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mercoledì 17 aprile 2013

1.L'apologo dello specchio (una risposta a Gnocchi e Palmaro sul sedevacantismo)

  1. L'apologo dello specchio (una risposta a Gnocchi e Palmaro sul sedevacantismo)


  2. Premessa

    Ci salveranno davvero le vecchie zie? Forse, mai porre limiti alla Divina Provvidenza. Quel che è certo è che non potremo essere salvati da Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro. Il loro recente libro (1) è infatti l’ennesima occasione per acuire ancora discordia e confusione nel mondo cattolico che, per comodità, si è solito definire “tradizionalista”.
    Il saggio, nel suo insieme, illustra la dolorosa situazione del mondo moderno - un mondo che ha smarrito Cristo e la Fede cattolica - e il difficile travaglio che da anni sta vivendo la Chiesa stessa. A partire dal Concilio Vaticano II anch’essa, nel suo desiderio di “dialogo proficuo e amorevole con la modernità”, si è ritrovata costretta in un abbraccio mortale che l’ha condotta ad un sostanziale relativismo morale, teologico e dottrinale. La scristianizzazione di massa, il drastico calo delle vocazioni, la messa in discussione costante di molti articoli di Fede da parte degli stessi sacerdoti… sono solo alcuni dei molti esempi che si potrebbero portare per rappresentare il dramma dell’edificio ecclesiastico che, giorno dopo giorno, sta lentamente crollando. Ancora una volta non possono non echeggiare nella mente le celeberrime parole di Paolo VI circa il “fumo di Satana” ormai penetrato nella Chiesa.
    Secondo gli autori l’unico antagonista a questo mondo folle e devastato è l’uomo tradizionale, come quelle vecchie e devote zie che ogni famiglia annovera: «erano, sono e ancora saranno, queste nostre zie, le custodi dell’Ordine classico, nutrito da un’ironia un po’ laica, che non tollera il patetico cristiano e il patetico socialista; di un Ordine classico sorretto dalla scarsa fiducia nel progresso e nella bontà degli uomini e che non invita a colazione Rousseau»(2) . Ancora, poco più avanti, l’accorato appello: «bisogna tornare a far vivere la tradizione invece che parlarne soltanto»(3) .
    Ma cos’è la tradizione? E’ lo stendardo che issano certi “tradizionalisti” per combattere la loro battaglia contro lo spirito del secolo ma, come nella novella Libertà di Giovanni Verga, dietro belle parole gridate con entusiasmo, spesso si nasconde il solito vecchio gioco di errori e confusione. Del resto anche altri studiosi che si sono occupati del tema (4) , citati dagli stessi Gnocchi e Palmaro come fondativi del loro saggio, si dimostrano piuttosto contraddittori nel cercare di indicarne un significato preciso e condiviso. Anche la stessa definizione degli autori pare più una categoria dello spirito di hegeliana memoria piuttosto che una dottrina certa. Meriterebbero una confutazione sistematica e organica che però in questa sede, per motivi di spazio, è impossibile da realizzare. Spiace fare la figura di chi, come ricorda il proverbio, lancia il sasso e nasconde la mano, ma questa premessa è doverosa e necessaria non solo per comprendere meglio il resto dell’argomentazione ma anche per iniziare a scalfire un impianto ideologico - più che teologico - purtroppo molto diffuso nell’epoca dolorosa in cui viviamo. Qualche ulteriore accenno alla questione sarà comunque fatto anche in seguito.
    Poco male, perché scopo di questo articolo è invece quello di analizzare e commentare un passo particolare del libro che riguarda sostanzialmente il giudizio negativo che i due autori nutrono nei confronti del “sedevacantismo” - equiparato e, per certi versi, messo sullo stesso piano del neoconservatorismo - che merita una risposta agile ma puntuale. Entriamo dunque nel merito della questione illustrando come tutti i presunti limiti del “sedevacantismo”, quasi fosse uno specchio, sono in realtà i limiti dei lefebvriani e del mondo “tradizionalista” vicino all’indulto e al Motu proprio.

    (1) A. GNOCCHI, M. PALMARO, Ci salveranno le vecchie zie, Verona, Fede&Cultura, 2012.
    (2) Ivi, p. 7.
    (3) Ivi, p. 8.
    (4) Cfr. su tutti B. GHERARDINI, Quod ed tradidi vobis. La Tradizione vita e giovinezza della Chiesa, Frigento (AV), Casa Mariana Editrice, 2010 e R. DE MATTEI, Apologia della tradizione, Milano, Lindau, 2011.
    1. Ultima modifica di Luca; 14-04-13 alle 03:12
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    Predefinito Re: L'apologo dello specchio (una risposta a Gnocchi e Palmaro sul sedevacantismo)

