LA NASCITA DELL’EUROPA
Christofer Dawson
LA NASCITA
DELL’EUROPA 1
PARTE PRIMA – LE FONDAMENTA 3
I. L'IMPERO ROMANO 4
II. LA CHIESA CATTOLICA 13
III. LA TRADIZIONE CLASSICA E IL
CRISTIANESIMO 23
IV. I BARBARI 31
V. LE INVASIONI BARBARICHE E LA CADUTA DELL'IMPERO
D'OCCIDENTE 36
PARTE SECONDA - IL PREDOMINIO DELL’ ORIENTE 45
VI. L'IMPERO CRISTIANO E IL SORGERE DELLA CULTURA
BIZANTINA 46
VII. IL RISVEGLIO DELL'ORIENTE E L'INSURREZIONE DELLE
NAZIONALITÀ SOGGETTE 54
VIII. IL SORGERE DELL'ISLAM 59
IX. L'ESPANSIONE DELLA CULTURA MUSULMANA 65
X. IL RINASCIMENTO BIZANTINO E IL RISVEGLIO
DELL'IMPERO D'ORIENTE 74
TERZA PARTE - LA FORMAZIONE DELLA CRISTIANITA’ OCCIDENTALE 81
XI. LA CHIESA OCCIDENTALE E LA CONVERSIONE DEI
BARBARI 82
XII. LA RESTAURAZIONE DELL'IMPERO D'OCCIDENTE E LA
RINASCITA CAROLINGIA 92
XIII. L'ETÀ DEI VICHINGHI E LA CONVERSIONE DEL
NORD 100
XIV. LA NASCITA DELL'UNITÀ MEDIEVALE 109
CONCLUSIONE 120
PARTE PRIMA – LE FONDAMENTA
I. L'IMPERO ROMANO
Noi siamo talmente avvezzi a fondare la
nostra visione del mondo e l'intera nostra concezione della storia
sull'idea dell'Europa che ci riesce difficile renderci conto
dell'esatta natura di questa idea. L'Europa non è un'unità
naturale, come l'Australia o l'Africa; essa è il risultato di un
lungo processo di evoluzione storica e di sviluppo spirituale. Dal
punto di vista geografico l'Europa è semplicemente il prolungamento
nord-occidentale dell'Asia, e possiede una minore unità fisica
dell'India, della Cina o della Siberia; antropologicamente, è un
miscuglio di razze, e il tipo dell'uomo europeo rappresenta un'unità
piuttosto sociale che razziale. E anche nella cultura l'unità
dell'Europa non è la base e il punto di partenza della storia
europea, ma il fine ultimo e irraggiungibile verso cui questa ha
mirato per più di mille anni.
Nei tempi preistorici l'Europa non
possedeva un'unità culturale. Era il punto d'incontro di molte
diverse correnti di cultura, che traevano origine, per la maggior
parte, dalle più evolute civiltà dell'antico Oriente e venivano
trasmesse all'Occidente attraverso il commercio, la colonizzazione
oppure un lento processo di contatto culturale. In questo modo, il
Mediterraneo, il Danubio, l'Atlantico e il Baltico furono le vie
principali della diffusione culturale, e ciascuna di esse fu la base
di uno sviluppo indipendente, che a sua volta divenne il punto di
partenza d'innumerevoli culture locali.
Ma la creazione d'una civiltà
veramente europea fu dovuta non tanto al parallelismo e alla
convergenza di queste separate correnti, quanto alla formazione di un
singolo centro di più alta cultura che a poco a poco
dominò e assorbì gli svariati
sviluppi locali. Il movimento ebbe il suo punto di partenza
nell'Egeo, dove, già nel terzo millennio a. C., era sorto un centro
di cultura comparabile alle superiori civiltà dell'Asia occidentale,
piuttosto che alle culture barbariche dell'Occidente. E sulla base di
questo primitivo sviluppo ecco sorgere finalmente la classica civiltà
della Grecia antica, la quale è la vera sorgente della tradizione
europea.
Dai Greci noi deriviamo tutto ciò che
è più caratteristico della cultura occidentale rispetto a quella
orientale : la nostra scienza e la filosofia, la nostra letteratura e
l'arte, il nostro pensiero politico e le nostre concezioni della
legge e dei liberi istituti politici. Di più, fu tra i Greci che
sorse per la prima volta una chiara coscienza della diversità fra
gli ideali europei e asiatici e dell'autonomia della civiltà
occidentale. L'ideale europeo della libertà nacque nei giorni fatali
della guerra persiana, quando le flotte di Grecia e d'Asia si
scontrarono nella baia di Salamina e quando i Greci vittoriosi
innalzarono dopo la battaglia di Platea il loro altare a Zeus
Liberatore.
Senza l'ellenismo, la civiltà europea
e persino la nozione europea dell'uomo sarebbero inconcepibili.
Tuttavia, la stessa civiltà greca fu ben lungi dall'essere europea
in un senso geografico. Era confinata nel Mediterraneo orientale, e,
mentre l'Asia Minore ebbe fin dagli inizi una gran parte nel suo
sviluppo, l'Europa continentale e persino parti della Grecia
continentale giacquero fuori del suo influsso. Durante tutta la sua
storia conservò questo carattere intermediario; giacché, sebbene si
estendesse a occidente fino alla Sicilia e all'Italia meridionale, la
strada maestra della sua espansione fu verso Oriente, in Asia.
L'ellenismo ebbe i suoi inizi nella Ionia e i suoi limiti ad
Alessandria, Antiochia e Bisanzio.
L'allargamento all'Occidente di questa
tradizione di civiltà superiore fu l'opera di Roma, la cui missione
consistette nell'agire da intermediaria fra rincivilito mondo
ellenistico del Mediterraneo orientale e i popoli barbarici
dell'Europa occidentale. Nello stesso tempo che Alessandro e i suoi
generali conquistavano l'Oriente e gettavano al vento dell'Oriente i
semi della cultura ellenistica dal Nilo all'Oxus, Roma andava
costruendo adagio e con fatica il suo compatto stato
militare-contadino nell'Italia centrale. Una singola generazione,
negli anni dal 340 al 300 a. C., vide sorgere due nuovi organismi
sociali, la monarchia ellenistica e la confederazione italica, che
differivano profondamente per spirito e organizzazione, ma nondimeno
erano destinati a ravvicinarsi tanto che si sarebbero definitivamente
assorbiti a vicenda, sino a costituire un'unità comune.
Il risultato di questo processo
rappresentò, senza dubbio, una vittoria della spada romana e del
romano genio dell'organizzazione, ma socialmente e intellettualmente
i vincitori furono i Greci. L'era del romanizzarsi dell'Oriente
ellenistico fu anche l'era dell'ellenizzazione dell'Occidente romano;
e i due movimenti convergettero nella formazione d'una civiltà
cosmopolitica, unificata dall'organizzazione politica e militare
romana, ma fondata sulla tradizione ellenistica della cultura e
ispirata da ideali sociali greci.
Ma questa civiltà cosmopolitica non
era ancora europea. Nel secolo I a. C., l'Europa non era ancor nata.
Roma stessa era una potenza mediterranea, e sin allora la sua
espansione si era limitata alle regioni costiere del Mediterraneo.
L'incorporazione dell'Europa continentale nell'unità culturale
mediterranea fu dovuta alla personale iniziativa e al genio militare
di Giulio Cesare: un esempio notevole del modo come l'intero corso
della storia può venire trasformato dalla volontà di un individuo.
Quando Cesare s'impegnò nell'impresa
gallica, il suo primo movente era, senza dubbio, quello di rafforzare
la sua autorità sull'esercito e di controbilanciare le vittorie del
rivale Pompeo in Oriente. Ma sarebbe un errore giudicare l'opera sua
come un accidentale risultato secondario delle sue ambizioni
politiche. Come dice il Mommsen, è una speciale caratteristica degli
uomini di genio, come Cesare e Alessandro, che essi abbiano il potere
d'identificare i loro interessi e le loro ambizioni con l'adempimento
di un compito universale; e cosi Giulio Cesare si servì delle
temporanee circostanze della lotta politica romana per aprire un
nuovo mondo alla civiltà mediterranea. "Che ci sia un ponte
collegante le glorie passate dell'Ellade e di Roma col più altero
edificio della storia moderna; che l'Europa occidentale sia romanza e
l'Europa germanica classica; che i nomi di Temistocle e Scipione
suonino alle nostre orecchie in modo assai differente da quelli di
Asoka e di Salmanassar; che Omero e Sofocle non siano semplicemente
come i Veda e Kalidasa curiosità per il botanico letterario,
ma fioriscano per noi nel nostro giardino: tutto questo è opera di
Cesare; e, mentre la creazione del suo grande predecessore
nell'Oriente fu quasi tutta ridotta in rovine dalle tempeste del
Medio Evo, l'opera di Cesare è sopravvissuta a quei millenni che
hanno i mutato la religione e la politica del genere umano e persino
spostato il suo centro di civiltà, e si erge tuttora per quella che
possiamo chiamare eternità"1.
Questa concezione dell'opera di Cesare
e dell'importanza del contributo dato da Roma alla cultura moderna è
stata invero largamente discussa in tempi recenti. Il moderno culto
delle nazionalità ha condotto molti a rivedere la scala storica dei
valori e a considerare le culture originali dell'Europa barbarica con
occhi assai diversi da quelli dei nostri predecessori umanisti. Prima
i popoli germanici e poi i Celti hanno imparato a esaltare le imprese
dei loro antenati - o piuttosto di coloro che suppongono loro
antenati - e a ridurre al minimo il debito che i popoli occidentali
hanno verso Roma. Come Camille Jullian nella sua grande Histoire
de la Gaule, essi considerano l'Impero romano un militarismo
straniero che distrasse con la forza brutale la bella promessa di una
cultura in germoglio. E, senza dubbio, quest'opinione ha qualche
fondamento, in quanto la conquista romana fu, in se stessa, brutale e
distruttiva, e la cultura imperiale, che venne poi, stereotipata e
priva d'originalità. Ma sarebbe difficile trovare argomenti in
appoggio alla convinzione dello Jullian che la Gallia celtica avrebbe
saputo accettare la superiore civiltà del mondo ellenistico senza
l'intervento di Roma, o all'opinione dei moderni scrittori tedeschi i
quali credono che il mondo germanico avrebbe potuto sviluppare una
brillante cultura autoctona sotto l'influsso del mondo asiatico2.
Non c'è nessuna legge inevitabile di
progresso che dovesse costringere i barbari dell'Occidente a creare
le loro civiltà. Senza un forte influsso dall'esterno, una semplice
cultura primitiva può durare immutata per secoli, come vediamo nel
Marocco o nell'Albania. La creazione di una nuova civiltà non può
avvenire senza molta e durissima fatica, come Virgilio dice nel verso
famoso : "Tantae molis erat Romanam condere gentem".
Noi non sappiamo se i Celti o i Germani
sarebbero stati capaci di un simile sforzo se fossero stati
abbandonati a se stessi, o se qualche altra potenza - i Persiani, gli
Arabi o i Turchi - sarebbe intervenuta a compiere l'opera per loro.
Tutto quanto sappiamo è che l'opera venne compiuta, e compiuta da
Roma. Fu l'azione di Roma a trarre l'Europa occidentale dal suo
barbarico isolamento e a unirla con la società civile del mondo
mediterraneo. E il fattore decisivo di questa impresa venne dato
dalla personalità di Giulio Cesare, in cui il genio romano di
conquista e di organizzazione trovò la sua incarnazione suprema.
È veramente difficile dire quale fosse
lo scopo ultimo dell'opera che impegnò tutta l'esistenza di Cesare:
se, come pensava Mornmsen, egli desiderasse conservare le tradizioni
civiche dello stato romano, o se, come pensano Eduard Meyer e molti
altri scrittori moderni, mirasse alla creazione di un nuovo stato
monarchico ricalcato sui modelli ellenistici. È probabile che ci sia
una certa verità in entrambe le opinioni, e che la monarchia
alessandrina di Marco Antonio e il principato di Augusto
rappresentino ciascuna un aspetto della concezione cesariana.
Comunque sia, non si possono aver dubbi sui fini e sulle idee
dell'uomo che ebbe l'effettivo destino di portare a termine l'opera
di Cesare, il suo figlio adottivo ed erede, il grande Augusto. Nella
sua lotta contro la monarchia alessandrina di Antonio e Cleopatra,
Augusto impersonò la cosciente difesa non soltanto del patriottismo
romano, ma degli ideali specificamente occidentali. Agli occhi dei
suoi partigiani, Azio, come Maratona e Salamina, fu uno scontro
dell'Oriente e dell'Occidente, una finale vittoria degli ideali
europei di ordine e di libertà sopra il despotismo orientale. Il
grande passo di Virgilio nel libro VIII dell'Eneide ci mostra le
informi caterve della barbarie orientale schierate non soltanto
contro i Penati e i divini custodi dello stato romano, ma contro i
grandi dèi della Grecia : Poseidone, Afrodite e Atena :
Omnigenumque deum monstra et latrator Anubis
Contra Neptunum et Venerem contraque Minervam
Tela
tenent.
E la vittoria è dovuta non tanto al
Marte romano, quanto all'Apollo ellenico :
Actius
haec cernens arcum intendebat Apollo
Desuper:
omnis eo terrore Aegyptus et Indi
Omnis
Arabs omnes vertebant terga Sabaei.
Effettivamente, la vittoria di Augusto
salvò la civiltà europea dall'assorbimento da parte dell'antico
Oriente o dall'inondazione dei barbari occidentali, e iniziò un
nuovo periodo di espansione per la cultura classica. Nell'Oriente
l'Impero romano cooperò con le forze dell'ellenismo a estendere la
civiltà greca e la vita municipale. Nell'Occidente portò l'Europa
occidentale e centrale nell'orbita della civiltà mediterranea e creò
un solido baluardo contro l'invasione barbarica. Augusto e i suoi
generali completarono l'opera di Cesare avanzando le frontiere
dell'Impero fino al Danubio, dalle sorgenti al Mar Nero, e,
quantunque fallissero nel grande piano di conquista della Germania
fino all'Elba, fecero almeno della Germania meridionale e della valle
del Reno una parte del mondo romano.
Da allora, per più di quattrocento
anni, l'Europa centrale e occidentale venne assoggettata a una
romanizzazione progressiva, che influì su ogni aspetto della vita e
costituì una base duratura per i successivi sviluppi della civiltà
europea. L'Impero romano consisteva essenzialmente nella fusione di
una dittatura militare con una società di stati cittadini. Questi
ultimi erano gli eredi delle tradizioni della cultura ellenistica, in
forma pura o latinizzata, mentre la prima rappresentava insieme la
tradizione militare latina e quella delle, grandi monarchie
ellenistiche alle quali si era sostituita.
A prima vista l'aspetto più notevole
dell'opera di Roma è quello militare, ma il processo civile di
urbanizzazione è anche più importante nella storia della cultura.
La missione essenziale di Roma fu d'introdurre la città nell'Europa
continentale, e con la città venne l'idea di cittadinanza e quella
tradizione civica che era stata la più alta creazione della cultura
mediterranea. Il soldato e l'ingegnere militare romano furono gli
agenti di questa espansione: l'esercito stesso, anzi, venne
organizzato da Augusto come una preparazione alla cittadinanza e un
mezzo per la diffusione della cultura e degli istituti romani nelle
nuove province.
Inoltre, non soltanto le colonie di
veterani, come Colonia, Treviri, Aquileia e Merida, ma altresì le
fortezze e le basi legionarie, coma Sirmio, York o Magonza, divennero
centri d'influsso romano e di vita cittadina. Nella maggioranza dei
casi, tuttavia, l'urbanizzazione delle nuove terre venne effettuata
riorganizzando sul modello del municipio italico le già esistenti
comunità tribali celtiche oppure aggregando i territori delle tribù
più arretrate a un centro urbano già esistente. In questo modo si
costituì una regolare gerarchia di comunità, che andava da una base
di tribù barbariche o populi, attraverso le città
provinciali e i municipi di diritto latino, a una sommità di colonie
con cittadinanza.
Così per tutto l'Impero s'andava
svolgendo un continuo processo di assimilazione e di livellamento,
per il quale gli stati associati diventavano province, le città
provinciali diventavano colonie, e ai provinciali venivano concessi i
diritti di cittadinanza.
Ogni città era il centro politico e
religioso di un territorio rurale, e la classe dei proprietari
terrieri costituiva il ceto dirigente dei cittadini.
Accadeva normalmente che il liberto o
colui che si era arricchito nei commerci investisse il suo denaro
nella terra, e cosi venisse iscritto come decurione nella lista di
coloro che erano eleggibili agli uffici municipali, mentre di solito
il decurione ricco otteneva la cittadinanza romana, e secondo la sua
posizione finanziaria nei registri del censo poteva eventualmente
giungere al grado di cavaliere o di senatore. Le grandi proprietà
senatorie, è tanto più quelle appartenenti all'imperatore e al
fisco imperiale, erano organizzate indipendentemente dal locale
territorio cittadino, ma era un punto d'onore per ogni senatore
romano concorrere con le sue ricchezze all'abbellimento e ai bisogni
della sua città natta, come vediamo nel caso di Plinio o di Erode
Attico. Inoltre il governo centrale era ben lungi dall'essere un
semplice esattore di imposte. Nerva e Traiano stabilirono un fondo
per sovvenire i proprietari italici con prestiti a un modico tasso, i
profitti del quale servivano a promuovere l'incremento della
popolazione sotto forma di sovvenzioni a genitori poveri e ad orfani.
Questo sistema venne più tardi esteso alle province.
L'ordinario cittadino benestante era ad
un tempo residente urbano e campagnolo, poiché oltre alla casa
cittadina possedeva il suo fondo rurale con la famiglia degli schiavi
e i coloni dipendenti facenti capo alla villa, e questa combinava gli
edifici rustici con la residenza sovente sontuosa del padrone. Nella
Britannia e nel nord della Francia la città era poco più di un
centro amministrativo, e i cosiddetti cittadini vivevano
essenzialmente nelle loro terre; tuttavia, la loro cultura
partecipava della regolare civiltà urbana del resto dell'Impero,
come ci attestano gli abbondanti avanzi di ville dell'Inghilterra,
coi loro bagni, col riscaldamento centrale e i pavimenti a mosaico.
Nella Francia settentrionale e nel Belgio questi fondi rurali
mantennero la loro identità attraverso le invasioni barbariche e
tutto il Medioevo, e ancora ai nostri giorni portano nomi derivati da
quelli dei loro primitivi proprietari gallo-romani.
Durante i due primi secoli dell'Impero
questo sistema portò a uno sviluppo straordinariamente rapido della
vita urbana e della prosperità economica nelle nuove province. Nella
Gallia e nella Spagna non soltanto le forme esteriori della vita
civica, ma la cultura sociale e intellettuale del mondo
romano-ellenistico vennero diffuse per tutto il paese, mentre sul
Reno e sul Danubio si assisteva a uno sviluppo egualmente rapido
della colonizzazione agricola e della prosperità commerciale.
Persino le regioni più lontane, come la Britannia e la Dada,
condividevano la generale prosperità, e s'iniziarono alla superiore
civiltà del mondo mediterraneo. L'Impero tutto quanto era
socialmente vincolato dalle leggi e da una cultura comuni, e
materialmente da un vasto sistema di strade, che rendevano le
comunicazioni più facili e più sicure che in qualunque altra epoca
prima del secolo XVII.
Nel secolo II, sotto il saggio governo
dei grandi imperatori Flavi e Antonini, questo movimento di
espansione toccò il suo pieno sviluppo. Mai il mondo antico era
parso più prospero, più incivilito o più pacifico. Pareva che Roma
avesse attuato l'ideale stoico di uno stato mondiale in cui tutti gli
uomini vivessero in una vicendevole pace sotto il governo di una
monarchia giusta e illuminata. Eppure le apparenze ingannavano.
Tutta questa brillante espansione di
civiltà cittadina aveva in se stessa i germi della sua decadenza.
Era uno sviluppo esteriore e superficiale, come quello della moderna
civiltà europea in Oriente oppure nella Russia settecentesca. Era
una cosa imposta dall'alto e le popolazioni soggette non
l'assimilarono mai del tutto. Era essenzialmente la civiltà di una
classe oziosa, la borghesia urbana e i suoi clienti, e per quanto il
processo di urbanizzazione promovesse l'avanzare della civiltà, esso
implicava anche un vasto aumento di spese improduttive e un crescente
salasso ai mezzi dell'Impero. Come ha detto il Rostovtzeff, ogni
nuova città implicava la creazione di un nuovo alveare di pecchioni.
L'espansione della civiltà urbana
nell'epoca imperiale fu, infatti, in un grado anche più intenso che
nell'industrialismo moderno, un grande sistema di sfruttamento che
organizzò le risorse delle terre nuovamente acquisite e le concentrò
nelle mani di una minoranza fatta di capitalisti e di uomini
d'affari; e siccome la base del sistema era la proprietà terriera
piuttosto che l'industria, esso risultò meno elastico e meno capace
di adattamento alle esigenze di una crescente popolazione urbana.
Finché l'Impero andò espandendosi, il sistema apparve redditizio,
poiché ogni nuova guerra dava novelli terrìtori da urbanizzare e
nuove provviste di mano d'opera a buon mercato. Ma, appena il
processo d'espansione volse al termine e l'Impero fu costretto a
mantenersi sulla difensiva contro nuove invasioni barbariche,
l'equilibrio economico si ruppe. I mezzi dell'Impero cominciarono a
venire meno, mentre le sue spese continuavano a crescere. Il governo
imperiale fu costretto ad aumentare le imposte e gli altri oneri
delle città, e la ricca aristocrazia municipale, che forniva alle
città magistrati e amministratori non stipendiati ed era
collettivamente responsabile del pagamento delle imposte, andò poco
alla volta in rovina.
E nello stesso tempo il progresso
dell'urbanizzazione indebolì anche le fondamenta militari del
sistema imperiale. L'esercito era il cuore dell'Impero. Tutto quel
cosmopolitico miscuglio di razze e religioni, coi loro divergenti
interessi di classe e di città, era in ultima analisi tenuto insieme
da un esercito di soldati di mestiere relativamente piccolo ma
intensamente addestrato, che era tuttavia una perenne sorgente di
pericolo. Giacché questa tremenda macchina di guerra era troppo
forte e troppo bene organizzata per lasciarsi controllare dagli
organi costituzionali di uno stato cittadino. Già all'inizio del
secolo I a. C., l'antico esercito cittadino della repubblica era
diventato un esercito professionale di mercenari nelle mani di
generali che erano per metà politicanti e per metà avventurieri
militari. La più grande delle imprese di Augusto fu di padroneggiare
lo sviluppo mostruoso del militarismo romano e restaurare l'ideale di
un esercito cittadino, non certo nel vecchio senso, ma nella sola
forma ancor possibile nelle nuove condizioni. Secondo il disegno di
Augusto l'esercito delle legioni doveva essere una scuola di civismo,
comandato da cittadini romani di origine italica e reclutato in parte
nell'Italia e in parte nelle comunità urbane delle regioni
dell'Impero più romanizzate3.
L'arruolamento nell'esercito portava con sé il diritto di
cittadinanza, e quando era trascorsa la lunga ferma di servizio –
sedici o vent'anni - , il soldato riceveva un premio in denaro o in
terreni e rientrava nella vita civile nella sua città natia oppure
come membro di una delle colonie militari che venivano continuamente
impiantate nelle province confinarie come centri di cultura e
d'influsso romano. Così, nonostante le dure condizioni del servizio,
l'esercito offriva una strada sicura di miglioramento sociale e
persino economico, e attirava volontari dagli elementi migliori della
popolazione. In ogni città italica, e dopo Vespasiano anche nelle
città provinciali, le corporazioni dei cadetti - collegia juvenum
- addestravano i figli dei cittadini al servizio militare, mentre i
veterani occupavano nella vita municipale un posto onorato e
influente.
A poco a poco, tuttavia, questo sistema
perse la sua efficacia. La popolazione dell'Italia e delle province
più romanizzate si fece sempre meno idonea al servizio militare, e
l'esercito cominciò a perdere la sua connessione con le classi
cittadine. Al tempo di Vespasiano l'esercito, con la sola eccezione
della guardia pretoriana acquartierata in Roma, divenne completamente
provinciale nei suoi elementi, e più nessun italico servì nelle
legioni, mentre nel secolo II, dal regno di Adriano in poi, il
principio del reclutamento locale divenne predominante e le legioni
s'identificarono a poco a poco con le province di confine, alle quali
servivano di presidio. Cosi l'esercito perse gradualmente ogni
contatto con la popolazione cittadina delle regioni più urbanizzate
dell'Impero e divenne una classe a parte, con un forte senso di
solidarietà sociale. Già nel secolo I lo "spirito di corpo"
degli eserciti del Reno, del Danubio e delle province orientali era
stato responsabile della rovinosa guerra civile del 69 d. C., e
divenne un pericolo anche più serio quando le truppe cominciarono a
reclutarsi in uno strato sociale ancor più basso. Alla fine del
secolo II l'esercito era composto, nella sua quasi totalità,
d'individui di origine contadina romanizzati soltanto a metà, tutto
l'interesse e la fedeltà dei quali s'accentravano nei singoli corpi
e comandanti. Ma i comandanti, che appartenevano alle classi
superiori - senatori e cavalieri - e non sempre erano legati da una
consuetudine quotidiana all'esercito, erano sovente semplici uomini
di paglia. Il potere reale nell'esercito lo avevano gli ufficiali
delle compagnie, i centurioni, che nella maggior parte venivano dalla
bassa forza e dedicavano tutta la loro esistenza alla professione.
Nelle guerre civili che seguirono alla caduta di Commodo nel 193,
l'esercito si rese conto del suo potere e Settimio Severo fu
costretto ad accrescerne i privilegi, specialmente quelli dei
centurioni, che ottennero il grado di cavalieri e divennero cosi
eleggibili ai comandi superiori.
Da allora in poi gli imperatori furono
indotti a far propria la massima di Settimio Severo: "Arricchisci
il soldato e infischiati del resto". Il vecchio contrasto fra
stato cittadino ed esercito mercenario, fra ideali civici e
despotismo militare, - quel contrasto che aveva già distrutta la
repubblica e che l'opera di Augusto aveva momentaneamente rimosso, -
ricomparve ora in una forma più seria che mai, e distrusse
l'equilibrio sociale del sistema imperiale. L'Impero perse a poco a
poco il suo carattere costituzionale di una comunità di stati
cittadini governati dalla duplice autorità del Senato romano e del
Principe, e divenne un mero despotismo militare. Nel corso del secolo
III, e soprattutto nei disastrosi cinquant'anni dal 235 al 285, le
legioni fecero e disfecero imperatori a piacer loro, e il mondo
civile fu lacerato dalle guerre intestine e dalle invasioni
barbariche. Molti di questi imperatori erano galantuomini e soldati
di fegato, ma quasi senza eccezione erano ex centurioni, per la
massima parte uomini di bassa origine e scarsa educazione, chiamati
dalla caserma a dominare una situazione che avrebbe messo a dura
prova le capacità del più grande degli statisti.
Non è quindi da stupire che le
condizioni economiche dell'Impero andassero di male in peggio nelle
mani di quella serie di caporali. Per venire incontro alle richieste
dei soldati e alle necessità belliche, fu inevitabile un enorme
aggravio delle 'imposte; e nello stesso tempo l'inflazione della
moneta, che nella seconda metà del secolo aveva raggiunto
proporzioni vastissime4
produsse un rovinoso rialzo nei prezzi e la rottura della stabilità
economica. Il governo ne fu costretto a ricorrere a un sistema di
servizi obbligatori e di contribuzioni forzate in natura, che
aumentarono le angustie della popolazione soggetta.
Cosi l'anarchia militare del secolo in
causò un profondo mutamento nella costituzione della società
romana. Secondo il Rostovtzeff, questo mutamento fu nientemeno che
una rivoluzione sociale, in cui la classe sfruttata dei contadini per
mezzo dell'esercito si vendicò dell'agiata e colta borghesia
cittadina5.
Questo è forse dir troppo, ma, se anche non vi fu un consapevole
conflitto di classe, il risultato fu il medesimo. Le città
provinciali e le classi possidenti andarono in rovina, e l'antica
aristocrazia senatoria fu sostituita da una nuova casta militare di
origini essenzialmente contadine.
Alla fine l'anarchia militare venne
fermata e l'Impero restaurato da un soldato dalmata, Diocleziano. Ma
l'Impero non era più lo stesso. Le fondamenta sulle quali aveva
costruito Augusto - il Senato romano, la classe cittadina italica e
gli stati cittadini delle province – avevano perduto ogni forza..
Non rimanevano se .non il governo imperiale e l'esercito dell'Impero:
con la conseguenza che l'opera della restaurazione dovette venir
eseguita dall'alto attraverso un'organizzazione burocratica tra le
più assolute. I germi di questo sviluppo erano stati presenti
nell'Impero fin dall'inizio; giacché, sebbene in Occidente
l'imperatore fosse in teoria soltanto il primo magistrato della
repubblica e il comandante delle legioni, in Oriente occupava una
posizione assai diversa. Era l'erede della tradizione delle grandi
monarchie ellenistiche, che a loro volta ereditavano le tradizioni
degli antichi stati orientali.
Questo era, soprattutto, il caso
dell'Egitto, che non era mai stato annesso alla repubblica e che
Augusto aveva acquisito come dominio personale dell'imperatore e
amministrava direttamente per mezzo di funzionari imperiali. Cosi gli
imperatori romani era sottentrati ai Tolomei e ai Faraoni,
assumendosi il controllo di una società che incarnava il più
completo sistema di socialismo di stato che il mondo antico avesse
mai conosciuto. "In diretta opposizione con la struttura della
vita economica in Grecia e in Italia, - scrive il Rostovtzeff, -
l'intera organizzazione economica dell'Egitto era fondata sul
principio dell'accentramento e del controllo governativo, come pure
della nazionalizzazione di ogni prodotto sia agricolo che
industriale. Tutto era per lo Stato e attraverso lo Stato, nulla per
l'individuo... In nessun altro momento dell'evoluzione del genere
umano si possono trovare limitazioni così estensive e sistematiche
come quelle imposte alla proprietà privata nell'Egitto tolemaico"
6.
La storia sociale ed economica del
Basso Impero è la storia dell'estensione al resto delle province dei
principi fondamentali di questo sistema egiziano-ellenistico.
L'amministrazione delle vaste tenute imperiali, lo sviluppo della
gerarchia dei funzionari, il regime d'imposte in natura e di
prestazioni forzate, e soprattutto la limitazione delle classi
sociali nelle corporazioni ereditarie e l'obbligo fatto
all'agricoltore di non lasciare il suo podere né l'artigiano o il
mercante la sua professione, erano istituti già pienamente
sviluppati in Egitto secoli prima che si giungesse ad applicarli al
resto dell'Impero. Il sistema delle prestazioni statali obbligatorie
- liturgie o munera - era tuttavia comune all'Oriente ellenistico, e
aveva cominciato fin dal secolo II a far sentire il suo influsso in
Occidente. L'opera di Diocleziano, quindi, non fu di introdurre un
principio nuovo, ma di fare di queste istituzioni orientali una parte
essenziale del sistema dell'Impero. Le antiche istituzioni dello
stato cittadino, che poggiavano sulla proprietà privata e su una
privilegiata classe cittadina, erano diventate un anacronismo, e in
luogo loro sorse uno stato unitario burocratico fondato sul principio
della prestazione universale.
