Signore, ogni volta in un modo particolare, trasmette a Pietro il compito che gli sarà proprio. Si tratta sempre dello stesso compito, ma dalla diversità delle situazioni e delle immagini usate diventa più chiaro per noi che cosa in esso interessava ed interessa al Signore.
Nel Vangelo di san Matteo che abbiamo ascoltato poco fa, Pietro rende la propria confessione a Gesù riconoscendolo come Messia e Figlio di Dio. In base a ciò gli viene conferito il suo particolare compito mediante tre immagini: quella della roccia che diventa pietra di fondamento o pietra angolare, quella delle chiavi e quella del legare e sciogliere. In questo momento non intendo interpretare ancora una volta queste tre immagini che la Chiesa, nel corso dei secoli, ha spiegato sempre di nuovo; vorrei piuttosto richiamare l’attenzione sul luogo geografico e sul contesto cronologico di queste parole. La promessa avviene presso le fonti del Giordano, alla frontiera della terra giudaica, sul confine verso il mondo pagano.
Il momento della promessa segna una svolta decisiva nel cammino di Gesù: ora il Signore s’incammina verso Gerusalemme e, per la prima volta, dice ai discepoli che questo cammino verso la Città Santa è il cammino verso la Croce: “Da allora Gesù cominciò a dire apertamente ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei sommi sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risuscitare il terzo giorno” (Mt 16, 21). Ambedue le cose vanno insieme e determinano il luogo interiore del Primato, anzi della Chiesa in genere: continuamente il Signore è in cammino verso la Croce, verso la bassezza del servo di Dio sofferente e ucciso, ma al contempo è sempre anche in cammino verso la vastità del mondo, nella quale Egli ci precede come Risorto, perché nel mondo rifulga la luce della sua parola e la presenza del suo amore; è in cammino perché mediante Lui, il Cristo crocifisso e risorto, arrivi nel mondo Dio stesso. In questo senso Pietro, nella sua Prima Lettera, si qualifica “testimone delle sofferenze di Cristo e partecipe della gloria che deve manifestarsi” (5, 1). Per la Chiesa il Venerdì Santo e la Pasqua esistono sempre insieme; essa è sempre sia il grano di senapa sia l’albero fra i cui rami gli uccelli del cielo si annidano.
La Chiesa – ed in essa Cristo – soffre anche oggi. In essa Cristo viene sempre di nuovo schernito e colpito; sempre di nuovo si cerca di spingerlo fuori del mondo. Sempre di nuovo la piccola barca della Chiesa è squassata dal vento delle ideologie, che con le loro acque penetrano in essa e sembrano condannarla all’affondamento. E tuttavia, proprio nella Chiesa sofferente Cristo è vittorioso. Nonostante tutto, la fede in Lui riprende forza sempre di nuovo. Anche oggi il Signore comanda alle acque e si dimostra Signore degli elementi. Egli resta nella sua barca, nella navicella della Chiesa. Così anche nel ministero di Pietro si rivela, da una parte, la debolezza di ciò che è proprio dell’uomo, ma insieme anche la forza di Dio: proprio nella debolezza degli uomini il Signore manifesta la sua forza; dimostra che è Lui stesso a costruire, mediante uomini deboli, la sua Chiesa.
Rivolgiamoci ora al Vangelo di san Luca che ci racconta come il Signore, durante l’Ultima Cena, conferisce nuovamente un compito speciale a Pietro (cfr Lc 22, 31-33). Questa volta le parole di Gesù rivolte a Simone si trovano immediatamente dopo l’istituzione della Santissima Eucaristia. Il Signore si è appena donato ai suoi, sotto le specie del pane e del vino. Possiamo vedere nell’istituzione dell’Eucaristia il vero e proprio atto fondativo della Chiesa. Attraverso l’Eucaristia il Signore dona ai suoi non solo se stesso, ma anche la realtà di una nuova comunione tra di loro che si prolunga nei tempi “finché Egli venga” (cfr 1Cor 11, 26). Mediante l’Eucaristia i discepoli diventano la sua casa vivente che, lungo la storia, cresce come il nuovo e vivente tempio di Dio in questo mondo. E così Gesù, subito dopo l’istituzione del Sacramento, parla di ciò che l’essere discepoli, il “ministero”, significa nella nuova comunità: dice che esso è un impegno di servizio, così come Egli stesso si trova in mezzo a loro come Colui che serve. E allora si rivolge a Pietro. Dice che Satana ha chiesto di poter vagliare i discepoli come il grano.
Questo evoca il passo del Libro di Giobbe, in cui Satana chiede a Dio la facoltà di colpire Giobbe. Il diavolo – il calunniatore di Dio e degli uomini – vuole con ciò provare che non esiste una vera religiosità, ma che nell’uomo tutto mira sempre e soltanto all’utilità. Nel caso di Giobbe, Dio concede a Satana la libertà richiesta proprio per poter con ciò difendere la sua creatura, l’uomo, e se stesso. E così avviene anche con i discepoli di Gesù – Dio dà una certa libertà a Satana in tutti i tempi. A noi tante volte sembra che Dio lasci a Satana troppa libertà; che gli conceda la facoltà di scuoterci in modo troppo terribile; e che questo superi le nostre forze e ci opprima troppo. Sempre di nuovo grideremo a Dio: Ahimè, guarda la miseria dei tuoi discepoli, deh, proteggici! Infatti Gesù continua: “Io ho pregato, che non venga meno la tua fede” (Lc 22, 32).
La preghiera di Gesù è il limite posto al potere del maligno. Il pregare di Gesù è la protezione della Chiesa. Possiamo rifugiarci sotto questa protezione, aggrapparci ad essa e di essa essere sicuri. Ma – come ci dice il Vangelo – Gesù prega in modo particolare per Pietro: “…perché non venga meno la tua fede”. Questa preghiera di Gesù è insieme promessa e compito. La preghiera di Gesù tutela la fede di Pietro; quella fede che egli ha confessato a Cesarea di Filippo: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16, 16). Ecco: non lasciare mai che questa fede diventi muta, rinfrancarla sempre di nuovo, proprio anche di fronte alla croce e a tutte le contraddizioni del mondo: questo è il compito di Pietro. Perciò appunto il Signore non prega soltanto per la fede personale di Pietro, ma per la sua fede come servizio agli altri. È proprio questo che Egli intende dire con le parole: “E tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli” (Lc 22, 32).
“Tu, una volta ravveduto” – questa parola è insieme profezia e promessa. Essa profetizza la debolezza di Simone che, di fronte ad una serva ed un servo, negherà di conoscere Gesù. Attraverso questa caduta Pietro – e con lui ogni suo Successore – deve imparare che la propria forza da sola non è sufficiente per edificare e guidare la Chiesa del Signore. Nessuno ci riesce soltanto da sé. Per quanto Pietro sembri capace e bravo – già nel primo momento della prova fallisce. “Tu, una volta ravveduto” – il Signore, che gli predice la caduta, gli promette anche la conversione: “Allora il Signore, voltatosi, guardò Pietro…” (Lc 22, 61). Lo sguardo di Gesù opera la trasformazione e diventa la salvezza di Pietro: Egli, “uscito, pianse amaramente” (22, 62). Vogliamo sempre di nuovo implorare questo sguardo salvatore di Gesù: per tutti coloro che, nella Chiesa, portano una responsabilità; per tutti coloro che soffrono delle confusioni di questo tempo; per i grandi e per i piccoli: Signore, guardaci sempre di nuovo e così tiraci su da tutte le nostre cadute e prendici nelle tue mani buone.
Il Signore affida a Pietro il compito per i fratelli attraverso la promessa della sua preghiera. L’incarico di Pietro è ancorato alla preghiera di Gesù. È questo che gli dà la sicurezza del suo perseverare attraverso tutte le miserie umane. E il Signore gli affida questo incarico nel contesto della Cena, in connessione con il dono della Santissima Eucaristia. La Chiesa, fondata nell’istituzione dell’Eucaristia, nel suo intimo è comunità eucaristica e così comunione nel Corpo del Signore. Il compito di Pietro è di presiedere a questa comunione universale; di mantenerla presente nel mondo come unità anche visibile, incarnata. Egli, insieme con tutta la Chiesa di Roma, deve – come dice sant’Ignazio di Antiochia – presiedere alla carità: presiedere alla comunità di quell’amore che proviene da Cristo e, sempre di nuovo, oltrepassa i limiti del privato per portare l’amore di Cristo fino ai confini della terra.
Il terzo riferimento al Primato si trova nel Vangelo di san Giovanni (21, 15-19). Il Signore è risorto, e come Risorto affida a Pietro il suo gregge. Anche qui si compenetrano a vicenda la Croce e la Risurrezione. Gesù predice a Pietro che il suo cammino andrà verso la croce. In questa Basilica eretta sopra la tomba di Pietro – una tomba di poveri – vediamo che il Signore proprio così, attraverso la Croce, vince sempre. Il suo potere non è un potere secondo le modalità di questo mondo. È il potere del bene – della verità e dell’amore, che è più forte della morte. Sì, è vera la sua promessa: i poteri della morte, le porte degli inferi non prevarranno contro la Chiesa che Egli ha edificato su Pietro (cfr Mt 16, 18) e che Egli, proprio in questo modo, continua ad edificare personalmente.
“Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa” (Mt 16, 18). Che cosa dice propriamente il Signore a Pietro con queste parole? Quale promessa gli fa con esse e quale incarico gli affida? E che cosa dice a noi – al Vescovo di Roma, che siede sulla cattedra di Pietro, e alla Chiesa di oggi? Se vogliamo comprendere il significato delle parole di Gesù, è utile ricordarsi che i Vangeli ci raccontano di tre situazioni diverse in cui il Signore, ogni volta in un modo particolare, trasmette a Pietro il compito che gli sarà proprio. Si tratta sempre dello stesso compito, ma dalla diversità delle situazioni e delle immagini usate diventa più chiaro per noi che cosa in esso interessava ed interessa al Signore.
Nel Vangelo di san Matteo che abbiamo ascoltato poco fa, Pietro rende la propria confessione a Gesù riconoscendolo come Messia e Figlio di Dio. In base a ciò gli viene conferito il suo particolare compito mediante tre immagini: quella della roccia che diventa pietra di fondamento o pietra angolare, quella delle chiavi e quella del legare e sciogliere. In questo momento non intendo interpretare ancora una volta queste tre immagini che la Chiesa, nel corso dei secoli, ha spiegato sempre di nuovo; vorrei piuttosto richiamare l’attenzione sul luogo geografico e sul contesto cronologico di queste parole. La promessa avviene presso le fonti del Giordano, alla frontiera della terra giudaica, sul confine verso il mondo pagano.
Il momento della promessa segna una svolta decisiva nel cammino di Gesù: ora il Signore s’incammina verso Gerusalemme e, per la prima volta, dice ai discepoli che questo cammino verso la Città Santa è il cammino verso la Croce: “Da allora Gesù cominciò a dire apertamente ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei sommi sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risuscitare il terzo giorno” (Mt 16, 21). Ambedue le cose vanno insieme e determinano il luogo interiore del Primato, anzi della Chiesa in genere: continuamente il Signore è in cammino verso la Croce, verso la bassezza del servo di Dio sofferente e ucciso, ma al contempo è sempre anche in cammino verso la vastità del mondo, nella quale Egli ci precede come Risorto, perché nel mondo rifulga la luce della sua parola e la presenza del suo amore; è in cammino perché mediante Lui, il Cristo crocifisso e risorto, arrivi nel mondo Dio stesso. In questo senso Pietro, nella sua Prima Lettera, si qualifica “testimone delle sofferenze di Cristo e partecipe della gloria che deve manifestarsi” (5, 1). Per la Chiesa il Venerdì Santo e la Pasqua esistono sempre insieme; essa è sempre sia il grano di senapa sia l’albero fra i cui rami gli uccelli del cielo si annidano.