    L’arte del possibile, l’arte della verità: politica e teologia


    Di seguito citiamo la prima argomentazione preliminare proposta da Gnocchi e Palmaro:
    Il progressivo oscuramento della Tradizione in ambito dottrinale e in quello della pratica quotidiana ha fatalmente portato alla frammentazione del mondo cattolico refrattario al progressismo. Un danno enorme, se si pensa che, in tal modo, non è stato possibile tenere unite le forze che avrebbero potuto opporsi alla deriva neomodernista seguita al Concilio Vaticano II. […] Senza volerlo, buona parte del mondo tradizionale ha finito per adottare lo schema che il progressismo aveva invece teorizzato e praticato: cambiare la Chiesa attraverso le categorie della politica. Da questo punto di vista conta poco il contenuto, poiché il metodo è di per se stesso un merito. Una volta adottate tali categorie, prettamente moderne, anche l’agire tradizionale è caduto nel grande inganno del monopartitismo imperfetto: il dominio di due partiti che, pur manifestandosi come opposti, in realtà hanno la stessa radice, due estremi che si riducono a uno, che ha come punto di riferimento il Concilio Vaticano II .
    (5)

    Adottare le categorie politiche in teologia, secondo i due autori, sembra quindi essere una caratteristica che accomuna quelli che Gnocchi e Palmaro considerano i due estremi del mondo “tradizionalista”: il sedevacantismo (6) e il neoconservatorismo(7) , già citati in precedenza. Il lettore più accorto si sarà già reso conto che nello stesso schema presentato è evidente un’aporia impressionante. Se, come diceva Chesterton, le cose più grandi sono quelle che si notano di meno, è evidente che progressismo e neoconservatorismo altro non sono che categorie indiscutibilmente politiche. La prima infatti indica l’area generalmente riconducibile alla sinistra, mentre la seconda si riferisce a quella parte della destra internazionale che, dopo il 2001, si è fatta promotrice del cosiddetto “conflitto di civiltà”, teorizzando la superiorità ontologica del mondo occidentale liberale, di contro all’oriente islamico. Gnocchi e Palmaro cadono quindi nella trappola che loro stessi denunciano, confondendo ulteriormente il lettore.
    La teologia infatti non tollera facili etichette ad uso e consumo di qualunque moda del momento, ma accetta solamente i semplici e sacrosanti concetti di verità e falsità. A maggior ragione - così come conferma anche il solo buon senso - in ambito teologico non possono esistere posizioni progressiste o neoconservatrici, ma semplicemente vere o false. Poco interessa quindi se un teologo è un progressista o un conservatore, ciò che interessa è se il contenuto della sua teologia è vero o falso. Del resto una frase come: «quello studioso ha una posizione progressista sul Dogma dell’Immacolata concezione» è francamente incomprensibile e imbarazzante. L’unica opzione può essere quella di aderire o meno a questa verità fondamentale della Dottrina cattolica cioè, per dirlo in altri termini, considerare questo dogma o vero o falso. Nel primo caso si è cattolici nel secondo no. Ancora, l’uso improprio di categorie politiche risulta pericoloso anche perché esse sono troppo povere per rendere ragione della complessità della realtà teologica(8) .
    Prendiamo in esame l’espressione neoconservatorismo. Significa letteralmente “nuova conservazione” o “conservare in modo nuovo”. Fatta propria l’idea di tradizione accettata dagli autori, è immediatamente evidente che non è possibile conservarla in una maniera nuova, perché significherebbe inevitabilmente cambiarne la sostanza o, comunque, modificarla in un senso più o meno profondo. Se la tradizione viene modificata, si tratta quindi di un cambiamento, un elemento nuovo che si inserisce in un impianto sostanzialmente immutato nel tempo. Ora questa modifica potrebbe essere in senso progressivo o regressivo. In ambito teologico però il regresso non è concepibile dal momento che è nient’ altro che un progressismo in senso inverso, che non guarda cioè al futuro ma al passato, come sosteneva Pio XII nell’enciclica Mediator Dei (n.51) a proposito dell’errore dell’ “archeologismo”: «… non sarebbe animato da zelo retto e intelligente colui il quale volesse tornare agli antichi riti ed usi, ripudiando le nuove norme introdotte per disposizione della Divina Provvidenza e per mutate circostanze». Dunque, secondo quanto detto, si dimostra la sostanziale identità tra progressismo e neoconservatorismo se queste etichette politiche vengono applicate all’ambito teologico. Il rischio è quindi quello di cadere in una contraddizione ulteriore dal momento che, come sostengono Gnocchi e Palmaro, i due termini dovrebbero indicare atteggiamenti filosofici e teologici speculari o comunque molto diversi fra loro. Non mi pare inoltre che i sedevacantisti infarciscano la loro teologia con queste categorie che, come abbiamo appena dimostrato, sono sostanzialmente inapplicabili in ambito dottrinale perché pericolosamente ambigue.
    Diverso è invece il discorso per quanto riguarda i seguaci di Mons. Lefebvre che, come è noto, davanti alle complicate questioni dottrinali aperte dallo scandalo del Concilio Vaticano II assunse la famosa “posizione prudenziale”, in particolar modo per quanto riguarda il rapporto con l’autorità e la gerarchia di Roma. Non è qui in discussione chi abbia ragione sul punto, se i sedevacantisti, i neoconservatori (9) o i lefebvriani, ciò che interessa è capire se questa prudenza sia anch’essa una categoria della teologia o, piuttosto, della politica. La risposta più ovvia pare essere la seconda. Se infatti è acclarato che la dottrina precede la prassi, il caso Lefebvre sbugiarda miseramente quanto sostenuto da Gnocchi e Palmaro. Infatti, davanti alla difficoltà di dirimere un problema teologico complesso che, in qualche modo, rendesse ragione della crisi della Chiesa postconciliare, il vescovo francese preferì evitare l’incomodo quesito per fare della sua azione pastorale un’attività totalmente di prassi e poco di buona teologia (da lì le innumerevoli contraddizioni che ancora oggi contraddistinguono la sua “Fraternità”). Qualcuno potrà appellarsi alla prudenza intesa come virtù cardinale ma non è questo il caso. Se, come diceva San Tommaso, «la prudenza è la retta norma dell’azione»(10) , come possono spiegarsi i grandi imbarazzi determinati dalla disubbidienza a quello che si stima essere il legittimo successore di San Pietro, le continue trattative con “Roma” più o meno fallimentari e gli incredibili scivoloni come i fatti di Ajaccio di qualche mese fa? Tutta questa confusione - che è teologica e dottrinale insieme - è figlia di quella prudenza che puzza distante un miglio di moderatismo democristiano, determinata storicamente dal desiderio di Mons. Lefebvre di ottenere i permessi per fondare e mantenere una fraternità sacerdotale senza pestare troppi piedi (11). Se a questo aggiungiamo il problema inevaso circa l’autorità, il senso sostanzialmente politico della Fraternità San Pio X, dalla fondazione ad oggi, è mostruosamente evidente. Pare proprio che siano Gnocchi e Palmaro ad essere caduti nella trappola progressista.