A Diocleziano e ai suoi successori
toccò il compito di riorganizzare su queste basi l'amministrazione e
le finanze dell'Impero. E, sebbene tutto ciò conducesse senza dubbio
a un enorme accrescimento degli oneri economici del popolo e a un
declino delle libertà sociali e politiche, noi che viviamo nella
quarta decade del secolo XX siamo in una posizione ben più propizia
che gli storici del XVIII e del XIX, per comprendere i problemi di
quel tempo e rendere giustizia alla caparbia tenacia con cui questi
duri imperatori illirici lottarono contro le forze sociali ed
economiche che minacciavano di sommergere la civiltà antica. Almeno,
Diocleziano riuscì nei suoi propositi essenziali: di stornare
l'invasione barbarica e di mettere fine allo stato di anarchia
militare che distruggeva l'Impero. Ciò egli effettuò con una
drastica riorganizzazione del sistema militare romano. Roma aveva
seguito fin dai primordi il principio fondamentale che l'autorità –
l’imperium - era indivisibile, e che i magistrati supremi, i
consoli, e i loro rappresentanti nelle province, i proconsoli, erano
ex affido i comandanti delle legioni; e sotto l'Impero regnarono le
stesse condizioni rispetto all'imperatore e ai suoi rappresentanti
provinciali: i legati. In teoria questo principio assicurava allo
Stato il controllo sull'esercito, ma finì col dare all'esercito,
durante il tramonto, della repubblica e poi nel terzo secolo
dell'Impero, il controllo sullo Stato. Diocleziano pose fine a tutto
ciò, effettuando una radicale separazione dei poteri civile e
militare. L’esercito e il servizio civile vennero costituiti come
due gerarchie indipendenti, riunite soltanto nel loro capo comune :
l'imperatore. Il governatore provinciale non era più, nell'ambito
della sua provincia, una sorta di viceré. Non aveva nessun controllo
sulle truppe, e la provincia, che sotto i successori di Diocleziano
fu assai ridotta di dimensioni, venne raggruppata con parecchie altre
sino a formare una diocesi, sottoposta a un nuovo funzionario,
il vicario, che era direttamente responsabile davanti al prefetto del
pretorio, primo ministro dell'Impero. Allo stesso modo l'esercito
subì un consimile processo di riorganizzazione. Le grandi armate
confinarie del Reno, del Danubio e dell'Oriente, le rivalità e le
rivolte delle quali avevano prodotto tante guerre civili, furono
sostituite da truppe di seconda linea, formate da una classe
ereditaria di soldati contadini, mentre le truppe scelte vennero
dislocate dietro le frontiere in qualità di esercito campale pronto
a servire da massa d'urto dovunque ce ne fosse bisogno.
Contemporaneamente la storica legione di 5.400 uomini coi suoi
ausiliari venne ridotta a un reggimento di 1.000-1.400 uomini
comandati da un tribuno, e sottoposta al controllo non del
governatore civile ma di un nuovo funzionario militare: il duca. Il
comando supremo era nelle mani dell'imperatore in persona; e
Diocleziano, poiché non poteva trovarsi dappertutto
contemporaneamente, si rifece al vecchio principio romano
dell'autorità associata, e prese con sé prima il suo collega
Massimiano, al quale affidò la difesa delle frontiere occidentali,
poi, come imperatori subalterni, i Cesari Costanzo e Galerio. C'era
adesso un imperatore per frontiera. Da Treviri Costanzo vigilava sul
Reno e la Britannia; Galerio a Sirmio, a ovest di Belgrado,
controllava il Danubio; mentre i colleghi più anziani occupavano le
posizioni-chiave della seconda linea: Massimiano Milano, per
difendere l'Italia, e Diocleziano Nicomedia, il centro strategico
dell'Impero, donde poteva tenere d'occhio il Danubio a nord e la
frontiera persiana a est. Così Roma non era più il centro
dell'Impero. Venne lasciata a covare la memoria delle sue glorie
passate, mentre la marea della civiltà rifluiva verso Oriente.
L'opera di Diocleziano trovò il suo coronamento in quella di
Costantino che diede al nuovo Impero una nuova capitale e una nuova
religione, e inaugurò cosi una nuova civiltà che non era più
quella del mondo classico.
Eppure, nonostante questi profondi
mutamenti, l'opera di Roma non andò distrutta. Anzi, solo in questo
tardo periodo l'unità sociale dell'Impero si attuò in modo completo
e i suoi abitanti divennero pienamente consci del carattere
universale dello Stato romano. Fuori dell'Italia il primitivo Impero
era stato un potere straniero imposto dall'alto su un certo numero di
società vinte; esso non trattava, in fondo, con gli individui, ma
con le comunità soggette. Per l'uomo ordinario lo Stato non era
l'Impero romano, ma la città natia. Solo quando la burocrazia
imperiale usurpò via via le funzioni dell'antica amministrazione
cittadina la locale cittadinanza di ciascuno divenne subordinata alla
sua appartenenza all'Impero.
Così la decadenza delle antiche
costituzioni cittadine non fu una calamità assoluta, dacché
s'accompagnò con lo sviluppo della cittadinanza imperiale. Il secolo
III, che vide sorgere uno stato burocratico accentrato, vide anche
l'estensione della cittadinanza romana ai provinciali e la
trasformazione della legge romana da possesso di una classe
privilegiata a legge comune dell'Impero. E questo sviluppo non
rispondeva soltanto al desiderio del governo centrale di aumentare il
suo controllo sui sudditi, ma aveva pure una base negli ideali
sociali e politici dell'epoca. Questi ideali andavano ormai
esprimendosi negli scritti dei letterati greci, come Dione Crisostomo
ed Elio Aristide, che furono i rappresentanti di quel risveglio un
po' accademico della cultura classica, che caratterizzò il secolo II
d. C. Essi vedevano nell’Impero romano la realizzazione del
tradizionale concetto ellenistico dell'unità del mondo civile, la
oicuméne, e ponevano davanti agli imperatori l’ideale stoico di
una monarchia illuminata nella quale il principe dedica la vita al
servizio dei suoi sudditi e considera il governo non come un
privilegio ma come un dovere. Così i grandi imperatori del secolo II
che posero le fondamenta del regime burocratico, da Traiano a Marco
Aurelio, non ebbero nessuna intenzione di distruggere la libertà
civica. Il loro ideale era quello descritto da Marco Aurelio come
"l'ideale di un regime in cui c'è una stessa legge per tutti,
un regime amministrato a garanzia di uguali diritti e uguale libertà
di parola, e l'ideale di un governo regio, che rispetta più di tutto
la libertà dei governati"7.
Il medesimo ideale ispirò i grandi giuristi del secolo seguente,
come Ulpiano e Papiniano, per opera dei quali gli umani e illuminati
principi del periodo antonino vennero incorporati nelle tradizioni
della legge romana successiva. Queste idee non scomparvero mai
interamente nemmeno nei più foschi periodi del Basso Impero. I
Romani sentivano che l'Impero impersonava tutto ciò che vi era nel
mondo di civile, di giusto e di libero, e ancora nel secolo VII
amavano ripetere l'antico detto che, unico tra i potenti della terra,
l'imperatore romano governava uomini liberi, mentre i capi dei
barbari tiranneggiavano schiavi 8.
Non dobbiamo credere che il
patriottismo romano fosse dileguato perché gli istituti dello stato
cittadino erano moribondi e l'Impero stesso pareva andare in rovina.
Al contrario, proprio in questo periodo incontriamo la più limpida
consapevolezza di ciò che il mondo doveva all'opera di Roma. Essa
permea tutta la letteratura del secolo V ed è comune agli scrittori
sia pagani che cristiani 9.
È il culto di Roma, piuttosto che una credenza negli dèi pagani,
che spiega l'attaccamento di conservatori aristocratici come Simmaco
all'antica religione, e introduce una nota di genuina passione e
persuasione nell'artificiosa poesia di Claudiano e Rutilio Namaziano.
C'è qualcosa di commovente nella devozione che il senatore gallo
Namaziano nutre per Roma, "la madre degli dèi e degli uomini",
nelle sue sventure, e nella fiducia che essa saprà risollevarsi
dalle rovine che le sono toccate : "Ordo renascendi est crescere
posse malis" ; "la legge del progresso è di avanzare tra
le sventure".
Ma il supremo diritto di Roma alla
fedeltà di Namaziano e Claudiano, l'uno gallo, l'altro egizio, è
fondato sulla generosità con la quale essa ha concesso ai popoli
vinti di partecipare alle sue leggi, trasformando il mondo intero in
una sola città 10.
"Essa - scrive Claudiano - sola accolse i vinti nel suo seno e
abbracciò il genere umano sotto un sol nome" 11.
E queste idee non sono peculiari ai difensori della perduta causa
della vecchia religione; sono egualmente caratteristiche di scrittori
cristiani come Ambrogio, Orosio e Prudenzio. Anzi, Prudenzio diede un
significato ancor più ampio al concetto dell'universale missione di
Roma, in quanto lo mise in organico rapporto con gli ideali della
nuova religione mondiale. "Qual è - egli chiede - il segreto
dello storico destino di Roma? È che Dio desidera l'unità del
genere umano, perché la religione di Cristo chiede un fondamento
sociale di pace e di amicizia fra le nazioni. Sinora la terra intera
da oriente a occidente è stata straziata da una guerra continua. Per
reprimere questa follia il Signore insegnò alle nazioni a ubbidire
alle medesime leggi e a diventare tutte romane. Noi vediamo ora tutti
vivere come cittadini di una sola città e membri di una comune
famiglia. La gente viene da terre lontane oltremare a un Foro comune
per tutti, e i popoli sono congiunti dal commercio, dalla cultura e
dalle nozze. Dalla mescolanza dei popoli è nata un'unica stirpe.
Questo è il significato di tutte le vittorie e i trionfi dell'Impero
romano: la pace romana ha aperto la via per la venuta di Cristo.
Poiché quale luogo poteva esserci per il Signore e per
l'accettazione della verità, in un mondo selvaggio dove gli uomini
non pensavano, che a guerreggiare, e non esisteva una base comune di
leggi? ". E conclude :
En ades omnipotens, concordibus influe terris!
jam mundus te, Christe, capit, quem congrege nexu
Pax
et Roma tenent 12
Cosi Prudenzio, sebbene non avesse
l'idea, più di Claudiano o Namaziano, della prossima caduta
dell'Impero d'Occidente, divinava con vista quasi profetica il vero
significato dei mutamenti che avvenivano nel mondo antico. La nuova
Roma cristiana, di cui Prudenzio salutava l'avvento, era invero
destinata a ereditare la tradizione romana e a preservare in un mondo
mutato l'antico ideale dell'unità romana. Poiché a Roma i nuovi
popoli andavano debitori dell'idea che una comune civiltà fosse
possibile. Attraverso tutto il caos dei secoli oscuri che stavano per
seguire, gli uomini vagheggiarono la memoria della pace e dell'ordine
universale dell'Impero romano, con la sua religione, la sua legge, e
la sua cultura comuni: e i ripetuti sforzi del Medioevo per ritornare
al passato e recuperare quella perduta unità e civiltà guidarono i
popoli nuovi verso il futuro e prepararono la via all'avvento di una
nuova cultura europea.
II. LA CHIESA CATTOLICA
L'influsso del cristianesimo sulla
formazione dell'unità europea è un notevole esempio del modo come
il corso dello sviluppo storico viene modificato e determinato
dall'intervento di nuovi influssi spirituali. Non si può spiegare la
storia come un ordine chiuso nel quale ogni stadio sia il logico e
inevitabile risultato di ciò che è avvenuto prima. C'è sempre in
essa un elemento misterioso e inspiegabile, dovuto non solo
all'influsso del caso o all'iniziativa del genio individuale, ma
anche alla potenza creatrice delle forze spirituali.
Così nel caso del mondo antico, noi
comprendiamo che all'artificiosa civiltà materiale dell'Impero
romano era necessaria una qualche ispirazione religiosa ben più
profonda di quella contenuta nei culti ufficiali dello stato
cittadino; e avremmo potuto congetturare che questa deficienza
spirituale avrebbe prodotto un'infiltrazione d'influssi religiosi
orientali, quale appunto ebbe luogo nell'epoca imperiale. Ma nessuno
avrebbe saputo predire l'effettiva comparsa del cristianesimo e il
modo in cui doveva trasformare la vita e il pensiero della civiltà
antica.
In verità, la religione destinata a
conquistare l'Impero romano e a identificarsi permanentemente con la
vita occidentale era di pura origine orientale e non aveva radici nel
passato europeo e nelle tradizioni della civiltà classica. Ma il suo
orientalismo non era quello del cosmopolitico mondo di sincretismo
religioso in cui la filosofia greca si fondeva coi culti e le
tradizioni dell'antico Oriente, bensì quello di un'unica e
individualissima tradizione nazionale che si teneva gelosamente in
disparte dagli influssi religiosi del suo ambiente orientale, come
pure da ogni contatto con la predominante cultura occidentale.
Gli Ebrei furono il solo popolo
dell'Impero che si mantenne ostinatamente fedele alle sue tradizioni
nazionali, malgrado le seduzioni della cultura ellenistica, che gli
altri popoli del Levante accettavano anche più avidamente che i loro
discendenti non abbiano accolto la civiltà dell'Europa moderna.
Sebbene il cristianesimo per la sua stessa natura avesse rotto con
l'intransigenza nazionalistica del giudaismo e avesse assunto una
missione universale, tuttavia rivendicava per sé la successione di
Israele e fondava il suo appello non sui comuni principi del pensiero
ellenistico ma sulla pura tradizione ebraica rappresentata dalla
Legge e dai Profeti. La Chiesa primitiva si considerava come il
secondo Israele, come l'erede del Regno promesso al popolo di Dio; e
per conseguenza conservava quell'ideale di segregazione spirituale e
quello spirito d'irreconciliabile opposizione al mondo dei Gentili
che avevano ispirato l'intera tradizione ebraica.
Fu questo senso di storica continuità
e di solidarietà sociale a distinguere la Chiesa cristiana dalle
religioni misteriosofiche e dagli altri culti orientali dell'epoca, e
a farne fin dall'inizio la sola vera rivale da porre accanto
all'ufficiale unità religiosa dell'Impero. È anche vero che essa
non tentò di osteggiare o di sostituire l'Impero romano come
organismo politico. Era una società soprannaturale, un regime del
mondo a venire, e riconosceva i titoli e i diritti dello stato
nell'ordine presente. Ma, d'altra parte, non poteva accettare gli
ideali della cultura ellenistica né cooperare alla vita sociale
dell'Impero. L'idea di cittadinanza, che era l'idea fondamentale
della cultura classica, venne trasposta dal cristianesimo nell'ordine
spirituale. Nell'ordine sociale esistente i cristiani erano
peregrini, estranei e forestieri; la loro cittadinanza vera era nel
Regno di Dio, e anche nel mondo presente i loro più vitali rapporti
sociali consistevano nell'appartenenza alla Chiesa, e non alla città
o all'Impero.
Così la Chiesa, se non uno stato entro
lo Stato, era per lo meno una società compiuta e autonoma. Aveva la
sua organizzazione e gerarchia, il suo sistema di governo e di
diritto, le sue norme di appartenenza e iniziazione. Essa faceva
appello a tutti coloro che non potevano trovare soddisfazione
nell'ordine esistente, ai poveri e agli oppressi, alle classi senza
privilegi, soprattutto a coloro che si rivoltavano contro la vacuità
e la corruzione spirituale della materialistica cultura dominante, e
sentivano il bisogno di un nuovo ordine spirituale e di una nuova
visione religiosa della vita. E cosi divenne il centro di raccolta
delle forze di malcontento e opposizione alla cultura dominante, in
un senso ben più profondo che non avrebbe potuto fare qualunque
movimento di ribellione politica o economica. Fu una protesta non
contro l'ingiustizia materiale, ma contro gli ideali spirituali del
mondo antico e tutta la sua etica sociale.
Quest'opposizione trovò un'ispirata
espressione nel libro dell’Apocalisse, che venne composto nella
provincia d'Asia in un tempo in cui la Chiesa era minacciata di
persecuzione per la pubblica messa in vigore dell'obbligo del culto
imperiale di Roma e dell'imperatore: l'età di Domiziano. Il clero
statale organizzato nelle città della provincia vi è descritto come
il falso profeta che costringe gli uomini ad adorare la Bestia
(l'Impero romano) e la sua immagine, e a ricevere il suggello senza
il quale nessuno può comprare ne vendere. La stessa Roma, che
Virgilio aveva descritta "simile alla frigia madre degli dèi,
incoronata di torri, che si rallegra della sua prole divina" 13,
appare ora come la Donna seduta sulla Bestia, la madre delle
meretrici e abominazioni, ebbra del sangue dei santi e del sangue dei
martiri di Gesù. E tutte le schiere celestiali e le anime dei
martiri vi appaiono in attesa del giorno della vendetta, quando la
potenza della Bestia andrà distrutta e Roma sarà lasciata cadere
per sempre, come una macina nel mare.
È questa un'impressionante
testimonianza sull'addensarsi delle forze di ostilità e di condanna
spirituale che minavano le fondamenta etiche della potenza romana.
L'Impero s'era alienate le forze più valide e vive dell'epoca, e fu
quest'intima contraddizione, ben più che non la guerra o l'invasione
dall'esterno, a causare la rovina della civiltà antica. Prima ancora
che i barbari irrompessero nell'Impero e il collasso economico
avvenisse, la vita aveva abbandonato lo stato cittadino, e lo spirito
della civiltà classica agonizzava. Ancora si costruivano le città
coi loro templi, le loro statue e i loro teatri, come nell'epoca
ellenistica, ma ormai non erano che una vuota facciata che nascondeva
la decadenza interna. Il futuro stava con la Chiesa infante.
Nondimeno, il cristianesimo consegui la
sua vittoria solo dopo una lotta lunga e atroce. La Chiesa crebbe
all'ombra delle verghe e delle scuri del carnefice, e ogni cristiano
viveva nel pericolo della tortura fisica e della morte. Il pensiero
del martirio tinse di sè tutta la concezione del cristianesimo
primitivo. Non era soltanto un timore, era anche un ideale e una
speranza. Poiché il martire era il perfetto cristiano. Era il
campione e l'eroe della società novella nel suo conflitto con la
vecchia, e persino i cristiani venuti meno nell'ora della prova - i
lapsi - guardavano ai martiri come ai loro salvatori e
patroni. Non abbiamo che da leggere le epistole di san Cipriano o i
Testimonia ch'egli compilò come manuale per i "milites Christi"
oppure il trattato De laude martyrum che va sotto il suo nome,
per comprendere l'esaltazione appassionata che l'ideale del martirio
produceva nelle menti cristiane. Essa raggiunge quasi un'espressione
lirica nel seguente passo della lettera di san Cipriano a Nemesiano,
passo meritamente famoso :
O
piedi santamente inceppati, che non venite disciolti dal fabbro, ma
dal Signore! O piedi santamente inceppati, che salite al paradiso sul
cammino della salvezza! O piedi inceppati adesso nel mondo, perché
possiate essere liberi per sempre nel Signore! O piedi che indugiate
per breve ora fra i ceppi e le sbarre, ma per correre veloci a Cristo
sulla strada gloriosa! Che la crudeltà, invidiosa o maligna, vi
tenga qui nei suoi ferri e nelle sue catene fin che vorrà; da questa
terra e da queste sofferenze voi salirete prontamente al Regno dei
Cieli. Il corpo nelle miniere non è deliziato con giacigli e
cuscini, ma è deliziato col ristoro e col conforto di Cristo. La
carne spossata dalle fatiche giace prostrata al suolo, ma non è una
pena distendersi con Cristo. Le vostre membra prive di bagno sono
sudicie e sfigurate di lordura; ma dentro esse sono spiritualmente
purificate, se anche la carne è sozza. Là il pane è scarso, ma
l'uomo non vive soltanto di pane bensì della Parola di Dio. Voi
tremate, perché vi mancano i panni; ma colui che si riveste di
Cristo è abbondantemente coperto e adornato. 14
Questa non è la pia retorica di un
predicatore alla moda; è il messaggio di un confessore, che avrebbe
anch'egli ben presto affrontata la morte per la fede, ai vescovi e al
clero suoi colleghi e "al resto dei fratelli nelle miniere,
martiri di Dio".
In un'età in cui l'individuo stava
diventando il passivo strumento di uno Stato onnipotente e
universale, sarebbe difficile esagerare l'importanza di un simile
ideale, che fu come la rocca suprema della libertà dello spirito. Fu
esso che, più d'ogni altro fattore, assicurò il finale trionfo
della Chiesa, poiché chiari a tutti il fatto che il cristianesimo
era l'unica potenza rimasta al mondo che il meccanismo gigante del
nuovo stato servile non poteva assorbire.
E, mentre la Chiesa era impegnata in
questa lotta mortale con lo Stato e la sua cultura ellenistica, le
toccò pure battersi in una guerriglia difficile e oscura contro le
forze crescenti della religione orientale. Sotto una vernice di
cosmopolitica civiltà ellenistica, le tradizioni religiose
dell'antico Oriente erano ancor vive e andavano permeando a poco a
poco il pensiero dell'epoca. Le religioni misteriosofiche dell'Asia
Minore si diffusero nell'Occidente allo stesso modo del
cristianesimo, e la religione di Mitra accompagnò gli eserciti
romani fin sul Danubio, sul Reno e sulla frontiera britannica. Il
culto egizio di Iside, e quelli siriaci di Adonai e di Atargatis,
Hadad di Baalbek e il dio solare di Emesa, seguirono il flusso
crescente del commercio e dell'emigrazione siriaca in Occidente,
mentre nel mondo sotterraneo orientale vedevano la luce nuove
religioni come il manicheismo, e le antichissime tradizioni della
teologia astrale babilonese riapparivano in nuove forme 15.
Ma il prodotto più caratteristico di
questa corrente di sincretismo orientale fu la teosofia gnostica, che
rappresentò per la Chiesa cristiana durante i secoli II e III un
pericolo sempre presente. Questa teosofia era basata sul fondamentale
dualismo dello spirito e della materia e sull'associazione del mondo
materiale col principio malvagio, dualismo derivato più forse da
influssi greci e anatolici che non dalla Persia, dato che lo troviamo
già pienamente sviluppato nella mitologia orfica e nella filosofia
di Empedocle. Ma quest'idea centrale era avvolta in una fitta foresta
di speculazioni magiche e teosofiche, derivate indubbiamente da fonti
babilonesi e orientali.
Questo strano misticismo orientale
possedeva una straordinaria seduzione sulle menti di una società
che, non meno dell'indiana di sei secoli prima, era pervasa da un
profondo senso di delusione e da sete di liberazione. Per
conseguenza, esso per il cristianesimo non fu semplicemente un
pericolo esterno; ma minacciò di assorbirlo del tutto, trasformando
la figura storica di Gesù in un membro della gerarchia dei divini
Eoni, e sostituendo l'ideale della liberazione dell'anima
dall'abbassamento nel mondo materiale agli ideali cristiani di
redenzione del corpo e alla concezione del Regno di Dio come realtà
sociale e storica.
E il suo influsso si fece sentire non
soltanto direttamente nei grandi sistemi cristiano-gnostici di
Valentino e di Basilide, ma anche indirettamente attraverso una
moltitudine di minori eresie orientali che vanno, in catena
ininterrotta, da Simon Mago dell'età apostolica fino ai Pauliciani
del periodo bizantino. Nel secolo II il movimento era divenuto così
forte che s'impadronì di tre fra le più eminenti personalità del
cristianesimo orientale, Marcione in Asia Minore, e Taziano e
Bardesane, i fondatori della nuova letteratura aramaica, in Siria.
Se il cristianesimo fosse stato
semplicemente una delle tante sette e religioni misteriosofiche
orientali dell'Impero, sarebbe inevitabilmente stato assorbito in
questo sincretismo orientale. Sopravvisse perché possedeva un
sistema di organizzazione ecclesiastica e un principio d'autorità
sociale che lo distinguevano da tutti gli altri corpi religiosi
dell'epoca. Fin dall'inizio, come abbiamo veduto, la Chiesa si
considerò come il Nuovo Israele, "una razza eletta, un
sacerdozio regale, una nazione sacra, un popolo a sé" 16.
Questa società sacra era una teocrazia ispirata e governata dallo
Spirito santo, e i suoi reggitori, gli apostoli, erano i
rappresentanti non della comunità ma del Cristo, che li aveva eletti
trasmettendo loro la sua divina autorità. Questa concezione di
un'autorità apostolica divina perdurò come fondamento dell'ordine
ecclesiastico nel periodo postapostolico. I "sovrintendenti"
(episcopi) e gli anziani, reggitori delle chiese locali, erano
considerati i successori degli apostoli, e le chiese che vantavano
una diretta origine apostolica godevano un prestigio e un'autorità
speciali sulle altre.
Questo era soprattutto il caso della
chiesa di Roma, poiché, come Pietro aveva posseduto una posizione
unica fra i Dodici, cosi la chiesa di Roma, che derivava le sue
origini da lui, possedeva una posizione eccezionale fra le altre
chiese. Già nel secolo I, durando quasi ancora l'età apostolica,
abbiamo un esempio di questa supremazia nell'autorevole intervento di
Roma nelle faccende della chiesa di Corinto. La prima epistola di
Clemente ai Corinzi (intorno al 96) offre la più chiara espressione
possibile di quest'ideale di ordine gerarchico ch'era il principio
della nuova società 17.
L'autore afferma che l'ordine è la legge dell'universo. E, come è
il principio della natura esterna, cosi è il principio della società
cristiana. I fedeli debbono osservare la stessa disciplina e
subordinazione gerarchica che caratterizza l'esercito romano. Come
Cristo viene da Dio, cosi gli apostoli da Cristo, e gli apostoli a
loro volta "scelsero i loro primi seguaci, vagliandoli alla
prova dello spirito, per vescovi e diaconi dei futuri credenti. E
sapendo che sarebbero nati contrasti per il titolo di vescovo, in
seguito aggiunsero il codicillo che, cadendo essi addormentati, altri
uomini degni succedessero loro nel ministero”. È quindi essenziale
che la chiesa di Corinto lasci da parte i contrasti e l'invidia e si
sottometta agli anziani legalmente designati, che rappresentano il
principio apostolico dell'autorità divina 18.
La dottrina di san Clemente è
caratteristicamente romana nel suo insistere sull'ordine sociale e
sulla disciplina morale, ma ha anche molto in comune con
l'insegnamento delle epistole pastorali, e non c'è alcun dubbio che
non rappresenti lo spirito tradizionale della Chiesa primitiva. Fu
questo spirito a salvare il cristianesimo dall'affondare nella palude
del sincretismo orientale.
Nella sua polemica contro gli gnostici,
nel secolo successivo, sant’Ireneo fa ripetutamente appello
all'autorità sociale della tradizione apostolica contro le
strapaganti speculazioni della teosofia orientale. "La vera
Gnosi è la parola degli apostoli e l'originaria costituzione della
Chiesa in tutto il mondo”. E anche per lui la chiesa di Roma è il
centro dell'unità e la garante dell'ortodossia 19.
In questo modo la Chiesa primitiva
scampò tanto ai pericoli di eresia e di scisma quanto alla
persecuzione del potere imperiale, e si organizzò come un'universale
società gerarchica di fronte allo stato universale pagano. Di qui
non c'era che un passo fino alla conquista dell'Impero stesso, e allo
stabilirsi come religione ufficiale dello stato riorganizzato da
Costantino. Se lo stesso Costantino nel suo atteggiamento verso il
cristianesimo sia stato mosso da considerazioni politiche è problema
tuttora aperto 20.
Senza dubbio egli era sincero nella convinzione, che esprime nella
sua lettera ai provinciali, d'essere stato suscitato dalla divinità
dall'estremo occidente britannico per distruggere i nemici del
cristianesimo, che altrimenti avrebbero rovinato l'Impero; e questa
credenza può darsi sia stata rafforzata dalla convinzione che
l'ordine e l'universalità della Chiesa cristiana la predestinavano
come spirituale alleata e complemento dell'Impero universale. In ogni
caso, fu questa la luce nella quale il panegirista cristiano
ufficiale di Costantino, Eusebio di Cesarea, interpretò il corso
degli eventi :
Un
Dio solo venne proclamato a tutti gli uomini; e nello stesso tempo
sorse e prosperò un potere universale, l'Impero romano. L'odio
duraturo e implacabile di ciascuna nazione per l'altra era ormai
vinto; e come la conoscenza di un solo Dio e di una sola via di
religione e di salvezza, e la dottrina stessa di Cristo, vennero
notificate a tutti gli uomini, cosi, contemporaneamente, essendo
l'intera potenza dell'Impero romano investita in un solo sovrano, una
pace profonda regnava in tutto il mondo. E cosi, per espressa volontà
del medesimo Dio, due radici di bene, l'Impero romano e la dottrina
della pietà cristiana, germogliarono insieme per il vantaggio del
genere umano.21
Di fatto, il riconoscimento ufficiale
della Chiesa e la sua associazione con lo stato romano divenne il
fattore determinante nello sviluppo di un nuovo ordine sociale. La
Chiesa ottenne la libertà, e in contraccambio apportò all'Impero le
sue riserve di vitalità spirituale e sociale. Durante il Basso
Impero la Chiesa, come organo della coscienza popolare, andò
prendendo sempre più il posto dell'antica organizzazione civica. Non
fu in se stessa causa della caduta dello stato cittadino, che periva
della sua propria debolezza, ma provvide un sostituto nel quale la
vita del popolo potè trovare nuovi modi d'espressione. Le
istituzioni civiche che avevano formata la base della società antica
erano divenute vuoti stampi; di fatto, i diritti politici s'erano
trasformati in obbligazioni fiscali. La cittadinanza del futuro stava
nell'appartenenza alla Chiesa. Nella Chiesa l'uomo ordinario trovava
assistenza materiale ed economica, e libertà spirituale. Le
occasioni di svolgere una spontanea attività sociale e una libera
cooperazione, negate dal despotismo burocratico dello Stato,
continuavano a esistere nella società spirituale della Chiesa, e per
conseguenza il meglio del pensiero e della capacità pratica
dell'epoca era dedicato al suo servizio.
Cosi in ogni città del Basso Impero a
fianco dell'antico corpo cittadino incontriamo il nuovo popolo della
Chiesa cristiana, la plebs Christi, e come quello perdeva i
suoi privilegi sociali e i diritti politici, questo ne andava a poco
a poco prendendo il posto. Allo stesso modo, la potenza e il
prestigio del clero - l'ordo cristiano - aumentavano, mentre quelli
dell'orbo civile – la magistratura municipale - declinavano, finché
il vescovo non divenne il più importante personaggio della vita
cittadina e il rappresentante dell'intera comunità. L'ufficio del
vescovo era invero l'istituzione vitale dell'epoca nuova. Egli
disponeva nella sua diocesi di un potere quasi illimitato; lo
circondava un alone di prestigio soprannaturale; eppure, nello stesso
tempo, la sua autorità era essenzialmente popolare, perché nasceva
dalla libera scelta del popolo. Di più, in aggiunta alla sua
autorità religiosa e al suo prestigio come rappresentante del
popolo, il vescovo possedeva riconosciuti poteri di giurisdizione,
non solamente sul suo clero e sui beni della chiesa, ma altresì come
giudice e arbitro in tutti i casi in cui venisse invocata la sua
decisione, fosse pure il caso già stato portato davanti a un
tribunale laico. Per conseguenza, l'episcopato era il solo potere nel
Basso Impero capace di contrapporsi e resistere all'universale
tirannia della burocrazia imperiale. Persino i funzionari più
arroganti temevano di toccare un vescovo, e abbiamo numerosi esempi
d'intervento vescovile in difesa dei diritti non solo di individui,
ma altresì di città e di province.
Così pure, la Chiesa portò al popolo
un aiuto economico, nelle angustie e nel depauperamento crescenti del
Basso Impero. Le sue vaste dotazioni furono in quell'epoca
letteralmente "il patrimonio dei poveri"; e nelle grandi
città, come Roma e Alessandria, la Chiesa si addossò a poco a poco
la responsabilità così di sfamare i poveri come di mantenere gli
ospedali e gli orfanotrofi. Sant'Ambrogio diceva ch'era una cosa
vergognosa tenere sull'altare recipienti d'oro quando c'erano dei
prigionieri da riscattare, e più tardi, quando l'Italia venne
devastata dalla carestia e dall'invasione barbarica, si dice che san
Gregorio prendesse tanto sul serio le sue responsabilità da
astenersi dal dire messa quando un solo povero veniva trovato morto
di fame in Roma, come se fosse lui colpevole della sua morte.
Quest'attività sociale spiega la
popolarità della Chiesa tra le masse e l'ascendente personale dei
vescovi; ma essa implicò pure nuovi problemi nei suoi rapporti con
la società laica. La Chiesa era divenuta così indispensabile al
bene della società e cosi strettamente legata all'ordine sociale
esistente, che c'era il pericolo diventasse parte integrante dello
stato imperiale. I germi di questo sviluppo sono già visibili nella
teoria della Chiesa abbozzata da Origene 22.
Egli traccia un elaborato parallelo fra la società cristiana e
quella dell'Impero. Paragona la chiesa locale al corpo dei cittadini
di ciascuna città - la Ecclesia - e, come questo aveva la sua Bulé
o Curia e i suoi magistrati o arconti, così la Chiesa cristiana
aveva il suo ardo o clero, e il suo reggitore, il vescovo.