La Chiesa – ed in essa Cristo – soffre anche oggi. In essa Cristo viene sempre di nuovo schernito e colpito; sempre di nuovo si cerca di spingerlo fuori del mondo. Sempre di nuovo la piccola barca della Chiesa è squassata dal vento delle ideologie, che con le loro acque penetrano in essa e sembrano condannarla all’affondamento. E tuttavia, proprio nella Chiesa sofferente Cristo è vittorioso. Nonostante tutto, la fede in Lui riprende forza sempre di nuovo. Anche oggi il Signore comanda alle acque e si dimostra Signore degli elementi. Egli resta nella sua barca, nella navicella della Chiesa. Così anche nel ministero di Pietro si rivela, da una parte, la debolezza di ciò che è proprio dell’uomo, ma insieme anche la forza di Dio: proprio nella debolezza degli uomini il Signore manifesta la sua forza; dimostra che è Lui stesso a costruire, mediante uomini deboli, la sua Chiesa.
Rivolgiamoci ora al Vangelo di san Luca che ci racconta come il Signore, durante l’Ultima Cena, conferisce nuovamente un compito speciale a Pietro (cfr Lc 22, 31-33). Questa volta le parole di Gesù rivolte a Simone si trovano immediatamente dopo l’istituzione della Santissima Eucaristia. Il Signore si è appena donato ai suoi, sotto le specie del pane e del vino. Possiamo vedere nell’istituzione dell’Eucaristia il vero e proprio atto fondativo della Chiesa. Attraverso l’Eucaristia il Signore dona ai suoi non solo se stesso, ma anche la realtà di una nuova comunione tra di loro che si prolunga nei tempi “finché Egli venga” (cfr 1Cor 11, 26). Mediante l’Eucaristia i discepoli diventano la sua casa vivente che, lungo la storia, cresce come il nuovo e vivente tempio di Dio in questo mondo. E così Gesù, subito dopo l’istituzione del Sacramento, parla di ciò che l’essere discepoli, il “ministero”, significa nella nuova comunità: dice che esso è un impegno di servizio, così come Egli stesso si trova in mezzo a loro come Colui che serve. E allora si rivolge a Pietro. Dice che Satana ha chiesto di poter vagliare i discepoli come il grano.
Questo evoca il passo del Libro di Giobbe, in cui Satana chiede a Dio la facoltà di colpire Giobbe. Il diavolo – il calunniatore di Dio e degli uomini – vuole con ciò provare che non esiste una vera religiosità, ma che nell’uomo tutto mira sempre e soltanto all’utilità. Nel caso di Giobbe, Dio concede a Satana la libertà richiesta proprio per poter con ciò difendere la sua creatura, l’uomo, e se stesso. E così avviene anche con i discepoli di Gesù – Dio dà una certa libertà a Satana in tutti i tempi. A noi tante volte sembra che Dio lasci a Satana troppa libertà; che gli conceda la facoltà di scuoterci in modo troppo terribile; e che questo superi le nostre forze e ci opprima troppo. Sempre di nuovo grideremo a Dio: Ahimè, guarda la miseria dei tuoi discepoli, deh, proteggici! Infatti Gesù continua: “Io ho pregato, che non venga meno la tua fede” (Lc 22, 32).
La preghiera di Gesù è il limite posto al potere del maligno. Il pregare di Gesù è la protezione della Chiesa. Possiamo rifugiarci sotto questa protezione, aggrapparci ad essa e di essa essere sicuri. Ma – come ci dice il Vangelo – Gesù prega in modo particolare per Pietro: “…perché non venga meno la tua fede”. Questa preghiera di Gesù è insieme promessa e compito. La preghiera di Gesù tutela la fede di Pietro; quella fede che egli ha confessato a Cesarea di Filippo: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16, 16). Ecco: non lasciare mai che questa fede diventi muta, rinfrancarla sempre di nuovo, proprio anche di fronte alla croce e a tutte le contraddizioni del mondo: questo è il compito di Pietro. Perciò appunto il Signore non prega soltanto per la fede personale di Pietro, ma per la sua fede come servizio agli altri. È proprio questo che Egli intende dire con le parole: “E tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli” (Lc 22, 32).
“Tu, una volta ravveduto” – questa parola è insieme profezia e promessa. Essa profetizza la debolezza di Simone che, di fronte ad una serva ed un servo, negherà di conoscere Gesù. Attraverso questa caduta Pietro – e con lui ogni suo Successore – deve imparare che la propria forza da sola non è sufficiente per edificare e guidare la Chiesa del Signore. Nessuno ci riesce soltanto da sé. Per quanto Pietro sembri capace e bravo – già nel primo momento della prova fallisce. “Tu, una volta ravveduto” – il Signore, che gli predice la caduta, gli promette anche la conversione: “Allora il Signore, voltatosi, guardò Pietro…” (Lc 22, 61). Lo sguardo di Gesù opera la trasformazione e diventa la salvezza di Pietro: Egli, “uscito, pianse amaramente” (22, 62). Vogliamo sempre di nuovo implorare questo sguardo salvatore di Gesù: per tutti coloro che, nella Chiesa, portano una responsabilità; per tutti coloro che soffrono delle confusioni di questo tempo; per i grandi e per i piccoli: Signore, guardaci sempre di nuovo e così tiraci su da tutte le nostre cadute e prendici nelle tue mani buone.
Il Signore affida a Pietro il compito per i fratelli attraverso la promessa della sua preghiera. L’incarico di Pietro è ancorato alla preghiera di Gesù. È questo che gli dà la sicurezza del suo perseverare attraverso tutte le miserie umane. E il Signore gli affida questo incarico nel contesto della Cena, in connessione con il dono della Santissima Eucaristia. La Chiesa, fondata nell’istituzione dell’Eucaristia, nel suo intimo è comunità eucaristica e così comunione nel Corpo del Signore. Il compito di Pietro è di presiedere a questa comunione universale; di mantenerla presente nel mondo come unità anche visibile, incarnata. Egli, insieme con tutta la Chiesa di Roma, deve – come dice sant’Ignazio di Antiochia – presiedere alla carità: presiedere alla comunità di quell’amore che proviene da Cristo e, sempre di nuovo, oltrepassa i limiti del privato per portare l’amore di Cristo fino ai confini della terra.
Il terzo riferimento al Primato si trova nel Vangelo di san Giovanni (21, 15-19). Il Signore è risorto, e come Risorto affida a Pietro il suo gregge. Anche qui si compenetrano a vicenda la Croce e la Risurrezione. Gesù predice a Pietro che il suo cammino andrà verso la croce. In questa Basilica eretta sopra la tomba di Pietro – una tomba di poveri – vediamo che il Signore proprio così, attraverso la Croce, vince sempre. Il suo potere non è un potere secondo le modalità di questo mondo. È il potere del bene – della verità e dell’amore, che è più forte della morte. Sì, è vera la sua promessa: i poteri della morte, le porte degli inferi non prevarranno contro la Chiesa che Egli ha edificato su Pietro (cfr Mt 16, 18) e che Egli, proprio in questo modo, continua ad edificare personalmente.
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Primato Petrino e la collegialità dei Vescovi
Primato Petrino o semplice collegialità fra “pari”?
Cari amici, anche a causa della storica rinuncia di Benedetto XVI alla guida attiva della Chiesa, da molte parti si è riacceso un dibattito che vede in testa le schiere progressiste e moderniste nella Chiesa in quella martellante collegialità atta a scardinare il ruolo del Primato Petrino.
Da più parti si invoca, in tal senso, un Successore che possa modificare le più imponenti Dottrine della Santa Chiesa, aggiornandole dicono, alle necessità del nostro tempo. La stessa rinuncia del Pontefice sembra dar credito a questa pressione.
Ma le cose stanno veramente così?
Non ci soffermeremo sulle stravaganti e recidive affermazioni di chi vorrebbe imporre una propria immagine di Chiesa con altrettanti visionari ruoli, né vogliamo perdere il tempo a fare elenchi di nomi assai noti, piuttosto vogliamo aiutare il lettore a comprendere cosa insegna la Chiesa, come ha insegnato fino all’ultimo lo stesso Benedetto XVI anche per comprendere che la sua rinuncia non ha nulla a che vedere con certe proposte di cambiamento.
Resta illuminante un punto indiscutibile: anche i più reazionari, atei o eretici che fossero, tutti guardano alla Sede Petrina come ad un primato unico e fondamentale a tal punto che, diabolicamente, non vogliono rinnegare tale primato, ma sovvertirlo, usarlo per l’edificazione di una chiesa del mondo. Come i preti che vogliono sposarsi tanto per affermare il detto di chi vuole la botte piena e la moglie ubriaca. O come le donne che pretendono il sacerdozio, dunque non lo rinnegano affatto, ma lo vogliono come rivendicazione di una parità con il maschio.
Sembra davvero ignoto a molti (è stato fatto un piccolo sondaggio a livello parrocchiale ed è risultato che nessun sacerdote conosce questo testo) un importante Documento della CdF firmato dall’allora cardinale Ratzinger in qualità di Prefetto e, naturalmente, firmato e approvato dall’allora Pontefice Giovanni Paolo II, si tratta del testo ufficiale:
Il Primato del Successore di Pietro nel Mistero della Chiesa.
Ma facciamo un breve passo indietro.
“Eminenza, c’è chi dice che sia in atto un processo di “protestantizzazione” del cattolicesimo”.
La risposta, come al solito, accetta in pieno la battuta: “Dipende innanzitutto da come si definisce il contenuto di ” protestantesimo “. Chi oggi parla di “protestantizzazione” della Chiesa cattolica, intende in genere con questa espressione un mutamento nella concezione di fondo della Chiesa, un’altra visione del rapporto fra Chiesa e vangelo. Il pericolo di una tale trasformazione sussiste realmente; non è solo uno spauracchio agitato in qualche ambiente integrista”.
(Rapporto sulla Fede - Intervista di V. Messori a J. Ratzinger cap.XI)
Nell’approfondire l’argomento, vi invitiamo a munirvi anche di un eccellente tascabile: “Pietro ama e unisce - la responsabilità del Papa per la Chiesa universale”.
In questo libro si affronta proprio la questione della collegialità e delle false interpretazioni che hanno scalfito (si legge proprio così) lo stesso dialogo Ecumenico rischiando, molte volte di confondere il Primato di Pietro con la Collegialità dei Vescovi.
A pag. 19, per esempio, vi è riportato un disappunto dell’allora card. Ratzinger proprio su queste false interpretazioni.
Ratzinger fa emergere e denuncia “i malintesi” sorti con un altra affermazione al tempo del grande Giubileo del 2000: per una comprensione di “comunione basterebbe accogliere il Mistero della Trinità”…… Sì, dice Ratzinger in sostanza, riconoscere la Trinità è importante, ma non è sufficiente per parlare di “comunione”.
E dice: ” Nella misura in cui communio divenne un facile slogan, essa fu appiattita e travisata….” e aggiunge che lo stesso “malinteso” avvenne per il concetto di “popolo di Dio” e così anche l’Eucarestia cominciò a ridursi alla problematica del rapporto fra chiesa locale e Chiesa Universale, che a sua volta ricadde sempre più nel problema della divisione di competenze fra l’una e l’altra….”