    4) Cfr. su tutti B. GHERARDINI, Quod ed tradidi vobis. La Tradizione vita e giovinezza della Chiesa, Frigento (AV), Casa Mariana Editrice, 2010 e R. DE MATTEI, Apologia della tradizione, Milano, Lindau, 2011.
    (5) GNOCCHI, PALMARO, Ci salveranno…, p. 14.
    (6) Con il termine sedevacantismo si considera, per una esposizione più semplice e chiara, sia il sedevacantismo tesista, che si rifà alla Tesi di Cassiciacum, che il sedevacantismo totalista o simpliciter. Del resto la distinzione non è importante in questa sede.
    (7) Parola espressamente usata dagli autori in Ivi, p. 16.
    (8) Si è volontariamente escluso dal discorso il sedevacantismo che, al contrario degli altri due, è un termine usato propriamente, in quanto esclusivamente teologico.
    (9) Nonostante i limiti evidenziati, per comodità si continuerà ad usare comunque questo termine nel resto dell’articolo.
    (10) San Tommaso d'Aquino, Summa theologiae, II-II, q. 47, a. 2, sed contra: Ed. Leon. 8, 349.
    (11) Cfr. B. TISSIER DE MALLERAIS, Mons. Marcel Lefebvre. Una vita, Chieti, Tabula fati, 2005, p. 563. Come ammette lo stesso autore, solo dopo molti anni dalla fondazione della sua fraternità, nel 1975, Mons. Lefebvre fu costretto dal precipitare degli eventi ad assumere posizioni esplicite nei confronti del Papa, del Concilio e della “nuova messa”.
    Ultima modifica di Luca; 14-04-13 alle 02:57

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    3. Predefinito Re: L'apologo dello specchio (una risposta a Gnocchi e Palmaro sul sedevacantismo)

      Oscurità o profondità ? Quando il saggio indica la luna e gli stolti guardano il dito

      Ecco la seconda parte del testo:

      Il primo dei due finti estremi, che quanto meno ha il pregio di essere rimasto coerente con le posizioni origi- nali, è quello che si rifà a Padre Guérard de Lauriers, l’autore della cosiddetta “tesi di Cassiciacurn”. Secondo padre Lauriers, a differenza di quanto riteneva monsignor Marcel Lefebvre, un Concilio non può sbagliare e non ammette discussioni. Dunque, dal momento che alcuni documenti del Concilio Vaticano II suscitano difficoltà rispetto al Magistero perenne della Chiesa, il Papa che li ha promulgati, e i successori che li hanno accettati, hanno perso quanto meno formalmente la suprema autorità. Sono quindi Papi solo materialmente. […] Rimane il fatto che l’eccessiva raffinatezza della cervice teologica, a forza di rendere acuti i ragionamenti, finisce con il trasformarli in ottusi e incapaci di parlare al prossimo. Il risultato è un tradizionalismo afasico, al limite dell’autismo, che si compiace della purezza propria e, forse ancor di più, dell’impurezza altrui .(12)