L'assemblea di tutte le chiese, "il corpo di tutte le sinagoghe
della Chiesa", corrisponde all'unità delle città nell'Impero.
Così la Chiesa è, per così dire, "il cosmo del cosmo",
ed egli arriva al punto di pensare alla possibile conversione
dell'Impero al cristianesimo e all'unificazione delle due società in
un'universale "città di Dio".
Nel secolo IV l'organizzazione
ecclesiastica s'era strettamente modellata su quella dell'Impero. Non
soltanto ogni città aveva il suo vescovo, i limiti della cui
giurisdizione corrispondevano a quelli del territorio cittadino, ma
la provincia civile era altresì una provincia ecclesiastica
sottoposta a un metropolitano che risiedeva nel capoluogo
provinciale. Verso la fine del secolo IV si fece addirittura uno
sforzo per creare una unità ecclesiastica o "esarcato",
corrispondente alla diocesi civile o gruppo di province governate da
un vicario imperiale.
La logica conclusione di questo
sviluppo era di fare della capitale dell'Impero anche il centro della
Chiesa. Anzi, la soluzione poteva parere già offerta dal primato
tradizionale della chiesa di Roma, la città imperiale. Ma nel secolo
IV Roma non occupava la medesima posizione unica che aveva tenuto nei
secoli precedenti. Ancora una volta il centro del mondo mediterraneo
s'era spostato verso l'Oriente ellenistico. Dopo la riorganizzazione
dell'Impero compiuta da Diocleziano, gli imperatori non risiedevano
più in Roma, e l'importanza dell'antica capitale declinò
rapidamente, specie dopo la fondazione della nuova capitale a
Costantinopoli nel 330.
Questi mutamenti interessarono altresì
la posizione della chiesa romana. Nei primi tempi dell'Impero, Roma
era stata una città internazionale, e il linguaggio della chiesa
romana era il greco. Ma dopo il secolo III, Roma e la chiesa romana
andarono gradatamente latinizzandosi23,
e l'Oriente e l'Occidente tesero a separarsi. L'aspetto ecclesiastico
di questo processo centrifugo è già visibile alla metà del secolo
III, nell'opposizione dei vescovi orientali, sotto san Firmiliano, a
papa Stefano sulla questione del secondo battesimo degli eretici; e
la tendenza si fece sentire ancor più nel secolo successivo. Dal
tempo di Costantino in poi le chiese orientali cominciarono a
guardare più a Costantinopoli che non a Roma, e il centro dell'unità
era la corte imperiale piuttosto che il seggio apostolico. Questo era
già evidente negli ultimi anni di Costantino stesso, e il suo
successore Costanzo II si spinse così lontano da anticipare il
cesaropapismo della posteriore storia bizantina e da trasformare la
chiesa delle province orientali in una chiesa di stato, strettamente
dipendente dal governo imperiale.
L'organo fondamentale della politica
ecclesiastica di Costantino e dei suoi successori fu il Concilio
generale, istituzione che non era, come i più antichi concili
provinciali, di origine puramente ecclesiastica, ma doveva la sua
esistenza al potere imperiale 24.
II diritto di convocarlo spettava all'imperatore, e a lui toccava
decidere che cosa si sarebbe discusso e ratificare le decisioni con
la sua sanzione imperiale. Ma, sebbene nelle mani di un monarca
teologo come Costanzo o Giustiniano il concilio generale fosse uno
strumento di controllo imperiale sulla Chiesa piuttosto che un organo
di autonomo governo ecclesiastico, esso fu pure un istituto
rappresentativo, e i grandi concili ecumenici furono le prime
assemblee rappresentative deliberanti che esistettero mai 25.
Inoltre, le chiese orientali del secolo IV non erano affatto le
schiave passive di un governo erastiano. Erano pulsanti di una vita
spirituale e intellettuale indipendente. Se la chiesa d'Occidente
passò in secondo piano nella storia ecclesiastica del tempo, fu in
gran parte perché le grandi forze religiose del secolo avevano il
loro centro in Oriente.
Nell'Oriente sorse il movimento
monastico che creò gli ideali religiosi predominanti della nuova
età; e, sebbene si diffondesse rapidamente da un capo all'altro
dell'Impero, esso continuò a trarre la sua ispirazione dagli eremiti
e asceti del deserto egiziano. Fu egualmente l'Oriente a creare la
nuova poesia liturgica e quel ciclo dell'anno liturgico che sarebbe
passato in comune possesso della Chiesa cristiana 26.
E, soprattutto, fu l'Oriente a unire la
tradizione cristiana con quella della cultura filosofica greca e a
organizzare la dottrina cristiana in un sistema teologico
scientifico. Le basi di questo sviluppo erano già state gettate nel
secolo III, soprattutto da Origene e dalla scuola catechistica di
Alessandria; e l'opera fu continuata nel secolo successivo da Eusebio
in Palestina, da Atanasio adj Alessandria, e finalmente dai tre
grandi greci della Cappadocia, san Bastilo, san Gregorio di Nazianzo
e san Gregorio di Nissa. Grazie all'opera loro, la Chiesa potè
formulare una esatta e profonda enunciazione intellettuale della
dottrina cristiana, ed evitare il pericolo, da una parte, di un
tradizionalismo ottuso, e dall'altra, di una superficiale
razionalizzazione del cristianesimo, come la troviamo
nell'arianesimo.
Senza dubbio questo processo di
sviluppo teologico venne accompagnato da controversie violente, e
spesso l'intellettualismo della teologia greca degenerò in
quisquilie metafisiche. C'è qualche verità nell'osservazione del
Duchesne che la Chiesa orientale avrebbe fatto meglio a preoccuparsi
meno di questioni speculative sulla natura divina e più del dovere
dell'unità 27;
ma lo sviluppo della teologia scientifica non fu l'unica e nemmeno la
principale causa di eresia e di scisma, e senza quello sviluppo tutta
la vita intellettuale della cristianità sarebbe risultata
indicibilmente più povera. Se vogliamo comprendere che cosa
l'Occidente deve all'Oriente, basta che misuriamo l'abisso che divide
sant'Agostino da san Cipriano. Entrambi erano occidentali e africani;
entrambi dovevano assai alla più antica tradizione latina di
Tertulliano. Ma, mentre Cipriano non s'abbandona mai a speculazioni
filosofiche e non è neppure un teologo nel senso scientifico della
parola, Agostino non la cede in fatto di profondità filosofica ai
maggiori tra i Padri greci. Egli è, secondo l'espressione del
Harnack, un Origene e un Atanasio insieme, e qualcos'altro ancora.
Questo vasto progresso non è
spiegabile come sviluppo spontaneo del cristianesimo occidentale,
anche se ammettiamo il supremo genio personale di Agostino. Lo
sviluppo teologico dell'Occidente nel secolo che seguì a Tertulliano
fu di fatto retrogrado, e scrittori come Arnobio e Commodiano non
conoscono una teologia, ma solo un tradizionalismo millenaristico28.
II mutamento venne con l'introduzione
della scienza teologica greca in Occidente, durante la seconda metà
del secolo IV. Gli autori di questa trasformazione furono i Padri
latini, Ilario di Poitiers, Ambrogio di Milano, Gerolamo, Rufino di
Aquileia, e il retore convertito Vittorino; mentre nel frattempo san
Martino di Tours e Cassiano di Marsiglia, nativi entrambi delle
province danubiane, portarono in Occidente i nuovi ideali di
ascetismo e monachesimo orientale 29.
I Padri latini, tranne sant'Agostino,
non furono metafisici profondi e neppure pensatori originali. Negli
argomenti teologici erano gli allievi dei Greci, e la loro attività
letteraria fu specialmente dedicata a porre a disposizione del mondo
latino i tesori intellettuali accumulati dall'Oriente cristiano.
Tuttavia, erano gli eredi della tradizione occidentale, e combinarono
con la loro nuova sapienza la forza morale e il senso di disciplina
che avevano sempre caratterizzato la Chiesa latina. Il loro interesse
per i problemi teologici andò sempre subordinato alla loro lealtà
verso la tradizione e la causa dell'unità cattolica. Nelle province
occidentali i cristiani erano tuttora una piccola minoranza, e per
conseguenza la Chiesa era meno esposta a dissensi interni e manteneva
l'indipendenza spirituale che possedeva nei tempi precostantiniani.
Ciò riesce evidente nel caso della
controversia ariana, poiché l'arianesimo apparve in Occidente non
tanto come un pericolo interno dell'ortodossia cristiana, quanto come
un attacco mosso dall'esterno contro la libertà spirituale della
Chiesa. L'attitudine occidentale è ammirabilmente espressa nella
lagnanza che Osio, il grande vescovo di Córdova, rivolse
all'imperatore Costanzo II :
Io
fui un confessore nella persecuzione che tuo nonno Massimiano
promosse contro la Chiesa. Se tu hai l'intenzione di rinnovarla, mi
troverai pronto a soffrire qualunque cosa piuttosto che tradire la
verità e spargere sangue innocente... Ricordati che sei un uomo
mortale. Temi il giorno del giudizio... Non intrometterti in
questioni ecclesiastiche nè voler dettarci nulla a questo proposito,
ma ascolta piuttosto da noi ciò che devi credere in queste
questioni. Dio ti ha dato il governo dell'Impero, e a noi quello
della Chiesa. Chiunque ardisca impugnare la tua autorità, si mette
contro ai decreti divini. Bada di non renderti nello stesso modo
colpevole di un grandissimo delitto, usurpando l'autorità della
Chiesa. Noi abbiamo l'obbligo di dare a Cesare ciò che è di Cesare
e a Dio ciò che è di Dio. Non è lecito a noi arrogarci l'autorità
imperiale. E anche tu non hai nessun potere nel ministero delle cose
sante 30.
Sant'Ilario dì Poitiers va anche più
lontano, e assale l'imperatore con tutte le risorse del suo stile
classico. "Noi oggi combattiamo - scrive - contro uno scaltro
persecutore, un nemico insinuante, contro Costanzo l'Anticristo, che
non ci sferza le terga ma ci solletica il ventre, che non ci condanna
alla vita ma ci arricchisce per la morte, che invece di cacciare gli
uomini nella libertà del carcere, li onora nella schiavitù del
palazzo... che non tronca la testa con la spada, ma uccide l'anima
con l'oro..." 31.
II linguaggio di Lucifero di Cagliari è
meno accomodante ancora, e i titoli stessi dei suoi libelli, Degli
apostati regali, Che non si debbono risparmiare coloro che offendono
Dio, o Del dovere del martirio, spirano un soffio di
ostilità e di sfida alla potenza secolare, che richiamano quelle di
Tertulliano.
Cosi la Chiesa occidentale era
tutt'altro che assoggettata allo stato; era, se mai, in pericolo di
alienarsi per sempre l'Impero e le tradizioni della civiltà antica,
come la chiesa donatista in Africa o la chiesa egiziana dopo il
secolo V.
Il pericolo venne evitato, da una
parte, col ritorno dell'Impero di Occidente all'ortodossia sotto la
dinastia di Valentiniano; dall'altra, dall'influsso di sant'Ambrogio
e dal nuovo sviluppo della cultura cristiana. In sant'Ambrogio,
soprattutto, la Chiesa occidentale trovò un capo che sapeva
difenderne i diritti con non meno vigore di sant'Ilario, ma era nello
stesso tempo un amico leale degli imperatori e un devoto servitore
dell'Impero.
Ambrogio fu un vero romano di Roma,
nato ed educato nelle tradizioni del servizio civile imperiale; egli
portò al servizio della Chiesa lo spirito pubblico e la devozione al
dovere di un magistrato romano. La sua devozione al cristianesimo non
allentò per nulla la sua lealtà a Roma, giacché egli credeva che
la vera fede sarebbe stata per l'Impero una sorgente di forza novella
e che, come la Chiesa trionfava sul paganesimo, così l'Impero
cristiano avrebbe trionfato sui barbari.
Procedi,
- egli scrisse a Graziano, la vigilia della sua spedizione contro i
Goti, - procedi sotto lo scudo della fede e cinto della spada dello
Spirito; procedi verso la vittoria promessa da tempo e presagita
negli oracoli del Signore... Né aquile militari né volo di uccelli
guidano qui l'avanguardia del nostro esercito, ma il Tuo Nome,
Signore Gesù, e il Tuo culto. Questa non è terra di miscredenti, ma
una terra che è usa produrre confessori - l'Italia; l'Italia tante
volte tentata, ma non staccata mai; l'Italia, che la tua Maestà ha
per tanto tempo difesa e ora salvata un'altra volta dai barbari32.
Cosi Ambrogio è il primo esponente in
Occidente dell'ideale di uno stato cristiano, come Eusebio di Cesarea
in Oriente. Ma egli differisce a fondo da questi nella sua concezione
dei doveri del principe cristiano e dei rapporti fra la Chiesa e lo
stato. L'attitudine di Eusebio verso Costantino è già quella di un
vescovo di corte bizantino; egli circonda la figura dell'imperatore
di quell'alone di autorità soprannaturale che aveva sempre
caratterizzato le monarchie teocratiche dell'antico Oriente. Ma
Ambrogio appartiene a una tradizione diversa. Egli si trova a mezza
strada fra l'antico ideale classico di civica responsabilità e
l'ideale medievale della supremazia del potere spirituale. Ha
qualcosa del magistrato romano e qualcosa del pontefice medievale. Ai
suoi occhi, la legge della Chiesa - il jus sacerdotale -
poteva venire amministrata solo dai magistrati della Chiesa - i
vescovi -, e persino lo stesso imperatore era soggetto alla loro
autorità. "L'imperatore - egli scrive – è dentro, non sopra,
la Chiesa" ; e "in questioni di fede i vescovi sono usi
giudicare gli imperatori cristiani, non gli imperatori i vescovi"33.
E così, mentre Eusebio si rivolge a Costantino come a un essere
superiore al giudizio umano34,
Ambrogio non esita a riprendere il grande Teodosio e a chiedergli
conto dei suoi atti d'ingiustizia : "Tu sei un uomo, sei caduto
in tentazione. Sappi vincerla. Perché il peccato non si lava se non
con le lacrime e il pentimento"35.
L'autorità di sant'Ambrogio ebbe un
larghissimo influsso sugli ideali della Chiesa occidentale, poiché
contribuì a rafforzare l'intesa fra la Chiesa e l'Impero, pure
preservando nella Chiesa la tradizionale concezione occidentale
dell'autorità. In Oriente, la Chiesa era continuamente obbligata a
ricorrere all'imperatore e ai concili che egli convocava per
preservarne l'unità; in Occidente, il sistema conciliare non
raggiunse mai tanta importanza, ed era al seggio di Roma che la
Chiesa guardava come al centro dell'unità e dell'ordine
ecclesiastico. I tentativi, del concilio di Sardica nel 343 e poi
dell'imperatore Graziano nel 378, di definire la giurisdizione del
papato sono d'infima importanza di fronte alla credenza tradizionale
nella prerogativa apostolica del seggio di Roma e nella romana
fides quale norma dell'ortodossia cattolica. Nel secolo V questo
sviluppo venne completato da san Leone, che fuse la convinzione di
sant'Ambrogio nella missione provvidenziale dell'Impero romano con la
dottrina tradizionale del primato del seggio apostolico; mentre, nei
primi anni dello stesso secolo, sant'Agostino aveva completato lo
sviluppo teologico occidentale e dotata la Chiesa di un sistema di
pensiero che avrebbe informato di sé la capitale intellettuale del
cristianesimo dell'Occidente per più di un millennio.
E così, quando l'impero d'Occidente
rovinò davanti ai barbari, la Chiesa non venne coinvolta nella sua
rovina. Era diventata una istituzione autonoma che possedeva il suo
principio d'unità e i suoi propri organi d'autorità sociale. Essa
era in grado di diventare contemporaneamente l'erede e rappresentante
dell'antica cultura romana, e la maestra e la guida dei nuovi popoli
barbarici. In Oriente non fu così. La Chiesa bizantina era cosi
strettamente legata all'Impero bizantino da formare con esso un unico
organismo sociale, che non poteva venir diviso senz'essere distrutto.
Tutto quanto minacciasse l'unità dell'Impero metteva in pericolo
anche la unità della Chiesa. E cosi avvenne che, mentre l'Impero
d'Oriente resistette agli attacchi dei barbari, la Chiesa orientale
perdette la sua unità a causa della reazione che le nazionalità
orientali mossero all'accentramento ecclesiastico dello stato
bizantino. Fra i popoli orientali, la nazionalità prese una forma
puramente religiosa e lo stato venne in definitiva inghiottito dalla
Chiesa.
Ma, sebbene dopo il secolo V le due
metà dell'Impero si andassero estraniando in religione come in
politica, il distacco non fu completo. Il papato in Oriente
conservava sempre un certo primato, poiché, come dice il Harnack,
"anche agli occhi degli orientali il vescovo di Roma possedeva
qualcosa di speciale, che mancava a tutti gli altri, un alone che gli
conferiva una particolare autorità" 36.
E, parimenti, la Chiesa occidentale si considerava sempre in un certo
senso la Chiesa dell'Impero, e continuava a riconoscere il carattere
ecumenico dei concili generali convocati dall'imperatore di Bisanzio.
Queste condizioni caratterizzarono
l'intero periodo di cui noi dobbiamo trattare. Solo nel secolo XI
venne finalmente spezzato il vincolo religioso che congiungeva
l'Oriente e l'Occidente, e la cristianità occidentale emerse come
unità indipendente, separata per cultura e per religione insieme dal
resto dell'antico mondo romano.
III. LA TRADIZIONE CLASSICA E IL CRISTIANESIMO
Se l'Europa deve la sua esistenza
politica all'Impero romano e la sua unità spirituale alla Chiesa
cattolica, per la sua cultura intellettuale va debitrice a un terzo
fattore, la tradizione classica, che fu altresì uno degli elementi
fondamentali che contribuirono alla formazione dell'unita europea.
È invero assai difficile per noi
comprendere l'ampiezza del nostro debito, poiché la tradizione
classica è diventata parte cosi integrante della cultura occidentale
che non abbiamo più una chiara coscienza del suo influsso sul nostro
spirito. Per tutto il corso della storia europea questa tradizione è
stata il fondamento costante delle lettere e del pensiero
occidentali. Venne prima diffusa per l'Occidente dalla cultura
cosmopolitica dell'Impero romano; sopravvisse alla caduta di Roma,, e
perdurò attraverso il Medioevo come parte integrante del retaggio
intellettuale della Chiesa cristiana e nell'età del Rinascimento
risorse con rinnovata energia e divenne l'ispiratrice e il modello
delle nuove letterature europee e la base di ogni educazione laica.
Cosi, per quasi duemila anni, l'Europa
venne ammaestrata nella stessa scuola e dagli stessi insegnanti,
tanto che lo scolaretto e lo studente del secolo XIX leggevano i
medesimi libri e conformavano la mente ai medesimi modelli dei loro
predecessori romani di milleottocento anni prima.
È quasi impossibile sopravvalutare
l'influsso complessivo di una tradizione cosi antica e così
continua. Non c'è nulla che le si possa paragonare nella storia,
tranne la tradizione del confucianesimo in Cina, ed è curioso
riflettere che entrambe sembrano ormai in pericolo di terminare
contemporaneamente e sotto l'influsso delle medesime forze.
Ma la tradizione classica europea
differisce da quella cinese in un particolare importante. Essa non è
di origine autoctona, perché, sebbene sia tanto strettamente legata
alla tradizione romana, Roma non fu la sua creatrice, ma piuttosto il
mezzo per il quale essa venne trasferita in Occidente dalla sua
patria originaria che era il mondo ellenico. La tradizione classica
non è intatti nient'altro che l'ellenismo, e forse il massimo dei
servigi che Roma rese alla civiltà consiste nel suo magistrale
adattamento della tradizione classica ellenistica alle esigenze dello
spirito occidentale e alle forme del linguaggio occidentale, sì che
il latino non fu soltanto un perfetto veicolo per l'espressione del
pensiero, ma altresì un'arca che trasportò il seme della cultura
ellenica attraverso il diluvio della barbarie. E cosi i grandi
scrittori classici del secolo I a. C., soprattutto Cicerone,
Virgilio, Tito Livio e Orazio, hanno un'importanza nella storia
d'Europa che di gran lunga supera il loro intrinseco valore
letterario, per quanto grande esso sia, poiché essi sono i padri
dell'intera tradizione letteraria occidentale e i fondamenti
dell'edificio della cultura europea.
Negli stessi anni che Roma riusciva a
estendere il suo impero sul mondo ellenistico, l'impero della
tradizione classica greca sullo spirito occidentale veniva assicurato
dalla letteratura latina dell'epoca di Augusto, e l'influsso
dell'ellenismo continuò ad aumentare e diffondersi durante i primi
due secoli dell'Impero romano. Da una parte, i secoli I e II dell'era
volgare videro per tutto il mondo greco una rinascita della
tradizione ellenica nella sua forma strettamente classica; e
dall'altra, la forma latina dell'ellenismo, che aveva già raggiunto
il suo pieno sviluppo nel secolo I a. C., soprattutto nell'opera di
Cicerone, si comunicò alle province occidentali e divenne il
fondamento della loro cultura.
L'educazione classica era largamente
diffusa per tutto l'Impero, e non soltanto grandi città come Roma,
Antiochia, Alessandria e Cartagine, ma città provinciali come
Madaura in Africa, Autun e Bordeaux in Gallia, Córdova in Spagna, e
Gaza e Beirut in Siria, divennero centri di un'intensa attività
educativa. Giovenale scrive dell'universale mania dell'educazione
persino tra i barbari :
Nunc totus Graias, nostrasque habet orbis Athenas,
Gallia
causidicos docuit facunda Britannos,
De
conducendo loquitur jam rhetore Thule.37
In verità, era una cultura puramente
letteraria. La scienza vi aveva ben poco posto, tranne che ad
Alessandria. Vi predominava l'ideale retorico dell'educazione,
inaugurato da Gorgia e dai sofisti del secolo V a. C. e sviluppato
nelle scuole del mondo ellenistico; e il rotore fortunato era l'idolo
del pubblico colto. Ma la retorica aveva un campo ben più vasto di
ciò che noi comprendiamo ora sotto questo nome. Era il culmine
dell'intero ciclo degli studi liberali, - aritmetica, geometria,
astronomia, musica, grammatica, retorica e dialettica, - le
cosiddette artes liberales, le precorritrici dei medievali
"quadrivio" e "trivio"38.
Ma, anche indipendentemente da questo vasto ideale dell'oratoria,
come l'impersonavano Cicerone e Tacito, il retore puro, come
Quintiliano o Aristide, era tutt'altro che un semplice pedante.
Mirava a qualcosa di più che a un'erudizione tecnica: a una vasta
cultura letteraria che era né più né meno che umanesimo. Di fatto,
l'ideale umanistico della cultura, che ha dominato l'educazione
moderna dal tempo del Rinascimento, deve la sua esistenza a una
deliberata riesumazione dell'antico insegnamento retorico. Ma, anche
nel Medioevo, esso sopravvisse ben più largamente che non si creda
di solito; non c'è, in realtà, un solo periodo della storia europea
nel quale non sia percettibile il suo influsso. Il tipo stesso del
pubblicista, - l'uomo di lettere che si rivolge al pubblico colto in
generale, - tipo quasi sconosciuto alle altre culture, è un prodotto
di questa tradizione : Alcuino, Giovanni di Salisbury, Petrarca,
Erasmo, Bodin, Grozio e Voltaire, furono tutti quanti successori e
discepoli dei retori antichi, e questo non è che uno degli aspetti
di quella tradizione classica che è stata tra le massime forze
creative della cultura europea.
Tuttavia, nel secolo IV la supremazia
della tradizione classica parve gravemente minacciata dalla vittoria
della nuova religione. Il cristianesimo era fondato su una tradizione
orientale che non aveva niente in comune con l'ellenismo, e il suo
spirito e i suoi ideali si opponevano nettamente a quelli del retore
e letterato pagano. I cristiani non riconoscevano d'avere debito
alcuno verso la tradizione classica. Essi avevano i loro classici -
le Scritture cristiane - così fondamentalmente diversi come forma e
come spirito dalla letteratura pagana che sulle prime non ci fu luogo
a nessuna mutua comprensione. "Che cosa ha a che fare Atene con
Gerusalemme? - scrive Tertulliano. - Quale accordo vi è tra
l'Accademia e la Chiesa?" San Paolo stesso respinge
espressamente ogni pretesa alle grazie dello stile e alla saggezza
della filosofia laica. "Dov'è il saggio? Dov'è lo scriba?
Dov'è il disputatore del mondo? Non ha forse Dio resa stolta la
saggezza del mondo? Poiché gli Ebrei chiedono segni, e i Greci vanno
dietro alla saggezza; ma noi predichiamo il Cristo crocifisso, agli
Ebrei pietra d'inciampo e ai Gentili stoltezza; ma per coloro che
sono chiamati, tanto Ebrei quanto Greci, predichiamo il Cristo,
potenza di Dio e sapienza di Dio" 39.
Cosi il cristianesimo rivolgeva il suo
appello non alla mentalità sofisticata e sterile della società
colta, ma alle esigenze fondamentali dell'anima umana e
all'esperienza religiosa dell'uomo comune. "Lèvati, o anima, e
da la tua testimonianza, - dice Tertulliano. - Ma io non t'invoco
come quando, addobbata nelle scuole, esercitata nelle biblioteche,
rimpinzata nelle accademie e nei porticati attici, tu erutti la tua
sapienza. Parlo a te semplice, rozza, illetterata e indotta, quale ti
possiedono coloro che possiedono tè sola, quella semplice cosa, pura
e integra, della strada, della piazza e della bottega" 40.
Di fatto, i primi cristiani erano per
la massima parte gente di scarsa educazione e cultura. Nelle città
essi appartenevano principalmente alle classi inferiori e
medie-inferiori, mentre nelle campagne uscivano spesso da un contado
che era quasi vergine di cultura classica e conservava il suo nativo
dialetto siriaco, copto o punico. In simili circostanze era ben
naturale che i rappresentanti ufficiali della tradizione classica
guardassero al cristianesimo come al nemico della cultura e, come
l'imperatore Giuliano o Porfirio, identificassero la causa
dell'ellenismo con quella della religione antica. L' “aurea
mediocrità" dello studioso classico non poteva avere che una
scarsa simpatia per il fanatismo dei martiri e dei monaci del
deserto, i quali condannavano tutto ciò che rendeva bella la vita e
proclamavano prossima la distruzione di tutta la civiltà del secolo.
Massimo di Madaura, il retore pagano che corrispose con
sant'Agostino, parla del cristianesimo come di un ritorno di barbarie
orientale che cercava di sostituire al culto delle armoniose figure
dell'Olimpo classico quello di criminali giustiziati, dagli orribili
nomi punici 41.
Nondimeno, per quanto ignorato dalle
personalità della cultura, un incessante processo d'assimilazione si
andava svolgendo, col quale la Chiesa si preparava ad accogliere la
tradizione classica e ad elaborare una nuova cultura cristiana. Già
nel secolo II, dei convertiti colti come Giustino martire e Atenàgora
cominciavano a rivolgersi al pubblico intellettuale nella sua stessa
lingua, e tentavano di dimostrare che le dottrine cristiane erano in
armonia con gli ideali razionali della filosofia antica. Il più
notevole di questi tentativi è l’Octavius di Minucio
Felice, un dialogo ciceroniano schiettamente classico di forma e di
spirito. È bensì vero che il più grande degli apologisti latini,
Tertulliano, scrisse con spirito assai differente, ma anch'egli, con
tutto il suo disprezzo della tradizione classica, era retore fino al
midollo, e faceva suoi, in servizio della nuova religione, i metodi
dell'oratoria forense romana.
La tendenza, già visibile negli
Apologeti, di assimilarsi il pensiero e la cultura ellenica,
raggiunge col secolo in il suo massimo sviluppo nella scuola di
Alessandria. Origene e il suo predecessore Clemente furono i primi a
concepire l'ideale medievale di una gerarchia delle scienze
culminante nella teologia cristiana. Come i Greci avevano trattato le
arti e le scienze come propedeutica alla retorica e alla filosofia,
così Origene proponeva di fare della filosofia stessa una
propedeutica alla teologia : "Ciò che i figli dei filosofi
dicono della geometria, della musica, della grammatica, della
retorica e dell'astronomia, - che tutte sono le ancelle della
filosofia, - possiamo dirlo della filosofia stessa in rapporto alla
teologia" 42.
Egli insegnava, scrive il suo discepolo Gregorio il Taumaturgo, "che
noi dobbiamo filosofare e collazionare con tutte le nostre forze
ciascuno degli scritti degli antichi, sia filosofi che poeti, non
eccettuando ne respingendo nulla", salvo gli scritti degli atei
"ma dando equa udienza a tutti" 43.
Il risultato di questo programma fu una comprensiva sintesi del
cristianesimo e del pensiero ellenico, che ebbe un profondo influsso
su tutto lo sviluppo successivo della teologia, ma che all'inizio
provocò una considerevole opposizione, apparendo incompatibile con
l'ortodossia tradizionale, come invero per certi aspetti senza dubbio
era. Tuttavia, è importante rilevare che questa opposizione a
Origene non implicava necessariamente un'ostilità alla cultura
ellenica distinta dalla filosofia ellenica. Ellenisti ce n'erano nei
due campi; anzi, il principale oppositore di Origene, Metodio di
Olimpo, andò più in là dello stesso Origene nella sua sommissione
alla tradizione classica..
Così all'inizio del secolo IV, la
cultura classica s'era fatta un posto sicuro nell'interno della
Chiesa, e la fondazione dell'Impero cristiano venne effettivamente
seguita da una considerevole rinascita letteraria. Coloro che
diressero questo movimentò, - i grandi retori del secolo IV, Imerio,
Temistio e Libanio, - furono, a dire il vero, pagani, ma non
mancarono loro allievi e imitatori fra i cristiani; anzi, anche da un
punto di vista meramente letterario gli scrittori cristiani del
periodo superarono spesso i loro maestri. I Padri del secolo IV, così
in Oriente come in Occidente, erano essenzialmente retori cristiani
che condividevano cultura e tradizioni coi loro rivali pagani, ma la
loro arte non era più un'interminabile elaborazione dei logori
argomenti della cattedra: era divenuta lo strumento di una nuova
forza spirituale. Tre secoli innanzi, Tacito aveva segnalato che la
retorica s'era fatta vuota e irreale, perché non adempiva più nella
vita politica a una funzione vitale. "La grande oratoria, come
il fuoco, ha bisogno di combustibile che la nutra e di movimento che
la ventili; essa risplende mentre arde" 44.
Attraverso la Chiesa, la retorica aveva ritrovato questo vitale
rapporto con la vita sociale: in luogo dell'antica ecclesia della
città greca, ecco la nuova ecclesia del popolo cristiano. Di nuovo
le questioni più profonde venivano dibattute con serietà
appassionata davanti a un pubblico tratto da tutte le classi; come
quando san Giovanni Crisostomo pronunciò davanti al popolo di
Antiochia le sue grandi omelie, mentre le sorti della città
pendevano incerte. Persino i problemi teologici più astrusi erano
argomento di scottante interesse per l'uomo della strada, e colui che
sapesse trattarne a voce o per iscritto con eloquenza e capacità,
era sicuro di esercitare un ascendente quasi mondiale.
Ciò, naturalmente, è vero in special
modo per il mondo di lingua greca, il mondo di Atanasio e Ario, di
Basilio ed Eunomio, di Cirillo e Teodoreto; ma nell'Occidente latino
la tradizione retorica era ugualmente vigorosa, sebbene fosse la
tradizione del magistrato e dell'oratore romano piuttosto che quella
del sofista e demagogo ellenico. Senza dubbio il mondo ellenico
continuò a serbare il suo primato culturale. Eusebio di Cesarea, san
Basilio e i due Gregori, di Nissa e di Nazianzo, possedevano, tanto
in letteratura che in filosofia, una cultura più vasta e più
profonda di qualunque loro contemporaneo occidentale. Essi
mantenevano le tradizioni della scuola di Origene, mentre la
tradizione occidentale ereditò qualcosa dello spirito giuridico e
autoritario di Tertulliano e di Cipriano. Ma nel secolo iv il sorgere
della nuova cultura cristiana tende a riavvicinare ancora una volta
l'Oriente e l'Occidente. Sant'Ambrogio fu studiosissimo della
letteratura greca e deve infinitamente di più alle opere dei Padri
greci che non a Tertulliano e a Cipriano; ignora anzi quest'ultimo.