Così Ratzinger cercò di citare la Lettera ai Vescovi “Communions notio” del 28.5.1992 la quale insegna espressamente la precedenza ontologica e temporale della Chiesa Universale sulla Chiesa particolare….
Ratzinger nel raccontare quei momenti denuncia con profondo rammarico di come “si abbattè una grandinata di critiche da cui ben poco riuscì a salvarsi”, in sostanza ci fu un “ammutinamento di molti Vescovi” contro il quale nulla poterono fare (o forse non vollero per timore di un grave scisma) Giovanni Paolo II e lo stesso Ratzinger, se non ribadire l’insegnamento della Chiesa.
Ratzinger rispose allora spiegando ragionevolmente il suo testo sulla base della Scrittura e sulla stessa Patristica e confessò di non riuscire a comprendere le obiezioni che, disse il Prefetto di allora e poi Pontefice: “potrebbero sembrare possibili solo se non si vuole e non si riesce più a vedere la grande Chiesa ideata da Dio con a capo Cefa, per rifugiarsi in una immagine empirica delle Chiese nelle loro relazioni reciproche e nelle loro conflittualità arbitrate più o meno dal collegio dei vescovi, ma questa non è la Chiesa!”
E ancor Ratzinger non mancò così di trarre la seguente e grave conclusione:
“Questo però significa che la Chiesa come tema teologico verrebbe cancellata. Se si può vedere la Chiesa ormai solo nella organizzazione umana e nella gestione collegiale, allora in realtà rimane soltanto desolazione. Ma allora non è abbandonata solo l’ecclesiologia dei Padri, ma anche quella del Nuovo Testamento e la stessa concezione di Israele nell’A.T….”
Un altra denuncia portata da Ratzinger nel chiarire i vari aspetti dell’Ecumenismo, è quella secondo la quale basterebbe la presenza di un vescovo e di una chiesa-comunità per stabilire una qualche forma di unità senza soffermarsi sull’essenza dottrinale!
Ratzinger denuncia quel relativismo secondo il quale non pochi teologi, erroneamente, si sono posti la domanda ” Con quale diritto la Chiesa cattolica si presenta quale unica Chiesa di Cristo?”
La replica di Ratzinger è precisa: “la Chiesa di Cristo esiste realmente. Egli (Gesù Cristo) l’ha voluta, ha posto Pietro alla guida e lo Spirito Santo pur di fronte ad ogni fallimento umano la crea continuamente a partire dalla Pentecoste e la sostiene nella sua identità… (…) di qui è fondamentale sostenere che la Chiesa non è e non deve essere intesa come la somma di tutte le chiese o come la somma delle comunità cristiane con i loro vescovi…..la Chiesa Cattolica sussiste pertanto una e indivisa nella Chiesa ideata da Cristo con a capo Pietro…”
E quando venne eletto Pontefice, successore di questo Pietro, Cefa, Benedetto XVI disse il 23 agosto 2005 all’incontro ecumenico di Colonia:
“Non può esserci un vero dialogo a prezzo della verità; il dialogo deve svolgersi nella carità, certamente, ma soprattutto nella verità..”
Il problema Ratzinger l’aveva individuato molto bene e sta in quel:
“… rifugiarsi in una immagine empirica delle Chiese nelle loro relazioni reciproche e nelle loro conflittualità arbitrate più o meno dal collegio dei vescovi, ma questa non è la Chiesa!”
e in quella grave conseguente conclusione:
“Questo però significa che la Chiesa come tema teologico verrebbe cancellata”.
Riguardo così anche ad una ecu-mania volta a smobilitare il Primato Petrino e quindi anche della stessa Chiesa Cattolica, riducendola ad una “inter-paris” con tutte le altre Comunità non cattoliche, così ammoniva il Prefetto diventato Pontefice, sempre nella Communionis Notio:
“Nelle Chiese e Comunità cristiane non cattoliche esistono infatti molti elementi della Chiesa di Cristo che permettono di riconoscere con gioia e speranza una certa comunione, sebbene non perfetta. (..) Siccome però la comunione con la Chiesa universale, rappresentata dal Successore di Pietro, non è un complemento esterno alla Chiesa particolare, ma uno dei suoi costitutivi interni, la situazione di quelle venerabili comunità cristiane implica anche una ferita nel loro essere Chiesa particolare.
La ferita è ancora molto più profonda nelle comunità ecclesiali che non hanno conservato la successione apostolica e l’Eucaristia valida. Ciò, d’altra parte, comporta pure per la Chiesa Cattolica, chiamata dal Signore a diventare per tutti un solo gregge e un solo pastore, una ferita in quanto ostacolo alla realizzazione piena della sua universalità nella storia.
(…) In questo impegno ecumenico, hanno un’importanza prioritaria la preghiera, la penitenza, lo studio, il dialogo e la collaborazione, affinché in una rinnovata conversione al Signore diventi possibile a tutti riconoscere il permanere del Primato di Pietro nei suoi successori, i Vescovi di Roma, e vedere realizzato il ministero petrino, come è inteso dal Signore, quale universale servizio apostolico, che è presente in tutte le Chiese dall’interno di esse e che, salva la sua sostanza d’istituzione divina, può esprimersi in modi diversi, a seconda dei luoghi e dei tempi, come testimonia la storia”.
Quindi: e che, salva la sua sostanza d’istituzione divina, può esprimersi in modi diversi, a seconda dei luoghi e dei tempi, come testimonia la storia, non significa il riconoscimento sincretista di una sorta di “inter-paris” con le altre Chiese particolari (si legga gli Ortodossi) e Comunità Cristiane (si legga i Protestanti che non sono Chiese), o l’appiattimento del ruolo Petrino, infatti leggiamo che per una piena comunione è necessaria: una rinnovata conversione al Signore diventi possibile a tutti riconoscere il permanere del Primato di Pietro nei suoi successori, i Vescovi di Roma.
Sempre attraverso alcuni interventi di Ratzinger in diverse occasioni, viene spiegato il senso corretto per interpretare questa Communions Notio, ossia questa Comunione tra il Papa e i vescovi.
Egli rammenta che il Vangelo di Matteo pone a Simone, Cefa, l’autorità apostolica superiore, collegata certamente all’istituzione degli altri undici “che agiscono in comunione con lui, ma mai senza di lui, sottolinea Ratzinger….(cfr.Mt.10,1; 18,18).
Pietro ha un primato “autorevole” che include l’insegnamento e la guida sicura, egli è istituito “per primo ed in modo singolare e specifico” (Mt.16,18 ss): senza Pietro non esisterebbe alcun ruolo di vescovo perché nessun vescovo potrebbe darsi il mandato da sé stesso, non vi sarebbe alcuna comunione, al contrario vediamo che ci sono vescovi che nella storia della Chiesa hanno creato la divisione separandosi dalla comunione con Pietro, ma essi non hanno dato origine ad altre Chiese bensì hanno dato origine alla divisione nell’ unica Chiesa di Cristo che ha al suo vertice visibile Pietro e i suoi Successori in questa Sede.
Così anche il Vangelo di Marco e di Luca pongono il ruolo di Simone in una posizione unica di autorità all’interno del Sacro Collegio.
Luca nel Vangelo e negli Atti approfondisce la parola “primato” (22,31) dove appunto spetta a Simone e solo a Lui confermare gli altri in questa unica Fede. Questo compito non venne chiesto a tutti gli “Undici”, ma solo a Pietro. Questo passo va letto con quello di Giovanni, rammenta Ratzinger, in Gv. 21,15-17 dove l’evangelista sottolinea il passaggio da Gesù “supremo Pastore” a Pietro, guida della comunità che è diventato pastore “in sua vece” (da qui il termine “Vicario” di Cristo)!
Questa singolarità, spiega Ratzinger, è unica a Pietro e non può essere dissociata quando si parla di collegialità e di comunione tra i vescovi: Pietro possiede una unicità che non è stata data ad altro!
Se infatti gli Atti presentano Pietro come il garante della Dottrina nella Tradizione Cristiana appena nata, Paolo lo riconosce come l’autorità con cui è necessario ed indispensabile concordare (1Cor.9,5) al contrario, nella giovane comunità, non è mai Pietro che scende a compromessi con i presbiteri o i nuovi vescovi appena nominati, lo stesso Paolo nell’istruire Tito e Timoteo, raccomanda ad essi di attenersi “scrupolosamente” alle istruzioni da lui ricevute, istruzioni per le quali andò fino da Cefa (Galati 1;2) per ottenere conferma della sua predicazione!
All’Udienza generale così spiegò Benedetto XVI:
7 giugno 2006, Pietro, la roccia su cui Cristo ha fondato la Chiesa:
“Le tre metafore a cui Gesù ricorre sono in se stesse molto chiare: Pietro sarà il fondamento roccioso su cui poggerà l’edificio della Chiesa; egli avrà le chiavi del Regno dei cieli per aprire o chiudere a chi gli sembrerà giusto; infine, egli potrà legare o sciogliere nel senso che potrà stabilire o proibire ciò che riterrà necessario per la vita della Chiesa, che è e resta di Cristo. E’ sempre Chiesa di Cristo e non di Pietro. E’ così descritto con immagini di plastica evidenza quello che la riflessione successiva qualificherà con il termine di “primato di giurisdizione”.
Concetti che più volte Ratzinger aveva ripreso quando da Cardinale rispondeva alle tante domande che gli venivano poste.
Nello spiegare appunto la Nota sulla Comunione dei Vescovi, egli torna a ribadire l’unicità decisionale spettante a Pietro la quale non può essere inglobata nel concetto di collegialità, ma la collegialità quanto l’esercizio petrino non si contrappongono, non possono disgiungersi, pena la divisione.
“Si deve infatti affermare che la collegialità episcopale non si contrappone all’esercizio personale del primato nè lo deve relativizzare…”
(CdF il primato del successore n.5 EV 17)
La collegialità, spiega Ratzinger, viene semmai confermata dalla presenza di Pietro e dalla sua professione di fede: “Così è stato consegnato ad uno solo ciò che doveva essere comunicato a tutti “
(S.Leone Magno, Discorsi, 4,3- pl 54,150,151)
La stessa Lumen Gentium (n.22) asserisce chiaramente come il Vescovo di Roma è L’UNITA’ della Chiesa e i Vescovi nel loro insieme e per mezzo dell’obbedienza rappresentano “la comunione con l’unità”, non dunque alla pari ma “con Pietro”.
Denuncia così lo stesso Ratzinger che dopo il Concilio Vaticano II sia in casa cattolica quanto in campo ecumenico i due termini ”comunione ed unità” non siano stati compresi distintamente come è sempre stato, ma di come siano stati gravemente confusi e relativizzati.
L’errore principale parte da un documento messo a punto a Monaco dalle frange ribelli: “Documento di Monaco, III, 4 in Enchiridion Oecumenicum 1”
il teso dice: ” L’episkopè della Chiesa universale viene affidata dallo Spirito all’insieme dei vescovi locali, in reciproca comunione”, Ratzinger allora sottolinea l’errore del Documento dal quale sembra così, che la comunione derivi unicamente dal riconoscimento reciproco bastante di fratellanza e buona volontà senza più alcun riferimento alla “conferma” da parte di Pietro; inoltre, sottolineava allora il card. della Dottrina della Fede che l’insieme sinodale prenderebbe in tal modo il posto del Primato Romano nella “presidenza” della Chiesa! E questo è inaccettabile, infine, tale documento, affermerebbe che tale primato risiederebbe solo nello Spirito Santo (concetto luterano) mentre come ci insegnano i Vangeli e la Tradizione esso venne affidato da Gesù a Pietro e agli altri undici uniti a Lui. E’ Pietro che dà il mandato, che conferma e che riconosce la comunione tra i Vescovi, non il contrario.