      La prima parte della citazione spiega, in sintesi e a grandi linee, il sedevacantismo. Sin qui nulla da obiettare. Anzi, gli autori si sono dimostrati particolarmente capaci di sintetizzare efficacemente una posizione teologica piuttosto ampia e profonda. Meno convincente invece l’accusa di oscurità e afasia.
      Procediamo con ordine: innanzitutto è doveroso ricordare come la stessa teologia di San Tommaso sia strutturata secondo lo schema della distinzione. Differenziare e porre dei limiti agli oggetti della discussione è infatti l’unico modo per poter argomentare con efficacia, evitando l’imprecisione e il rischio di fraintendimenti. Se, infatti, si dovesse scrivere un articolo o tenere una lezione sul tema della libertà, ad esempio, prima urgenza sarebbe proprio quella di definire l’oggetto della discussione. Soprattutto in un mondo, come quello moderno, in cui la rivoluzione anticattolica lavora subdolamente per svuotare del significato proprio le parole della tradizione ecclesiastica, per riempirle di un senso nuovo e falso. Molti sono gli esempi a questo proposito. Forse quello più evidente in tempi recenti è l’incontro ecumenico di Assisi in cui tutte le religioni, accolte sotto l’abito bianco di Ratzinger, si sono trovate a pregare – o meglio, non pregare – per la pace. Ma qual è il significato di pace? Il programma della giornata sembrerebbe suggerire semplicemente l’assenza di conflitti. Questa definizione è però condivisa dal cattolico? Parrebbe di no, a partire dalle celebri parole di Cristo stesso: «io non sono venuto per portare la pace, ma la spada»(13) . Durante tutta l’esistenza, del resto, anche la nostra anima è in perenne lotta contro le tentazioni del male, perfino il più grande santo non è immune a qualche sortita del demonio. L’uomo raggiungerà la pace quando questa battaglia, con la fine della sua vita, sarà terminata e avrà trionfato Cristo. Allo stesso modo, per analogia sul piano sociale, la società è in pace, in senso cattolico, quando fonda la sua esistenza sulla Verità, cioè su Cristo stesso. Tutto questo non è una novità, ma il contenuto più profondo della dottrina sociale cattolica di sempre. Ad Assisi quindi, seppur celata sotto la stessa parola, si è celebrata una realtà radicalmente diversa. Assomiglia molto di più alla pace di Pilato, quella di chi non ha problemi nell’ammettere la convivenza di religioni differenti, permettendo così al vero di vivere accanto al falso col rischio, alla fine, di confondersi con esso. In questo senso scriveva Chesterton: «oggi ho visto qualche cosa che è peggiore della guerra: il suo nome è pace»(14) .
      Non fare i distinguo in ambito teologico, come dimostrato, genera necessariamente confusione e smarrimento. Questo è il vero relativismo che è più pericoloso e subdolo di quello agnostico perché, secondo lo schema modernista, lavora dentro e contro la Chiesa.
      Profondità non significa poi oscurità o difficile interpretazione. Almeno, il parallelismo non è immediato. Se considerassimo la questione in questi termini si rischierebbe di cadere in due errori tipici della modernità che noi tutti avversiamo. Innanzitutto sarebbe un errore di superficialità: cioè ciò che richiede anche il più piccolo sforzo mentale è rigettato; ma questo è un chiaro pregiudizio. Il secondo è l’errore della resa semplicistica: concordiamo, in linea generale, secondo il principio del rasoio di Occam, che più è possibile semplificare e rendere maggiormente accessibile un discorso, meglio è. Ma ci sono alcuni ambiti, come ad esempio la teologia, in cui questo principio teorico non sempre è applicabile. Il rischio, come si ricordava, è quello di essere ambigui. Questo però non deve spaventare o indignare. Come lo scopo della vita dell’uomo è quello di conformarsi il più possibile a Cristo - il che non è sempre facile - allo stesso modo il discorso teologico deve adeguarsi il più possibile, per sua stessa natura, alla Verità e non sempre è possibile percorrendo vie piane e agevoli. Il rischio è sottolineato da Marshall: «i punti di vista in materia di teologia sono altrettanto idioti quanto i punti di vista in fatto di matematica»(15) .
      Questa realtà la si può paragonare all’insegnante che sottopone ai suoi studenti un testo un po’più difficile rispetto a quelli a cui sono abituati. Perchè ha deciso di comportarsi così? Forse perché il testo tratta di una bellezza e di una verità a cui l’insegnante è talmente legato che desidera condividerla con i propri discenti e, magari, non ne ha trovati di più accessibili sul medesimo argomento. E’ dunque, solo per questo fatto, un pessimo docente? Il ragionamento non tiene. Anzi, potrebbe essere una grande occasione per la classe per imparare cose nuove, anche attraverso la fatica di un livello di accessibilità inedito. Lo sforzo sarà ripagato dalla soddisfazione, anch’essa ulteriore, di aver raggiunto qualcosa di mai incontrato prima. E’ una scuola di vita perché, fuor di metafora, così è la nostra esistenza. Non si tratta dunque di supponenza o di teologia snob, ma semplicemente di un autentico amore per la Verità.

      (13) Mt. 10, 34
      (14) G. K. CHESTERTON, L’osteria volante, Milano, Bompiani, 2010, p. 30.
      (15) B. MARSHALL, Il miracolo di Padre Malachia, Milano, Jaca Book, 2008, p. 49.
      1. Ultima modifica di Luca; 14-04-13 alle 02:47

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    3. Predefinito Re: L'apologo dello specchio (una risposta a Gnocchi e Palmaro sul sedevacantismo)

      Cristo come fondamento dell’esistenza

      Se il cattolicesimo si caratterizza per essere intrinsecamente non-fondamentalista, il tradizionalista autistico finisce invece per ritagliarsi un magistero a propria immagine e somiglianza, da applicare senza mediazione secondo il più evidente dei fondamentalismi, in totale assenza di carità. Sul piano pastorale, ne discende direttamente una degenerazione clericale: il sopruso e la condanna senza capacità di porgere perdono a chi sta più in basso. Sul piano dottrinale, ne deriva il peccato di orgoglio: la condanna senza capacità di porgere la verità a chi sta più in alto .(16)