San Gerolamo acquistò la sua dottrina teologica in Oriente come
allievo di san Gregorio Nazianzeno e di Apollinare di Laodicea, e
come studioso di Orìgene e di Eusebio.
Inoltre, la tendenza della Chiesa a
venire a patti con la cultura laica e ad assimilarsi la letteratura e
il pensiero classico si manifesta in Occidente non meno che in
Oriente. Sant'Ambrogio adorna i suoi sermoni con citazioni da
Virgilio e Orazio, e prende Cicerone come modello e guida nella sua
opera più celebre De Officiis ministrorum. La tradizione
ciceroniana forma una parte essenziale della nuova cultura cristiana
e influisce sulla letteratura patristica dal tempo di Lattanzio a
quello di Agostino. San Gerolamo, è vero, parla energicamente dei
pericoli della letteratura pagana, e la celebre visione nella quale
veniva condannato perché era "un ciceroniano, non un
cristiano", è citata sovente come esempio dell'ostilità del
cristianesimo alla cultura classica 45.
Ma il vero significato di quest'episodio è che la devozione di
Gerolamo alla letteratura classica era cosi intensa da divenire per
lui tentazione spirituale. Se egli non avesse reagito, sarebbe forse
divenuto un retore e nient'altro. E in questo caso il Medioevo
avrebbe perduto il più grande dei suoi classici spirituali : la
Vulgata latina. Poiché nella sua traduzione dalla Bibbia Gerolamo
non tenta nemmeno di aderire ai modelli ciceroniani, ma lascia che la
grandiosità primitiva dell'originale ebraico si rifletta nel suo
stile, in modo che arricchisce il latino di una nuova gamma di
espressioni. Ma, per quanto tentasse di moderare il suo ardore, non
perdette mai la sua devozione appassionata al più grande dei retori:
"Tullius qui in arce eloquentiae romanae stetit rex oratorum et
latinae linguae illustrator" 46.
Rufino racconta, non senza malizia, che nei suoi ultimi anni egli
soleva pagare di più i copisti per la trascrizione dei dialoghi di
Cicerone che non per le opere ecclesiastiche 47
e che insegnava ai ragazzi di Betlemme a leggere Virgilio e i poeti.
Di fatto, lungi dall'essere un nemico della tradizione classica,
Gerolamo è di tutti i Padri il più imbevuto di letteratura pagana e
quello che subì più a fondo l'influsso della tradizione retorica.
Persino la sua intolleranza e combattività che hanno scandalizzato
tanti critici moderni non sgorgano dal fanatismo di un bigotto, ma
dall'irritabilità di uno studioso, e le sue "vendette"
letterarie sono spesso curiosamente simili a quelle degli umanisti
del Rinascimento, essi stessi tra i suoi più caldi ammiratori 48.
L'influsso di Gerolamo non fu invero
secondo a quello di nessuno, nemmeno a quello di Agostino, ma fu
l'influsso di un dotto, non di un pensatore né di un teologo. In lui
s'incontrano le due grandi tradizioni spirituali dei classici e della
Bibbia, che da lui tornano a scorrere in un unico letto per fecondare
la cultura del Medioevo.
L'influsso della tradizione classica si
vede anche più chiaramente nel sorgere di una nuova poesia
cristiana; tuttavia in Oriente, salvo nel caso di san Gregorio
Nazianzeno, la servile imitazione dei modelli classici distrusse ogni
spontaneità di sentimento e trovò la sua suprema espressione nel
tentativo, che fecero Apollinare di Laodicea e suo figlio, di
tradurre la Bibbia nelle forme e nei metri della poesia classica. In
Occidente, la medesima tendenza produsse le parafrasi bibliche di
Iuvenco e i tentativi ingegnosi, quantunque sbagliati, di comporre su
soggetti biblici poesie tutte fatte di passi virgiliani staccati dal
contesto. Ma l'Occidente possedeva una tradizione poetica ben più
viva di quella dell'Oriente, e durante i secoli IV e V questa
tradizione venne interamente assimilata dalla nuova cultura
cristiana. Paolino di Noia, che trovò uno spirito gemello nel suo
biografo inglese Henry Vaughan, fu un pretto umanista cristiano,
l'antenato spirituale del Vida e del Mantovano. Non era un grande
poeta, ma un uomo di alta cultura e di un nobile e amabile carattere,
e il suo influsso fece anche più di quelli di Gerolamo o Agostino
per rendere popolari tra le classi colte delle province occidentali
gli ideali della nuova cultura cristiana.
Ma il più grande dei poeti cristiani
fu il contemporaneo spagnolo di Paolino, Prudenzio, che Bentley
chiamò "il Virgilio e Grazio cristiano". Di tutti gli
scrittori cristiani, Prudenzio è quello che mostra la stima più
assoluta per la tradizione classica nei suoi aspetti tanto letterari
come sociali. Egli non la cede a nessuno dei poeti pagani nel suo
patriottismo civico e nella sua devozione al grande nome di Roma. Non
guarda a Roma con gli occhi di Tertulliano e di Agostino come a una
mera manifestazione di superbia e ambizione umane. Come Dante, vede
nell'Impero una provvidenziale preparazione dell'unità del genere
umano nel Cristo. I Fabi e gli Scipioni erano stati gli inconsci
strumenti del divino proposito, e i martiri avevano data la loro vita
per Roma non meno che i legionari. Le ultime parole di san Lorenzo
nel Peristephanon sono una preghiera per Roma. "O Cristo,
concedi ai tuoi Romani che la città per la quale tu hai concesso
agli altri uomini di avere una sola religione, diventi essa stessa
cristiana... Possa Roma insegnare alle terre più lontane a
congiungersi in un'unica grazia; possa Romolo divenire fedele e Numa
stesso credere" 49.
Ora questa preghiera è stata esaudita; la Roma dei consoli e la Roma
dei martiri sono divenute una sola. "Oggi le luci del Senato
baciano la soglia del tempio degli Apostoli. Il Pontefice che
indossava le sacre bende porta sulla fronte il segno della croce, e
la vestale Claudia s'inginocchia davanti all'altare di san Lorenzo”
50.
Nelle poesie di Prudenzio e in quelle
di Paolino di Noia possiamo vedere come il culto dei martiri, che
ebbe le sue origini nella protesta dello spirito cristiano contro le
pretese antispirituali del potere secolare, si fosse trasformato in
una istituzione sociale e in una manifestazione di pietà civica. Per
Prudenzio il vecchio patriottismo locale dello stato cittadino trova
una nuova giustificazione nel culto dei santi locali. Egli ci mostra
le città della Spagna che si presentano davanti al trono del
giudizio di Dio, ciascuna con le reliquie dei propri martiri locali.
Il santo è divenuto il rappresentante e il patrono della città e le
i comunica una parte della sua gloria.
Sterne te totam generosa sanctis
Civitas mecum tumulis; deinde
Mox resurgentes animas et artus
Tota
sequeris 51.
La riconciliazione fra il cristianesimo
e la tradizione classica, che nei secoli IV e V si esprime nella
cultura patristica e nella nuova poesia cristiana, ebbe un influsso
profondo sulla formazione dello spirito europeo. Noi moderni siamo
propensi a considerare tutta la tradizione retorica come vuota
pedanteria, e a ripudiare lo stesso Cicerone come un pretenzioso
seccatore. Ma, come ho già accennato, al rotore e alla sua opera
educativa dobbiamo la sopravvivenza della letteratura classica e
l'intera tradizione umanistica. Senza di loro la cultura europea
sarebbe stata non solo più povera, ma fondamentalmente diversa. Non
ci sarebbe stata tradizione di scienza laica, né letteratura laica,
tranne quella del menestrello e del compositore di saghe. L'alta
cultura sarebbe stata tutta religiosa, come è stata infatti la sua
tendenza nel mondo orientale, all'infuori della Cina. La
sopravvivenza della letteratura classica e della tradizione retorica
non solo rese possibile il sorgere delle moderne letterature europee,
ma formò pure l'abito mentale europeo, e rese possibile
quell'atteggiamento razionale e critico verso la vita e la natura
cosi caratteristico della civiltà occidentale. La coesistenza di
queste due tradizioni spirituali e letterarie, - quella della Chiesa
e della Bibbia da una parte, e quella dell'ellenismo e dei classici,
dall'altra, - ha lasciato una traccia profonda nella nostra cultura,
e la loro muta influenza e compenetrazione ha arricchito lo spirito
occidentale come nessuna tradizione singola, per quanto grande,
avrebbe potuto fare da sola.
È vero che quest'abito mentale
retorico e letterario ha i suoi difetti ed è forse in parte
responsabile di quel carattere artificioso che è una delle maggiori
debolezze della nostra civiltà. Inoltre, la coesistenza di due
tradizioni intellettuali di origine disparata ha mostrato la tendenza
a produrre nella cultura europea un certo dualismo e una certa
disarmonia, che mancano in civiltà di tipo più semplice e più
uniforme.
Né si può dire che la tradizione
retorica incarnasse pienamente tutto lo sforzo intellettuale del
mondo antico. Fu uno sviluppo parziale e limitato, che rappresenta un
aspetto del genio ellenico, ma non rende la debita giustizia ai suoi
sforzi scientifici e metafisici. La vera responsabilità
dell'incapacità della cultura medievale a preservare il retaggio
della scienza greca non spetta alla Chiesa, bensì' ai retori. La
tradizione scientifica del mondo greco durante il periodo ellenistico
si era separata dalla tradizione letteraria dei retori, e per
conseguenza non venne mai assimilata dall'Occidente latino quanto il
lato letterario della cultura greca. I soli contributi latini alla
scienza furono le enciclopedie di dilettanti colti come Varrone e
Plinio e le opere tecniche di ingegneri e agrimensori (gromatici).
Tutto il lavoro scientifico serio dell'epoca fu dovuto nel secolo II
d. C. a greci come Galene e Claudio Tolomeo, che furono gli ultimi
spiriti creatori della scienza antica; ma è significativo che,
sebbene Galene sia vissuto e abbia lavorato a Roma, i suoi scritti
non siano mai stati tradotti in latino fino al Medioevo.
La tradizione scientifica sopravviveva
ancora durante il Basso Impero, ma era confinata in Oriente e fioriva
specialmente nelle scuole di Alessandria e Atene, che in questo
periodo erano pressoché monopolizzate dai neoplatonici. Scopo di
questi ultimi, dal secolo IV in poi, fu di fondere l'intero corpo
della scienza greca in un tutto organico basato sulle loro dottrine
metafisiche e teologiche. Miravano essenzialmente a conciliare
Aristotele con Platone e Tolomeo con Aristotele, e, di conseguenza,
le loro energie erano dirette non a ricerche originali, ma alla
interpretazione e al commento delle vecchie autorità. Il loro
curricolo di studi comprendeva le opere di Euclide e Nicomaco,
Tolomeo e Gemino, Aristotele e Fiatone, ma l'importanza d'Aristotele
andò rapidamente crescendo e raggiunse l'apice coi filosofi
alessandrini del secolo VI : Ammonio, Simplicio, Damaselo e il
cristiano Giovanni Filopono, che tutti rivelano una conoscenza
straordinariamente ampia della scienza antica. Questa rinascita
aristotelica, cominciata fin dall'inizio del secolo in col grande
commentatore Alessandro di Afrodisia, fu della massima importanza per
il futuro; ma non giunse all'Occidente latino, tranne che in una
forma molto rudimentale con Boezio, fino ai secoli XII e XIII.
Ma, quantunque l'estremo sviluppo
scientifico della cultura greca non giungesse a toccare l'Occidente,
l'estrema filosofia greca, rappresentata dal neoplatonismo, ebbe un
influsso diretto sulla nuova cultura latino-cristiana. Sino allora la
filosofia in Occidente era rappresentata essenzialmente dall'etica
stoica incorporata nella tradizione retorica, soprattutto per mezzo
degli scritti di Cicerone e di Seneca. Non c'era stato un pensiero
metafisico creatore, nè un'indagine psicologica originale. Ora,
proprio alla fine dell'epoca imperiale, il mondo latino produsse con
sant'Agostino un genio profondamente originale, nel cui pensiero la
nuova cultura cristiana trovò la sua più alta espressione
filosofica. Anche Agostino era un retore di professione, e ricevette
il primo impulso verso lo studio della filosofia da Cicerone. Ma il
punto critico della sua vita venne undici anni dopo, quando egli
cadde sotto l'influsso degli scritti dei neoplatonici, tradotti in
latino dal retore convertito Mario Vittorino. Da essi fu convinto per
la prima volta dell'esistenza oggettiva della realtà spirituale, e
ne derivò i due principi fondamentali che restarono come i poli
della sua filosofia: l'idea di Dio come fonte dell'essere e
dell'intelletto, come Sole del mondo intelleggibile; e l'idea
dell'anima come natura spirituale che trova la sua beatitudine nella
partecipazione alla luce increata.
Ma Agostino non si accontentò
dell'intellettualismo della filosofia greca. Egli non chiedeva una
teoria speculativa della verità, ma il suo pratico possesso. "I
platonici - egli dice, - videro effettivamente la Verità fissa,
stabile, imperitura, nella quale sono tutte le forme delle cose
create; ma la videro di lontano... e perciò non poterono trovare la
via per raggiungere un cosi grande, ineffabile e beatifico possesso"
52.
Questa via egli la trovò solamente nel
cristianesimo, nella sapienza soprannaturale che non solamente mostra
all'uomo la verità, ma gli dà i mezzi per arrivare a goderla. La
sua filosofia acquistò il suo carattere definitivo con l'esperienza
della conversione, la prova dell'intervento di un potere spirituale
tanto forte da mutargli la personalità e trasformare l'ordine
astratto dell'intelletto in un vitale ordine di carità. L'evoluzione
spirituale cominciata con l’Hortensius di Cicerone finisce
nelle Confessiones, e la sapientia del retore romano
raggiunge il suo compimento nella contemplatio del mistico
cristiano.
Così la filosofia di Agostino
differisce da quella di Origene, il massimo pensatore cristiano del
mondo greco, per il suo carattere intensamente personale. Essa rimane
ellenica per la sua insistenza sull'esistenza di un ordine razionale
che pervade il mondo, e per il senso della bontà e della bellezza di
tutte le cose create 53.
Ma era insieme occidentale e cristiana per le sue preoccupazioni
morali e per la posizione centrale che accorda alla volontà.
La filosofia di Agostino è
essenzialmente una filosofia dell'esperienza spirituale, e come tale
è la fonte del misticismo e dell'etica occidentali, come pure della
tradizione occidentale di idealismo filosofico.
Nei secoli V e VI, l'influsso di
Agostino divenne dominante per tutto l'Occidente cristiano. Orosio,
Prospero di Aquitania, san Leone Magno, san Fulgenzio di Ruspe,
furono tutti agostiniani; e finalmente, attraverso san Gregorio
Magno, la tradizione agostiniana in forma semplificata divenne il
patrimonio intellettuale della chiesa medievale. Ma questa tradizione
teologica fu accompagnata da un crescente distacco dalla cultura
classica. La profondità stessa del pensiero agostiniano tendeva a
restringere il campo dell'attività intellettuale e a concentrare
tutta l'attenzione sui due poli della vita spirituale: Dio e l'anima.
Quest'assolutismo religioso non lasciava spazio né per la
letteratura pura né per la pura scienza. Giacché per sant'Agostino
la conoscenza "nella quale gli uomini non desiderano altro se
non conoscere", è una curiosità inutile che distrae la mente
dal suo unico vero fine : la conoscenza e l'amore di Dio. È assai
meglio per l'uomo conoscere Dio che non contare le stelle o frugare
gli occulti segreti della natura. "Per certo infelice è colui
che conosce tutto questo e non conosce te, ma felice chi conosca te,
quantunque non conosca tutto questo. E chi conosce te e queste cose,
non è più felice per esse, ma soltanto per te" 54.
Questa visuale era destinata a dominare
la cultura ecclesiastica e monastica dell'Occidente latino per molti
secoli. Nondimeno, finché l'Occidente conservò la tradizione
romano-bizantina di una burocrazia colta educata nelle scuole di
retorica, non ci fu nessun rischio che la cultura classica venisse
sottovalutata. Persino la ripresa temporanea di cultura laica che
accompagnò la rinascita bizantina del secolo VI non fu senza
riscontro in Occidente. Fu questo specialmente il caso dell'Africa,
dove la corte degli ultimi re vandali fu frequentata - cosa
abbastanza singolare - da una folla di poeti di second'ordine, i
versi dei quali ci sono conservati nei ventiquattro libri
dell'antologia salmasiana, e dove il periodo successivo produsse il
notevole poema epico di Corippo, il Johannis, forse l'ultimo
esempio genuino di tradizione classica nella poesia latina.
Similmente in Italia, sotto il governo di Teodorico,
l'amministrazione civile restò nelle mani di funzionari d'alta
cultura come Boezio, Simmaco e Cassiodoro, ed essi fecero tutto ciò
che poterono per preservare il retaggio della cultura classica.
Boezio non fu soltanto l'ultimo dei classici, ma anche il primo degli
scolastici, un grande educatore, attraverso il quale l'Occidente
medievale ricevette le sue cognizioni di logica aristotelica e i
rudimenti della matematica greca. La sua tragica morte pose fine
all'opera di traduzione filosofica che era nei suoi progetti, ma in
compenso diede al mondo il De Consolatione philosophiae : un
capolavoro che, nonostante la sua deliberata reticenza, è
un'espressione perfetta della fusione dello spirito cristiano con la
tradizione classica.
Lo stesso ideale ispirò l'opera di
Cassiodoro, che fece anche più di Boezio per gettare un ponte fra la
cultura del mondo antico e quella del Medioevo. Nella prima parte
della sua vita, come ministro al servizio del regime gotico, si
dedicò a promuovere l'unità religiosa e la riconciliazione degli
invasori germanici con la cultura romana, mentre gli anni successivi
vennero da lui dedicati al servizio della Chiesa e a riconciliare la
cultura classica con le esigenze della nuova società ecclesiastica e
gli ideali della vita monastica. È come se egli avesse compreso che
lo Stato non poteva più servire da organo dell'alta cultura e che si
poteva salvare il retaggio della civiltà classica solamente
ponendolo sotto la tutela della Chiesa. Negli ultimi anni del governo
gotico egli progettò, in collaborazione con papa Agapito, di fondare
in Roma una scuola cristiana che adempisse per l'Occidente su per giù
la medesima funzione che la scuola catechetica di Alessandria aveva
esercitata in Oriente.
Questi progetti vennero frustrati dallo
scoppio della guerra greco-gotica, la quale ebbe sulla cultura
italiana un effetto più rovinoso che non tutte le invasioni del
secolo precedente. Ma Cassiodoro non si lasciò scoraggiare. Benché
costretto ad abbandonare la vita pubblica e rifugiarsi in un
chiostro; trovò l’occasione di mandare ad effetto il suo ideale
nel monastero che fondò nelle sue grandi tenute calabresi di
Vivarium.
Qui raccolse una biblioteca e stese i
suoi due programmi di studi monastici - le Institutiones divinarum
et saecularium litterarum - che sono tra i documenti fondamentali
della storia della cultura medievale. La prima di queste opere, e la
più importante, si occupa della cultura religiosa e insiste sul
bisogno di un alto livello di dottrina per lo studio e la
trascrizione dei sacri testi; la seconda è un compendio
enciclopedico delle sette arti liberali, specialmente la grammatica,
la retorica e la dialettica. È il vecchio curricolo del Basso Impero
adattato alle esigenze della nuova società religiosa. Come in
Gregorio Nazianzeno e in Agostino, le arti sono considerate uno
strumento di educazione religiosa, non come fine in se stesse. Ma
esse sono uno strumento necessario, poiché la loro negligenza
implica un indebolirsi e impoverirsi della cultura teologica alla
quale servono. Persino lo studio dei poeti e dei prosatori pagani è
considerato legittimo e addirittura necessario, poiché senza di essi
è impossibile un perfetto tirocinio nelle arti liberali.
Cosi Vivarium fu il punto di partenza
di quella tradizione di erudizione monastica che sarebbe divenuta in
avvenire la gloria dell'ordine benedettino. Il monachesimo
occidentale ricevette il retaggio della cultura classica e la salvò
dalla rovina che travolse la civiltà laica dell'Occidente latino
alla fine del secolo VI. Alle biblioteche e agli scriptoria
dei conventi noi dobbiamo la conservazione e la trasmissione di quasi
tutto il corpo della letteratura classica latina che possediamo oggi.
È vero però che il monachesimo italiano stesso ebbe a soffrire per
questo collasso, e Cassiodoro nella sua terra non lasciò nessun
successore. La sua opera venne ripresa e portata a termine dai figli
di un mondo nuovo : i monaci irlandesi e anglo-sassoni, i quali
prepararono la strada a quella rinascita del classicismo cristiano
che emerse finalmente nel periodo carolingio.
IV. I BARBARI
I tre elementi sopradescritti sono le
reali fondamenta dell'unità europea, ma non sono i soli che
costituirono l'Europa. Essi sono gli influssi formatori che
foggiarono la materia della nostra civiltà, ma la materia stessa era
altrove, nell'oscuro caos del mondo barbarico. Poiché furono i
barbari a fornire la materia umana di cui si è fatta l'Europa; essi
furono le gentes in contrasto con l’imperium e con
l’ecclesia, le fonti dell'elemento nazionale nella vita
europea.
In passato l'importanza di questo
elemento veniva ridotta al minimo dagli studiosi e dagli
ecclesiastici che controllavano l'educazione e il pensiero, poiché
la loro attenzione era concentrata sulle tradizioni dell'alta
cultura, tanto letteraria come religiosa, della quale essi si
sentivano i custodi designati, e perché molto naturalmente erano
ostili a tutto ciò che sapesse di barbarie. Soltanto col secolo XIX
la vitale importanza del contributo nazionale alla civiltà europea
venne compresa a fondo. Alla fine venne poi una travolgente reazione,
e il nuovo indirizzo di nazionalismo romantico, portò gli scrittori
a sminuire gli elementi classici e cristiani della nostra cultura e
derivare ogni cosa dal nativo vigore del genio nazionale. È questo
lo spirito che domina nella scuola teutonica della storiografia
ottocentesca, tanto in Germania come in Inghilterra, negli scrittori
panslavisti dell'Europa orientale, e nei partigiani della rinascita
celtica in Irlanda e in Francia. Oggi poi questa tendenza trova il
suo culmine nelle teorie di autori come lo Strzygowski, secondo i
quali la storia europea sarebbe stata progressivamente falsificata
dal maligno influsso della tradizione classica e della Chiesa
cattolica, entrambe originarie del Mediterraneo, - questa serra di
una sterile e artificiale cultura, - mentre essi scoprono vere
affinità con lo spirito nordico europeo nell'arte e nella cultura
dei barbari delle steppe asiatiche.
E, nonostante simili esagerazioni,
questa reazione non è ingiustificata. Giacché i popoli barbarici
non furono un semplice sfondo passivo e negativo alle attività
creatrici dell'alta cultura. Essi avevano tradizioni culturali loro
proprie, e soltanto oggi noi cominciamo a imparare dalle ricerche
sulla preistoria quanto queste tradizioni fossero antiche e radicate.
Risalendo fino all'età del bronzo, e anche più in là, troviamo
nell'Europa centrale e settentrionale centri di cultura che ebbero
uno sviluppo autonomo ed esercitarono un influsso non soltanto sui
popoli circostanti, ma persino sulla superiore cultura del
Mediterraneo orientale.
A prima vista può parere
ingiustificato descrivere antiche culture di questo tipo come
barbariche. Ma "barbarico" nel senso in cui adoperiamo la
parola non è affatto la stessa cosa di "selvaggio". Si
applica a qualunque stadio di sviluppo sociale che non abbia
raggiunto la superiore organizzazione stabile di uno stato urbano e
territoriale : insomma, alla cultura della tribù in contrasto con
quella della città. L'essenza di una società barbarica è che essa
poggia sul principio della parentela piuttosto che su quello della
cittadinanza o della suprema autorità dello stato. È vero che la
parentela non è l'unico elemento in una società di tribù; in
pressoché tutti i casi intervengono altresì fattori territoriali e
militari. Ma, laddove in uno stato incivilito le unità sono gli
individui o i gruppi economici, le unità nella tribù sono date dai
gruppi familiari. I diritti di ciascuno non dipendono da un diretto
rapporto con lo Stato, ma dalla posizione di parentela; e nello
stesso modo un delitto non è concepito come offesa contro lo stato,
ma come un'occasione di vendetta o di negoziato fra due gruppi
familiari. La colpa del sangue ricade su tutta la parentela
dell'omicida e deve essere espiata con compensi offerti ai parenti
della vittima. È vero che la più evoluta unità politica della
tribù o del clan non consiste necessariamente di consanguinei,
quantunque essi propendano a rivendicare con finzioni genealogiche
una simile parentela. Solitamente è la fusione territoriale o
militare di gruppi familiari.
Di conseguenza, a dispetto delle
proteste di studiosi irlandesi patrioti quali il MacNeil e il
Macalister, è legittimo descrivere l'organizzazione sociale
dell'Irlanda celtica come tribale, dato che, non meno di quella degli
antichi Germani, essa si fondava su gruppi familiari come la setta o
il clan 55.
La riluttanza a convenire in questa definizione è naturalmente
dovuta al sospetto di inferiorità culturale che la parola "tribù"
suggerisce. Nondimeno, sebbene la tribù sia una forma relativamente
primitiva di organizzazione sociale, essa possiede parecchie virtù
che molti tipi di società più evoluta potrebbero invidiarle. Essa è
compatibile con un alto ideale di libertà e di rispetto personale, e
richiama un intenso spirito di lealtà e di devozione da parte del
singolo verso la comunità e il suo capo. Di conseguenza, il suo
sviluppo morale e spirituale è assai spesso più evoluto della sua
cultura materiale. L'ideale della tribù, per lo meno nel caso dei
popoli pastori più guerrieri, è essenzialmente di tipo eroico. Di
fatto, possiamo dire die tutte le grandi tradizioni eroiche
ispiratrici di poesia epica e di leggende nazionali, siano esse
greche, celtiche, germaniche o arabe, debbono la loro esistenza a una
cultura tribale, per quanto, in linea di massima, solo nel momento in
cui questa viene a contatto con una cultura superiore e attraversa un
processo di dissoluzione.
Nell'epoca in cui la civiltà romana
venne a contatto col mondo barbarico, questa cultura guerriera delle
tribù celtiche e germaniche s'estendeva in tutta l'Europa
continentale e le dava un aspetto esteriore di unità nazionale e
culturale. Tuttavia, la cultura barbarica non fu mai unica o
uniforme. C'era una varietà estrema di tipi locali che
s'incrociavano vicendevolmente e producevano nuove forme di cultura
mista. Allo stesso modo che oggi nell'Africa occidentale s'incontrano
stati indigeni politicamente e socialmente organizzati in modo
abbastanza evoluto a fianco di tribù la cui vita non ha quasi
cambiato forma dalle più remote epoche preistoriche, cosi accadeva
nell'Europa barbarica. Il nostro sistema di suddividere l'Europa
antica in un numero relativamente piccolo di popoli storici, - i
Celti, i Germani, i Traci e cosi via, - ci da un'idea molto equivoca
della situazione reale. Giacché questi popoli non erano, come noi
potremmo immaginarci, nazioni, ma sparsi gruppi di tribù che
potevano abbracciare o meglio ricoprire gli avanzi di numerosi popoli
e culture ben più antichi. Un gruppo di tribù guerriere poteva
stendersi su un grande territorio e dare ad esso il suo nome, ma con
questo non creava uno stato e una cultura unitari. Sotto la società
dei padroni e dei conquistatori la vita dei paesani vinti si
manteneva, talvolta conservando lingua e religione, e sempre tendendo
a lasciar sussistere una distinta tradizione sociale e culturale.
Per conseguenza, quanto più una
società è guerriera, tanto più la sua cultura è superficiale e
frammentaria. Ondate successive di conquista non implicano
necessariamente un mutamento di popolazione; in molti casi non
significano altro che la sostituzione di una aristocrazia guerriera a
quella precedente. Nel corso dello sviluppo la classe dei padroni è
sovente responsabile della comparsa di un nuovo e più elevato tipo
di cultura, che è tuttavia privo di stabilità, e può dileguare
senza lasciar traccia duratura nella vita della popolazione paesana.
D'altra parte, nelle regioni che siano state poco toccate dalla
guerra e dalla conquista, non vi sono contrasti acuti fra i diversi
elementi della società. L'intero popolo tende a possedere una
cultura uniforme, per quanto sovente di tipo semplice e primitivo. Le
culture di questo tipo sono naturalmente molto ben radicate e non è
facile mutarle, ma di regola s'incontrano soltanto nelle regioni più
arretrate e meno fertili, che non attirano l'avidità dei
conquistatori. Le terre più ricche e più favorite sono quelle che
subiscono le invasioni più frequenti, e sono perciò le regioni che
possiedono la più scarsa unità sociale e provano i più rapidi
mutamenti di cultura.
Questi fattori furono di un'importanza
eccezionale nell'Europa barbarica, a causa dell'indole guerriera
della popolazione e dei numerosi movimenti d'invasione. Invero, noi
vedremo che il dualismo di questa cultura - il contrasto fra il
nobile guerriero e il contadino servo – non fu limitato all'epoca
dei barbari, ma si trasmise ai periodi successivi ed esercitò un
influsso importante sullo sviluppo della cultura medievale.
Di tutte queste culture guerriere la
più grande e la più tipica è quella dei Celti. Movendo dalle loro
terre della Germania sud-occidentale e della Francia nord-orientale,
i guerrieri celti con le loro larghe spade e i loro carri di guerra
corsero tutta l'Europa, saccheggiando Roma e Delfi e soggiogando
tutti i popoli fra l'Atlantico e il Mar Nero. Avevano stabilito i
loro avamposti nel cuore dell'Asia Minore e nell'Ucraina, e l'intera
Europa centrale, comprese le valli del Reno e del Rodano, il Danubio,
l'alta Elba, il Po e il Dnestr, era nelle loro mani56
.
Va da sé che quest'immenso territorio
non era occupato da una popolazione celtica omogenea. I membri delle
tribù celtiche costituivano un'aristocrazia guerriera che, dall'alto
dei grandi campi sulle colline o duns, i cui avanzi sono
ancora sparsi per tutta l'Europa, governava i territori da lei
conquistati. Dovunque andassero, portavano con sé un caratteristico
tipo di cultura e di arte che si era sviluppato nei territori alpini
verso i secoli VI e V a. C., e che riceve il nome dalla sede svizzera
di La Tène. Così per la prima volta nella storia la più gran parte
dell'Europa continentale venne unita in una cultura comune.
Dall'Atlantico al Mar Nero c'era un'unica razza dominante, che
parlava la stessa lingua e possedeva lo stesso tipo di organizzazione
sociale e le stesse usanze e lo stesso tenore di vita. Ma era una
cultura di capitani e guerrieri, che non toccava molto a fondo la
vita delle popolazioni soggette nè sostituiva interamente le più
antiche tradizioni di cultura locale. Soltanto nell'estremo
Occidente, in Irlanda, dove i conquistatori celti mantennero
indisturbato possesso per un millennio, poté la loro cultura
permeare l'intera società. Altrove essa dileguò, così rapidamente
come era venuta, davanti all'avvento di una più forte potenza -
quella dell'Impero romano, che raccolse i frutti delle conquiste
celtiche. I Galli che saccheggiarono Roma nel secolo IV non pensavano
certo che tutti i destini delle loro schiatte erano legati a quelli
della disprezzabile cittaducola italiana.
Eppure cosi doveva essere. Cominciando
dalle tribù galliche dell'Italia settentrionale, Roma avanzò a poco
a poco sul territorio dei Celti sinché tutto il loro grande impero
non andò distrutto. Dove i Celti avevano infranto la resistenza
delle culture locali, succedette Roma. Ma dove questa venne a
contatto con la più semplice e più omogenea società dei popoli
germanici, si vide sbarrato il cammino. Di fatto, l'estensione
dell'Impero romano in Europa coincide per un grado notevole con
quella dei territori celtici 57.
Restava, tuttavia, un'importante
eccezione. Siccome i Romani avevano adottato come frontiera la linea
del Danubio, due dei più antichi e importanti centri di cultura
dell'Europa continentale, la Boemia-Moravia e la
Transilvania-Valacchia, restavano fuori dell'Impero. Ciò nonostante
anche in queste regioni, nel secolo I a. C. scomparve l'egemonia
celtica, e si fondarono nuovi stati in seguito a invasioni germaniche
e al riaffermarsi dell'elemento indigeno nel popolo. Nel 68 a. C.