La Congregazione per la Dottrina della Fede promulgherà, a condanna della Dichiarazione di Monaco e degli altri documenti analoghi, l’Istruzione sulla vocazione ecclesiale del teologo, emanata il 24 maggio 1990 dal Prefetto card. Joseph Ratzinger con l’approvazione di Giovanni Paolo II. Le Comunità di Base, per bocca di don Franco Barbero, dissero al cardinale Ratzinger di occuparsi non già dei teologi ribelli, ma piuttosto di quelli eccessivamente obbedienti. Intervenì ovviamente anche Martini e mons. Luigi Bettazzi, vescovo di Ivrea, intimò: «il magistero deve ascoltare di più il popolo di Dio».
Come vediamo i nomi sono sempre gli stessi: il lupo cambia il pelo ma non il vizio.
C’è anche un interessante riferimento di Ratzinger al Concilio di Calcedonia quando la Chiesa di allora rigettò il canone 28 il quale dice:
XXVIII. Voto sui Privilegi della sede di Costantinopoli.
“Seguendo in tutto le disposizioni dei santi padri, preso atto del canone [III] or ora letto, dei 150 vescovi cari a Dio, che sotto Teodosio il Grande, di pia memoria, allora imperatore si riunirono nella città imperiale di Costantinopoli, nuova Roma, stabiliamo anche noi e decretiamo le stesse cose riguardo ai privilegi della stessa santissima chiesa di Costantinopoli, nuova Roma.
Giustamente i padri concessero privilegi alla sede dell’antica Roma, perché la città era città imperiale.
Per lo stesso motivo i 150 vescovi diletti da Dio concessero alla sede della santissima nuova Roma, onorata di avere l’imperatore e il senato, e che gode di privilegi uguali a quelli dell’antica città imperiale di Roma, eguali privilegi anche nel campo ecclesiastico e che fosse seconda dopo di quella.
Di conseguenza, i soli metropoliti delle diocesi del Ponto, dell’Asia, della Tracia, ed inoltre i vescovi delle parti di queste diocesi poste in territorio barbaro saranno consacrati dalla sacratissima sede della santissima chiesa di Costantinopoli. E’ chiaro che ciascun metropolita delle diocesi sopraddette potrà, con i vescovi della sua provincia, ordinare i vescovi della sua provincia, come prescrivono i sacri canoni; e che i metropoliti delle diocesi che abbiamo sopra elencato, dovranno essere consacrati dall’arcivescovo di Costantinopoli, a condizione, naturalmente, che siano stati eletti con voti concordi, secondo l’uso, e presentati a lui”.
La Chiesa di Roma - spiegava Ratzinger - non può ritrovarsi in questo perché la sua “maternità” è di natura Apostolica e il suo Primato è di diritto Divino di conseguenza non può scendere a patti o a compromessi equiparandola alle altre Sedi. Per questo la Chiesa insiste molto sul ruolo stesso di Maria nel Cenacolo fino a proclamarla, come lo era già da sempre: Mater Ecclesiae.
E citando sempre il canone 28 di quel Concilio, spiegava il rigetto di tale articolo che la Chiesa manifestò fin dal principio “perchè in base a questo articolo la sede di Costantinopoli poteva rivendicare poteri pari a quelli di Roma a scapito di altri Patriarcati e, dopo la caduta dell’Impero d’Oriente, cominciò infatti a ritenersi quale centro di una ecclesiologia universale verso la quale tutti dovevano sottostare”, spostando così il centro della Sede Petrina da Roma a Costantinopoli. E’ ovvio che Roma, la Sede Petrina mai e poi mai avrebbe potuto accettare un compromesso di questo genere senza tradire il mandato datole dal Cristo! La Chiesa non difende la “chiesa di Pietro” ma difende un primato legittimo datole dal Cristo, difende il ruolo di Pietro nella Chiesa di Cristo, l’unica Chiesa, così come Pietro, a sua volta, difende il ruolo dei Vescovi in comunione con lui confermandoli nella comune fede, inviandoli nel mondo, assegnando ad essi porzioni di popolo, il gregge di Cristo, non di Pietro o di singoli vescovi come rammenta Gesù stesso a Pietro: “Pasci le mie pecore”.
E mai avrebbe potuto condividere teorie dette della “traslazione” del primato o come quella della Kidemonia panton secondo cui l’ortodossia doveva essere considerata “un unico organismo con a capo il Patriarca di Costantinopoli”, una sorta di “Papa oriental”, mentre i vescovi erano i suoi delegati, alla pari, e infatti neppure le altre chiese Ortodosse hanno accettato queste teorie, dando origine alle Chiese dette “autocefale”.
Nella sua Lettera ai Vescovi del 2009, proprio per chiarire la questione della Tradizione nella Chiesa associata alla discussione alla FSSPX, il Pontefice Benedetto XVI ha detto:
“Ad alcuni di coloro che si segnalano come grandi difensori del Concilio deve essere richiamato alla memoria che il Vaticano II porta in sé l’intera storia dottrinale della Chiesa. Chi vuole essere obbediente al Concilio, deve accettare la fede professata nel corso dei secoli e non può tagliare le radici di cui l’albero vive”.
Nel discorso che Papa Benedetto XVI ha tenuto l’anno prima, nel 2008 per la Pentecoste, ritroviamo ripetuti i medesimi concetti che stiamo esprimendo qui:
11 maggio 2008: Cappella Papale nella Solennità di Pentecoste…
dice il Papa :
“Societas Spiritus”, società dello Spirito: così sant’Agostino chiama la Chiesa in un suo sermone (71, 19, 32: PL 38, 462). Ma già prima di lui sant’Ireneo aveva formulato una verità che mi piace qui ricordare: “Dov’è la Chiesa, là c’è lo Spirito di Dio, e dov’è lo Spirito di Dio, là c’è la Chiesa ed ogni grazia, e lo Spirito è la verità; allontanarsi dalla Chiesa è rifiutare lo Spirito” e perciò “escludersi dalla vita” (Adv. Haer. III, 24, 1)
(…) La Chiesa che nasce a Pentecoste con a capo già visibilmente Pietro che “prende la parola” non è anzitutto una Comunità particolare – la Chiesa di Gerusalemme – ma la Chiesa universale, che parla le lingue di tutti i popoli. Da essa nasceranno poi altre Comunità in ogni parte del mondo, Chiese particolari che sono tutte e sempre attuazioni della sola ed unica Chiesa di Cristo. La Chiesa cattolica non è pertanto una federazione di Chiese, ma un’unica realtà: la priorità ontologica spetta alla Chiesa universale. Una comunità che non fosse in questo senso cattolica non sarebbe nemmeno Chiesa”.
E ancora, sull’Osservatore Romano del 4 marzo 2000 troviamo un lungo ma fondamentale articolo del Prefetto della CdF, Ratzinger: L’Ecclesiologia della costituzione «Lumen Gentium».
Partendo dalla crisi della fede e della Liturgia il Cardinale ripercorre una linea chiara atta a spiegare certi errori che partendo da una immagine di Chiesa diversa da quella che la Tradizione ci ha donato, si giunge inevitabilmente a modifiche che nulla hanno a che vedere neppure con il Concilio, ma che sono dei veri tranelli. Dopo aver spiegato l’origine della crisi liturgica, il Prefetto diventato poi Pontefice arriva a discutere sulla falsa immagine di una nuova Chiesa.
Riportiamo ampi stralci da lasciare alla vostra riflessione:
“Vorrei subito anticipare la mia tesi di fondo: il Vaticano II voleva chiaramente inserire e subordinare il discorso della Chiesa al discorso di Dio, voleva proporre una ecclesiologia nel senso propriamente teologico, ma la recezione del Concilio ha finora trascurato questa caratteristica qualificante in favore di singole affermazioni ecclesiologiche, si è gettata su singole parole di facile richiamo e così è restata indietro rispetto alle grandi prospettive dei Padri conciliari. (..)
L’ecclesiologia di comunione è fin dal suo intimo una ecclesiologia eucaristica. Essa si colloca così assai vicino all’ecclesiologia eucaristica, che teologi ortodossi hanno sviluppato in modo convincente nel nostro secolo. (..)
L’Eucaristia include il servizio sacerdotale della «repraesentatio Christi» e quindi la rete del servizio, la sintesi di unità e molteplicità, che si palesa già nella parola «Communio». (..)
Per tutti questi motivi ero grato e contento, quando il Sinodo del 1985 riportò al centro della riflessione il concetto di «communio». Ma gli anni successivi mostrarono che nessuna parola è protetta dai malintesi, neppure la migliore e la più profonda. Nella misura in cui «communio» divenne un facile slogan, essa fu appiattita e travisata.
Come per il concetto di popolo di Dio così si doveva anche qui rilevare una progressiva orizzontalizzazione, l’abbandono del concetto di Dio.
L’ecclesiologia di comunione cominciò a ridursi alla tematica della relazione fra Chiesa locale e Chiesa universale, che a sua volta ricadde sempre più nel problema della divisione di competenze fra l’una e l’altra. Naturalmente si diffuse nuovamente il motivo egualitaristico, secondo cui nella «communio» potrebbe esservi solo piena uguaglianza.
Si è così arrivati di nuovo esattamente alla discussione dei discepoli su chi fosse il più grande, che evidentemente in nessuna generazione intende placarsi. Marco ne riferisce con maggiore insistenza. Nel cammino verso Gerusalemme Gesù aveva parlato per la terza volta ai discepoli della sua prossima passione. Arrivati a Cafarnao egli chiese loro di che cosa avevano discusso fra di loro lungo la via. «Ma essi tacevano», perché avevano discusso su chi di loro fosse il più grande — una specie di discussione sul primato ( Mc 9, 33-37).
Non è così anche oggi? Mentre il Signore va verso la sua passione, mentre la Chiesa e in essa egli stesso soffre, noi ci soffermiamo sul nostro tema preferito, sulla discussione circa i nostri diritti di precedenza. E se egli venisse fra di noi e ci chiedesse di che cosa abbiamo parlato, quanto dovremmo arrossire e tacere.
(..) Vescovo non si è come singoli, ma attraverso l’appartenenza ad un corpo, ad un collegio, che a sua volta rappresenta la continuità storica del «collegium apostolorum».
In questo senso il ministero episcopale deriva dall’unica Chiesa e introduce in essa. Proprio qui diviene visibile che non esiste teologicamente alcuna contrapposizione fra Chiesa locale e Chiesa universale. Il Vescovo rappresenta nella Chiesa locale l’unica Chiesa, ed egli edifica l’unica Chiesa, mentre edifica la Chiesa locale e risveglia i suoi doni particolari per l’utilità di tutto quanto il corpo.
Il ministero del successore di Pietro è un caso particolare del ministero episcopale e connesso in modo particolare con la responsabilità per l’unità di tutta quanta la Chiesa.
Ma questo ministero di Pietro e la sua responsabilità non potrebbero neppure esistere, se non esistesse innanzitutto la Chiesa universale. Si muoverebbe infatti nel vuoto e rappresenterebbe una pretesa assurda. Senza dubbio la retta correlazione di episcopato e primato dovette essere continuamente riscoperta anche attraverso fatica e sofferenze. Ma questa ricerca è impostata in modo corretto solo quando viene considerata a partire dal primato della specifica missione della Chiesa e ad esso in ogni tempo orientata e subordinata: il compito cioè di portare Dio agli uomini, gli uomini a Dio. Lo scopo della Chiesa è il Vangelo, e attorno ad esso tutto in lei deve ruotare.