      Potrei usare il brano appena citato per muovere le medesime accuse ai membri della Fraternità San Pio X e, più in generale, ai cosiddetti “tradizionalisti”, senza dover neanche modificare una virgola. Andiamo però con ordine per dimostrare innanzitutto l’infondatezza di questi attacchi.
      Poco comprensibile appare l’accusa del fondamentalismo, anch’esso di per sé termine piuttosto ambiguo. Il cristianesimo, se prendiamo alla lettera il significato della parola, è infatti, per definizione, fondamentalista. Il cristiano è cioè chiamato a fare di Nostro Signore la base su cui poggiare la propria esistenza. Cristo costituisce quindi le fondamenta su cui si innalza l’edificio della nostra vita che, come ricorda la famosa parabola, potrà resistere alle cadute solamente se edificato su un materiale resistente: «perché chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia […]»(17) . Del resto questo è lo stesso principio per cui anche la Chiesa necessita di un fondamento solido come quello della pietra, di una certezza ultima che faccia da perno contro le insidie del male e la corruzione del tempo. Anche in questo caso, analogamente al precedente, troviamo una nuova affermazione di “fondamentalismo cristiano” che nel famoso «tu sei Pietro e su questa pietra fonderò la mia Chiesa»(18) trova forse l’espressione più alta.
      Gnocchi e Palmaro sembrano però utilizzare questo termine nel senso di assenza di carità. Il fondamentalista cattolico è colui che nega alla sua azione qualsiasi valore caritatevole, chiudendosi in una sorta di magistero autoreferenziale. L’affermazione è semplicemente falsa. Partiamo dal secondo punto. Il sedevacantista non si inventa nulla di nuovo ma, per necessaria conseguenza, dal momento che nega che Benedetto XVI sia formalmente il Papa, è costretto ad appellarsi al Magistero della Chiesa antecedente al Concilio Vaticano II, momento in cui si verificò la grave crisi della dottrina cattolica di sempre. Tutto qui. Quindi il Magistero riconosciuto a cui il fedele sedevacantista (o se preferite cattolico integrale) fa riferimento, è quello che va da San Pietro a Pio XII, senza la necessità di modificare o aggiungere alcunché (cosa che non gli sarebbe permessa). Se si accettano queste premesse è dunque evidente che la situazione attuale pone il fedele davanti ad una dolorosa necessità di scelta. Questa è una delle forme più autenticamente caritatevoli con cui il sedevacantismo si porge nelle realtà: non educa le persone ad aderire ad un movimento o ad un gruppo carismatico particolare, ma aiuta i fedeli a compiere una scelta di libertà. Quella di poter abbracciare la dottrina vera di Cristo e della Sua Chiesa, così come migliaia di uomini e donne l’hanno conosciuta in ogni epoca. Non si tratta quindi di gruppi conservatori o progressisti, di destra o di sinistra, di fedeli di questo o di quell’altro, ma semplicemente di chi si schiera dalla parte della Chiesa cattolica, apostolica e romana.
      L’aspetto poi della mancanza di carità appare anch’esso assolutamente falso e generalista. Personalmente conosciamo molti cattolici “sedeplenisti” dai carismi più svariati e, sul piano umano, manteniamo buonissimi rapporti con tutti. Questo però non ci vieta di evidenziare, qualora ce ne fossero, delle differenze o degli errori teologici, morali o dottrinali che meriterebbero di essere corretti. Si odia il peccato e non il peccatore, come ricorda il famoso adagio. Ma denunciare l’errore non è un atto da fondamentalista anzi, è un preciso dovere di ogni cattolico che voglia essere davvero utile e generoso con il suo prossimo. Non capiamo dunque da dove possa nascere questa accusa. I molti sacerdoti sedevacantisti che conosciamo sono persone capaci e generose che ogni settimana macinano centinaia di chilometri in automobile per distribuire in tutto il paese l’Oblatio munda. Anche nelle prediche, nei saggi o negli articoli da loro scritti ci pare che il medesimo spirito emerga senza alcun dubbio.
      Chi invece fa del Magistero qualcosa di assolutamente personale, e arrogantemente si pone come giudice di chi è in alto e di chi è in basso sono proprio i lefebvriani. Quanti discorsi ci è capitato di sentire infatti contro colui che, secondo gli stessi aderenti alla “Fraternità San Pio X”, è il legittimo pontefice, quante parole dette o scritte con l’intento di limitare a poche eccezioni l’infallibilità pontificia, quante chiacchiere inutili sul nuovo arianesimo che infesta Roma… e l’elenco potrebbe essere ancora lungo. Del resto tutta la contraddizione di chi rifiuta Pietro come fondamento e regola della vita cattolica è riassunta nel famosa possibilità di disobbedire a Benedetto XVI, colui che è ritenuto il Papa legittimo. Semplicemente assurdo. Chi è dunque che crea un magistero minore, totalmente personale? Chi è che, come diceva Lutero, si erge a Papa di se stesso? Chi sono dunque i nuovi ariani?
      L’accusa di clericalismo rimane poi un mistero. Gnocchi e Palmaro additano i sedevacantisti come clericali. Ma cosa significa questa parola? Soprattutto non si capisce in che relazione possa essere con la presunta saccenteria teologica di questi. Ancora una volta ci troviamo davanti ad un’ambiguità difficile da dirimere. La prima ipotesi può semplicemente significare coloro che amano e seguono la gerarchia cattolica. Inteso in questo primo senso ogni cattolico è, solo per il fatto di appartenere alla Chiesa, un clericale, nel senso che è tenuto a stimare il fondamentale ruolo di mediazione del clero tra Dio ed uomo. Solo per fare un esempio, senza il sacerdozio nessuno potrebbe ricevere i Sacramenti, necessari per la salvezza dell’anima.
      Anche un altro passaggio del libro, dedicato al clericalismo, non sembra chiarire i termini della questione:

      sia storicamente, sia teoricamente, il clericalismo, che è un fenomeno degenerativo, nasce invece come conseguenza della laicità. Dalla fine del XIII secolo, in Europa, i laici, vale a dire i “non consacrati”, hanno lentamente demandato al clero il dovere di essere religioso anche per conto loro. Troppo presi dagli affari di bottega, hanno cominciato a pensare che la preghiera e la mortificazione fossero perdite di tempo. Così hanno lasciato lentamente messe, rosari e penitenze ai “professionisti”. Ma, alienando ad altri tale compito, che si manifesta anche pubblicamente, si sancisce di fatto e di principio la propria laicizzazione, intesa come ritirarsi dalla necessità di fecondare e fortificare attraverso la fede la vita sociale .(19)

      Anche in questo senso è impossibile riferire l’accusa ai sedevacantisti. Anzi, lo spirito di carità che anima le giornate di ogni cattolico, si declina anche in una responsabilità nei confronti della realtà e delle persone, maturando un valore ed una ricchezza sia personale che comunitaria. La dimensione sociale del cattolicesimo è dunque parte essenziale di ogni fedele che decide di testimoniare, attraverso parole ed atti, la Verità di Gesù Cristo. Messe, rosari e penitenze non sono quindi ad esclusivo appannaggio dei sacerdoti – sarebbe una semplice follia – ma sono patrimonio comune e quotidiano di tutti i fedeli. In ambito sedevacantista i laici svolgono poi un ruolo importantissimo, ad esempio nella gestione delle cappelle, nell’organizzazione di eventi e conferenze, nell’educazione della gioventù e nelle opere di carità.

      (16) Ivi, p. 16.
      (17) Mt 7, 24-27.
      (18) Mt 16, 18.
      (19) GNOCCHI, PALMARO, Ci salveranno…, pp. 67-68.
      1. Ultima modifica di Luca; 14-04-13 alle 02:43

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    3. Predefinito Re: L'apologo dello specchio (una risposta a Gnocchi e Palmaro sul sedevacantismo)

      Pietro, l’eterno problema

      Riportiamo l’ultimo brano in esame:

      Sul versante solo apparentemente opposto stanno i neoconservatori, coloro che assumono lo stesso principio dell’infallibilità di un Concilio, ma giungono a conclusioni opposte. Tesisti e sedevacantisti declinano il seguente ragionamento: un Concilio non può sbagliare, il Vaticano II ha sbagliato, dunque il Vaticano II non è un vero Concilio e i Papi che lo accettano non sono legittimi. I neoconservatori, invece, ragionano così: un Concilio non può sbagliare, dunque il Vaticano II non ha sbagliato, dunque non solo è un vero Concilio ma è il metro per giudicare tutto il Magistero precedente, in attesa di un Vaticano III che giudicherà anche il Vaticano II. Tradotto in termini di pratica ecclesiale, se per i primi il Vaticano II è tutto da buttare a prescindere, per i secondi è tutto da accettare a prescindere. Ma, come si vede, si tratta solo della stessa posizione che viene semplicemente capovolta. Non a caso, gli strenui sostenitori del vaticanosecondismo di stampo neoconservatore, spesso, vengono da una militanza teologica, culturale ed ecclesiale di ascendenza sedevacantista .