Burebista fondò il regno dei Daci sul basso Danubio, e settant'anni
dopo Maroboduo, re dei Marcomanni, conquistò la Boemia e vi
organizzò uno stato potente. Questi regni, e specialmente il
secondo, furono i principali intermediari fra il mondo barbarico e
l'impero romano. Vissero in stretto contatto con le province romane e
adottarono molti elementi di più elevata cultura dai mercanti e
dagli artigiani romani che si stabilivano nei loro territori.
In questo modo sorse un tipo misto di
cultura romano-barbarica, che si diffuse in lungo e in largo per
tutta l'Europa continentale. Persino nel remoto settentrione la
cultura materiale della Scandinavia, mantenutasi assai arretrata
durante il primo periodo dell'età del ferro, andava tutta
trasformandosi sotto l'influsso della civiltà mediterranea, che
giunse al Mar Baltico non solo per mare sulla rotta commerciale del
nord della Gallia e della foce del Reno, ma anche direttamente
dall'Europa centrale per la via dell'Elba e della Vistola. L'uso
dell'ornato classico nel disegno, come il fregio a meandro che
caratterizza nel Jutland l'arte di questo periodo, l'adozione di tipi
romani di armi e armature, l'importazione di vetrerie, bronzi e
monete romane, tutto testimonia la forza dell'influsso che dal sud si
esercitava allora sulla cultura nordica. Lo Shetelig, anzi, giunge
fino a sospettare che l'apparizione nella Norvegia sud-orientale e
nel Gotland di un nuovo tipo di inumazione e di suppellettili
sepolcrali, simili a quelle dei territori romani di confine, vada
attribuita a guerrieri nordici tornati alle loro case dopo aver
servito carne mercenari negli eserciti dei Marcomanni. E lo stesso
scrittore ritiene che il più antico sistema teutonico di scrittura,
l'alfabeto runico, sia venuto dal regno marcomanno nel secolo II d.
C. piuttosto che, come si suole supporre, dal regno goto della Russia
meridionale nel secolo successivo 58.
Comunque sia, non si possono avere
dubbi che la Russia meridionale fosse la principale strada per cui
l'influsso della civiltà mediterranea giunse nel settore orientale
del mondo barbarico. Dai primi tempi della colonizzazione greca fino
al periodo bizantino le città greche della Crimea e delle regioni
limitrofe, - specialmente Olbia e Chersoneso, insieme allo stato
indigeno, ma ellenizzato, di Bosporo, - praticarono un attivo
commercio coi popoli della steppa russa. La Russia meridionale fu uno
dei massimi granai del mondo antico, e le tombe greche, scitiche e
sarmatiche della regione sono piene dei più raffinati prodotti
dell'arte e dell'industria greca, campana e alessandrina 59.
Durante il periodo romano i Sarmati, popolo iranico dell'Asia
centrale, avevano preso il posto degli Sciti come potenza dominante
nelle steppe, e influssi iranici cominciarono a toccare la cultura
greco-scitica, della costa. Ma le città greche fiorivano ancora
sotto la protezione di Roma, e i prodotti dell'industria mediterranea
continuarono a farsi strada fin nel cuore della Russia.
Così, nel secolo II d. C., il mondo
barbarico era esposto da ogni lato a influssi della più elevata
civiltà del mondo mediterraneo, e tutta quanta l'Europa continentale
pareva a buon punto sulla strada della romanizzazione. Eppure, nel
secolo seguente, la situazione era già interamente mutata.
L'influsso della civiltà romana non era più in fase ascendente, e
la crescente pressione del mondo barbarico minacciava l'esistenza
stessa dell'Impero. Da ora innanzi Roma si manterrà sulla difensiva,
e anzi la sua civiltà comincia a mostrare tracce d'influssi
barbarici.
Tuttavia, questo riaffermarsi
dell'elemento barbarico nella vita europea era esso stesso dovuto in
gran parte all'opera di Roma. La pressione che per secoli l'Impero
aveva esercitato sui popoli germanici con la sua forza militare e col
suo influsso civilizzatore ne aveva trasformata la cultura e mutate
le condizioni della vita nazionale. Essi avevano imparato nuovi
metodi di fare la guerra ed erano stati costretti a unirsi per
resistere alla forza disciplinata di Roma. Inoltre, la loro naturale
tendenza ad espandersi era stata contenuta da un'inflessibile
pressione alle frontiere romane, sicché le popolazioni di confine
erano state ricacciate nei territori più lontani. Già nel secolo il
d. C., tutti quanti questi territori ribollivano di una repressa
agitazione di forze che avrebbero trovato sfogo soltanto in qualche
esplosione violenta. Le guerre sul Danubio del tempo di Traiano e di
Marco Aurelio, benché in apparenza vittoriose, a nulla servirono per
placare quest'agitazione. Al contrario esse affrettarono la crisi,
distruggendo la Dacia e il regno marcomanno, che erano gli unici
elementi stabili del mondo barbarico e i centri principali di
diffusione dell'influsso culturale romano. Per l'avvenire lo schermo
di stati-cuscinetto semi-inciviliti è distrutto, e l'Impero si trova
a immediato contatto con le mobili forze della barbarie esterna.
Dal tempo della guerra coi Marcomanni
il mondo germanico comincia ad assumere una novella forma. I vecchi
popoli di cui leggiamo in Cesare e in Tacito sono dileguati e in
luogo loro troviamo nuovi gruppi formati dall'arrivo di nuovi popoli
dal nord oppure dalla fusione dei frantumi delle antiche tribù in
nuove confederazioni guerriere o leghe nazionali.
Sul Reno inferiore fanno la loro
apparizione i Franchi, nella Germania meridionale la potenza
dominante è rappresentata dagli Alemanni, mentre a oriente si trova
la federazione degli Ermunduri, i Vandali nella Slesia e, più
poderosi di tutti, i Goti nell'Ucraina e nella Russia meridionale.
Questi ultimi, dalle loro dimore sul
Baltico, nel secolo II avevano emigrato nella Russia meridionale,
dov'erano venuti a contatto coi Sarmati iranici della steppa. Nei
primi anni del secolo III si spinsero al Mar Nero, dove fondarono uno
stato poderoso di elementi misti germanici e sarmatici. Le città
greche della Crimea, terzo grande centro d'influsso incivilitore nel
mondo barbarico, persero la loro indipendenza. Olbia e Tira vennero
distrutte, mentre Cherson e il regno ellenizzato di Bosporo furono
soggiogati. Da ora innanzi questa regione cesserà di essere la
principale fonte di diffusione della cultura greco-romana nell'Europa
orientale, e diverrà invece il centro di una nuova cultura
barbarica, da cui nuovi influssi orientali e specialmente iranici
verranno trasmessi all'intero mondo germanico.
Giacché, insieme con questi mutamenti,
andava effettuandosi un generale spostamento dell'asse della cultura,
ch'ebbe un influsso profondo sulla civiltà europea. Da una parte la
cultura e la vita economica dell'Impero andavano gradatamente
perdendo la loro vitalità per via delle cause che già sono state
descritte, e dall'altra il mondo orientale si stava ridestando a
nuova attività culturale. La fondazione del nuovo regno persiano
dei Sassanidi nel 226 fu l'evento più significativo del secolo III,
poiché segnò non soltanto la nascita di una nuova potenza mondiale
in Oriente, ma, più ancora, il riaffermarsi della nativa tradizione
culturale iranica contro l'egemonia della civiltà occidentale o
piuttosto ellenistica che per cinquecento anni aveva dominato
l'Oriente e l'Occidente insieme, il mondo mediterraneo era così
minacciato non soltanto dai barbari del nord, ma dalla sfida di una
civiltà anche più vecchia della sua, che aveva ritrovato vitalità
e cercava ora d'imporre la sua supremazia sui vincitori di un tempo.
A metà del secolo III scoppiò la
bufera. L'Impero, indebolito dalla guerra civile e dagli
ammutinamenti, fu attaccato dai suoi nemici su tutte le frontiere :
dai Persiani in Oriente, dai Goti e dai Sarmati sul Danubio, dai
Franchi e dagli Alemanni sul Reno.
Durante tutto il regno di Gallieno
(253-68) l'Impero venne devastato da un capo all'altro dalle furie
delle invasioni barbariche, della guerra civile e della pestilenza.
Antiochia fu saccheggiata dai Persiani, Atenepresa dai Goti e il
tempio di Diana in Éfeso incendiato dai Sarmati. I Franchi e gli
Alemanni devastarono la Gallia e l'Italia, e persino nella lontana
Spagna andò distrutta la ricca città di Tarragona. Tuttavia Roma
non perì. La salvarono gli imperatori-soldati dell'Illirico,
Claudio, Aureliano e Probo, sgominando i barbari, sventando i
tentativi degli usurpatori provinciali intesi a disintegrare
l'Impero, e ristabilendo le frontiere del Reno e del Danubio con
l'unico sacrificio degli avamposti della Dacia e della Germania
sud-occidentale.
Ma, come abbiam veduto, l'Impero non fu
più il medesimo. Il nuovo Impero di Diocleziano e di Costantino fu
uno stato semi-orientale, più somigliante alla monarchia persiana
che alla repubblica romana. Non poggiava più sul fondamento di un
esercito di cittadini, ma sopra una milizia semibarbarica, appoggiata
da barbari ausiliari d'oltre confine. E, allo stesso modo, gli
imperatori non erano più i capi del Senato romano e i rappresentanti
dell'antica tradizione civica, come Augusto e gli Antonini. Vivevano
o sulle frontiere, circondati dai loro barbarici uomini d'arme, come
Valentiniano I, o circondati dai loro eunuchi e funzionari nella
clausura orientale delle corti di Costantinopoli o di Ravenna, come
Onorio e Teodosio II. Di fatto, l'Impero stesso aveva mutato il suo
orientamento. Non guardava più all'interno nel mondo mediterraneo di
stati cittadini col suo centro in Roma, ma all'esterno, dalle nuove
capitali di Treviri, Milano, Sirmio e Costantinopoli, alle frontiere
del Reno, del Danubio e dell'Eufrate. La grande epoca della cultura
mediterranea era finita, e cominciava un nuovo periodo di sviluppo
continentale.
V. LE INVASIONI BARBARICHE E LA CADUTA DELL'IMPERO D'OCCIDENTE
L'epoca delle invasioni barbariche e
della fondazione dei nuovi regni germanici in Occidente è sempre
stata considerata come una delle grandi svolte della storia mondiale
e come il limite fra il mondo antico e il mondo medievale. La si può
paragonare all'epoca delle invasioni che distrussero la civiltà
micenea del mondo egeo, in quanto segna la comparsa di un nuovo
elemento razziale e l'inizio dello sviluppo di una nuova cultura.
Nondimeno, è facile esagerare il carattere catastrofico del
mutamento. La frattura con l'antica tradizione culturale fu molto
meno repentina e meno completa di quella che avvenne all'inizio
dell'età del ferro.
Come abbiamo già visto, fin dal secolo
III nell'antica civiltà classica la vita si era spenta, ed era sorta
una nuova cultura dovuta, più che all'arrivo dei barbari germanici,
a nuovi influssi orientali. L'antica cultura dello stato cittadino
con la sua religione civica si spense per graduale processo di
trasformazione interna, e il suo posto fu preso da una monarchia
teocratica strettamente collegata alla nuova religione mondiale: il
cristianesimo. Ma, mentre in Oriente questo sviluppo era connesso a
una nativa tradizione orientale d'immensa antichità, in Occidente
era del tutto nuovo, senza basi nella storia passata, e, per
conseguenza, non potè mettervi radici. In suo luogo incontriamo il
vecchio tipo europeo di una società fondata sulla tribù, che tende
a riaffermarsi, e sulle rovine degli stati cittadini delle province
riappare una società rurale di proprietari nobili e di contadini
servi, come era esistita nell'Europa centrale prima dell'avvento di
Roma. Di conseguenza, la nuova era in Occidente non si può spiegare
soltanto con l'intrusione violenta dei popoli germanici, ma occorre
rifarsi alla resurrezione, sul territorio stesso dell'Impero, di un
tipo di società più antico, quale lo vediamo con particolare
chiarezza nella Britannia occidentale. In realtà, il collasso del
sistema imperiale e il sorgere dei nuovi stati territoriali avrebbero
assai probabilmente seguito lo stesso corso anche senza l'intervento
degli invasori barbarici.
Questa trasformazione della società
nelle province occidentali dell'Impero era già cominciata sin dagli
ultimi anni del secolo II d. C. Il suo tratto fondamentale fu la
decadenza dei municipi e delle classi medie, e la riforma della
società sulla base delle due classi dei proprietari e dei contadini.
Abbiamo già veduto come la crescente pressione del fisco e del
controllo governativo soffocasse la vita dei municipi autonomi che
erano stati le cellule viventi del primitivo organismo imperiale
romano. Il governo aveva fatto il possibile, ricorrendo a
provvedimenti forzosi, per galvanizzare la macchina della vita
municipale con una artificiale attività, e per impedire alle classi
medie di abbandonare le città o eludere i loro obblighi entrando
nelle file dell'aristocrazia senatoria o comprando privilegiate
sinecure nel servizio imperiale. Ma ciò che una mano cercava di
costruire, l'altra distruggeva, dato che l'esistenza della classe
media era resa economicamente impossibile. Per conseguenza il governo
fu costretto a integrare la decadente magistratura cittadina con un
funzionario imperiale, il conte, che era direttamente responsabile
davanti al governo centrale e agiva al di fuori della costituzione
municipale: come anche a trasferire le responsabilità su personaggi
autorevoli come i proprietari delle vicinanze o i vescovi cristiani.
La città, infatti, non era più un
organo vitale nell'Impero. Economicamente lo Stato si andava facendo
puramente agrario, e la prima preoccupazione del governo era di
preservare la consistenza numerica della popolazione rurale e la
prosperità dell'agricoltura. Tutta la finanza dell'Impero dipendeva
dall'imposta fondiaria, ripartita non secondo il reddito ma secondo
un'unità definita, - il jugum o, nelle province occidentali,
la centuria, - che rappresentava il podere di un singolo
contadino. Era il medesimo principio dell'antico hide inglese:
teoricamente, il terreno di una singola famiglia, che era insieme
un'unitàfiscale e una rozza unità di misura 60.
In entrambi i casi quest'unità si basava sulla superficie di terra
coltivabile con un solo tiro di buoi, ma in Occidente essa era molto
più ampia che in Oriente, in parte perché ci si serviva di un tiro
a otto invece che a due, in parte a causa del tenore agricolo e
fiscale più basso. La dimensione dell'unità romana differiva a
seconda della sua produttività. In Oriente potevano essere 5 acri di
vigna e di fertile terreno arabile, o 60 acri di qualità più
scadente, mentre in Occidente la centuria consisteva di 200 jugera,
vale a dire di 120 acri. Ma, in qualsiasi caso, era un'unità
definita, effettivamente misurata e registrata dai funzionari del
catasto. L'imposta andava sotto il nome di capitatio (capitazione)
oppure di jugatio (fondiaria), il che mostra la stretta
connessione fra la terra e chi la lavorava. Se una sola di queste
unità restava incolta, era una perdita diretta per il fisco; quindi,
il governo, seguendo il precedente dell'Egitto, non solo legava il
libero agricoltore e i suoi eredi al loro podere, ma vietava ai
proprietari di vendere terreni senza gli schiavi che li coltivavano e
viceversa. Ancora, se una proprietà restava incolta per la morte o
la scomparsa del padrone, i proprietari limitrofi erano tenuti ad
aggiungerla ai loro poderi e pagarne l'imposta. Questa politica del
governo, tuttavia, si rivolse contro se stessa. La pressione fiscale
divenne così forte (talvolta giungeva fino al cinquanta per cento
del reddito) che il piccolo proprietario venne annientato e costretto
alla fuga o alla schiavitù per debiti.
Tutto favori così lo sviluppo
dell'aristocrazia senatoria, che sola aveva il potere di proteggere
se stessa e i suoi dipendenti dall'oppressione del fisco, dato che i
suoi membri venivano tassati non dai magistrati della città vicina,
ma dal governatore in persona. È bensì vero che il potere del
proprietario sui suoi schiavi era notevolmente diminuito. Costoro non
erano più come bestiame da comprare e vendere; erano servi -
ascripticii glebae - che non si potevano più separare dai
loro poderi e per conseguenza godevano di una loro vita familiare.
Ma, d'altra parte, il potere del proprietario sui fittavoli liberi
era in compenso enormemente cresciuto. La loro situazione implicava
di regola, non solo il pagamento del fitto, ma altresì un preciso
periodo di prestazioni sulle terre personali del padrone. E, siccome
questi era responsabile della loro imposta, anch'essi, non meno degli
schiavi, erano legati al suolo. Poi, siccome il padrone li
rappresentava davanti al fisco, accadde che egli li rappresentò pure
davanti alla legge. Il padrone possedeva poteri polizieschi, e in
molti casi teneva un suo tribunale locale e rendeva giustizia fra i
suoi dipendenti. Cosi schiavi e fittavoli si fusero in un'unica
classe di contadini semiservi, in assoluta dipendenza politica e
sociale dal loro padrone, e ad essi s'andava aggiungendo un numero
crescente di piccoli proprietari che cercavano di sfuggire
all'oppressione del collettore delle imposte raccomandandosi, alla
tutela di qualche nobile del vicinato e cedendogli la proprietà
della loro terra, a condizione di poter continuare a goderne l'uso.
Cosi, già prima della caduta
dell'Impero, si andava stabilendo una condizione di società
semifeudale. Nel secolo V incontriamo nobili come Ecdicio, che poteva
mantenere 4.000 poveri in tempo di carestia e levare il suo squadrone
di cavalieri in tempo di guerra; e il " burgus "
fortificato di Ponzio Leonzio, così come ce lo descrive, con le sue
mura e le sue torri, Sidonio Apollinare, potrebbe essere il castello
di un barone del Medioevo. Indebolendosi l'organizzazione romana, le
antiche condizioni della società gallica preromana, basata sul
rapporto del nobile "patrono" coi suoi "clienti"
soggetti, si riaffermarono in modo nuovo. Il nobile senatorio viveva
nelle sue terre, circondato dai villaggi dei dipendenti. Una parte
delle terre era in mano sua, e veniva coltivata dagli schiavi
domestici (casarii) e con le prestazioni che gli dovevano i fittavoli
(coloni). Il resto consisteva in poderi rustici che gli rendevano un
affitto e dei servizi. Questo sistema autarchico di economia rurale
s'era sviluppato nelle grandi tenute imperiali, amministrate come
unità autonoma dai procuratori dell'Impero e gelosamente protette da
ogni intramettenza dei municipi o delle autorità provinciali. In
Africa, in particolare, troviamo questo sistema già pienamente
sviluppato fin dal secolo II d. C., e durante il Basso Impero si
estese alle grandi tenute dell'aristocrazia senatoria. Per molti
aspetti esso somiglia al maniero medievale più prossimo a noi, e in
Francia, almeno, la maggior parte dei villaggi non derivano dai vici
romani ne dalle residenze barbariche ma, come denotano i loro nomi,
da tenute private o imperiali del Basso Impero. Infatti, per una
vasta parte della Gallia la nobiltà terriera e il corrispondente
sistema di organizzazione agraria sopravvissero alla conquista
germanica e fornirono uno dei tanti anelli di continuità fra il
mondo romano e quello medievale.
Quest'ordine sociale non scomparve con
la caduta dell'Impero d'Occidente. Al contrario, le invasioni
barbariche parvero in generale favorirne lo sviluppo, distruggendo il
complicato meccanismo della burocrazia imperiale e aumentando così
le tendenze centrifughe della società.
È importante ricordare che, escluse
poche crisi eccezionali, l'occupazione germanica fu un graduale
processo d’infiltrazione piuttosto che una catastrofe repentina.
Sin dal secolo II d. C., il governo romano aveva preso a stabilire
prigionieri barbarici nelle province, e durante il secolo IV masse
ingenti di Germani e di Sarmati vennero dedotti come coloni agricoli
e militari nelle campagne devastate, specialmente dei Balcani e della
Gallia settentrionale; sicché i barbari invasori trovavano di solito
i distretti della frontiera occupati da gente del loro stesso sangue,
ch'era familiarizzata con la civiltà romana e aveva sino a un certo
punto subito un processo di superficiale romanizzazione.
L'esercito stesso era largamente
reclutato tra questi coloni barbarici, come pure tra i sussidiati e
gli alleati d'oltre frontiera, che arrivarono, nel secolo IV, a
costituire il fiore delle truppe romane. Per molti dei barbari
infatti, l'Impero era, come disse il Fustel de Coulanges, "non
un avversario, ma una professione". Ciò e vero soprattutto dei
foederati, gli "alleati" che stavano con l'Impero
nello stesso rapporto delle tribù della frontiera di nord-ovest col
governo dell'India, e in cambio di regolari sussidi fornivano
all'esercito imperiale i contingenti delle tribù. In Occidente il
più importante di questi popoli era quello dei Franchi, specialmente
il ramo dei Salii. Dopo la sconfitta inflitta loro da Giuliano nel
358, ebbero il permesso di stabilirsi nella Toxandria o Belgio
settentrionale in qualità di foederati o alleati. Ma, già prima di
questa data, i Franchi erano entrati numerosi nelle legioni. Si dice
che Costantino li abbia molto favoriti, e Silvano, il magister
equitum che si ribellò contro Costanzo nel 355, era figlio di un
ufficiale franco. Nella seconda metà del secolo IV parecchie delle
figure dominanti nella storia dell'Impero d'Occidente sono Franchi,
come Merobaude, il ministro di Graziano, Arbogaste, il creatore di re
e il più importante rivale di Teodosio, e Bauto, il suocero
dell'imperatore Arcadio.
Ancora più importante fu la posizione
dei Goti in Oriente : essi furono veramente creatori di storia per
tutto il periodo che stiamo considerando. I Visigoti, stabiliti sul
basso Danubio, nella Dacia e nelle regioni limitrofe, erano divenuti
foederati dell'Impero, nel 332, e da allora si mantennero in pace coi
Romani per una generazione. I Visigoti furono il primo dei popoli
germanici a ricevere il cristianesimo, attraverso la predicazione di
Ulfila, un cittadino romano di origine gotica, che fu il fondatore
non soltanto del cristianesimo germanico, ma anche della letteratura
teutonica, con la sua traduzione della Bibbia in gotico. A causa,
tuttavia, del predominio che aveva l'arianesimo in questo periodo
nell'Impero d'Oriente, i Visigoti accolsero una forma ariana di
cristianesimo e, attraverso il loro influsso, l'arianesimo divenne la
religione nazionale di tutti i popoli germano-orientali.
Intanto, la sezione orientale del
popolo goto, gli Ostrogoti, rimasti indietro nella Russia
meridionale, aveva fondato un forte regno indipendente, la cui
supremazia era riconosciuta da tutti i popoli dell'Europa orientale
dalla foce della Vistola al Caucaso. La cultura di questo stato,
l'abbiamo veduto, non era puramente germanica, ma doveva i suoi
tratti caratteristici ai vinti o alleati Sarmati, essi stessi
fortemente influiti dalla cultura dell'Iran e dell'Asia centrale 61.
In questo modo i popoli goti impararono il nuovo stile artistico e il
nuovo metodo di guerra che trasmisero in seguito agli altri popoli
germanici. I Sarmati erano essenzialmente un popolo di cavalieri, ed
è a loro che dobbiamo l'invenzione (o almeno l'introduzione in
Europa) dell'uso delle staffe e degli speroni. Questa invenzione ebbe
un effetto rivoluzionario sulla tattica, rendendo possibile lo
sviluppo della cavalleria pesante, la quale avrebbe dominato l'arte
bellica europea per un migliaio d'anni. Di fatto, il Sarmata
ricoperto di maglia e il cavaliere goto armato di lancia e spada
furono i veri antenati e prototipi del cavaliere medievale.
Ma il regno ostrogoto non si limitò ad
esercitare un influsso potente sulla cultura dei popoli barbarici;
esso fu il punto di partenza del movimento che distrusse l'unità
dell'Impero romano e creò i nuovi regni barbarici dell’Occidente.
Durante il periodo delle invasioni la Russia meridionale e la
frontiera del Danubio, piuttosto che non la Germania e il Reno,
furono il vero centro della tempesta. Fu qui che la migrazione dei
popoli germanici dal Baltico verso il sud s'incontrò col movimento
dei popoli asiatici dalle steppe verso occidente, e le loro forze
combinate, sospinte dalla pressione esercitata alle loro spalle da
nuove orde di nomadi orientali mongoli, si precipitarono come
un'ondata irresistibile contro i baluardi dell'Impero romano.
La causa prima di questo movimento va
cercata nell'Estremo Oriente, sulle frontiere dell'Impero cinese,
donde gli Unni, il flagello secolare della Cina incivilita, erano
stati scacciati dagli sforzi degli imperatori Han e con la
costruzione della grande linea di difesa che andava dalla Cina del
Nord fino al Turkestan orientale. L'alluvione, arginata così in
Estremo Oriente, trascorse a occidente, fino a che venne ad
ammassarsi sotto i baluardi dell'Occidente romano.
Nel 49 a. C. gli Unni occidentali
lasciarono le loro antiche sedi e si diressero verso occidente,
seguiti un secolo e mezzo dopo dai rimanenti Unni settentrionali. Nel
secolo III essi avevano scacciato i Sarmati dalla regione del Volga,
e nel secolo seguente invadevano l'Europa. Nel 375 sommersero il
regno, ostrogoto, e mossero contro i Visigoti. Questi si buttarono
nelle braccia di Roma e vennero autorizzati a traversare il Danubio e
a stabilirsi nella Mesia. Ma qui l'oppressione dei funzionari romani
li fece ammutinare, tanto che, rafforzati dagli Ostrogoti e dagli
Alani sarmatici d'oltre Danubio, invasero le province balcaniche. Nel
378 si scontrarono con l'imperatore Valente e il suo esercito di
fronte ad Adrianopoli, e la loro vittoria fu dovuta alla carica
irresistibile dei cavalieri sarmati e ostrogoti, comandati dai re
alani Alateo e Safrace. Fu una delle battaglie decisive della storia,
poiché segnò il trionfo definitivo della cavalleria barbarica sulla
fanteria romana 62.
Graziano e Teodosio riuscirono a restaurare la potenza dell'Impero,
ma fu impossibile restaurare il prestigio delle legioni romane. I
Goti rimasero accampati nell'Impero, i Visigoti nella Mesia e gli
Ostrogoti nella Pannonia, e contingenti goti e alani, condotti da
capi propri, divennero il nerbo delle forze romane. Il favore che
Graziano e Teodosio mostrarono ai loro mercenari alani e goti non fu
popolare in Occidente, e fu tra le cause più gravi dei successivi
tentativi degli eserciti gallici, appoggiati da elementi conservatori
e pagani, d'affermare l'indipendenza dell'Impero di Occidente contro
Costantinopoli. Le guerre civili che ne risultarono ebbero un effetto
disastroso sulle fortune dell'Impero in Occidente. Non soltanto gli
eserciti occidentali vennero indeboliti e demoralizzati dalle loro
sconfitte, ma Teodosio fu costretto a trasferire la capitale
dell'Impero d'Occidente dalla Gallia nell'Italia settentrionale. Da
Milano e da Ravenna gli imperatori potettero tenersi a contatto coi
loro colleghi dell'Oriente, ma non furono più in grado di proteggere
le frontiere occidentali come avevano fatto da Treviri. La Gallia era
il centro vitale del sistema difensivo romano, e il ritiro del
governo in Italia aprì la strada alla disintegrazione dell'Impero
d'Occidente 63.
Alla morte di Teodosio, infine, le
forze distruttive si scatenarono. I Visigoti accampati nella Mesia si
rivoltarono, e dopo avere devastati i Balcani, si diressero verso
occidente in Italia, seguiti da nuove orde di barbari sbucati dalla
riva sinistra del Danubio superiore. Il barbaro comandante degli
eserciti occidentali, il vandalo Stilicene, riuscì momentaneamente a
respingere gli invasori, ma il Reno rimase sguarnito e l'ultimo
giorno dell'anno 406 un'orda di popoli, Vandali e Svevi, capeggiati
dagli onnipresenti Alani, irruppe nella Gallia e, devastato il paese
da un capo all'altro, trascorse nella Spagna. Tutto l'Occidente
divenne un caos, in cui generali romani, capi barbarici e contadini
insorti si combattevano l'un l'altro ciecamente. Nella lontana
Betlemme san Gerolamo scriveva :
Qualcuno
di noi sopravvive non per merito suo, ma per la misericordia di Dio.
Innumerabili popoli selvaggi occuparono tutta quanta la Gallia. Tutto
ciò che è compreso fra le Alpi e i Pirenci, fra il Reno e l'Oceano,
è devastato dal barbaro... Un tempo dalle Alpi Giulie al Mar Nero
ciò che era nostro non era più nostro, e per lo spazio di
trent'anni la frontiera del Danubio fu infranta e si combatté sui
territori dell'Impero. Il tempo ha asciugate le nostre lacrime e,
tranne poche barbe grigie, gli altri, nati nelle prigionie e negli
assedi, nemmeno più rimpiangono quella libertà di cui hanno perduto
anche il ricordo. Ma chi crederebbe che Roma combatte sul suo suolo
stesso, non più per la gloria ma per la vita; e nemmeno combatte
più, ma compra la sua salvezza con oro e oggetti preziosi ? 64
.
Effettivamente, nella seconda e nella
terza decade del secolo V parvero giunti i giorni estremi
dell'Impero. La stessa Roma era stata saccheggiata da Alarico; il
successore di lui aveva fondato un regno visigoto nella Francia
meridionale; i Vandali avevano conquistata l'Africa, e i Franchi, i
Burgundi e gli Alemanni avevano occupata la riva sinistra del Reno,
mentre gli Unni devastavano le province orientali e occidentali senza
distinzione. Tuttavia, sedandosi il tumulto, gli invasori capirono
che non era nel loro interesse distruggere l'Impero. I Goti erano
alleati dell'Impero da quasi un secolo, e per gli ultimi trent'anni
erano stati accampati nella province romane. Per conseguenza,
quand'ebbero conquistati i loro nuovi regni in Occidente, non ebbero
difficoltà a stabilire un modus rivendi con la popolazione romana e
ammettere la supremazia nominale dell'Impero. Lo stesso Ataulfo,
visigoto, dichiarò che un tempo aveva desiderato distruggere il nome
romano e farsi fondatore di un nuovo impero gotico, ma che era giunto
a comprendere che la barbarie indisciplinata dei Goti era impotente a
creare uno stato senza le leggi di Roma, e lui ora preferiva la
gloria di usare la potenza gotica a restaurare il nome di Roma 65.
Questo programma ebbe la sua attuazione
più piena nel regno ostrogoto che Teodorico stabilì in Italia nel
493. Nessun altro stato barbarico raggiunse un cosi alto livello di
cultura o assimilò a tal punto la tradizione romana di governo. Ma,
tranne i Vandali in Africa che restarono nemici irreconciliabili di
Roma, gli altri popoli della Germania orientale, - i Visigoti nella
Spagna e nella Gallia meridionale, gli Svevi nella Spagna e i
Burgundi nella Gallia orientale, - vennero a patti con l'Impero e
accettarono il grado nominale di alleati o foederati.
Erano accampati nelle terre dei
provinciali romani come una sorta di guarnigione permanente, allo
stesso modo che nel secolo precedente si erano momentaneamente
insediati nelle province del Danubio. I due popoli vivevano così a
fianco a fianco, ciascuno conservando le sue leggi, i suoi istituti e
la sua religione - rispettivamente cattolica e ariana. I nuovi venuti
erano parassiti per l'organismo sociale romano, ma, sebbene ne
indebolissero la vitalità, non la distruggevano. L'esistenza della
vecchia aristocrazia terriera romana continuava senza mutamenti
essenziali, come possiamo vedere dalle lettere di Sidonio Apollinare
in Gallia e di Cassiodoro in Italia, e, come quest'ultimo, spesso i
suoi membri occupavano alte cariche sotto i nuovi padroni.