Questo non vuol dire che nella Chiesa non si debba anche discutere sul retto ordinamento e sulla assegnazione delle responsabilità. E certamente vi saranno sempre squilibri, che esigono correzioni. Naturalmente può verificarsi un centralismo romano esorbitante, che come tale deve poi essere evidenziato e purificato. Ma tali questioni non possono distrarre dal vero e proprio compito della Chiesa: la Chiesa non deve parlare primariamente di se stessa, ma di Dio, e solo perché questo avvenga in modo puro, vi sono allora anche rimproveri intraecclesiali, per i quali la correlazione del discorso su Dio e sul servizio comune deve dare la direzione…”
***
“Il Primato differisce nella propria essenza e nel proprio esercizio dagli uffici di governo vigenti nelle società umane (32): non è un ufficio di coordinamento o di presidenza, né si riduce ad un Primato d’onore, né può essere concepito come una monarchia di tipo politico.
Il Romano Pontefice è - come tutti i fedeli - sottomesso alla Parola di Dio, alla fede cattolica ed è garante dell’obbedienza della Chiesa e, in questo senso, servus servorum. Egli non decide secondo il proprio arbitrio, ma dà voce alla volontà del Signore, che parla all’uomo nella Scrittura vissuta ed interpretata dalla Tradizione; in altri termini, la episkopè del Primato ha i limiti che procedono dalla legge divina e dall’inviolabile costituzione divina della Chiesa contenuta nella Rivelazione.
Il Successore di Pietro è la roccia che, contro l’arbitrarietà e il conformismo, garantisce una rigorosa fedeltà alla Parola di Dio: ne segue anche il carattere martirologico del suo Primato. (..)
Tutti i Vescovi sono soggetti della sollicitudo omnium Ecclesiarum in quanto membri del Collegio episcopale che succede al Collegio degli Apostoli, di cui ha fatto parte anche la straordinaria figura di San Paolo. Questa dimensione universale della loro episkopè (sorveglianza) è inseparabile dalla dimensione particolare relativa agli uffici loro affidati. Nel caso del Vescovo di Roma — Vicario di Cristo al modo proprio di Pietro come Capo del Collegio dei Vescovi —, la sollicitudo omnium Ecclesiarum acquista una forza particolare perché è accompagnata dalla piena e suprema potestà nella Chiesa: una potestà veramente episcopale, non solo suprema, piena e universale, ma anche immediata, su tutti, sia pastori che altri fedeli”.
(Il Primato del Successore di Pietro nel Mistero della Chiesa.)
I suoi fratelli Vescovi pascolano legittimamente il gregge di Cristo solo in unione effettiva ed affettiva con la Cattedra di Pietro.
Altrimenti si ritorna all’esperienza del IV secolo, quando quasi tutti i Vescovi del mondo si piegarono al volere di un imperatore ariano.
Solo il Papa, e un manipolo di Vescovi fedeli a lui, preservarono la fede cattolica. Il Papa sta lì a ricordare che la Chiesa non è una struttura umana. Anche questo è il motivo per cui così tante culture e così tanti popoli diversi trovano in essa la loro identità diventando membra del Corpo della Chiesa, diventando appunto “cattolici”, ossia universali.
Potremmo fare il paragone con una chitarra: la cassa di risonanza, la struttura, la roccia è Pietro, le corde i vescovi, le membra, senza la struttura sia le membra quanto i Vescovi non troverebbero dove accordarsi.
Così spiegava mons. Nicola Bux ad Agenzia Fides del 2/7/2009:
“Clemente Romano, raccontando della morte degli apostoli Pietro e Paolo, osserva che l’invidia di alcuni nella stessa comunità cristiana la facilitò. Dopo duemila anni, il peccato è sempre presente negli uomini.
(…) C’è il tentativo di ridurre la Chiesa ad una agenzia mondiale umanitaria e l’utopia che l’unità delle nazioni possa essere realizzata dagli organismi internazionali e non da Cristo.
Il Cardinale J.H.Newman supponeva che l’apostasia del popolo di Dio, in varie epoche e luoghi, avesse sempre preceduto la venuta degli “anticristi”, tiranni come Antioco e Nerone, Giuliano l’Apostata, i leader atei della Rivoluzione francese, ciascuno un “tipo” o “presagio” dell’anticristo, che sarebbe venuto alla fine della storia, quando il mistero di iniquità avrebbe manifestato la sua insensatezza finale e terribile.
L’incapacità dei credenti di vivere la propria fede, ammoniva Newman, come nelle epoche precedenti, avrebbe condotto “al regno dell’uomo del peccato, che avrebbe negato la divinità di Cristo e innalzato se stesso al suo posto”
(Il Nemico, Cinisello Balsamo 2006, pp. 175-176).
Ma il Signore, anche se dorme sulla barca in tempesta, nel momento finale si risveglierà e placherà i flutti. Poi tornerà da noi e ci chiederà perché abbiamo avuto così poca fede. Nel frattempo portiamo la croce.
Osserviamo il tradimento. Soffriamo.
Scrive ancora Newman: “Lo scopo del diavolo, quando semina la rivoluzione nella Chiesa è gettarla in confusione, perché la sua attenzione sia distratta e le sue energie disperse. In questo modo veniamo indeboliti proprio nel momento della storia in cui avremmo bisogno di essere più forti” .
“Perché il Santo Padre non agisce? Non può imporre a questi prelati l’obbedienza?”. “Lo ha fatto ripetutamente e nel modo più cristiano.
Ma non comanda una polizia, o un esercito. Di recente è stato più fermo con i dissidenti […] La soluzione però non è l’autoritarismo, perché quello getterebbe solo benzina sul fuoco della rivolta.
Il Santo Padre opera finché c’è luce. Richiama noi tutti a Colui che ha portato la croce e che è morto su di essa. Nelle sue mani porta solo questo, una croce; parla sempre del trionfo della Croce. Quelli che non vogliono ascoltare ne risponderanno a Dio” (Ivi,p 402-403)”.
***
Vogliamo concludere queste riflessioni con un poema dottrinale e di granitica fede che un Vescovo pronunciò al Concilio Vaticano I, esprimendo in tal modo come è da intendersi l’autentica collegialità.
S.E.R. Monsignor Josè Francisco Ezequiel Moreira, vescovo di Ayacucho (1826-1874)
Breve discorso tenuto al Concilio Vaticano I il 2 luglio 1870
“Eminentissimi presidenti, eminentissimi e reverendissimi padri, dopo le magnifiche orazioni dei sapientissimi vescovi, rinunzio alla mia (..)
Perdonatemi se dirò solo qualche parola in segno di lode e d’amore per la Cattedra di San Pietro, dirò qualche parola che in sè contiene la dottrina dell’Infallibilità, poichè se la fede della Chiesa romana è la fede della Chiesa cattolica, ne segue che questa cattedra di San Pietro, dove si conserva questa fede, sempre e ovunque mantiene la sua forza.
O Santa e benedetta cattedra di Pietro, fondata su Pietro! Tu sei quella cattedra che quando insegna, insegna il Vero. Quando definisci, definisci nello Spirito Santo, quando leghi, leghi con vincoli indissolubili, quando sciogli, veramente e realmente sciogli, quando anatematizzi, anatematizzi con una maledizione celeste, quando dispensi, dispensi con l’autorità ricevuta da Cristo, quando apri, apri il Paradiso e il Purgatorio.
Oh Cattedra!
Chi non ti teme, è già condannato! Chi non ti venera, è maledetto! Chi non ti obbedisce è scismatico, chi si separa da te, è eretico. La tua autorità è divina, il tuo timore santo, la tua dottrina vera, il tuo giudizio retto, il tuo decoro supremo, la tua benedizione celeste.
Non posso qui esimermi dal rendere grazie. O Santa Chiesa Romana, unica tra tutte le chiese apostoliche che non sei venuta mai meno nella fede!
E’ venuta meno l’Acaia dove sedeva Andrea, l’Etiopia dove sedeva Matteo, l’India dove sedeva Tommaso, la Siria dove sedeva Filippo, la Giudea dove sedeva Giacomo, la Persia dove sedeva Simone, la Grecia dove sedeva Paolo, Tu invece, Chiesa Romana, dove sedeva Pietro, non sei mai venuta meno, nè mai avverrà che tu venga meno. Ho pregato per te affinchè la tua fede non venga meno e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli, che si affaticano ai remi.
Questa è la lode che esprimo alla Santa Chiesa Romana in ossequio e amore”.
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La funzione del Papa nella Chiesa”, di Mons. Mario Oliveri - I parte
In questa mia conversazione, che ha per tema la missione del Successore di Pietro, vorrei riuscire - se possibile - a darvi non tanto una esposizione scolastica o accademica delle funzioni che il Papa compie e deve compiere nella vita della Chiesa, ma a portarvi piuttosto alla consapevolezza di come il supremo ufficio pastorale del Vescovo di Roma si inserisce nel mistero di Cristo ed è quindi essenzialmente un ministero sacro e sacramentale di salvezza.
Vi accorgerete che nel corso della mia conversazione ripeterò più volte dei concetti identici, o simili; ripeterò delle stesse idee, con parole un tantino diverse. Lo faccio di proposito, affinché ognuno possa cogliere qualcuna delle espressioni - e la possa sviluppare con l’aiuto delle nozioni che egli già possiede - circa I’ufficio apostolico del Papa e lo veda finalmente ben inserito nell’opera salvifica della Chiesa e dunque nell’opera redentiva e salvifica di Cristo.
Non voglio, ripeto, sviluppare una esposizione scolastica, bensì dare alcuni spunti di meditazione, offrire qualche concetto fondamentale, che stimoli il vostro desiderio di approfondimento. Ecco, innanzitutto, due riflessioni preliminari:
A) non è possibile parlare appropriatamente di “ruolo” e di “funzioni”, o di “missione”, senza prima o contemporaneamente parlare di “natura”; non si può capire che cosa fa, o che cosa può fare, il Papa, senza comprendere primariamente chi è, che cosa è. Questo vale per qualsiasi realtà e qualsiasi altro discorso. Ci sono stati - e ci sono - dei movimenti filosofici e teologici che propugnano, almeno implicitamente, il primato dell’azione sull’essere, del fare sull’essere, del divenire sull’essere: così tutto rimane sconvolto. Per penetrare i misteri di Dio (nella misura in cui da Dio stesso ci sono stati resi intellegibili), per comprendere il mistero di Cristo, il mistero dell’ incarnazione; per capire l’uomo,la persona umana, occorre sempre conservare intatto il primato assoluto dell’essere. L’azione,la qualità e il valore dell’azione, dipendono dall’essere, dalla qualità e dalla natura dell’essere. Un esempio: l’azione sacerdotale nella Chiesa dipende dall’essere s4cerdotale di chi la compie; l’ordinazione sacra non significa conferire I’incarico ad uno di compiere certe azioni, ma è dargli una nuova, interiore capacità che non può provenire se non da un nuovo essere o modo di essere che egli acquista.