      Secondo la buona esemplificazione di Gnocchi e Palmaro, la posizione sedevacantista e quella neoconservatrice si potrebbero riassumere piuttosto sinteticamente. Entrambe partono dal presupposto che un Concilio universale della Chiesa sia infallibile dal momento che partecipa dell’infallibilità stessa del Papa che, anche se non presiede direttamente la seduta, ne approva i documenti e, a sua discrezione, ha facoltà di modificarne totalmente o in parte i contenuti. Del resto questo legame è implicitamente ammesso dagli stessi autori dal momento che, nella sintesi proposta, correlano la validità del Concilio con la legittimità del papato. Ricorda De Mattei: «i Concili esercitano, sotto e con il Papa, un solenne Magistero in materia di fede e di morale e si pongono come supremi giudici e legislatori, per quanto riguarda il diritto della Chiesa»(21) . Da questo punto però le strade divergono. Dal momento che molti aspetti dei documenti del Vaticano II contraddicono apertamente la dottrina cattolica di sempre, i sedevacantisti ritengono che sia impossibile che vengano dalla Chiesa e dunque il Concilio e il Papa non sono legittimi. I neoconservatori, al contrario, ritengono che siano infallibili, dal momento che quei documenti sono stati approvati da un Concilio.
      Queste due posizioni sono le uniche che un cattolico può assumere innanzi al dramma del Concilio Vaticano II. Non interessano in questa sede le ragioni per cui riteniamo giusta la prima opzione a scapito della seconda, ma è chiaro che non può esistere una terza via che non cada in innumerevoli contraddizioni e difficoltà ulteriori. Pur non condividendo la posizione dei neoconservatori, essi dimostrano comunque una grande dignità dal momento che, davanti al sorgere delle difficoltà, agiscono in buona fede, affidandosi a coloro che credono essere il Papa. E’ però vero che anche questo atteggiamento ha determinato gli esiti del Vaticano II. Davanti a pochi progressisti e a pochi intransigenti in lotta tra loro, la maggior parte dell’assise conciliare votò compattamente i decreti, confidando proprio nella retta guida del Papa, per puro spirito d’obbedienza.
      Qual è dunque e in che cosa consista la soluzione implicitamente proposta da Gnocchi e Palmaro è presto detto. Ciò che per prima cosa deve essere necessariamente ridotta è l’infallibilità del Concilio (su di essa poggiano infatti sia le argomentazioni sedevacantiste che quelle neoconservatrici). L’apparente soluzione viene fornita appellandosi alle parole di Giovanni XXIII che, all’apertura del Vaticano II, parlò di “Concilio pastorale”, cioè di un’assise che non aveva alcuna intenzione di formulare nuovi dogmi ma di trovare un aggancio per dialogare proficuamente con la modernità. Senza la formulazione di dogmi, pensano gli autori, l’infallibilità del Concilio può essere accantonata, permettendo così di sostenere teologicamente una posizione che sia, nel medesimo tempo, contraria al Vaticano II ma sedeplenista. E’ questa la supposta diversità su cui molti “tradizionalisti” fanno leva: «Il Concilio Vaticano II non ha emanato leggi e neppure ha deliberato in modo definitivo su questioni di fede e di morale»(22) .
      Rispetto a questa posizione sorgono però parecchi dubbi. Se è vero quanto affermato da De Mattei, che problemi potranno mai sorgere rispetto al Concilio Vaticano II? Non avendo deliberato su questioni di fede e morale il Concilio è dunque sostanzialmente inefficace. Possono esserci novità nella pratica ma non dal punto di vista della teologia cattolica. Se le cose stanno così, le barricate che alzano molti “tradizionalisti” non hanno alcuna ragione di essere, dal momento che le loro sarebbero battaglie solo sulla forma e non sui contenuti della dottrina. Si tratta tutt’al più di estetica e non di teologia. Frasi come «non si può condannare chi è di sentimenti tradizionali e, per motivi diversi, non può, non riesce o non sa frequentare sempre la Messa in rito antico»(23) - fatta naturalmente salva l’ignoranza invincibile - lo dimostrano perfettamente. I lefebvriani approcciano il problema specularmente, fanno leva non tanto sul fatto che il Vaticano II non abbia deliberato su questioni di fede e di morale, ma sul fatto che lo abbia fatto in modo non definitivo (il “concilio pastorale” appunto). Per loro è la non definitività che esclude l'infallibilità e quindi la vincolatività. Si cade però, ancora una volta, in un’ aporia: il valore teologico del Concilio sarebbe dunque sostanzialmente insignificante il che è inammissibile. La conseguenza di queste posizioni è dunque solo una: accettare il Concilio e il Papa dal momento che non sussiste un problema sostanziale.
      Se fosse veramente così, il Vaticano II non sarebbe stato altro che una grande assemblea mondiale dei principi della Chiesa in cui si discussero molte questioni che non vincolavano alcun fedele. Nulla più che un grande meeting internazionale. Se tutto questo fosse vero, come spiegare allora la feroce battaglia a colpi di emendamenti e accuse tra progressisti ed intransigenti durante i dibattiti conciliari? Se si fosse trattato realmente di un “Concilio pastorale” tutto questo non sarebbe spiegabile. E’ infatti inammissibile che si sia discusso con tale foga di temi che non avevano nulla a che fare con l’essenza stessa della dottrina cattolica, ma solo con la sua messa in pratica.
      In terza battuta è evidente che, se la prassi usata dalla Chiesa subisce una modificazione così sostanziale, questo non può altro che significare che la stessa dottrina ha subito dei cambiamenti. Aspetti come l’ecumenismo, il rapporto con le altre religioni, la collegialità… non possono far altro che confermare quest’ipotesi. Ancora una volta le strade percorribili sono solo due: sedevacantismo o neoconservatorismo.
      Fatto salvo quanto detto in precedenza, è dunque impossibile muovere delle critiche al Vaticano II accettando integralmente l’autorità di Benedetto XVI. L’errore è dietro l’angolo e la “Fraternità San Pio X” offre forse l’esempio migliore di questa follia pratica con l’esempio della disubbidienza, che altro non è che quel famoso magistero personale che Gnocchi e Palmaro attribuiscono ingiustamente al sedevacantismo. Ma la cosa più grave è che questi esiti presuppongono un’evidente limitazione dell’infallibilità pontificia che mina la stessa Chiesa nelle sue fondamenta, nel suo principio di indefettibilità che le è garantito da Cristo stesso. Srciveva C. S. Lewis: «Chi ha l’autorità? Una delle cose che mi insegna la ragione è che devo controllare i risultati dei miei pensieri con le opinioni dei saggi. Mi riferisco all’autorità perché me lo dice la ragione: anche il signor Carritt può chiedere ad un amico, ritenuto un buon matematico, di verificare il calcolo di un’equazione, e correggerà il suo risultato se quello del suo amico sarà diverso»(24) . Se non possiamo fidarci di quello che si stima il legittimo successore di Pietro, la stessa Chiesa di Cristo è perduta. Sarebbe interessante approfondire il tema dell’autorità del Papa, in particolare in rapporto con la tradizione, ma rischieremmo di uscire dall’ambito di questo scritto. Citiamo solo l’esempio di Robert Hugh Benson e di molti che, come lui, nel secolo scorso abbandonarono l’anglicanesimo per convertirsi alla Chiesa di Roma. Quale fu l’origine di questa conversione? Proprio il dogma dell’infallibilità pontificia: «una cosa quindi è assolutamente certa: che se la cristianità va considerata una rivelazione vera, allora la Chiesa docente deve sapere con sicurezza qual è il tesoro che deve custodire»(25) . Le conclusioni teologiche dei lefebvriani paiono quindi essere in aperta contraddizione con la tradizione che loro stessi dicono di difendere.