Di qui la breve esistenza di questi
regni germanici-orientali. Essi non avevano radici nel suolo e
appassirono rapidamente. Nella Gallia vennero assorbiti dai Franchi,
in Italia e in Africa spazzati via dalla rinascita bizantina al tempo
di Giustiniano, nella Spagna distrutti dalla conquista musulmana
all'inizio del secolo VIII. Nel nord, tuttavia, la situazione era
differente. I popoli germanici-occidentali sciamarono attraverso le
frontiere - i Franchi nel Belgio e sul basso Reno, gli Alemanni sul
Reno superiore e in Svizzera, i Rugi e i Bavari sull'alto Danubio - e
presero possesso dell'intero territorio. Tutti questi popoli erano
pagani, conducevano tuttora la loro antica vita di tribù e avevano
avuti scarsi contatti con la superiore cultura romana. Non vissero
come una parassitica aristocrazia militare sul collo della
popolazione vinta, come avevano fatto i Goti; essi non cercavano
sussidi, ma terre su cui stabilirsi. La classe dei proprietari romani
venne sterminata, le città in molti casi distrutte, e nacque una
nuova società agraria di tribù. Quelli che sopravvissero
dell'antica popolazione, divennero servi e vignaioli, o si
rifugiarono nelle montagne e nelle foreste.
In Britannia la situazione era un poco
diversa, poiché qui il movimento d'invasione fu duplice. Alla metà
del secolo IV il maggiore pericolo per la Britannia romana non era
venuto dai Germani, ma dai Celti d'oltre frontiera, d'Irlanda e di
Scozia. Nel 367 le loro forze combinate avevano spazzato l'intero
paese, e fu allora che la maggior parte delle città e delle ville
vennero distrutte. Contemporaneamente i pirati sassoni facevano
scorrerie sulle coste orientali e meridionali della Britannia e su
quelle occidentali della Francia.
Così la civiltà britanno-romana venne
presa tra due fuochi e perì. Il suo ultimo segno di vitalità fu la
conversione dei suoi demolitori celti, per opera di uomini come san
Ninian e san Patrizio, figlio quest'ultimo di un decurione britanno
trasportato in Irlanda come schiavo durante una delle tante
invasioni. La tradizione che i Sassoni fossero invitati dai
provinciali stessi a venire in Britannia per proteggerla contro i
Pitti e gli Scoti è in se stessa assai plausibile. Poiché non è se
non il solito esempio dell'usanza di accogliere nelle province
"alleati" barbarici in cambio di servizi militari, e la
partenza delle legioni aveva lasciato disponibili per nuovi coloni
larghi tratti di campagna. Ma verso quel tempo la civiltà
britanno-romana era già moribonda, e la successiva storia della
conquista sassone è la storia della lotta fra due antagonistiche
società di tribù, non romane di cultura ne l'una ne l'altra, la
celtica nel Galles e nello Strathclyde, e la germanica nella
Britannia orientale. È bensì vero che la prima adesso era
cristiana, ma non era il cristianesimo della Chiesa imperiale coi
suoi vescovati cittadini e la sua rigida costituzione gerarchica,
come era esistito nella Britannia romana. Fu una nuova creazione
dovuta all'innesto del cristianesimo sulla cultura tribale celtica.
La sua organizzazione si fondava piuttosto sul monastero locale che
non sul vescovato diocesano, e toccò lo sviluppo più alto non in
Britannia ma in Irlanda, che fu in quest'epoca sede di una cultura
ricca e originale. L'opera delle scuole monastiche irlandesi e dei
santi monaci irlandesi avrà un'enorme importanza per la società
europea nell'era successiva alle invasioni barbariche, ma non è in
essi che si deve cercare l'elemento essenziale di congiunzione con la
civiltà del mondo antico. Il ponte fra il mondo romano e quello
medievale si trova nella Gallia. Nelle province mediterranee le
tradizioni della cultura romana erano ancora fortissime. Nella
Germania e nella Britannia romane la società tribale barbarica aveva
spazzato via tutto. Fu solamente nella Gallia che le due società e
le due culture s'incontrarono in condizioni relativamente pari, e le
circostanze risultarono favorevoli a un processo di fusione e di
unificazione che poteva fornire la base di un ordine nuovo.
Prima che ciò riuscisse possibile, era
necessario tuttavia trovare un principio di unione. Non era
sufficiente che i barbari tollerassero la cultura romana e
adottassero qualcuna delle forme esteriori del governo romano.
L'autentico rappresentante della popolazione assoggettata non era il
burocrate ne l'avvocato romano, ma il vescovo cristiano. Quando ebbe
luogo il tracollo del governo imperiale in Occidente, il vescovo
rimase il capo naturale della popolazione romana. Egli organizzò la
difesa della sua città, come Sidonio Apollinare a Clermont; trattò
coi condottieri dei barbari, come san Lupo con Attila e san Germano
col re degli Alani; e soprattutto fu il rappresentante, insieme,
della nuova società spirituale e dell'antica cultura laica.
In tutto il rovinio dell'epoca delle
invasioni, i capi della società cristiana, uomini come Sidonio
Apollinare o sant'Avito, serbarono fede non soltanto alla loro
religione, ma al destino imperiale di Roma e alla supremazia della
cultura antica.
I cristiani sentivano che, finché
sopravvivesse la Chiesa, l'opera dell'Impero non poteva andare
distrutta. Diventando cristiani - o piuttosto cattolici - i barbari
sarebbero diventati Romani, "il fiotto barbarico si sarebbe
infranto contro la rupe di Cristo". Come scrive Paolino di Noia
intorno a un missionario cristiano (Niceta di Remesiana),
Per
te
Barbari
discunt resonare Christum
Corde
romano.
L'unico grande ostacolo alla fusione di
Romani e barbari in una sola società era la differenza di religione.
Tutti i più antichi regni germanici, nella Gallia i Burgundi e i
Visigoti, gli Ostrogoti in Italia, i Visigoti e gli Svevi nella
Spagna, e soprattutto i Vandali in Africa, erano ariani e, come tali,
in stato di permanente opposizione alla chiesa dell'Impero e alle
popolazioni soggette. Donde il fatto paradossale che l'unificazione
della Gallia partì non dal regno goto-romano del Sud-Ovest
relativamente incivilito, ma dal barbarico regno franco del Nord-Est.
Eppure, nonostante il loro paganesimo, i Franchi possedevano una
tradizione di rapporti con l'Impero più antica di qualunque altro
popolo germano-occidentale. I Franchi Salii erano insediati su
territorio imperiale nel Belgio e sul basso Reno fin dalla metà del
secolo IV, e nel V come alleati dei governatori romani della Gallia
combatterono contro i Sassoni, i Visigoti e gli Unni. Nel 486 il loro
re Chiodovech o Clodoveo conquistò il territorio compreso tra la
Loira e la Somme, ultimo avanzo della Gallia romana indipendente, e
divenne cosi capo di un regno misto romano-germanico. Ma fu la sua
conversione al cristianesimo cattolico nel 493 a segnare una svolta
nella storia del tempo, perché inaugurò l'alleanza fra il regno
franco e la Chiesa, che fu il fondamento della storia medievale e che
in definitiva diede origine al restaurato impero d'Occidente sotto
Carlo Magno. Il suo effetto immediato fu di facilitare l'unificazione
della Gallia con l'assorbimento dei regni ariani, e di produrre da
parte del governo imperiale di Costantinopoli il riconoscimento di
Clodoveo come rappresentante dell'autorità romana.
Fu come rappresentante del
cattolicesimo contro l'arianesimo che Clodoveo intraprese la sua
grande campagna contro i Goti nel 507. "In verità mi affligge
il cuore, - sembra dicesse, - che questi ariani occupino una parte
della Gallia; con l'aiuto di Dio andiamo a sconfiggerli e a prendere
i loro territori" 66
. Nelle pagine di Gregorio di Tours la campagna appare come una
guerra santa, e l'avanzata di Clodoveo è accompagnata a ogni passo
da miracolosi segni del favore divino. La vittoria di Vouillé e la
conquista dell'Aquitania segnavano certo l'apparizione di un nuovo
stato cattolico nell'Occidente, e l'importanza di esso venne
riconosciuta dall'imperatore Anastasio, che conferì immediatamente a
Clodoveo le insegne di magistrato romano. Nel corso dei successivi
trent'anni la monarchia franca avanzò con straordinaria rapidità.
Non soltanto la Gallia fu ancora una volta riunita, ma verso oriente
il suo dominio si estese assai oltre le antiche frontiere romane. Gli
Alemanni, i Turingi e i Bavari vennero assoggettati in una rapida
successione, e sorse un grande stato, che fu la matrice non soltanto
della Francia, ma pure della Germania medievale. E in null'altro i
Franchi mostrarono più chiaramente di avere assimilata la cultura
romana che in quest'opera di conquista e di organizzazione della riva
destra del Reno. Ancora ai nostri giorni la Germania meridionale e il
suo popolo portano il segno del loro dominio.
Il nuovo stato sin dall'inizio si
comportò come l'erede della tradizione imperiale. Esso salvò ciò
che rimaneva dei relitti dell'amministrazione romana, e li rimise in
efficienza. Seguendo l'esempio degli imperatori, questi re barbarici
ebbero il loro "sacro palazzo" con la sua gerarchia di
funzionari. La loro cancelleria, coi suoi scribi gallo-romani,
mantenne le forme e la pratica della vecchia amministrazione. Le loro
entrate venivano dalle tenute del fisco imperiale e dall'imposta
fondiaria, basata sull'antico sistema dei registri del reddito.
L'unità amministrativa non era la "centesima” germanica come
esisteva negli antichi territori franchi del nord, ma il territorio
cittadino sotto l'autorità del conte. Perfino il personale
dell'amministrazione era tanto romano quanto franco. Protadio e
Claudio furono maestri di palazzo sotto la regina Brunechilde, e il
più capace comandante degli eserciti franchi nel secolo vi fu il
patrizio Mummolo. Sotto qualche aspetto il potere della monarchia
franca fu anche più assoluto di quello dell'antico governo
imperiale, almeno per quanto riguarda la Chiesa, che ora cade sempre
più sotto il controllo dello stato, sicché il vescovo, mentre non
perde nulla della sua importanza sociale, diventa insieme al conte il
principale rappresentante dell'autorità regia nella diocesi.
Ma, d'altra parte, nel nuovo stato non
è meno evidente l'elemento barbarico. L'unità romana era scomparsa
e con essa l'ideale romano di un regno della legge. Invero, abbiamo
qui un guazzabuglio di tribù e di popoli, di cui ciascuno vive la
sua vita secondo il proprio codice di leggi. Il franco, il
gallo-romano e il burgundo, vengono giudicati non secondo la legge
comune dello stato, ma ciascuno secondo il suo codice nazionale.
Anche quando gli istituti sono tolti di peso da Roma, lo spirito che
li informa non è più il medesimo. Giacché la forza motrice dietro
all'imponente struttura dello stato franco è ancora la tribù
guerriera barbarica. La forza che tiene unita la società non è
l'autorità civile dello stato nè i suoi tribunali, bensì la
fedeltà personale del membro della tribù al suo capo e ai suoi
parenti e del guerriero al suo duce. Il concetto di "fedeltà",
il rapporto dell'individuo che presta omaggio a un potente signore in
cambio di protezione, prende il posto del rapporto giuridico fra
pubblico magistrato e libero cittadino. Il delitto veniva considerato
essenzialmente un'offesa contro l'individuo e la sua famiglia, e si
poteva ripararlo con un accomodamento o guidrigildo che variava a
seconda della condizione e della nazionalità di ciascuno.
Questa mescolanza di elementi germanici
e basso-romani, che vediamo nella struttura dello stato, pervade
l'intera cultura dell'epoca.
All'inizio della conquista i due
elementi si fiancheggiano in netto contrasto, ma con l'andar del
tempo ciascuno perde la sua individualità e cede infine il posto a
un'unità nuova, È possibile studiare questo processo con
eccezionale chiarezza nel campo dell'arte, grazie all'opera recente
degli archeologi, specialmente scandinavi. Possiamo rintracciare due
distinte correnti artistiche che si diffondono in Europa dal secolo
IV in poi, la irano-gotica e la siro-bizantina. Entrambe hanno le
loro origini, come tanti altri influssi culturali dei tempi
preistorici, nell'Asia occidentale, e anch'esse seguono le due grandi
strade dei contatti preistorici: da una parte la via del
Mediterraneo, dall'altra la via della steppa russa a settentrione del
Mar Nero e le vallate del Danubio e della Vistola. Fu durante la loro
permanenza nella Russia meridionale che i popoli germanici impararono
dai Sarmati l'arte della gioielleria policroma e quel fantastico
stile di ornato animale già caratteristico dell'arte scitica.
Quest'ultimo divenne, a cominciare del secolo vi, caratteristico di
tutto il mondo germanico, fino alla lontana Scandinavia; ma la prima
è limitata ai popoli che emigrarono dalla Russia meridionale, come i
Goti e i non germanici Alani, e agli altri da essi influiti.
Bellissimi esempi di questa lavorazione di gioielli vennero rinvenuti
fin nella Spagna, a Herpes nella Francia sud-occidentale, e nel Kent
e nell'isola di Wight, fatto questo che indica una stretta
connessione, attraverso la Manica, della cultura jutica con quella
dei Franchi piuttosto che con la Danimarca. Dall'altra parte, la
regione dove presero stanza gli Angli mostra indizi, nei suoi
spilloni cruciformi dalla testa quadrata, di rapporti con la
Scandinavia, mentre la primitiva arte sassone della Britannia
meridionale differisce tanto dal resto dell'Inghilterra quanto dal
continente nell'uso di un ornato geometrico piuttosto che animale e
nella conservazione di motivi tipicamente romani, come l'orlo a ovuli
e linguette e il rabesco 67.
Il confronto fra la durata di queste scuole artistiche germaniche
offre un criterio per misurare quanto i popoli invasori conservassero
la loro cultura indipendente o cedessero all'influsso dell'ambiente
nuovo. In Inghilterra le tradizioni artistiche teutoniche
sopravvissero sino alla fine del secolo VII, ma in Francia l'influsso
mediterraneo dell'arte siriaca e bizantina appare già a mezzo del
secolo VI, e la sua vittoria è un segno di quella che uno studioso
scandinavo ha chiamata "la sgermanizzazione della cultura
franca".
Lo stesso problema vale per ciò che
riguarda la religione, la letteratura e il pensiero, sebbene qui
l'evidenza sia molto minore. Tranne che in Inghilterra, la nativa
religione germanica non era sopravvissuta alla conquista dell'Impero.
In qualche caso, come per i Goti, il cristianesimo aveva vinto sin
dal secolo IV, e la traduzione della Bibbia in gotico fatta dal
vescovo ariano Ulfila è il primissimo inizio della letteratura
teutonica. Dai Goti il cristianesimo si diffuse rapidamente fra gli
altri popoli germanici orientali, ma i Germani occidentali
conservarono ancora per molto tempo la loro religione nazionale; e la
conversione della casa reale franca e quella delle classi dirigenti
degli altri popoli germanici da essa sottomessi non si estesero
subito alla massa della popolazione rurale.
Inoltre, anche quando i Germani ebbero
nominalmente accettato il cristianesimo, i loro costumi e le loro
idee restarono quelli di una società pagana e guerriera. La
sepoltura di re Alarico nel letto del fiume Busento, circondato dal
suo tesoro e dai suoi schiavi massacrati, richiama piuttosto il
funerale di Patroclo che non quello di un re cristiano. Questa fu
infatti l'epoca eroica dei popoli germanici e, come ha mostrato il
Chadwick, è suscettibile di un vero e proprio parallelo sociologico
con l'epoca omerica della Grecia antica. In entrambi i periodi il
contatto di un'antica civiltà stabile con una società primitiva e
guerriera iniziò un processo di mutamento, che infranse
contemporaneamente l'organizzazione dello stato vinto e quella della
tribù conquistatrice e lasciò come fattore sociale dominante il
singolo duce e i suoi seguaci. Lo splendore di questi principi
guerrieri, gli "eversori di città", e la drammatica storia
delle loro avventure divennero una memoria e un ideale per le
barbariche età che seguirono. Teodorico di Verona, Gùnther di
Worms, Attila l'Unno, Beowulf, Hildebrand e gli altri, sono le figure
di un ciclo epico che divenne proprietà comune dei popoli teutonici,
e per quanto essi non abbiano mai trovato un Omero, la storia della
rovina dei Nibelungi e della distruzione del regno burgundo compiuta
dagli Unni non è meno tragica di quella della caduta di Troia e del
fato della casa di Atreo. Paragonata a queste eroiche leggende la
letteratura della società vinta appare assai povera. La poesia di
Sidonio Apollinare e di Venanzio Fortunato è l'ultimo anelito di una
tradizione che decade. Tuttavia, fu la tradizione latina che
sopravvisse vittoriosa sulle terre assoggettate, e la sua
conservazione ebbe un'importanza vitale per il futuro dell'Europa e
per la nascita della cultura medievale. Nonostante la mancanza di
talento letterario, scrittori come Orosio e Isidoro di Siviglia,
Cassiodoro e Gregorio Magno, fecero di più per foggiare gli spiriti
delle generazioni avvenire di molti geni di prim'ordine.
La tradizione della cultura latina
continuò a vivere nella Chiesa e nei monasteri e, dato che i barbari
stessi avevano ceduto al cristianesimo, non fu più soltanto la
cultura della popolazione vinta, ma la forza predominante dell'ordine
nuovo.
Così, col secolo VI, si era già
effettuata una fusione preliminare dei quattro diversi elementi che
contribuirono a formare la nuova cultura europea. L'effetto delle
invasioni fu di aprire un processo di mescolanza culturale e razziale
fra i barbari germanici da una parte e la società dell'Impero
dall'altra. Il centro vitale di questo processo fu nella Gallia, dove
le due società s'incontrarono in condizioni meglio equivalenti che
altrove, ma il suo influsso si estese su tutta quanta l'Europa
occidentale, in modo che tutti i popoli occidentali acquistarono chi
più chi meno una cultura romano-germanica. Dove, come in Italia,
l'elemento germanico era più debole, venne rafforzato nel secolo VI
da nuove invasioni barbariche, e dove, come in Britannia e Germania,
la tradizione della cultura romana pareva interrotta, venne
resuscitata nei secoli VII e VIII dall'opera della Chiesa e dei
monasteri.
Nonostante l'apparente vittoria della
barbarie, la Chiesa restò la rappresentante delle antiche tradizioni
di cultura e l'anello spirituale che congiunse in unità i
discendenti dei vinti romani coi loro barbarici vincitori. Ma
dovevano trascorrere dei secoli prima che nell'Europa occidentale gli
elementi costruttivi fossero abbastanza forti da trionfare sulle
forze della disgregazione e della barbarie. Il primato della cultura
era passato all'Oriente, e l' "età oscura" della civiltà
occidentale coincise con l'epoca d'oro della cultura bizantina e
islamica.
PARTE SECONDA - IL PREDOMINIO DELL’ ORIENTE
VI. L'IMPERO CRISTIANO E IL SORGERE DELLA CULTURA BIZANTINA
Mentre l'Occidente latino affondava a
poco a poco nel caos e nella barbarie, in Oriente l'Impero non solo
sopravvisse, ma divenne il centro di un nuovo movimento di cultura.
La storia di questo sviluppo ha sofferto della disistima e dell'oblio
degli uomini più di qualunque altra fase della cultura europea. I
moderni studi storici si rifanno da due punti - la storia
dell'antichità classica e quella delle moderne nazionalità europee
- e tutto ciò che non entra in questo schema è stato misconosciuto
o mal compreso. Persino il massimo dei nostri storici dell'Impero
d'Oriente, Edward Gibbon, mostra una totale mancanza di simpatia per
la sua cultura; esso è per lui una semplice appendice della storia
romana, mentre il suo successore del periodo vittoriano, George
Finlay, lo considera principalmente come un'introduzione alla storia
della Grecia moderna. In realtà la cultura bizantina non è soltanto
una decadente sopravvivenza del passato classico; bensì una nuova
creazione che fornisce lo sfondo all'intero sviluppo della cultura
medievale e, fino a un certo punto, persino a quello dell'Islam. È
vero che la grandezza della cultura bizantina sta piuttosto nella
sfera della religione e dell'arte che non nei suoi sforzi politici e
sociali. Il grande risveglio d'interesse per la storia bizantina
avvenuto negli ultimi anni è dovuto quasi interamente alla nostra
nuova estimazione dell'arte bizantina, poiché, se ammiriamo l'arte
di un popolo, non possiamo disprezzarne del tutto la cultura.
Tuttavia, la stessa durata dell'Impero d'Oriente ci dice ch'esso
dovette possedere anche elementi di forza politica e sociale.
Ma, se vogliamo comprendere la cultura
bizantina e apprezzarne i risultati autentici, non ci giova
giudicarla sui modelli dell'Europa moderna, e nemmeno su quelli
classici della Grecia e di Roma. Dobbiamo piuttosto studiarla in
rapporto col mondo orientale e collocarla nel suo giusto ambiente, a
fianco a fianco con le grandi civiltà orientali contemporanee, come
quelle della Persia sassanide o del califfato di Damasco o di Bagdad.
Nei secoli III e IV d. C., le antiche
civiltà orientali sembrano ritrovare la loro giovinezza e mostrarci
ancora una volta segni di intensa attività culturale. In India fu il
periodo di Samudragupta e di Candragupta II, l'età classica
dell'arte e della letteratura indù. In Cina, nonostante la
disgregazione politica dell'impero, fu l'inizio di un nuovo periodo
nell'arte e nella religione, dovuto al sorgere del buddismo, che ebbe
un profondo effetto sulla civiltà cinese. E, soprattutto, in Persia
fu un'epoca di rinascita politica e religiosa, l'epoca dei grandi re
sassanidi che restaurarono la tradizione nazionale della, monarchia
iranica e fecero dello zoroastrismo la religione ufficiale del nuovo
stato. Poiché la nuova monarchia persiana, come quelle dell'antico
Egitto e di Babilonia, fu una monarchia sacra, basata su concezioni
religiose. Il suo spirito ci è ben rivelato dai grandi intagli
rupestri di Shapur e di Nakshi Rustam. Qui vediamo Mazdak Ahura
mentre conferisce al Re dei re le insegne della maestà, e siedono
entrambi su grandi destrieri, con la stessa veste e gli stessi
ornamenti regali, mentre un altro rilievo ci mostra l'imperatore
Valeriano inginocchiato davanti al suo vincitore Sapore, in segno
dell'umiliazione dell'orgoglio romano ai piedi dell'Oriente
trionfante.
Il fiotto vittorioso dell'influsso
orientale non distrusse affatto l'Impero romano, ma ne mutò il
carattere. Già nel secolo III Aureliano, restauratore dell'Impero,
aveva riportato dalla campagna siriaca l'ideale orientale di una
monarchia sacra e aveva istituito una sorta di monoteismo solare - la
religione del Sole invitto - come culto ufficiale dell'Impero
restaurato. Questo teismo solare fu la religione della casa di
Costantino e preparò la strada alla sua accettazione del
cristianesimo. Il nuovo Impero cristiano di Bisanzio è un fenomeno
parallelo al nuovo regno zoroastriano della Persia sassanide 68.
Anch'esso era una monarchia sacra, basata sulla, nuova religione
mondiale, il cristianesimo. Il Sacro Romano Impero - Sancta
Respublica Romana - fu creazione, non di Carlo Magno, ma di
Costantino e di Teodosio. Col secolo V esso era diventato una vera
teocrazia, e l'imperatore era una specie di re-sacerdote, l'autorità
del quale era considerata come il riscontro e la rappresentanza
terrena della sovranità del Verbo divino. Di conseguenza il potere
dell'imperatore ormai non viene più dissimulato, come nei primi
tempi dell'Impero, sotto le forme costituzionali delle magistrature
repubblicane, ma lo circondano tutto il prestigio religioso e lo
sfarzo cerimoniale del despotismo orientale. Il regnante è
l'imperatore ortodosso e apostolico. La sua corte è il sacro
palazzo; la sua proprietà è la divina casa; i suoi editti sono "i
celesti comandi"; persino l'annuale riparto delle imposte viene
chiamato "la divina deputazione".
Tutto il governo e l'amministrazione
dell'Impero s'erano trasformati in armonia con questo ideale. Non
c'era più posto per un Senato inteso come indipendente autorità
costituzionale parallela a quella dell'imperatore, com'era stato nei
tempi di Augusto, né per l'esistenza dello Stato cittadino, centro
di un'amministrazione locale autonoma. Ogni autorità era
nell'imperatore e ne derivava. Egli era l'apice di un'immensa
gerarchia di funzionari che avvolgeva tutta la vita dell'Impero nei
suoi tentacoli. Ogni attività sociale ed economica era assoggettata
alla disamina e alle norme più minute, e ogni cittadino, ogni
schiavo, ogni capo di bestiame e ogni zolla di terra, erano annotati
in duplice o triplice copia nei registri ufficiali.
Il servizio civile era, oltre
all'esercito e la Chiesa, l'unica via di avanzamento sociale. I suoi
ordini più alti formavano la nuova aristocrazia, e il senato stesso
non era altro che un consiglio di ex-funzionari. Il sistema faceva
capo ai dicasteri centrali dei cinque grandi ministri - il prefetto
del pretorio, il maestro degli uffici, il conte delle sacre
largizioni, il conte dei beni privati e il questore del sacro palazzo
- e i loro dicasteri (officia), popolati di centinaia di scrivani e
notai, esercitavano un controllo assoluto sulle più minute
quisquilie amministrative delle province più lontane. Questo sistema
burocratico è il tratto caratteristico del Basso Impero dal secolo
IV al VII, e lo distingue egualmente dall'Impero dei primi tempi con
le sue civiche magistrature non stipendiate, e dalla società
semifeudale del regno sassanide. Tuttavia, esso non fu, come l'ideale
teocratico della regalità e del cerimoniale di corte, un risultato
di nuovi influssi orientali, ma il retaggio del servizio civile
dell'era degli Antonini e dell'organizzazione burocratica delle
monarchie ellenistiche. Senza dubbio, come ha dimostrato il
Rostovtzeff, le sue radici ultime risalgono alle tradizioni
amministrative delle grandi monarchie orientali di Persia e d'Egitto,
ma se orientale fu la sua origine, la mentalità occidentale l'aveva
però reso razionale e sistematico. Per conseguenza, nonostante i
suoi difetti - ed erano molti - possedeva qualcosa di quello spirito
politico dell'Occidente, che mancava tanto alla barbarie feudale dei
regni germanici quanto al despotismo teocratico dell'Oriente.
L'Impero bizantino era esposto a entrambi gli influssi: dauna parte,
i grandi proprietari terrieri e le creature della corona tendevano ad
affermare la loro indipendenza e a combinare privilegi e funzioni
politiche col possesso della terra; dall'altra, l'autorità imperiale
correva il pericolo di venire considerata l'irresponsabile fiat di un
monarca divinizzato. Tuttavia, data l'esistenza di un servizio
civile, nessuna di queste tendenze poté realizzarsi completamente, e
i concetti occidentali di stato e di regno della legge si salvarono.
Invero, al servizio civile bizantino noi non dobbiamo soltanto la
conservazione del diritto romano, ma altresì il compimento del suo
sviluppo. Lo studio del diritto romano era una disciplina regolare
per i funzionari, e fu come libro di testo per costoro che vennero
compilate le Istituzioni di Giustiniano.
Alla burocrazia di Teodosio II e di
Giustiniano siamo debitori dei grandi codici per mezzo dei quali il
retaggio della giurisprudenza romana venne tramandato al mondo
medievale e al mondo moderno.
Nello stesso modo la vita sociale
dell'Impero d'Oriente, benché colorata d'influssi orientali,
conservava tuttora qualcosa della tradizione ellenistica. Per quanto
gli istituti dello stato cittadino classico avessero perduta ogni
vitalità e restassero solamente come un guscio vuoto, non scomparve
anche la città, come doveva accadere nell'Europa occidentale.
La città rimaneva il centro della vita
sociale ed economica, e impresse un carattere urbano alla civiltà
bizantina. La città bizantina non era, come il municipio romano, una
comunità di proprietari terrieri e di reddituari. Derivava la sua
importanza specialmente dal commercio e dall'industria. Per tutta
l'epoca di distruzione e d'imbarbarimento economico che accompagnò
la caduta dell'Impero d'Occidente, le province orientali conservarono
un bel grado di prosperità economica. Le officine di Alessandria e
della Siria settentrionale continuavano a fiorire, e se ne
esportavano i prodotti in tutte le direzioni. Colonie di mercanti
bizantini, solitamente siriani, erano stabilite in ogni centro
importante dell'Occidente, non solo nell'Italia e nella Spagna, ma
per tutta la Gallia, persino a Parigi, dove un mercante striano venne
addirittura eletto vescovo nel 591. Verso Oriente si svolgeva
attraverso il Mar Rosso un attivo commercio con l'Abissinia e
l'India; e attraverso la Persia con la Cina e l'Asia centrale, cui
più tardi si giunse per la via del Mar Nero e del Caspio. Cherson
conservava la sua importanza come emporio del commercio di pellicce e
di schiavi con la Russia 69,
e le navi frumentarie di Alessandria veleggiavano a nord verso il
Bosforo e ad ovest verso la Spagna 70.
Tutta questa rete di vie commerciali
aveva il suo centro a Costantinopoli che, diversamente da Roma, era
la capitale tanto economica come politica dell'Impero. Fu questa una
delle cause essenziali della prosperità e stabilità dello stato
bizantino. Mentre l'Europa occidentale nei primi secoli del Medioevo
mancava quasi totalmente di vita cittadina, e stati potenti come
l'impero di Carlo Magno non possedevano una capitale fissa, il centro
dell'Impero d'Oriente rimaneva una metropoli brillante e popolosa. La
grandezza delle sue mura e dei suoi edifici, lo splendore della sua
corte e la ricchezza dei suoi cittadini facevano ai popoli
circonvicini un'impressione anche più grande della potenza militare
dell'Impero.
Ma non è possibile comprendere la
cultura bizantina se la si considera soltanto dal punto di vista
economico o politico. Poiché, in un grado maggiore che in qualunque
altra società europea, questa cultura fu religiosa e trovò la sua
espressione essenziale in forme religiose; e oggi ancora sopravvive
in alto grado nella tradizione della Chiesa orientale. L'europeo
moderno suoi considerare la società come essenzialmente sollecita
dell'esistenza terrena e delle esigenze materiali, e la religione
come un influsso che riguarda la vita etica dell'individuo. Ma per il
Bizantino, e in genere per l'uomo medievale, la società principale
era quella religiosa, e le faccende economiche e secolari un aspetto
secondario. La maggior parte di un'esistenza, specialmente quella di
un povero, veniva trascorsa in un mondo di speranze e di apprensioni
religiose, e le figure soprannaturali di questo mondo religioso erano
altrettanto reali per lui quanto per le autorità dell'Impero. Questo
spirito "oltremondano" risale, naturalmente, ai primi
secoli del cristianesimo, ma, dopo l'adozione di questo come culto
ufficiale dell'Impero, assunse forme novelle che divennero
caratteristiche della cultura bizantina. Soprattutto, ci fu
l'istituzione del monachesimo, che sorse in Egitto all'inizio del
secolo IV e si diffuse con rapidità eccezionale tanto nell'Oriente
che nell'Occidente. I monaci del deserto rappresentavano nella sua
forma più estrema la vittoria dello spirito religioso orientale
sopra la civiltà del mondo classico. Essi si erano totalmente
estraniati dalla vita della città e da tutta la sua cultura
materiale. Non riconoscevano obbligazioni politiche, non pagavano
imposte, non combattevano, non generavano figli. Tutta quanta la loro
attività si accentrava nel mondo spirituale, e la loro vita era uno
sforzo sovrumano di trascendere i limiti dell'esistenza terrena. Ciò
nonostante, questi asceti nudi e digiunanti divennero gli eroi
popolari e i tipi ideali dell'intero mondo bizantino. Rutilio
Namaziano poteva paragonarli ai porci di Circe, "salvo che Circe
mutava soltanto il corpo degli uomini, e costoro l'anima". Ma
Rutilio Namaziano era uno degli ultimi superstiti della vecchia
guardia del conservatorismo romano. Nell'Oriente tutti i ceti della
società, a cominciare dall'imperatore, facevano a gara nell'onorare
i monaci. Persino grandi della corte, come Arsenio, tutore di
Arcadio, rassegnavano la loro posizione e le loro ricchezze per
rifugiarsi nel deserto. E anche quando non veniva praticamente
attuato, l'ideale monastico restava il tipo della vita religiosa
dell'Impero. Il monaco era il superuomo; l'ecclesiastico e il laico
ordinari seguivano a distanza lo stesso ideale. Tutti accettavano la
subordinazione delle attività secolari alla vita puramente
religiosa. Per loro le vere forze che reggevano il mondo non erano la
finanza, la guerra o la politica, ma le potenze del mondo spirituale,
le celesti gerarchle delle Virtù e Intelligenze angeliche. E questa
gerarchia invisibile aveva il suo riscontro e la sua manifestazione
nell'ordine visibile della gerarchia ecclesiastica e nell'ordine
sacramentale dei divini misteri. Non riusciva difficile a un
Bizantino credere al miracoloso intervento della Provvidenza nella
sua vita quotidiana, quando vedeva liturgicamente rappresentato
davanti ai suoi occhi il miracolo continuo della teofania divina.