B) Il successore di Pietro si colloca al centro, al cuore del mistero della Chiesa, di quello che essa è e compie. Pertanto, quasi sempre quello che si riferisce alla Chiesa può essere riferito a lui e viceversa. Così, quantunque concettualmente si possa parlare di missione del Papa nella Chiesa e di missione al di fuori di essa (non tutto e tutti sono Chiesa; questa situazione continuerà fino alla fine dei tempi), nondimeno le due missioni sono strettamente connesse e talvolta si confondono, come quello che essa è e compie per coloro che ancora non sono suoi figli. Un esempio chiarificatore. In seguito dirò che il Papa è il supremo garante visibile della rivelazione: sarà ovvio che tale funzione vale sia per quelli che sono già Chiesa, così come per quelli che non lo sono ancora, o magari non lo diventeranno mai; egli è tale all’interno della Chiesa e per il mondo. Queste due considerazioni preliminari offrono il quadro dentro cui ci muoveremo. Infine, un chiarimento terminologico: il termine “papato” sta per “ufficio apostolico del successore di Pietro”. Non si intende qui parlare della funzione politica e sociale che il Papa, per ragioni storiche e contingenti, ha svolto nel corso della storia, in modo particolare al tempo degli Stati Pontifici e all’epoca della “societas populorum christianorum”, intesa - quest’ultima -come il particolare assetto della comunità internazionale europea, in un certo periodo storico. Veniamo ora specificamente al tema.
Il Papa sintesi visibile della Chiesa
Per comprendere chi è il Papa e qual è la sua missione, per la Chiesa e per il mondo, è opportuno tenere presenti questi concetti:
1. la Chiesa è la continuazione nel tempo del mistero dell’incarnazione del Verbo di Dio; è I’attualizzazione nella storia, nello spazio e nel tempo, della redenzione operata da Cristo.
2. Pietro è, nella continuità dei suoi successori, il perpetuo visibile principio e “fondamento” della Chiesa (cfr. Mt 16,18). L’idea di fondamento, di roccia, non indica soltanto solidità della costruzione, ma sta a indicare pure una “parte costitutiva”, senza della quale l’edificio non esiste. Pietro e i suoi successori sono realtà costitutiva della Chiesa; non c’è Chiesa senza il suo fondamento visibile.
Ne consegue che in Pietro si concentra già tutta la realtà della Chiesa. Dai Padri della Chiesa deriva l’idea che Pietro personifica o impersona la Chiesa, la rappresenta tutta, porta in se (gerit) I’intera sua realtà. Basti ricordare qui il famoso detto di Sant’Ambrogio: “ubi Petrus, ibi Ecclesia”.
Badate bene: ciò non significa in nessun modo negare che anche altri siano Chiesa! Ma essi non lo sono - e non lo possono essere, almeno in modo pieno - se non sul fondamento posto da Cristo, se non su quella realtà che Cristo ha voluto, ha stabilito e costituito, per continuare nello spazio e nel tempo il mistero, o realtà divina, della sua incarnazione e della sua opera redentiva, salvifica.
Si può dunque dire, nel solco sicuro della Tradizione, che non è stabilito per la Chiesa nessun visibile fondamento e principio che non sia Pietro, o che non sia in vitale relazione e comunione con lui. Anche gli altri Apostoli hanno ricevuto da Cristo un essere e una missione che si identificano in molti aspetti, ma non affatto in tutti, con quelli di Pietro, ma ciò è perché formano, con lui a capo, un unico corpo, una sola realtà sacramentale, una esclusiva realtà costitutiva della Chiesa di Cristo. Non tutti nella Chiesa hanno la stessa funzione di Pietro, ma non esiste missione nella Chiesa che non sia collegata con quella di Pietro, secondo I’antico adagio: “nihil sine Petro, omnia cum Petro”.
C’è, ovviamente, chi vorrebbe scoprire in simili affermazioni e concetti un tono trionfalistico, una esagerata retorica, I’influsso storico contingente di Roma capitale dell’impero; c’è addirittura chi vi vede un detrimento alla centralità assoluta di Cristo. Ma non è così, perché l’esaltazione del mistero della Chiesa e del ministero apostolico unico e costituzionale di Pietro e dei suoi successori, non è se non il riconoscimento del piano divino di salvezza, come è attestato dalle Sacre Scritture e dalla Tradizione; non è se non l’accettazione della realtà del mistero dell’incarnazione del Verbo, che da noi non è e non può essere percepita se non attraverso la realtà visibile della Chiesa, ed in particolare attraverso la continuità del ministero apostolico visibile di Pietro, che si attua nella successione ininterrotta di persone che nella Chiesa occupano il posto di Pietro. È evidente che tutto ciò che la Chiesa è, tutto ciò che la Chiesa, in quanto tale, ha o compie; tutto ciò che Pietro è per la Chiesa, tutto quello che egli ha o fa per la Chiesa, deriva da Cristo, promana dal Verbo di Dio Incarnato ed a lui conduce, perché in Lui si abbia - già ora, ma in maniera perfetta solo nell’eternità - la comunione con il Padre, con il Figlio e con lo Spirito Santo.
Desidero qui citare un’affermazione pronunciata dal Papa Giovanni Paolo II e rivolta ad alcuni Vescovi presenti a Roma in visita “ad limina apostolorum”:
«Con lui [il successore di Pietro] i Vescovi desiderano confermare anche in questo modo una comunione di mente, di cuore e di disciplina. Essi sono consapevoli che il mandato giurisdizionale, di cui sono insigniti, proviene loro subordinatamente alla comunione gerarchica con Pietro, dalla cui scelta o approvazione è determinata in concreto la loro missione canonica. Tale atto di fede da parte dei Vescovi si radica nel più intimo nucleo della dottrina cattolica, per cui la sana e fedele tradizione afferma, con i Padri della Chiesa, “Nihil sine Petro”».
È ovvio - e la Chiesa Cattolica lo ha sempre insegnato, anche se taluni sembrano ignorarlo o contestarlo - che la funzione di Pietro e dei suoi successori - così come quella degli altri Apostoli e dei loro successori, i Vescovi e, del resto, anche quella di tutti i ministri della Chiesa - non è sostitutiva della realtà e della missione di Cristo, ma è una funzione rappresentativa, instrumentale-ministeriale. Né essi, né la comunità dei credenti e dei battezzati, sono all’origine della loro funzione sacra. Cristo è colui che opera attraverso i suoi ministri, siano essi il successore di Pietro, i successori degli Apostoli o qualsiasi altro dotato, appunto da Cristo, di funzione ministeriale sacra. Lo ripeto: non è la Chiesa, non è la comunità che crea o produce i ministeri. Solo Cristo, Figlio di Dio Incarnato, può creare ministeri sacri, nella sua continua e piena signoria su tutta la Chiesa e su tutto il creato. È Cristo che attraverso i ministeri costruisce, mantiene e sviluppa la sua Chiesa; è Lui che agisce nella Sacra Liturgia, attraverso I’opera strumentale-ministeriale di coloro che mediante la Sacra Ordinazione acquistano una nuova conformazione ontologica a Cristo sacerdote-mediatore e quindi diventano capaci di agire “in persona Christi”. Questa è la fede della Chiesa Cattolica.
Se la missione dei ministri della Chiesa viene privata della sua origine sacramentale, divina, immediatamente cristologica, essa viene ridotta ad una pura funzione a condizione umana, a livello sociale, viene privata della sua vera e unica ragion d’essere, che è essenzialmente d’ordine soprannaturale. Se si perdono di vista queste verità, allora nascono le crisi di identità dei ministri della Chiesa; allora si cercano funzioni sostitutive; si diviene dei “sindacalisti”, degli assistenti sociali, degli operatori a livello filantropico, si diventa fors’anche dei “cimbali squillanti”, come afferma San Paolo. Nascono pure le crisi d’ordine morale e disciplinare, ed allora la missione della Chiesa perde la sua propria e reale efficacia, che è essenzialmente di ordine soprannaturale, che si colloca sui piani della rivelazione e della grazia, addirittura sul piano della vita trinitaria, che viene per partecipazione offerta alla creatura umana, attraverso i sacri ministeri, attraverso le realtà sacre della rivelazione. Val la pena di ricordare che tutto ciò è possibile affermarlo solo alla luce della fede, in una visione di fede.
La realtà vera della Chiesa e quindi, necessariamente pure del suo fondamento e di tutti i sacri ministeri che in essa esistono, non può essere scoperta e valutata alla luce di criteri umani e sociologici, o servendosi di concetti che valgono soltanto per le realtà terrene, per la società profana; può essere invece scoperta e stimata correttamente solo con criteri di fede, ossia con principi che accettano la realtà della rivelazione, che accolgono, senza alterarlo, il mistero dell’incarnazione del Verbo di Dio, il quale supera ogni nostra possibilità di conoscenza intellettuale e scientifica.
La continuità della fede apostolica nella Chiesa
Procediamo nel discorso. L’uomo non può raggiungere la sua salvezza, o il fine per cui è creato, se non in Cristo, se non diventa partecipe del mistero del Verbo incarnato. Non c’è salvezza per I’uomo se non in Dio, che dalla rivelazione conosciamo essere Padre, Figlio e Spirito Santo. Ma Dio non può essere raggiunto se non in Cristo, nel quale la natura invisibile di Dio si è unita a quella umana e, quella umana, è diventata sacramento universale di salvezza. Cristo è la rivelazione di Dio, è la salvezza di Dio, è l’amore di Dio fattosi visibile.
Ma Cristo non si raggiunge e non lo si trova se non nella sua Chiesa, se non nella testimonianza dei suoi Apostoli, se non nelle realtà sacre che Egli ha stabilito perché in qualche modo ripropongano nello spazio e nel tempo la sua presenza visibile. L’umanità del Verbo di Dio,la quale è il sacramento universale di salvezza, non è ora visibile, ma essa è presente e opera nella Chiesa, nelle sue realtà sacre, nei suoi sacramenti e ministeri.
Ma è proprio qui che nasce la grande questione. Dove posso trovare con sicurezza la Chiesa di Cristo, affinché in essa trovi il Cristo stesso, la sua rivelazione, i suoi sacramenti, il suo insegnamento, la sua grazia,la vita divina? Dove posso trovare in tutta la loro pienezza la totalità degli elementi che costituiscono la Chiesa di Cristo?
Prima di rispondere, accennando a tali elementi essenziali, costitutivi della Chiesa, è necessario ricordare che non sarebbe possibile riconoscere nella Chiesa di oggi la Chiesa di Cristo se non fosse possibile trovare in essa la sostanziale identità con la Chiesa degli Apostoli; se non esistesse una fondamentale continuità nel tempo tra la Chiesa fondata da Cristo su Pietro: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa” (Mt 16,18) e la Chiesa di oggi, una continuità tra gli elementi essenziali delle Chiese formate e fondate dagli Apostoli e quella attuale.
Possiamo dunque dire senza esitazione che gli elementi essenziali e costitutivi della Chiesa sono:
- la sua fede, basata sulla predicazione degli Apostoli, gli unici autentici garanti della rivelazione;
- i suoi mezzi soprannaturali di salvezza, i sacramenti, stabiliti da Cristo e promulgati dagli Apostoli;
- i suoi sacri e sacramentali ministeri, attraverso i quali Cristo stesso realizza la salvezza degli uomini, dando loro la sua grazia,la sua vita e la possibilità di diventare partecipi della sua eterna gloria.
Pertanto, non vi può essere identità senza continuità e non può esservi continuità senza “Traditio”, senza vera e legittima “successione apostolica”. Abbiamo quindi fede, sacramenti e ministeri per la realizzazione della vita di comunione con Dio,la quale diventa definitiva non nel tempo, ma solo nell’eternità. A questo punto, ecco la questione che ci siamo posti prima: quale garanzia ho che la fede, i sacramenti e i ministeri della Chiesa di oggi sono in continuità con quelli della Chiesa degli Apostoli? Come posso essere sicuro che il pastore della Chiesa particolare, il Vescovo, che la personifica e la rappresenta, può dirsi con verità “successore degli Apostoli”?