      (20)
      (21) R. DE MATTEI, Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta, Milano, Lindau, 2010, p. 6.
      (22) Ibid.
      (23) GNOCCHI, PALMARO, Ci salveranno…, p. 18.
      (24) C. S. LEWIS, Riflessioni cristiane, Milano, Gribaudi, 1997, p. 49.
      (25) R. H. BENSON, Confessioni di un convertito, Milano, Gribaudi, 1996, p. 83.
      1. Ultima modifica di Luca; 14-04-13 alle 02:39

    1. #6
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      Predefinito Re: L'apologo dello specchio (una risposta a Gnocchi e Palmaro sul sedevacantismo)

      Breve conclusione

      Nel corso di questo articolo sono state confutate le principali accuse al sedevacantismo mosse da Gnocchi e Palmaro nel loro recente libro. Si è cercato di usare un linguaggio semplice e comprensibile e, a questo proposito, ci scusiamo se sono stati impiegati termini non completamente adeguati o se in alcune occasioni si sono dati per scontato particolari aspetti del problema in esame. Del resto anche le note, come le citazioni più propriamente teologiche, sono state ridotte all’osso proprio per non appesantire il discorso e per porsi sullo stesso livello divulgativo e colloquiale di Ci salveranno le vecchie zie.
      In una sorta di gioco degli specchi si è quindi tentato di dimostrare per sommi capi, come tutte le accuse rivolte ai sedevacantisti siano proprio i difetti dei lefebvriani e di molti “tradizionalisti”, caratterizzati da una teologia della prassi - questa sì di origine modernista - per cui alla confusione dei termini si assomma un aspetto pratico che non poggia su alcuna chiara premessa teologica. Per tutti questi il futuro è incerto nel senso che, non avendo chiarito le cause della crisi conciliare, navigano sulle sensazioni politiche del momento, secondo il “dogma” della prudenza predicato a suo tempo da Mons. Lefebvre. Chi invece ha deciso di ricavare una teologia a partire dalla prassi “tradizionalista”, ha aperto la via a tutti quegli errori denunciati sommariamente in precedenza. L’abominio dei tentati accordi con Roma - che sottintendono una Chiesa docente che viene meno ai suoi compiti e una Chiesa discente che, di fatto, si sostituisce ad essa - ne è forse l’esempio più calzante. Teoria smentita dalla stessa storia perché, se queste premesse fossero vere, dopo il Vaticano II si sarebbe dovuto assistere ad una sollevazione di massa della stragrande maggioranza dei cattolici, molti dei quali invece hanno accettato supinamente - anche se in buona fede - le innovazioni conciliari.
      Il problema fondamentale che sta alla base di libri come quello di Gnocchi e Palmaro è quindi quello della grande contraddizione di fondo che aleggia negli ambienti “tradizionalisti” circa il concetto di tradizione e autorità. Da questa incomprensione si generano tutti gli errori che caratterizzano oggi, la maggioranza di quei cattolici che si oppongono ai decreti del Concilio Vaticano II. Questi aspetti sono stati qui solo accennati, ma mariterebbero di essere approfonditi ulteriormente.
      Giunti al punto in cui siamo forse neanche le vecchie zie ci potranno salvare. Poco male, perché la nostra Fede non poggia sull’eroismo quotidiano di qualche nobile spirito, ma sulla promessa fatta da Cristo alla sua sposa, la Chiesa cattolica: «…e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa» (26)

      Luca Fumagalli
      Piergiorgio Seveso

      13 aprile 2013 festa di Sant'Ermenegildo

      Nota finale: I Quaderni di Cassiciacum, con gli studi di padre Guérard des Lauriers sulla sede vacante, furono pubblicati dall'Ass. Sant'Ermenegildo dal 1979 al 1981. L'associazione aveva scelto come patrono il martire spagnolo per ricordare che un cattolico non può ricevere i sacramenti, seppur validi, da ministri che non professano integralmente la fede cattolica. Era ed è il problema delle Messe "una cum".

      (26) Mt 16, 18.

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