Questa visione di una realtà e di un
mistero spirituali era patrimonio comune del mondo bizantino. Le
persone colte vi giungevano attraverso la filosofia mistica dei Padri
greci, soprattutto di Dionigi l'Areopagita e Massimo Confessore,
mentre gli incolti la scorgevano attraverso le figurazioni
multicolori dell'arte e della leggenda. Ma tra le due visioni non
c'era contrasto, perché il simbolismo dell'arte e l'astrazione del
pensiero s'incontravano sul comune terreno della liturgia e del
dogma.
E così, mentre non prendeva parte
alcuna alla politica dell'Impero e alle faccende del governo
secolare, il popolo seguiva però con interesse appassionato le
faccende della Chiesa e le controversie religiose del tempo. È molto
difficile per noi comprendere un'epoca nella quale le clausole del
Credo atanasiano erano argomento di appassionate discussioni sui
crocicchi, e astrusi termini teologici, come "consustanziale"
e "inconsustanziale" divennero il grido di guerra di monaci
antagonisti.
Nientemeno che san Gregorio Nazianzeno
ci racconta che, se a Costantinopoli entravate in una bottega per
comprare una pagnotta, "il panettiere, invece di dirvene il
prezzo, argomentava che il Padre è maggiore del Figlio. Il
cambiavalute discorreva del Generato e dell'Eterno invece di contarvi
il vostro denaro, e, se volevate un bagno, il bagnino vi asseverava
che sicuramente il Figlio procede dal nulla".
Va da sé che in un mondo simile era
della massima importanza che i rapporti fra lo stato e la Chiesa
fossero molto stretti; perché, se l'Impero perdeva l'appoggio di
quest'ultima, metà della sua potenza se ne andava, e contro di esso
si sarebbe schierato non soltanto un organismo ecclesiastico, ma la
forza globale del sentimento popolare. Ecco perché l'unità della
Chiesa era una delle preoccupazioni più serie della politica
imperiale e, da quando Costantino aveva riunito il concilio di Nicea,
gli imperatori facevano tutto il possibile per preservare l'unità
ecclesiastica e imporre il conformismo alle minoranze recalcitranti.
Il vero fondatore della chiesa di stato nell'Impero d'Oriente fu
Costanzo II, imperatore tipicamente bizantino tanto per il suo
appassionato interesse alle controversie teologiche quanto per la
ferma credenza nella propria prerogativa imperiale di difensore della
fede e arbitro supremo delle dispute ecclesiastiche. Egli svolse
questa politica servendosi dei vescovi di corte capeggiati da Ursacio
e Valente, che costituivano una specie di santo sinodo in stretto
rapporto con l'imperatore, e dei concili generali convocati e diretti
dall'autorità imperiale 71.
Questo sistema incontrò una opposizione veementissima da due parti:
per opera cioè di Atanasio, il grande vescovo di Alessandria, e in
Occidente, dove la dottrina dell'indipendenza della Chiesa veniva
inflessibilmente mantenuta, soprattutto da sant'Ilario e da Osio, il
famoso vescovo di Córdova.
Nacque di qui il lungo scisma fra
l'Occidente e la chiesa di stato dell'Impero d'Oriente, quello scisma
che non ebbe fine finché il simbolo di Nicea non venne ristabilito
da un imperatore d'Occidente. All'inizio del suo regno Teodosio tentò
di restaurare l'unità imponendo il principio occidentale. "È
nostro volere, - scriveva, - che tutti i nostri sudditi professino
quella fede che il divino apostolo Pietro consegnò ai romani... e
che viene seguita da papa Damaso e dal vescovo Pietro, vescovo di
Alessandria e uomo di apostolica santità" 72.
Tuttavia questo decreto non fu sufficiente in se stesso a garantire
un accomodamento, e Teodosio fece, ricorso al tradizionale sistema
orientale di indire un concilio generale. Ma sebbene il concilio -
tenuto a Costantinopoli nel 381 - segnasse la vittoria
dell'ortodossia nicena, esso fu molto orientale di sentimento e cercò
di garantire l'indipendenza delle chiese orientali da ogni
intromissione dall'esterno. Decretò che per l'avvenire
l'organizzazione ecclesiastica avrebbe seguito le linee delle diocesi
civili 73,
e che al vescovo di Costantinopoli spettava il primato degli onori
subito dopo il vescovo di Roma, "perché questa città è la
nuova Roma".
Cosi la supremazia del nuovo
Patriarcato veniva esplicitamente fondata sulla sua connessione col
governo imperiale, quindi contro il principio della tradizione
apostolica sul quale basavano la loro autorità le tre grandi sedi di
Roma, Antiochia e Alessandria. E la sua evoluzione successiva venne
condizionata dai medesimi principi. Il Patriarcato si sviluppò come
centro della chiesa di stato e strumento della politica ecclesiastica
imperiale. Mentre Roma e Alessandria possedevano ciascuna una
tradizione teologica distinta e continuata, l'insegnamento di
Costantinopoli fluttuava con le vicissitudini della politica
imperiale. La sua tradizione era in sostanza più diplomatica che
teologica, dacché in ogni crisi dogmatica l'interesse fondamentale
del governo era di preservare l'unità religiosa dell'Impero, e il
Patriarcato divenne lo strumento di questi compromessi. Il tipico
rappresentante della tradizione ecclesiastica bizantina fu Eusebio di
Nicomedia, il grande prelato cortigiano della casa di Costanzo, che
occupò egli stesso la sede di Costantinopoli prima di morire. E come
questa Chiesa imperiale era stata semiariana ai tempi di Costanzo e
di Eusebio, così fu semimonofisita con Zenone e Acacio, e monotelita
con Eraclio e Sergio.
È vero che questa politica di
conciliazione per via di compromessi non riuscì a raggiungere il suo
scopo e finì con l'alienarsi tanto l'Oriente che l'Occidente. A poco
a poco la stessa Chiesa dell'Impero divenne una Chiesa nazionale, e
il patriarca di Costantinopoli il capo spirituale del popolo greco.
Ma questo fu uno sviluppo posteriore : l'Impero cristiano, dal secolo
IV al VI, fu ancora romano e internazionale. Il latino era sempre la
lingua ufficiale, e gli imperatori, tranne lo spagnolo Teodosio e
Zenone l'Isaurico, erano tutti nativi delle province balcaniche -
Pannonia, Tracia e Illiria -, regioni che avevano tuttora una cultura
largamente latina. Il grande imperatore che, più dì qualunque
altro, personifica ai nostri occhi questa tradizione e rappresenta
tipicamente l'ideale teocratico bizantino di una Chiesa di Stato e di
uno stato chiesastico - Giustiniano -, era lui stesso un Illirico di
lingua latina, che si considerava il rappresentante e il difensore
della tradizione imperiale romana e dedicò la sua vita al compito di
restaurare la distrutta unità dell'Impero di Roma.
Durante il secolo V le forze
disgregatrici erano vittoriose dappertutto, e l'Impero parve sul
punto di dissolversi in una congerie dì unità separate. In
Occidente i Goti fondavano regni indipendenti nelle province romane,
e i Vandali avevano il controllo del Mediterraneo. In Oriente i
popoli soggetti cominciavano a riaffermare sotto forme religiose la
loro nazionalità, e l'Impero stesso si andava rapidamente
orientalizzando, specie dopo che Zenone l'Isaurico ebbe tentato di
riunire alla chiesa imperiale i monofisiti, a costo di uno scisma con
Roma. Pareva che l'Impero d'Oriente dovesse perdere ogni contatto con
l'Occidente e ridursi a una potenza puramente orientale,
greco-siriaca come cultura e monofisita come religione.
Questa evoluzione venne però arrestata
dal regno di Giustiniano, e il secolo VI assiste a una generale
rinascita degli influssi occidentali. I primi atti della nuova
dinastia furono di restaurare la comunione con Roma, interrotta ormai
da trentacinque anni, e metter fine agli influssi siriaci che avevano
dominato la corte di Anastasio. Questo fu il preludio alla opera di
riorganizzazione ed espansione imperiale che fece la grandezza del
regno di Giustiniano. A una a una l'Africa, l'Italia e la Spagna
sud-orientale vennero riconquistate dagli eserciti imperiali, e
l'Impero romano dominò ancora una volta il mondo mediterraneo. A
dire il vero, queste vittorie vennero pagate con un dispendio di
sangue e di ricchezza che l'Impero poteva difficilmente permettersi,
e che esaurirono seriamente le risorse dello stato bizantino. Si
potrebbe perfino sostenere che le conquiste di Giustiniano furono
fatali all'esistenza dell'Impero, poiché le sue avventure militari
in Occidente lo portarono a negligere i baluardi essenziali da cui
dipendeva la salvezza del regno - le frontiere del Danubio e
dell'Eufrate. Ma l'Impero cristiano godette almeno un'ora suprema di
trionfo avanti le tenebre dei secoli successivi, e alla sua
vittoriosa espansione si accompagnò una notevole rinascita di
attività culturale, che fece del secolo VI l'èra classica della
cultura bizantina.
È vero che il genio creativo
dell'epoca si vede soltanto nell'architettura e nell'arte. Nel campo
della letteratura e del pensiero questa non è un'epoca di nuovi
inizi, ma un'estrema fiorita autunnale dell'antica tradizione
classica. Tuttavia questo conservatorismo intellettuale è esso
stesso un elemento essenziale della cultura bizantina. Come la
rinascita politica del secolo VI fu un ritorno alla tradizione dello
stato romano e come la sua opera legislatrice fu l'estremo termine di
sviluppo della giurisprudenza romana, così la letteratura di questo
periodo è l'ultima espressione di dodici secoli di cultura ellenica.
Poiché sembra un fatto notevole, e non è mai stato pienamente
riconosciuto come tale dagli storici, che, a dispetto dello spirito
religioso e teocratico che sembra dominare la civiltà bizantina, lo
sviluppo letterario del secolo VI segni un ritorno a modelli laici e
addirittura pagani. Procopio di Cesarea scrive delle dispute
teologiche del suo tempo col cinico distacco di uno scettico colto, e
in Egitto una scuola intera di poeti andava componendo elaborati
poemi sugli antichi argomenti della mitologia pagana 74.
Il grande periodo della letteratura greca cristiana finisce nel
secolo V con Cirillo e Teodoreto. Nell'epoca successiva la
letteratura teologica occupa un posto molto subordinato. I
rappresentanti della cultura erano retori come Procopio di Gaza e
Coricio, che si facevano un vanto dell'antica purezza del loro stile;
storici come Agatia e Procopio di Cesarea, dallo spirito immerso
nelle tradizioni elleniche; e filosofi e scienziati neoplatonici come
Damascio e Simplicio. È vero che Giustiniano chiuse le scuole di
Atene e costrinse i filosofi a rifugiarsi qualche tempo in Persia, ma
la sua repressione non fu del tutto dannosa, poiché indusse i
filosofi a dedicare le loro energie alla critica scientifica invece
che alla teosofia e magia che avevano influito il neoplatonismo fin
dai giorni di Giamblico. Non vi furono, da parte del governo,
tentativi di sopprimere l'erudizione laica né la tradizione
letteraria e scientifica pagana. Mentre fanatici imbestialiti davano
la caccia al patriarca per le vie di Alessandria, i professori
continuavano a dissertare di fisica e matematica nelle aule del
Museo, e, come ha dimostrato Pierre Duhem 75
la loro scienza non era cosi sterile e cosi priva di originalità
come di solito si crede. Essa ha un'importanza duratura nella storia
del pensiero umano, giacché non è soltanto la conclusione dello
sviluppo scientifico del mondo antico, ma altresì il fondamento
dello sviluppo del mondo nuovo. È la fonte donde trae le sue origini
la scienza dell'Oriente islamico, e, di qui, quella dell'Occidente
cristiano.
Questa sopravvivenza di una cultura
laica, che distingue la cultura dell'Impero d'Oriente da quella
dell'Occidente, fu dovuta in gran parte all'influsso del servizio
civile. L'Impero bizantino, almeno nel secolo VI, non era governato
da ecclesiastici ne da soldati illetterati, come l'Occidente, ma,
secondo il modo dei Cinesi, da una classe ufficiale di litterati
i quali si facevano un vanto della loro dottrina ed erudizione. A
volte questa tradizione letteraria prendeva, come quella dei
mandarini cinesi, la forma di una pedante passione antiquaria, quale
la vediamo in Giovanni Laurenzio il Lidio, i cui scritti mostrano un
curioso miscuglio di erudizione inopportuna e di tradizionalismo
burocratico. Ma fu pure incentivo a opere storiche di valore genuino
e all'estrema fiorita di poesia ellenica. L'ultimo importante
contributo all’Antologia greca venne dato da un gruppo di avvocati
e di funzionari investiti di alti uffici durante i regni di
Giustiniano e Giustino II : Agatia Scolastico e Paolo Silenziario,
Giuliano, già prefetto d'Egitto, Macedonie "consolare",
Rufino, e altri sette od otto. Senza dubbio fu questo un artificiale
frutto di serra, ma le delicate poesie erotiche di Agatia e di Paolo
non sono indegne della tradizione di Meleagro, e persino i loro versi
dedicati alle estinte divinità dell'Ellade - Pan, Poseidone e Priapo
- non mancano di un certo incanto 76.
Non c'è nulla in questa poesia che ci
ricordi il mutamento che ha travolto il mondo antico: essa appartiene
nettamente al passato, alle più schiette tradizioni dell'era
ellenistica. Se desideriamo una letteratura che esprima la mentalità
dei nuovi tempi, dobbiamo cercarla nella ritmica poesia liturgica di
Romano di Emesa, o nella cronaca di Giovanni Malala di Antiochia, il
quale vive in un mondo di miracoli e di leggende ed ha talmente perso
i contatti con l'antica cultura che considera Cicerone come un poeta
romano ed Erodoto come un successore di Polibio. Tuttavia sarà
Malala più di Procopio la fonte della tradizione storica bizantina
medievale, e sarà lui a diventare il modello dei primissimi cronisti
slavi e armeni 77.
Ma questa tradizione popolare non seppe
dare origine a una nuova letteratura bizantina di alta qualità. La
tradizione classica continuerà a dominare le sfere superiori della
cultura, e ogni rinascita della civiltà bizantina sarà accompagnata
da una rifioritura degli studi classici e da un ritorno agli antichi
modelli. La fedeltà dei bizantini al retaggio ellenico non ammetteva
la possibilità di una nuova attività creatrice.
Non fu cosi, tuttavia, nel campo
dell'arte, perche il periodo dell'Impero cristiano assistè a una
rivoluzione artistica che ebbe le più lontane conseguenze. La
decadenza dell'antico stato cittadino e della sua religione si
accompagnò con la decadenza della sua arte - la grande tradizione
ellenica della raffigurazione umana e del naturalismo
rappresentativo, in scultura e pittura. In luogo suo venne l'astratta
arte religiosa e decorativa dell'Oriente, col suo amore dell'arabesco
e la sua subordinazione delle forme animali e vegetali agli schemi
della decorazione. Cosi pure, il tempio greco e l'architettura civica
degli antichi, che guardano all'esterno coi loro fregi e il loro
peristilio, furono sostituite dall'architettura orientale a volta e a
cupola, originate dagli edifici di mattoni della Mesopotamia e della
Persia, che si concentra nello sfarzo della sua decorazione interiore
e nella costruzione di un interno elevato e spazioso. I grandi
edifici di mattoni della Roma degli ultimi secoli, le Terme e la
Basilica di Costantino e forse anche il Pantheon, rivelano già
l'influsso del nuovo spirito. Questo spirito trovò la sua massima
espressione nell'arte della Persia sassanide che in questo campo,
come pure nelle concezioni della monarchia e del governo, esercitò
un influsso potente sulla cultura bizantina. Qualche moderno
scrittore considera anzi la nuova arte come un ibrido frutto maturato
dalla mescolanza della tradizione di Roma imperiale con quella della
Persia sassanide. Ma non dobbiamo dimenticare che la Siria
settentrionale e la stessa Asia Minore possedevano native e radicate
tradizioni artistiche e culturali, e che queste province erano le
membra più attive e vivaci del nuovo Impero.
La Siria fu il punto d'incontro delle
due correnti d'arte dell'Occidente ellenistico e dell'Oriente
persiano, e vi apportò un elemento suo proprio - l'uso dell'arte a
scopo d'educazione religiosa per mezzo di figure e di scene dipinte
con un emotivo e semplice realismo completamente diverso dal
naturalismo classico dell'arte ellenica. Questa nuova arte religiosa,
che si sviluppa nella Siria col secolo IV, gradatamente si diffonde
per tutto l'Impero attraverso l'influsso dei monaci e anche, non c'è
dubbio, attraverso le colonie di mercanti siriaci, che si potevano
trovare in tutti i porti principali. Ma nei grandi centri della
cultura, Antiochia, Alessandria e Costantinopoli, la tradizione
ellenistica sopravvisse ancora e continuò a dominare l'arte e la
decorazione laiche. Anche nell'arte religiosa questa tradizione si
mantenne predominante in Roma e Costantinopoli nel secolo IV, e molto
tempo dopo l'introduzione del novello stile siriaco essa continuò a
coesistere come elemento costitutivo nella matura arte religiosa
dell'Impero cristiano.
Così l'arte bizantina è una creazione
composita, dovuta alla fusione di molti influssi differenti. È
orientale nel suo uso dell'ornato e del simbolo, nel suo attaccamento
al colore e alla luce invece che alla forma plastica, nel suo
sviluppo della volta e della cupola e nella nudità e semplicità
esterne delle sue chiese. D'altra parte serbò il tipo della basilica
romano ellenistica col suo giro di colonne e i suoi porticati;
sviluppò fino a un certo segno i motivi ornamentali ellenistici; e
non bandì del tutto l'elemento umano, naturalistico e
rappresentativo, che aveva formato l'essenza della tradizione
classica. Anzi, l'uso dell'immagine intagliata a rilievo, dipinta, e
soprattutto intarsiata a mosaico, è uno dei tratti più
caratteristici cosi dell'arte come della religione bizantina.
Col secolo VI l'Impero d'Oriente aveva
svolto la propria tradizione artistica, in cui gli elementi orientali
e occidentali erano condotti a una reciproca fusione organica. Il
nobile capolavoro di quest'arte fu la chiesa di Santa Sofia a
Costantinopoli, che venne costruita da architetti della Ionia, la
patria della cultura ellenica, ma che crebbe altresì sotto la
diretta ispirazione e sorveglianza di Giustiniano stesso. È la più
grande chiesa a cupola di tutto il mondo, l'unione perfetta di pianta
e decorazione orientali con la struttura organica greca, e sebbene
abbia perso qualcosa dello splendore della sua decorazione policroma,
questo è possibile dedurlo dall'arte contemporanea delle chiese di
Ravenna, in modo da farsi un'idea completa dell'arte bizantina nel
suo più grande periodo: nella chiesa ottagonale a cupola di San
Vitale in Ravenna abbiamo un esempio perfetto della decorazione
bizantina a mosaico. Nell'abside siede la figura del Cristo
Pantocratore, non il tremendo giudice dell'arte bizantina posteriore,
ma quasi ellenico per gioventù e bellezza. Egli è aureolato di
luce, il suo trono è il globo del mondo, e gli sgorgano ai piedi i
quattro fiumi del Paradiso; santi e angeli gli stanno ai lati, mentre
tende il diadema della monarchia celeste, come la figura di Aura
Mazda sui rilievi rupestri sassanidi. Sotto, dalle due partì, sono
due file solenni di figure: l'imperatore Giustiniano col clero e i
funzionari del sacro palazzo, e l'imperatrice Teodora con le dame
della sua corte. È la processione panatenaica della nuova civiltà,
e, se le manca il naturalismo e la trionfale umanità del fregio del
Partenone, il suo senso di maestà solenne è inarrivabile, e quando
guardiamo la chiesa bizantina nel suo insieme, col suo addobbo
policromo di mosaici e di marmi colorati, le sue antiche colonne, i
capitelli scolpiti, orientali per ricchezza e varietà eppure
ellenici per proporzione e grazia, e soprattutto il culminante
miracolo della cupola di Santa Sofia dove l'architettura trascende i
suoi limiti e diviene impalpabile e immateriale come la volta stessa
del cielo, dobbiamo ammettere che mai l'uomo riuscì a plasmare più
perfettamente la materia per farne il mezzo e l'espressione dello
spirito.
Questa concentrazione della Chiesa
bizantina sullo sfarzo interiore era intimamente connessa alla sua
funzione nella vita del popolo. Il tempio greco, come ancora oggi il
tempio indiano, era la dimora del dio, e nella sua cella fiocamente
illuminata non potevano entrare se non i sacerdoti e gli inservienti.
La chiesa bizantina era la casa del popolo cristiano e il teatro del
grande dramma annuale del ciclo liturgico. Perché la liturgia
assommava l'arte, la musica e la letteratura del popolo bizantino.
Qui, come nell'architettura, gli spiriti orientali e occidentali
s'incontravano su un terreno comune. La poesia liturgica fu creazione
della Siria cristiana, e il più grande innografo bizantino, Romano
di Emesa, traspose in greco le forme poetiche e ritmiche della
Madrasa e della Sogitha siriache; ma era pure un
mistero drammatico, dove ogni atto esterno aveva un significato
simbolico, e lo splendore del suo cerimoniale era l'espressione
artistica di un'idea teologica. Anche qui, come nella pittura e
nell'architettura, la tendenza ellenica a esternare, a rivestire il
pensiero di un abito materiale, trovò una nuova espressione
religiosa.
Ma la perfetta sintesi dei diversi
elementi della cultura bizantina cui giunse l'arte del secolo VI, non
fu possibile effettuarla in altri campi. Nella religione,
soprattutto, l'antagonismo fra Oriente e Occidente metteva tuttora a
repentaglio l'unità dell'Impero e della sua civiltà. Per quanto
all'inizio del suo regno Giustiniano avesse fatto il possibile per
conciliarsi il papato e rafforzare l'unione tra Costantinopoli e
l'Occidente, l'attrazione dell'Oriente a poco a poco si riaffermò.
La rappresentava, nel palazzo e nella stessa vita di Giustiniano,
Teodora, la donna fosca e scaltra che affascinò e soggiogò lo
spirito più semplice e irresoluto del marito illirico. Essa era
monofisita per convinzione e per politica, e sotto la sua protezione
il palazzo stesso divenne rifugio dei capi monofisiti e centro dei
loro intrighi. Servendosi della sua influenza Giustiniano riprese la
vecchia politica bizantina di riunire per mezzo di compromessi, alla
quale si attenne anche dopo la morte di lei. Nonostante l'inaspettata
resistenza del protetto di Teodora, il papa Virgilio, Giustiniano
riuscì nel 553 a vedere approvata la sua soluzione da un concilio
generale, e ad imporre al papato la sua volontà. Ma, come in tante
altre occasioni, un compromesso imposto con la forza non poteva dare
una soluzione vera. Esso causò in Occidente un nuovo scisma, che
durò a lungo dopo la morte di Giustiniano, e nemmeno riuscì a
conciliarsi i monofisiti, che da quel momento sviluppano una loro
esistenza organizzata fuori della Chiesa dell'Impero. La tendenza
alla separazione religiosa, che era andata crescendo dopo il secolo
V, si era concretata nell'estraniarsi permanente delle province
orientali dalla Chiesa dello Stato e dalla religione dell'Impero.
Questo disaccordo religioso era il sintomo delle grandi
trasformazioni sociali e spirituali che stavano avvenendo nel mondo
orientale e dalle quali ben presto doveva sorgere una nuova civiltà
d'importanza mondiale.
VII. IL RISVEGLIO DELL'ORIENTE E L'INSURREZIONE DELLE NAZIONALITÀ SOGGETTE
L'avvento dell'Islam è il grande fatto
che domina la storia dei secoli VII e VIII e influisce su tutto il
successivo, sviluppo della civiltà medievale, così dell'Occidente
come dell'Oriente. A chi consideri la storia da una visuale
esclusivamente laica e occidentale l'apparizione dell'Islam sarà
sempre un problema inesplicabile, poiché esso sembra segnare una
totale frattura nello sviluppo storico e non avere rapporto con nulla
di ciò che accadde prima. Solamente quando guardiamo sotto la
superficie della storia politica e studiarne la celata attività del
sotterraneo mondo orientale, l'esistenza di nuove forze destinate a
determinare l'avvenire della cultura orientale si fa visibile.
Infatti, le controversie ecclesiastiche
e teologiche del secolo V cosi poco significative per l'ordinario
storico laico, implicano una crisi nella vita dell'Impero d'Oriente i
cui risultati si estesero non meno lontano di quelli delle invasioni
barbariche in Occidente. Esse significano la rinascita delle
nazionalità soggette e il tramonto di quella cultura ellenistica che
dominava l'Oriente sin dai tempi di Alessandro. È vero che questa
cultura s'era praticamente limitata alle città, e la grande massa
della popolazione rurale non ne era stata toccata. Ma per tutta
l'epoca ellenistica e imperiale la classe cittadina era stata
l'elemento prevalente nella cultura, e la popolazione aborigena ne
aveva passivamente accettato il dominio. Ma l'avvento del
cristianesimo, coincidendo, come fece, col declino dell'importanza
della città e della borghesia urbana, si accompagnò a una grande
rinascita di attività culturale da parte dei popoli soggetti. Esso
vide il sorgere di una letteratura dialettale e il risveglio di una
coscienza nazionale fra i popoli d'Oriente. In Occidente il
cristianesimo si era diffuso per le città, e si riteneva che un
campagnolo (paganus) fosse necessariamente un pagano. Ma non era cosi
in Oriente, dove pare che il cristianesimo si diffondesse con la
stessa rapidità fra i campagnoli e i cittadini.
Ciò avvenne in special modo fra i
Siri, che formavano un solido blocco di popoli di lingua aramaica,
disteso dal Mediterraneo al Curdistan e agli altopiani della Persia,
e dal monte Tauro al Golfo Persico. A occidente gli influssi
ellenistici predominavano, e le ricche città della costa, Antiochia,
Berito, Cesarea e Gaza, erano roccaforti della cultura greca; ma, a
est dell'Eufrate, la città di Edessa sulle frontiere degli imperi
romano e persiano, era il centro di un nativo stato siro che divenne
il punto di partenza del cristianesimo orientale e la culla della
letteratura siriaca. Molto tempo prima della conversione dell'Impero
romano, già nei primi anni del secolo III d. C., Osroene divenne uno
stato cristiano, e di qui il cristianesimo si diffuse verso oriente
nell'Impero persiano e, a nord, nell'Armenia, che divenne anch'essa
al principio del secolo IV un regno cristiano. Per il popolo siriaco,
tanto straziato da imperi rivali e dominato da una cultura straniera,
il cristianesimo divenne un veicolo delle tradizioni e degli ideali
nazionali. Vediamo nella letteratura siriaca, per esempio nella
poesia di Giacobbe di Sarug, quanto fosse intensa la fierezza per
l'antichità e la purezza della chiesa nazionale. Mentre il popolo
eletto s'era dimostrato infedele e gli imperi pagani avevano
perseguitato il nome di Cristo, Edessa, "la figlia dei Parti
sposata alla croce", era stata sempre trovata fedele. " d
essa invitò Cristo con una epistola, che venisse a illuminarla. In
favore di tutti i popoli essa intercedette presso di lui affinché
abbandonasse Sion che lo odiava e venisse ai popoli che lo amavano"
78.
"Non da scribi qualsiasi imparò la sua fede: l'ammaestrò il
suo Re, e i suoi martiri l'ammaestrarono ed essa credette fermamente
[...] Questa verità Edessa la strinse a sé fin dalla giovinezza, e
nella sua vecchiaia non la baratterà come una figliola di poveri. Il
suo Re religioso si fece scriba per lei, ed essa ne imparò ciò che
riguarda il Signore - che è il Figliuolo di Dio, anzi, Dio. Addeo
che recò l'anello dello sposalizio e glielo mise in dito, la fidanzò
cosi al Figliuolo di Dio, che è l'Unigenito" 79.
Il cristianesimo siriaco fu la
religione di un popolo soggetto, che vi trovò la propria
giustificazione contro l'orgoglio della cultura dominante.
Shamuna,
nostra ricchezza, tu sei più ricco dei ricchi :
guarda!
i ricchi ti stanno alla soglia perché tu possa soccorrerli.
Piccolo
il tuo villaggio, povero il tuo paese: chi dunque ti concesse
che
signori di villaggi e di città corteggino il tuo favore?
Guardai
giudici nei loro mantelli e nei loro paramenti
prendono
la polvere sulle loro soglie, come se fosse la medicina della vita.
La
croce è ricca, e accresce ricchezza ai suoi adoratori;
e
la sua povertà disprezza tutte le ricchezze del mondo.
Shamuna
e Guria, figli di poveri, ecco alle vostre porte
s'inchinano
i ricchi per ricevere da voi quanto hanno bisogno.
Il
Figlio di Dio in povertà e in bisogno
mostrò
al mondo che tutte le sue ricchezze sono nulla.
I
suoi discepoli, tutti pescatori, tutti poveri, tutti deboli,
tutti
uomini di poco conto, divennero illustri per la loro fede.
Un
pescatore, che stava in un villaggio di pescatori,
Egli
lo fece capo dei Dodici, anzi, capo della casa.
Un
altro, un fabbricante di stuoie, che era già stato un persecutore,
Egli
l'afferrò e ne fece un vaso eletto della fede.80
Questo autoctono cristianesimo siriaco,
che ebbe i suoi umili inizi a Edessa nel secolo III, fu il punto di
partenza di una vasta espansione orientale che durante il Medioevo
era destinata a estendersi fino all'India, alla Cina e ai popoli
turchi dell'Asia interiore. Ma, per via forse della sua distanza
geografica, non venne a conflitto immediato con la chiesa
dell'Impero. La grande crisi religiosa del secolo V ebbe origine nel
cuore stesso del mondo ellenistico, proprio ad Alessandria.
Poiché in Egitto, non meno che in
Siria, le antiche tradizioni della cultura orientale si affermarono
sotto una forma cristiana. Durante tutto il periodo tolemaico e
quello romano il popolo dell'Egitto aveva conservata la sua antica
religione e cultura. Mentre Alessandria era il centro più brillante
della civiltà ellenistica, nella valle del Nilo l'antichissima
consuetudine della vita egiziana continuava immutata. Le due correnti
di civiltà scorrevano a fianco a fianco senza mescolare le loro
acque,perché la cultura indigena era ancora confinata nelle rigide
forme ieratiche della tradizione religiosa egiziana. La conversione
dell'Egitto al cristianesimo mutò tutto quanto. Essa distrusse le
barriere religiose che tenevano la popolazione indigena
artificiosamente segregata in un mondo a parte, e la mise in contatto
con gli altri popoli dell'Impero. Tuttavia non indebolì le forze del
nazionalismo, ne portò all'assimilazione dell'Egitto nell'ambito
della cultura greco-bizantina. Al contrario, da questo momento
l'importanza dell'elemento greco in Egitto declinò costantemente, e
l'uso della lingua greca venne a poco a poco sostituito dal copto,
vale a dire l'antico egiziano scritto in caratteri greci. La Chiesa
prese naturalmente il posto dell'antica religione di stato come
organo della nazionalità egiziana, ma, mentre a capo della vecchia
gerarchia c'erano stati i padroni forestieri che avevano usurpato il
posto di Faraone, il capo della nuova Chiesa fu il patriarca
egiziano. Come ai tempi della decadenza dell'antico Egitto il gran
sacerdote di Amon-Re in Tebe era divenuto la guida della nazione,
cosi ora tutte le forze del nazionalismo egiziano si raccolsero
intorno al Patriarca. Egli era "il divinissimo e santissimo
Signore, Papa e Patriarca della grande città di Alessandria, della
Libia, della Pentapoli, dell'Etiopia e di tutta la terra d'Egitto,
Padre dei Padri, Vescovo dei Vescovi, tredicesimo Apostolo e Giudice
del Mondo". Il controllo che aveva sulla chiesa egiziana era
assoluto – assai più grande, infatti, che non quello del papa
sulle chiese dell'Occidente, dato che tutti i vescovi dell'Egitto
venivano consacrati da lui e dipendevano direttamente dalla sua
volontà. Il solo potere paragonabile al suo era quello dei monaci,
che assai più dei vescovi erano i capi naturali del popolo.