Siffatta garanzia può derivare soltanto dalla concordanza della Chiesa particolare con quel modello di Chiesa nella quale la fede degli Apostoli e tutto ciò che appartiene all’essenziale natura della Chiesa di Cristo non può venire meno. Tale Chiesa può essere solamente quella costituita da Cristo come visibile e ultimo punto di riferimento, dal momento che essa fu fondata dall’Apostolo Pietro, il quale ricevette dal Signore questa promessa: “io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede ” e che, di seguito, ha ricevuto la missione: “e tu… conferma i tuoi fratelli” (Lc 22,32). Soltanto Pietro ricevette tale unica promessa e tale singolare missione. Solo la Chiesa di Roma costituisce tale visibile e supremo modello, poiché essa è fondata sulla predicazione di Pietro e sulla sua suprema testimonianza di fede e di amore per il divino maestro e divino pastore di tutto il gregge.
Nella Chiesa, in ogni chiesa locale, che voglia essere e rimanere la Chiesa di Cristo, una ed unica, non vi può essere autentica e vera fede che non sia la fede di Pietro e degli Apostoli, gli unici autentici testimoni della rivelazione, voluti da Dio; non vi possono essere altri sacri-soprannaturali e gerarchici ministeri, eccetto quelli voluti da Dio per l’eterna salvezza dell’uomo.
Credo che dovrebbe ormai risultare evidente che il fatto di essere il successore di Pietro conferisce al Vescovo di Roma una posizione singolare all’ interno del rapporto di comunione tra le chiese particolari; ciò gli conferisce anche una missione esclusivamente sua in riferimento all’universalità e alla totalità della Chiesa di Cristo, una ed unica. Ecco perché il Concilio Vaticano II, nella costituzione Lumen Gentium (n. 20), afferma: “rimane [nella Chiesa] I’ufficio affidato dal Signore al solo Pietro e trasmesso da lui ai suoi successori” . Le particolari prerogative di Pietro continuano a risiedere nel Vescovo della Chiesa di Roma fondata sulla sua suprema testimonianza di fede, di modo che tutta la Chiesa custodisce la fede dell’Apostolo al quale il Signore ha conferito il mandato, già riferito, di “confermare la fede dei fratelli”. Ne consegue che:
1. la custodia della fede della Chiesa è senza dubbio il primo compito inerente al primato del Vescovo di Roma e che ne fa, innanzitutto, una ” primazia nella fede”. L’ insegnamento della fede, messo in atto dai Vescovi, trova il suo più alto punto di riferimento e di garanzia nel magistero del Vescovo di Roma. Egli è il garante della fede dei suoi fratelli e di tutta la Chiesa: egli salvaguarda la comunione di fede.
2. L’unità della Chiesa, però, non consiste soltanto nell’unità di fede, ma include anche l’unità di sacramenti e di disciplina (di governo-servizio, di struttura organica fondamentale). Il successore di Pietro è il principio e il fondamento visibile dell’unità della Chiesa di Cristo (cfr. Mt 16,18). Egli salvaguarda la comunione di sacramenti e di disciplina, oltre che quella di fede, con la quale è inscindibilmente connessa.
3. Strettamente collegata con la prerogativa appena menzionata, vi è la potestà, affidata in modo speciale a Pietro, di “legare” e di “sciogliere”. Pietro fu proclamato da Cristo il detentore delle chiavi del regno dei cieli (cfr. Mt 16,19), o amministratore delle realtà sacre che conducono alla salvezza.
4. Infine, il Vescovo di Roma è il pastore di tutto il gregge di Cristo, poiché tutti i componenti del gregge sono stati affidati alla cura di Pietro (cfr. Gv 2I,15-19).
Ora - prima di considerare alcune conseguenze di queste prerogative del Vescovo di Roma, che nel loro insieme costituiscono il cosiddetto “primato petrino” - è utile richiamare brevemente I’insegnamento del Concilio Vaticano II in materia.
(continua)
(Fonte: blog.messainlatino.it)
La funzione del Papa nella Chiesa”, di Mons. Mario Oliveri - II parte
La dottrina dell’istituzione e della perpetuità, la natura e I’importanza del “sacro primato” del Romano Pontefice e del suo infallibile magistero in materia di fede e costumi sono riaffermati dal Concilio Vaticano II come verità di fede per tutti i credenti (cfr. Lumen Gentium 18), rinnovando l’ insegnamento del Concilio Vaticano I. Considerando poi l’insegnamento concernente i Vescovi, costante rilievo è dato alla natura particolare dell’ufficio del Vescovo di Roma e alla sua posizione unica rispetto alla Chiesa universale e al Collegio dei Vescovi. Si afferma che il Signore ha dato soltanto a Simon Pietro la funzione di essere la roccia e il custode delle chiavi nella Chiesa e lo ha stabilito pastore di tutto il suo gregge. Il Papa, come successore di Pietro, è chiamato “Vicario di Cristo” e pastore di tutta la Chiesa; egli è il supremo pastore della Chiesa, al quale è affidata la cura di tutto il gregge. Inoltre, egli è il perpetuo, visibile principio e fondamento dell’unità, sia dei Vescovi come dell’universalità dei fedeli. È il supremo pastore e maestro di tutti i fedeli e conferma i suoi fratelli nella fede. È singolarmente dotato del carisma dell’infallibilità della Chiesa stessa, ed a motivo del suo ufficio di Vicario di Cristo e di pastore di tutta la Chiesa, egli ha la pienezza dell’autorità sopra di essa, autorità suprema e universale, che egli può sempre liberamente esercitare.
Il Romano Pontefice è il capo del Collegio dei Vescovi e, come tale, egli soltanto può compiere alcuni atti che non rientrano per nulla nella competenza di tutti gli altri Vescovi. All’interno del Collegio Episcopale egli ha una posizione speciale, totalmente ed esclusivamente sua. In verità, non è possibile parlare di un Collegio Episcopale se non vi è incluso il Vescovo di Roma come suo capo. Il collegio non può esistere senza il suo capo; non è soggetto di autorità se non è concepito insieme con il Romano Pontefice come suo capo, il quale conserva pieno e intatto il suo potere primaziale sia sui Vescovi, sia sui fedeli. L’esercizio dell’autorità di giurisdizione che compete al collegio dipende interamente dalla volontà del Papa, sia quando è esercitata solennemente in un concilio ecumenico, sia quand’essa fosse esercitata dai Vescovi sparsi per il mondo (cfr. Lumen Gentium 22).
La “Nota esplicativa prævia” - del 16.XI.1964, a firma del Segretario Generale del Concilio Vaticano II, Mons. Pericle Felici, “per mandato della Superiore Autorità” - che specifica quale debba essere l’interpretazione di alcuni passi della Costituzione Lumen Gentium (cap. III, circa la costituzione gerarchica della Chiesa), spiega che il Collegio dei Vescovi, pur esistendo sempre, non per questo agisce permanentemente con azione “strettamente” collegiale, ma soltanto “col consenso del capo”. È il Papa, dunque, che rende possibile l’essere e l’agire del Collegio Episcopale.
La collegialità non darebbe adito ad alcuna difficoltà nei rapporti con il primato del Vescovo di Roma, né questo potrebbe essere visto quasi come un soffocamento dell’autorità dei Vescovi, se il rapporto tra collegialità e primato venisse inquadrato, come è giusto, all’interno delle relazioni di comunione esistenti tra Chiese particolari e Chiesa universale, tenendo ben presente che la Chiesa di Roma ha una posizione speciale e unica nei confronti della totalità della Chiesa. Cos’è infatti la collegialità se non la comunione di fede, di sacramenti e di governo-servizio che deve esistere tra tutte le Chiese particolari che vogliono costituire la Chiesa di Cristo una ed unica? Collegialità è, radicalmente, la “communio fidei, sacramentorum et disciplinæ” di tutte le Chiese; è il comune possesso della stessa fede (le forme esterne di espressione possono essere varie, ma il contenuto non può che essere identico in tutte, ed è essenziale in materia di fede tutto ciò che deriva dalla divina rivelazione) e degli stessi sacri ministeri, per mezzo dei quali Cristo, Signore e Capo di tutto il corpo, comunica la vita divina e la salvezza a tutto il corpo dei redenti e dei santificati.
È dunque chiaro che la collegialità nel suo vero significato non esiste senza il ministero dell’Apostolo Pietro, il cui ufficio è proprio quello di far si che la Chiesa si conservi una ed unica, di modo che tutti i successori degli Apostoli formino un unico corpo, capace di trasmettere la rivelazione con una sola voce e con cuore indiviso. Nello stesso modo in cui non può esserci Chiesa senza il Vescovo (“sine Episcopo Ecclesia non datur”), così non può esservi collegialità e comunione - né la pienezza della Chiesa di Cristo una ed unica - “sine Petro”, senza effettiva comunione con il successore di Pietro: “ubi Petrus, ibi Ecclesia”.
A questo punto, si può aggiungere ancora qualche considerazione, avendo presente che la comunione esistente all’interno della Chiesa, comunione mistica e giuridica allo stesso tempo, comporta diversi aspetti che si realizzano immediatamente a livello universale e che non sono quindi legati ai confini delle Chiese particolari. Ciò fa capire perché non vi sono “più Chiese” di Cristo, ma soltanto “la Chiesa di Cristo, una ed unica”, che si realizza e vive nelle Chiese particolari. Ed è per questa ragione che le funzioni esercitate dal Vescovo di Roma “vi muneris sui”, in forza cioè del suo ufficio, in quanto successore di Pietro, hanno un’immediata forza ed efficacia nei riguardi della Chiesa universale e, di conseguenza, si dice che la sua autorità è, non soltanto, universale, piena e suprema, ma anche immediata (ossia, non ha bisogno di intermediazione per raggiungere la totalità della Chiesa). Egli non è giuridicamente tenuto a servirsi di altri, ma ha titolo e autorità per agire personalmente e direttamente nei riguardi di tutta la Chiesa e dei suoi singoli membri.
Il fatto poi che egli sia per divina volontà (“jure divino”) il pastore dell’ intero gregge e che il suo primato si estenda alla totalità della Chiesa, sia pastori che fedeli, spiega perché tutti, compresi i Vescovi, si trovino in stato di giuridica subordinazione nei suoi confronti.
Conclusioni
Veniamo ora a formulare alcune considerazioni riassuntive circa le conseguenze che derivano dal ruolo unico che il successore di Pietro ha nella Chiesa e dalle prerogative particolari e, in gran parte, uniche che gli spettano per mandato divino. Alcune affermazioni non saranno che una ripetizione di ciò che già ho enunciato; faccio umilmente mie le parole di San Paolo: “a me non pesa ed a voi è utile che vi scriva le stesse cose” (Fil 3,1). Privilegerete quelle espressioni che hanno maggiore significato e rilevanza.
1. In modo globale si può affermare che il ruolo fondamentale del Papato è quello d’essere la suprema visibile garanzia, nello spazio e nel tempo, della continuità e identità della Chiesa di Cristo; o - in altre parole - è quello di permettere che la Chiesa di Cristo continui inalterata nel tempo e nello spazio, conservando in ogni epoca, o momento storico, la sua sostanziale identità. Oggi, come sempre nella storia della Chiesa, ci sono dei tentativi che minacciano, se fosse possibile,la stessa identità della Chiesa. C’è chi, esplicitamente o implicitamente, mira a mutare la natura divino-soprannaturale della Chiesa, riducendola pressoché a una organizzazione umanitaria. promotrice di umano sviluppo in questo mondo; c’è chi vorrebbe veder cambiata la struttura organica della Chiesa, che è ministeriale e gerarchica. Essa, come s’è detto, non può esistere senza ministeri, o uffici sacri, che derivano da una “consegna” sacra, sacramentale, divina. Tali ministeri sono per loro natura coordinati e subordinati; dipendono da Cristo direttamente, o da chi, da Lui - per il tramite dell’ordine sacro e della successione apostolica, con particolare e specialissimo riferimento alla successione petrina - è stato dotato di sacro potere. Tali ministeri riguardano essenzialmente e rigorosamente le cose di Dio, i misteri di Dio,le realtà soprannaturali,le realtà della rivelazione;la loro finalità immediata non è mai la dimensione terrena dell’uomo,la sua esperienza e le sue conquiste terrene. C’è chi vorrebbe ridurre la missione della Chiesa da quella redentrice e santificatrice - sanare I’uomo dal peccato e condurlo attraverso le realtà sacre-santificanti all’eterna salyezza - ad una missione semplicemente diretta a riconoscere e coordinare i valori esistenti nell’uomo e nel mondo. C’è chi sotto la spinta di modelli sociali oggi esistenti mette fuori idee e proposte che logicamente non possono se non condurre a una Chiesa-comunità di persone che crea essa stessa i propri ministeri, che determina essa stessa la propria struttura, che organizza essa stessa le proprie celebrazioni e la propria liturgia, che interpreta in modo nuovo la rivelazione e modifica costantemente la dottrina e la morale secondo le esigenze e le circostanze storiche. Vigilare, agire e insegnare in modo che tali fermenti devianti - i quali si vogliono presentare come sviluppi positivi e di promozione,ma che in realtà sono essenzialmente negativi - siano scoperti e possibilmente neutralizzati, è eminentemente missione di Pietro, è opera positiva, è fare il bene, è suprema e operativa carità. Noi sappiamo che la natura della Chiesa non può essere intaccata nella sua profonda, divina, soprannaturale realtà, perché essa fa parte del mistero divino dell’incarnazione del Verbo di Dio. Questa suprema opera di Dio Padre, Figlio e Spirito Santo non può certo essere messa in pericolo da tentativi umani. Ma ciò che può, ed è messo in pericolo sono la comprensione e l’accettazione di esso, così come la rivelazione, contenuta e custodita nella Chiesa, ce lo presenta. Ecco perché lo Spirito Santo, in maniera ineffabile, assiste in modo speciale e unico il successore di Pietro, affinché, attraverso il suo insegnamento e il suo ministero sacro,la rivelazione e la redenzione di Dio sia oggi e sempre presente nella Chiesa e nel mondo. L insegnamento del Papa non dice e non può dire nulla di veramente o sostanzialmente nuovo, perché il nuovo è tutto presente in Cristo, nella sua persona e nel suo insegnamento. Non ci può essere altro nuovo, anche se quello che proviene dalla rivelazione va continuamente presentato in modo che esso sia compreso nella sua perenne verità e nel suo permanente valore. Cristo ha stabilito Pietro come supremo, visibile garante della sua opera di salvezza e questi vive nei suoi successori, i Vescovi di Roma; compie la sua missione, insegna, predica, vigila, esorta, decide, richiama, rimprovera, promuove e governa in essi. È ovvio che il Romano Pontefice non è il solo che compie questi atti, ma nessuno può avere l’assoluta garanzia che quello che compie nella Chiesa è garantito da Cristo stesso, se non chi è in fedele e piena comunione con lui, in modo tale da poter dire che egli agisce in comunione col successore di Pietro “una mente, uno animo, uno corde et una voce”.
2. Il successore di Pietro, poi, assicura l’identità di fede tra la Chiesa di oggi e la Chiesa degli Apostoli, è quindi il garante della rivelazione e della verità. L’uomo non può, senza I’aiuto della rivelazione, giungere con certezza, “nullo admixto errore”, neppure alla conoscenza delle più elementari verità inerenti Dio, se stesso, il proprio destino, etc. Senza la luce della rivelazione egli è caduto e cade nei più banali e grossolani errori. Queste non sono, naturalmente, mie opinioni, ma verità di fede, esplicitamente o implicitamente insegnate dai Concili Tridentino e Vaticano I e, in qualche modo, anche da altri precedenti. Non si dimentichino, inoltre, le verità relative al peccato originale, che ha ferito tutto I’uomo, ed all’impossibilità per I’uomo di raggiungere il fine per cui è stato creato senza la luce della rivelazione e senza la grazia che proviene da Cristo, dal suo sacrificio redentivo e santificante. L’uomo ha bisogno di essere redento, salvato, purificato, santificato, condotto a Dio. E peccatore. Senza la grazia di Dio, quantunque non tutto quello che fa sia male e meritevole di condanna, non può tuttavia evitare di commettere il peccato che lo separa da Dio, che lo taglia fuori dall’alveo dell’amore di Dio. Queste verità sacre debbono essere incessantemente, in ogni tempo, “opportune et importune”, proclamate, gridate, predicate dalla Chiesa. Nessuna voce è più sicura, più universale, più efficace di quella di Pietro, che risuona nelle parole, nella predicazione, nell’insegnamento dei suoi successori, i Vescovi di Roma. Chi all’uomo di oggi, che in maniera particolarmente acuta sperimenta la tentazione di credersi autosufficiente, d’essere il costruttore del proprio destino, d’essere I’origine e il creatore della propria sorte e della propria felicità, può ricordare in maniera universale ed efficace che per l’uomo non c’è salvezza,non c’è vera felicità, non c’è senso alla propria esistenza senza Dio, senza Cristo e quindi senza la sua Chiesa? Chi può aprire gli occhi dell’uomo al pericolo di lasciarsi incapsulare dal materialismo, dall’ agnosticismo, dal soggettivismo, dal relativismo; dal pericolo di credere alle teorie di coloro che pretendono di trovare nel mondo la ragione sufficiente della sua esistenza, di coloro che vantano - ovviamente senza reale fondamento, né scientifico, né filosofico - di sapere che I’uomo non è se non il prodotto di uno sviluppo evolutivo incessante? Quanto è facile costatare - per chi ha occhi per vedere e intelletto per capire - che chi non accetta la luce della rivelazione brancola nelle tenebre, non riesce a venir fuori dall’errore ! Ebbene, tutto questo va, dalla Chiesa, continuamente ricordato al mondo, a chi non ha la fede; ma è la Chiesa stessa che, in ogni suo membro, va richiamata a queste definitive verità, va confermata nella fede, in quella fede che essa nella sua divina, soprannaturale realtà, porta nel proprio cuore, senza pericolo che vada irrimediabilmente perduta di vista, o dimenticata. A Pietro spetta questa missione. Non è sufficiente che gli errori siano scoperti, smascherati. confutati. condannati. È necessario che le verità basilari derivanti dalla rivelazione siano costantemente predicate, richiamate all’attenzione, proposte alla mente dei fedeli e di tutti gli uomini, affinché siano accolte, accettate, capite, credute; perché diventino luce e guida, influiscano nell’azione e nella vita dei singoli e delle comunità umane (famiglia, gruppi, organizzazioni, società civile, comunità internazionale, etc.); conducano verso il raggiungimento della pienezza della verità nella vita eterna.
3. Riassumendo ora alcune conseguenze del fatto che Pietro è fondamento e principio visibile della Chiesa di Cristo, si può affermare:
a. non ci può essere vera e autentica Chiesa, nella sua pienezza, che non sia la Chiesa di Cristo fondata su Pietro; non ci può essere autentica fede che non sia la fede di Pietro e degli Apostoli con lui.
b. Non ci può essere nulla nella Chiesa che sia fatto al di fuori del fondamento, al di fuori di Pietro: “Nihil sine Petro, nihil contra Petrum; omnia cum Petro et sub Petro, quia ubi Petrus ibi Ecclesia et ubi Ecclesia, ibi Christus”.
c. Tutto ciò che la Chiesa è, o compie, ha una relazione sostanziale con Pietro; si può dire con tutta verità che Pietro, in quanto è fondamento della Chiesa, rappresenta, personifica e porta in sé (gerit) tutta la Chiesa. Si può anche arrivare a dire che la missione di Pietro si identifica con quella della Chiesa; che questa non può compiere nulla di più e nulla di diverso di quello che Pietro compie; nulla è al di fuori della missione di Pietro. Quando Pietro agisce,la Chiesa agisce, Cristo agisce. Tutto ciò vale per il Vescovo di Roma, ma ovviamente soltanto quando - e nella misura in cui - egli agisce in quanto successore di Pietro e ciò sia chiaramente riconoscibile; ossia deve essere chiaro che egli, nella sua azione, impegna la qualità di successore di Pietro in tutta la sua ampiezza e pienezza.
4. Infine, mi limito a richiamare una soltanto delle conseguenze che derivano dal fatto che il successore di Pietro è il pastore di tutto il gregge di Cristo. Rientra in questo campo il fare delle leggi, richiamare tutti alla osservanza di esse, far capire che chi non le accetta e non le rispetta non può pretendere di avere nella Chiesa la stessa situazione di chi è fedele, di chi vive - o, almeno, si sforza sinceramente di vivere - secondo la saggia guida della disciplina ecclesiastica. Alla nozione di legge è inerente quella di pena. Pertanto, l’uso di pene, di carattere soprattutto ed eminentemente spirituale, è parte della natura della Chiesa. Non c’è forse nulla che richieda tanta sapienza e tanta sensibilità pastorale come il retto uso delle pene nella vita della Chiesa; ma tale uso è connaturale a una comunità formata di peccatori, di buoni e di cattivi. È massima ingiustizia e somma stoltezza pastorale trattare chi compie il bene allo stesso modo di chi commette il male, chi agisce per il bene oggettivo della Chiesa, come chi crea imbarazzo,danno, scandalo, disagio, rovina; chi predica con fedeltà, come chi cerca di seminare I’errore. Il successore di Pietro è pure il massimo moderatore dell’uso delle pene all’ interno della chiesa; egli è sommo moderatore della disciplina ecclesiastica, poiché come supremo pastore è pure il supremo legislatore.
Due considerazioni finali:
non va dimenticato mai che tutta l’attività della Chiesa, come tutto quello che il successore di Pietro e tutti gli altri ministri in comunione con lui compiono sul piano dell’insegnamento, dell’amministrazione dei sacramenti e del governo, è diretto all’interiore comunione di grazia e di vita divina, affinché l’uomo diventi capace di raggiungere Dio nella vita eterna, dove potrà vederlo faccia a faccia e aderire a Lui con perfetto amore. Tutto è compiuto per la salvezza eterna dell’uomo, a gloria di Dio.
L’autorità della Chiesa, dei suoi ministri e, in particolare, del successore di Pietro, il Romano Pontefice, è pertanto un servizio di salvezza. Esso va accettato, accolto con cuore aperto, con animo grato. con sottomissione di intelletto e di volontà. E un servizio soprannaturale, non un servizio umano. Esso ci rappresenta e ci comunica l’azione di Dio e come tale va considerato e ricevuto. Non c’è salvezza per l’uomo se non nel mistero dell’incarnazione, non c’è accesso a tale mistero se non nella Chiesa di Cristo, se non accettando con umiltà di mente e di cuore la parola della rivelazione e la grazia della redenzione, che ci giungono attraverso la Tradizione, conservata intatta dalla Chiesa dell’Apostolo Pietro, ossia la Chiesa di Roma.
(Fonte: blog.messainlatino.it)
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