II monachesimo egiziano è la suprema
fioritura del cristianesimo orientale, ed esprime tutto ciò che
l'indole nazionale ha di meglio e di peggio: dalla saggezza e
spiritualità di un Macario e di un Pacomio al fanatismo delle turbe
che assassinarono Ipazia e riempirono le vie di Alessandria di
tumulti e di sangue. Ma anche questo fanatismo fu un'altra sorgente
di forza per il patriarcato, che trovò nei monaci un esercito di
partigiani intrepidi e appassionati. Quando il patriarca di
Alessandria assisteva a un concilio generale, lo accompagnava una
guardia del corpo di monaci e parabolani 81,
che a volte atterriva l'intera assemblea coi suoi clamori e con le
sue violenze. Cosi grande era il potere del patriarca egiziano,
ch'egli aspirava a divenire il dittatore religioso di tutto l'Impero
d'Oriente. Atanasio aveva tenuto testa, da solo, a Costanzo II e
all'intero episcopato orientale82,
e i suoi successori non erano disposti a riconoscere la superiorità
di quel patriarcato di Costantinopoli che usciva dal nulla. Durante
la prima metà del secolo V Alessandria, guidata dai suoi grandi
patriarchi Teofilo e Cirillo, fu invariabilmente vittoriosa, e in tre
occasioni le riuscì di umiliare i suoi rivali di Costantinopoli e di
Antiochia. Ma la terza occasione - la condanna di Flaviano a Efeso
nel 449 - fu la sua rovina, poiché condusse a una rottura con Roma e
l'Occidente, con la cui cooperazione Alessandria si era sostenuta
finora.
A Calcedonia, nel 451, le forze
combinate di Roma e di Costantinopoli, di papa Leone e
dell'imperatore Marciano, riuscirono a sconfiggere la grande sede che
per tanto tempo aveva dominato le chiese dell'Oriente.
Di tutti i concili, quello di
Calcedonia fu il più notevole per il suo interesse drammatico e i
suoi risultati storici. Nella chiesa di Santa Eufemia a Calcedonia si
trovarono riunite infatti tutte le forze che da allora innanzi
avrebbero diviso il mondo cristiano. Le forze rivali dell'Egitto e
dell'Oriente si coprivano reciprocamente di sfide e di contumelie da
un lato all'altro della navata, mentre gli alti funzionari imperiali,
seduti davanti alla balaustrata coi legati romani al loro fianco,
dominavano impassibili la turbolenta assemblea e la guidavano con
inflessibile pertinacia verso una decisione finale chi; fosse in
armonia coi desideri dell'imperatore e del papa. Questa decisione non
fu raggiunta senza lotta. Di fatto, solamente quando i legati romani
ebbero chiesto i loro passaporti e che un nuovo concilio venisse
convocato in Occidente, e l'imperatore appoggiò il loro ultimatum,
la maggioranza s'indusse ad accettare la definizione occidentale
delle due nature di Cristo in una sola persona. La decisione cosi
raggiunta fu tuttavia d'una importanza incalcolabile per la storia
del cristianesimo tanto orientale come occidentale. Se il concilio di
Calcedonia si fosse concluso diversamente, lo scisma fra l'Oriente e
l'Occidente sarebbe avvenuto nel secolo V invece che nel XI, e
sarebbe stata impossibile quell'alleanza fra Impero e Chiesa
occidentale che fu un elemento basilare nella formazione del
cristianesimo occidentale.
Ma, dall'altra parte, questo
raccostamento con l'Occidente ampliò la frattura tra l'Impero e i
suoi sudditi orientali. La soluzione imposta dall'imperiosa volontà
di un grande papa e di un imperatore energico non poteva rimuovere le
sotterranee cause di disaccordo nazionale. Già alla presenza del
concilio i vescovi egiziani avevano dichiarato che non osavano
tornare in patria con la notizia che il patriarca era stato deposto,
temendo di venire assassinati dai compaesani imbestialiti. E questi
timori non erano immaginari, perché quando la notizia giunse ad
Alessandria la plebaglia insorse, massacrando la guarnigione
imperiale. Le misure vigorose del governo riuscirono per qualche
tempo a imporre in Alessandria un patriarca calcedonico, ma, appena
venne meno la mano energica di Marciano, anche costui finì vittima
della furia popolare e il venerdì santo venne fatto a pezzi nella
sua stessa chiesa. Da allora il monofisismo divenne la religione
nazionale dell'Egitto, e la minoranza che si mantenne fedele
all'ortodossia e alla chiesa dell'Impero, vennero sprezzantemente
chiamati Melchiti o Basilici, "la gente del Re". La vera
autorità in Egitto era nelle mani non del governatore imperiale, ma
del patriarca scismatico; e pare che Giustiniano riconoscesse questo
stato di cose, se è vero che propose di riunire in un'unica carica
la prefettura e il patriarcato, a condizione che gli scismatici
tornassero all'ortodossia.
Per questo è impossibile negare
l'importanza dell'elemento politico nell'affermarsi delle grandi
eresie orientali del secolo V. Se nell'Impero d'Oriente la Chiesa non
si fosse identificata col governo imperiale, tutta la storia del
monofisismo e delle altre sette orientali sarebbe stata differente.
Ciò nonostante, erano all'opera cause ben più profonde di qualunque
separatismo nazionale o locale: sotto tutti questi eventi c'era
l'opposizione fondamentale dei due elementi spirituali del mondo
bizantino. Come l'Impero stendeva le sue frontiere in Asia e in
Europa, cosi anche la sua cultura incarnava una tradizione orientale
e una occidentale. Per noi l'elemento orientale può parere
predominante, ma agli autentici orientali l'impero appariva tuttora
greco. Esso rappresentava sempre la vecchia tradizione ellenistica.
Era, anzi, lo stadio estremo di quella mutua penetrazione di Oriente
e Occidente cominciata ai tempi di Alessandro. La suprema espansione
dell'ellenismo ebbe luogo nell'epoca bizantina, poiché soltanto
allora, attraverso l'influsso della Chiesa ortodossa, i popoli e i
linguaggi indigeni dell'Asia minore vennero assorbiti nell'unità
della parlata greca. Per quanto il cristianesimo stesso fosse di
origine orientale, esso s'era incorporato elementi sempre maggiori di
cultura greca, allo stesso modo come la religione e la filosofia
greca verso quel tempo si andavano assimilando elementi orientali;
sicché col secolo IV la lotta tra il cristianesimo e il paganesimo
non era più una lotta tra Oriente e Occidente, ma fra due sintesi
antagonistiche di ellenismo e di orientalismo. Il puro spirito
orientale com'è rappresentato dallo gnosticismo non era meno avverso
alla teologia di Origene che alla filosofia di Plotino, e, allo
stesso modo, i Padri della chiesa latina conducevano una doppia
guerra col paganesimo romano e col montanismo e manicheismo
dell'Oriente. La religione dell'imperatore Giuliano e dei suoi
maestri neoplatonici, a dispetto della loro devozione al passato
ellenistico, era nel suo insieme più impregnata di elementi
orientali che non quella di Basilio e dei due Gregorii, i grandi
Padri cappadoci della Chiesa bizantina. Inoltre, i Greci avevano
trasportato nella nuova religione il loro tradizionale amore della
controversia e della definizione logica, ed era qui che provocavano
la massima resistenza nelle menti del mondo orientale. La poesia del
grande capo della chiesa siriaca indigena, Efrem di Nisibi, è una
lunga diatriba contro i Disputatori, i " figli della lotta”,
gli uomini che cercano di "assaggiare il fuoco, di vedere
l'aria, di toccare la luce". "Il detestabile spettacolo
dell'immagine a quattro visi, - (gnosticismo o manicheismo), egli
dice, - ci viene dagli Hittiti. La maledetta disputa, questo tarlo
nascosto, ci viene dai Greci". Per lui la fede non è una cosa
che vada ragionata o investigata; è il celato mistero ch'egli chiama
la perla, traslucida ma incomprensibile, "che ha come guscio la
sua stessa bellezza". "La figlia del mare son io, il mare
sconfinato. Ed è dal mare donde sono salita che porto in seno un
immenso tesoro di misteri. Fruga pure nel mare, ma non frugare il
Signore del mare" 83.
II medesimo spirito caratterizza il
massimo dei mistici bizantini, il siriaco del secolo V che scrisse
sotto il nome di Dionigi l'Areopagita, l'influsso del quale è così
importante in tutta la storia del pensiero medievale. Nonostante il
suo debito verso i neoplatonici, soprattutto verso Proclo, l'essenza
del suo insegnamento è il concetto orientale dell'assoluta
insufficienza del pensiero e del ragionamento umano a comprendere la
Divinità. Essa è " la divina Tenebra di là dalla luce ",
quel quid superessenziale che non ha né mente né virtù né
personalità né esistenza, che non è nume né bontà né unità,
che è superiore all'essere e all'eternità, e trascende ogni
concepibile categoria dell'umano pensiero. Questi due scrittori sono
ortodossi, ma è facile vedere come la medesima mentalità tendesse
naturalmente a perdersi nella religione del puro spirito e a negare
la realtà del corpo e del mondo materiale. Ciò spiega il successo
del manicheismo e dello gnosticismo, ma la cosa trovò pure
un'espressione meno radicale nel monofisismo, che vide
nell'incarnazione la comparsa su questa terra della divinità in
forma umana e negò la dottrina ortodossa dell'umana natura del
Cristo. Cosi non fu il mero sentimento nazionale a provocare su
questo problema il distacco delle province orientali dalla Chiesa
dell'Impero, mentre l'Occidente abbracciava la dottrina della
coesistenza delle due nature e della piena umanità di Gesù.
Sotto l'influsso di queste forze, i
popoli orientali nel corso dei secoli V e VI si staccarono tutti
dalla Chiesa dell'Impero: l'Egitto, la Siria occidentale e l'Armenia
divennero monofisiti, mentre i Siri orientali della Mesopotamia e
l'Impero persiano, che serbarono fede alle tradizioni teologiche
ricevute da Antiochia, divennero nestoriani. Gli uni e gli altri
s'accordarono nel respingere Calcedonia e nel distaccarsi dalla
politica religiosa del governo imperiale. Il secolo VI vide i
monofisiti diventare, da semplice partito, chiesa organizzata, e vide
svilupparsi un monachesimo e una letteratura monofisiti. Fu l'età
classica di questa cultura: l'età dei Padri e dei dottori della
chiesa monofisita. Due dei maggiori, Severo di Antiochia e Giuliano
di Alicarnasso, erano Greci dell'Asia Minore, ma i più, Filosseno di
Mabbugh, Giacobbe di Sarug e lo storico Giovanni d'Asia, scrissero in
siriaco, mentre quel grande medico e dotto che fu Sergio di Resina si
giovò della sua padronanza d'entrambe le lingue per tradurre in
siriaco Aristotele e Galeno. Così vennero gettate le fondamenta di
quella grande opera di trasmissione della scienza greca al mondo
orientale, che ebbe così lontani influssi sulla storia del pensiero
medievale.
Tanto i nestoriani come i monofisiti
fecero il possibile per diffondere i loro insegnamenti fra gli altri
popoli, e l'espansione del cristianesimo che avvenne in Asia e in
Africa a cominciare dal secolo V fu quasi interamente dovuta alla
loro attività. Col secolo VI le missioni nestoriane avevano
raggiunto Ceylon e i Turchi dell'Asia centrale, e nel secolo
successivo penetrarono fino in Cina. L'Abissinia, dove i primordi del
cristianesimo risalgono al secolo IV, adottò il monofisismo per
l'influsso di Alessandria, e nel secolo VI i Nubiani e le tribù
limitrofe del deserto vennero convertiti al cristianesimo da
missionari monofisiti. Contemporaneamente il cristianesimo penetrava
in Arabia per molte e svariate vie.
Nell'estremo sud dell'Arabia, la terra
degli Himyariti, c'era una chiesa araba indigena in rapporti con
l'Abissinia: era stata fondata nel secolo IV, e nel VI subì una
tremenda persecuzione. Dalla Mesopotamia i nestoriani fondarono
chiese fra gli Arabi del Golfo Persico e nello stato indipendente di
Hirah, mentre i monofisiti e la Chiesa dell'Impero erano in rapporti
con le tribù del deserto siriaco e dell'Arabia settentrionale, e
trovavano potenti protettori nei principi ghassanidi al-Ha'rith ibn
Giabala e al-Mundhir. Il contatto della nuova religione con l'antica
società pagana ebbe un effetto profondo sulla cultura araba. Se ne
vede l'influsso nel sorgere, di una letteratura araba, che sboccia
improvvisamente a vita vigorosa nel secolo VI. Parecchi di questi
primi poeti furono cristiani, come an-Nabigha, Adi ibn Zaid di Hirah,
e, soprattutti, il massimo dei poeti preislamici, Imru'ul-Qais,
figlio del signore del Negged, che entrò al servizio di Bisanzio
sotto Giustiniano.
Ma questa fu una manifestazione
relativamente superficiale del profondo movimento di fermentazione e
d'innovazione spirituale e sociale che investiva il mondo arabo. Era
imminente una crisi spirituale che avrebbe trasformate le sparse e
guerreggianti tribù barbariche della penisola arabica in una potenza
unita, che nel secolo VII doveva sommergere tutto l'Oriente sotto un
fiotto irresistibile di entusiasmo religioso.
VIII. IL SORGERE DELL'ISLAM
La conquista araba dell'Oriente nel
secolo VII sotto molti aspetti fa riscontro alle invasioni germaniche
dell'Occidente, due secoli prima. Come queste, segna la fine dei
secoli di predominio culturale greco-romano e la formazione di una
nuova cultura mista, che avrebbe contraddistinto il successivo
spirito medievale. L'avvento dell'Islam fu l'ultimo fatto di un
millennio d'influssi reciproci fra l'Oriente e l'Occidente, la piena
vittoria dello spirito orientale che a poco a poco, sin dalla caduta
della monarchia seleucida, s'era avanzato sul mondo ellenistico.
Maometto fu la risposta dell'Oriente alla sfida di Alessandro Magno.
Ma la conquista araba differisce profondamente da quella dei Germani
in Occidente, in quanto deve la sua origine all'opera di una grande
personalità storica. È vero che, come abbiamo veduto trattando
della cultura bizantina, l'Oriente era maturo per la rivolta, e un
qualche cataclisma era senza dubbio inevitabile. È vero altresì che
le tribù dell'Arabia, come quelle dell'Europa settentrionale, erano
in movimento, forse per lo stimolo delle condizioni climatiche e del
progressivo essiccamento dell'Arabia. Ma, senza l'opera di Maometto,
gli Arabi non avrebbero mai trovata l'unità e quello slancio
religioso che li fece irresistibili. Per il governo bizantino gli
Arabi erano un problema di frontiera più che una minaccia grave,
com'era invece quella della potenza persiana, che veniva tuttora
considerata il vero pericolo orientale. Da secoli l'Impero era in
rapporti con gli stati arabi : i Nabatei, Palmira, e infine il regno
dei Ghassanidi, che dipendeva dall'Impero bizantino. A pericoli che
venissero dall'interno della penisola non c'era nemmeno da pensare.
Le nomadi tribù beduine del deserto erano in un perenne stato di
ondeggiamento e di guerra sterminatrice, e le comunità stabili del
sud e dell'ovest dovevano la loro prosperità al commercio col mondo
bizantino. Nondimeno nel secolo VI avveniva in Arabia un processo di
fermento e di trasformazione culturale, e la situazione era matura
per il sorgere di una nuova potenza.
Per secoli il centro della civiltà
araba era stato nell'estremo Sud, nella terra di Saba, l'odierno
Yemen. Qui era sorta in tempi preistorici una stabile cultura di tipo
arcaico, derivata dalla Mesopotamia, e che forse risaliva ai tempi
sumerici; infatti la sua più tarda scultura ritrattistica suggerisce
un tipo fisico sumerico più che semitico. Vi si adoravano le
divinità babilonesi, - Ishtar, Sin e Shamash, coi sessi invertiti,
tuttavia, - e il suo tipo di stato templare era sumerico. A Saba i
primitivi regnanti portavano un titolo sacerdotale - Mufyrrib (colui
che benedice) - e a Ma'in il re stava in intimi rapporti con la
corporazione sacerdotale. Il dio era concepito come il signore del
territorio, possedeva abbondanti redditi e numerosi sacerdoti e
clienti. Iscrizioni sabee, che ci sono state conservate, menzionano
sovente la consacrazione d'individui e di famiglie come schiavi della
divinità o servitori del tempio, mentre regnanti e sacerdoti
entravano, a dir così, per adozione nella famiglia del dio, in
qualità di suoi figli e nipoti. Diversamente dalle tribù nomadi del
Nord, le popolazioni meridionali consistevano di pacifici
agricoltori, che costruirono vaste opere irrigatorie, in particolare
la grande diga di Marib. Non usavano vivere sotto la tenda; al
contrario erano grandi costruttori e lo Yemen è pieno delle rovine
dei loro castelli e templi. Le loro iscrizioni sono numerose e incise
elegantemente in una bella scrittura alfabetica simmetrica, che
probabilmente risale al secolo IX o X a. C. 84
La prosperità del regno di Saba,
tuttavia, poggiava soprattutto sul commercio. Era uria terra di oro e
di spezie preziose, l'incenso e la mirra tanto ricercati nei templi
dell'Egitto e dell'Asia; e fin da tempi antichissimi era lo scalo
intermedio del commercio fra l'India e l'Occidente, e il punto di
partenza della grande carovaniera che, attraverso la Mecca e Medina,
si dirigeva verso il Sinai e la Palestina. L'influsso sabeo si
estendeva lungo questa strada, e sembra che lo stato di Ma'an
nell'Arabia settentrionale e la terra di Midian siano stati un antico
germoglio del regno di Ma'in verso il Sud.
Con la costituzione dell'Impero romano
la prosperità di Saba andò declinando, poiché si aprirono nuove
vie commerciali con l'India, e tra l'Egitto e l'Abissinia venne
stabilito un diretto contatto per mare. La tradizione araba ascrive
la caduta di Saba al crollo della grande diga di Marib, fatto che
avvenne due volte, nel 450, quando 20.000 uomini vennero impiegati a
ripararla, e di nuovo nel 542; ma questo, più che la causa, fu senza
dubbio un effetto del declino della prosperità. Dal secolo III in
avanti, l'Arabia meridionale cadde sempre più sotto l'influsso del
regno di Abissinia, e nel secolo VI, dopo la sconfitta del re ebreo
Dhu Nuwas, venne governata per cinquant'anni da un viceré abissino,
che fece del cristianesimo la religione del paese. Finalmente nel 570
essa venne conquistata da un corpo di spedizione persiano, e rimase
sotto la sovranità persiana fino alla vittoria dell'Islam.
Nulla poteva mostrare un contrasto più
completo con questa stabile civiltà del Sud, che la vita delle
selvagge tribù nomadi del Nord, di quelli che usiamo considerare
come gli Arabi tipici. Tutta quanta la loro esistenza era occupata a
guerreggiare, a far scorrerie contro gli armenti e le mandrie dei
vicini e ad imporre tributi alle carovane dei mercanti.
Mentre l'organizzazione sociale dei
popoli sedentari possedeva un forte elemento matriarcale, come
vediamo nella leggendaria regina Bilkis di Saba e nella storica
Zenobia di Palmira, quella dei nomadi era nettamente patriarcale : è
anzi il più puro esempio che esista del tipo patriarcale, e si
conservò quasi immutata dai tempi di Abramo ai nostri. La religione
nella vita di costoro aveva una parte assai minore che in quella dei
popoli stabili, ma era dello stesso tipo, e per questo e per altri
rispetti l'antica cultura sabea esercitò un influsso considerevole
sui popoli nomadi.
Questi inoltre, verso nord, erano
esposti all'influsso delle culture più elevate della Siria e della
Mesopotamia. Qui erano sorti, prima lo stato mercantile dei Nabatei
col suo centro a Petra, poi quello di Palmira, che durante il secolo
III controllava la grande strada commerciale che univa l'Impero
romano al Golfo Persico, e finalmente gli stati confinari dei
Ghassanidi e di Hirah, in contatto immediato il primo con l'Impero
bizantino, il secondo con la Persia. Nell'età che precedette
immediatamente il sorgere dell'Islam, erano questi ultimi i
principali centri della cultura araba, e nelle loro corti fiorirono i
primi poeti e si sviluppò la forma classica della lingua.
Così Maometto nacque in un momento
critico della storia araba. L'antica civiltà del Sud era in pieno
declino, e tanto dal Nord come dal Sud invadevano il paese civiltà e
religioni straniere. La Mecca, sua città natale, era una delle
ultime roccaforti del paganesimo arabo. Era situata sulla grande
strada commerciale preistorica che dallo Yemen salivaal Nord; e
doveva probabilmente la sua fondazione, come Al Ala e Teima più a
nord, al movimento colonizzatore sabeo, ma non abbiamo notizia alcuna
della sua storia primitiva prima della conquista che verso il secolo
IV d. C. ne fecero i Quraish, una tribù di origine nordarabica.
La Mecca era una città-tempio di tipo
rudimentale e doveva la sua importanza al grande santuario della
Kaaba, ricettacolo e oracolo del dio Hobal, e al famoso
pellegrinaggio annuale che si faceva al monte Arafat, ad alcune
miglia di distanza. Come nel caso dei templi sabei, il dio della
Kaaba era il .signore del territorio circostante e gli abitatori
della Mecca erano suoi clienti e sudditi, tenuti a pagargli la decima
dei raccolti e il primogenito della mandra. La potenza dei Quraish si
fondava sulla loro posizione di sacerdoti e guardiani del santuario.
D'altra parte, il pellegrinaggio era una cerimonia di origine
indipendente, forse caratteristica dei popoli nomadi, accompagnata da
una tregua fra le tribù, una sorta di fiera sacra, molto comune fra
popolazioni che vivono nello stadio della vita tribale.
Così la cultura della Mecca aveva un
duplice carattere. Occupava una posizione intermedia fra due tipi
differenti di società: l'antica città santa dell'Arabia meridionale
e le tribù nomadi e guerriere del deserto. Similmente, l'età era di
transizione fra l'antico mondo del paganesimo arabo e l'avanzarsi
delle nuove religioni mondiali. Questi influssi ebbero molta parte
nello sviluppo dell'indole e della dottrina di Maometto. È
importante ricordare ch'egli era un cittadino, formato alla
tradizione della città-tempio e della comunità mercantile, e pieno
di disprezzo per gli Arabi del deserto 85
, quantunque derivasse senza alcun i dubbio dai suoi antenati del
deserto quello spirito guerriero e intrepido che dimostrò in grado
sempre maggiore nella seconda parte della sua carriera. La sua mente
era stata colpita a tondo dall'anarchia e dalla barbarie delle tribù
pagane sempre in guerra, e dalle vestigia della trascorsa grandezza
di una passata civiltà. Egli sentiva il bisogno che la società
araba aveva di una riforma morale, di un qualche nuovo principio
d'ordine, diretto a sostituire la primitiva legge di parentela e di
vendetta del sangue; e, nello stesso tempo, era conscio della totale
impotenza dell'uomo a compiere qualcosa con le sue forze. Infatti,
come tutti i Semiti, possedeva quella concezione della nessuna
importanza umana di fronte all'assoluta e irresponsabile potenza
divina, che è forse la naturale risultante psicologica della vita
durissima in un ambiente desertico. Ma l'onnipotente divinità di
Maometto non somigliò alle forze naturali divinizzate dell'antica
religione araba; essa somigliò al Dio delle nuove religioni,
l'ebraica e la cristiana, che facevano sentire anche in Arabia la
loro potenza. Senza dubbio Maometto venne a contatto con questi nuovi
influssi durante i viaggi commerciali che intraprese per conto di sua
moglie, la ricca e attempata Khadigiah. Le comunità ebraiche
dell'Arabia meridionale, e forse anche di Medina, erano numerose e
attivissime nel far proseliti, come pure quelle cristiane, e, per
quanto si sappia pochissimo della fiorente Chiesa dell'Arabia
meridionale, c'è parecchio nel codice di leggi attribuito
all'apostolo degli Himyariti, san Gregenzio, che ricorda l'austero
spirito puritano del primo Islam. Inoltre, c'era tutta una classe di
asceti indigeni, i cosiddetti Hanifa, che, come Maometto, predicavano
il monoteismo e una severa legge morale; e uno dei più celebri di
questi, Zaid ibn 'Amr, era un cittadino della Mecca e morì durante
la gioventù di Maometto. Ciò nonostante, sarebbe un grave errore
considerare Maometto come apostolo delle idee degli altri piuttosto
che una forza originale. Egli fu profondamente convinto della propria
ispirazione diretta. Come tanti altri mistici religiosi, egli soleva
cadere in una specie di estasi durante la quale udiva una voce,
sempre la medesima, che diceva cose impossibili da tacere e alle
quali non si poteva resistere. Queste rivelazioni prendevano la forma
di una sorta di prosa ritmica e rimata, simile senza dubbio ai versi
oracolari della poesia pagana, poiché Maometto deve continuamente
difendersi contro l'accusa di essere "un poeta" ovvero un
individuo posseduto da uno spirito.
Queste brevi rivelazioni estatiche
cedettero il posto, via via che Maometto diveniva il capo di un
partito e il fondatore di una setta, a un tono più prosaico e
didattico, a norme per la condotta di una giovane comunità, a
controversie con oppositori e a storie leggendarie tratte dalle fonti
più disparate: il Talmud, i Vangeli apocrifi, le storie dell'Arabia
pagana, e persino il racconto del bicorne Alessandro e della sua
spedizione sino ai confini della terra. Eppure, nonostante le sue
crudezze e il suo carattere composito, il Corano esercitò sulla
storia del mondo un influsso maggiore di qualunque altro libro
singolo. Ancora oggi esso è la suprema autorità, in fatto di vita
sociale e di pensiero, per duecento milioni di esseri umani, ed è
considerato d'ispirazione divina in ogni sua riga e sillaba.
La forza della religione di Maometto si
fonda essenzialmente sulla sua assoluta semplicità. È il nuovo tipo
di religione mondiale ridotta ai suoi più semplici elementi. Si
fonda sul principio dell'assoluta unità e onnipotenza di Dio e della
suprema importanza della vita futura. Ma, nonostante questa
semplicità, essa è tutt'altro che un deismo razionale, secondo come
la concepisce qualcuno dei suoi moderni apologeti. Non si fonda sulla
ragione, ma sulla rivelazione profetica nel senso più stretto della
parola, e sulla credenza nel miracoloso intervento delle potenze
soprannaturali. La vita futura è descritta con vivide immagini
materiali : il fuoco dell'inferno nel quale gli infedeli arderanno
per l'eternità, pascendosi dell'infernale frutto dell'albero
Zakkoum, e gli ombrosi giardini del paradiso, dove i fedeli si
adageranno senza fine su alti divani guarniti di broccato, bevendo le
acque della fonte Es Selsebil e accompagnati alle loro spose, le
vergini del Paradiso, "dagli occhi grandi, dai modesti sguardi
abbassati, belle come l'uovo intatto".
La dottrina morale e sociale di
Maometto è semplice e diretta come la sua teologia. All'unità di
Dio corrisponde la società dei credenti, che abolisce ogni
distinzione di razza, di tribù e di condizione sociale. Il primo
dovere è l'elemosina : " riscattare il prigioniero, sfamare
l'orfano e il povero che giace nella polvere”. Sono permesse la
poligamia e la schiavitù, ma, per il resto, il codice morale è di
una severità addirittura puritana, e veniva inculcato con pene
corporali.
D'altra parte, la semplicità morale e
dottrinale dell'Islam è controbilanciata da un elaboratissimo codice
rituale. I cinque raccoglimenti quotidiani nella preghiera col debito
numero di prosternazioni, le recitazioni del Corano, l'annuale severo
digiuno del Ramadan, le strette norme sulla purezza rituale e sulle
abluzioni, e soprattutto le cerimonie del pellegrinaggio alla Mecca,
fanno dei musulmani una comunità separata dalle altre, come gli
Ebrei, che ha il suo centro alla Mecca invece che a Gerusalemme.
Poiché Maometto, nonostante abbandonasse l'antico paganesimo arabo,
rimase fedele alla sua città santa. La Kaaba restò la Casa di Dio,
e persino le tradizionali cerimonie di baciare la sacra pietra nera e
compiere sette volte il giro della Kaaba vennero conservate, così
come i primitivi riti del pellegrinaggio al monte Arafat, con il
sacrificio di pecore e il taglio dei capelli e delle unghie a Mina.
Tutte queste pratiche venivano giustificate come parte della
"religione di Abramo", il fondatore della Kaaba e il
progenitore della stirpe araba.
Il pieno sviluppo della dottrina di
Maometto e l'organizzazione della comunità musulmana fu naturalmente
un processo graduale. La crisi della vita di Maometto avvenne quando
i pagani Quraish lo cacciarono dalla Mecca ed egli si rifugiò coi
seguaci nella vicina città di Yathrib, la odierna Medina. Fu questa
la hegira dell'anno 622 d. C., che divenne il punto di
partenza di tutta la cronologia musulmana. A Medina la nuova comunità
prese forma come società politica destinata a sostituire l'antica
unità di tribù, e di qui Maometto spediva le bande di predoni
contro le carovane degli abitatori della Mecca, ciò che fu l'inizio
della potenza secolare dell'Islam e dell'istituto della guerra santa.
Con le scaramucce che ebbero luogo nel deserto negli anni
immediatamente successivi, dalla battaglia di Badr nell'anno 2 alla
presa della Mecca e alla battaglia di Hunain nell'anno 8, tutto
quanto l'avvenire dell'Asia occidentale e dell'Africa settentrionale
fu deciso.
Da questo momento l'Islam si fa potenza
conquistatrice che assorbe e unifica tutte le comunità tribali
dell'Arabia. Era un principio fondamentale dell'insegnamento di
Maometto che i veri credenti dovessero vivere in reciproca pace, e
questa cessazione delle guerriglie intestine liberò un grande flusso
di bellicosa energia, che inondò i paesi limitrofi. Due anni dopo la
morte del profeta era cominciato l'attacco alla Siria e alla Persia.
Ma il successo e la rapidità straordinaria dell'espansione musulmana
non furono semplicemente dovuti allo spirito guerriero degli Arabi;
fu molto più un risultato di quell'intenso entusiasmo religioso che
rende la guerra santa un supremo atto di consacrazione e di
sacrificio, per cui morire nel " sentiero di Dio " è il
più alto ideale del musulmano.
Questo puritanesimo combattivo, che
nasce dall'essenza dell'Islam, trovò la sua più alta espressione
nello stato musulmano sotto i primi califfi, e fu questo, e. non la
grande epoca, di cultura e di filosofia sotto gli Abbassidi, il
periodo che i musulmani stessi considerarono sempre come l'età aurea
dell'Islam. Esso è descritto dall'autore di Al Fakhri nel seguente
famoso passo:
Sappi
che questo non era uno stato secondo la maniera degli stati di questo
mondo, ma somigliava piuttosto alle condizioni del mondo avvenire. E
la verità su di esso è che la sua maniera era secondo la maniera
dei Profeti, e la sua condotta secondo il modello dei Santi, mentre
le sue vittime erano come quelle dei re potenti. Quanto alla sua
maniera, era la durezza di vita e la semplicità del cibo e del
vestire; uno di loro [il califfo Omar] camminava per le vie a piedi,
indossando soltanto una lacera tunica che gli giungeva fino a mezza
gamba, e i sandali ai piedi, e teneva nella mano una frusta con la
quale infliggeva il castigo a chi se lo meritasse. E il loro cibo era
quello dei più umili dei poveri. Il comandante dei Credenti, 'Ali -
su cui sia pace -, aveva dai suoi beni un abbondante reddito che
spendeva tutto per i poveri e i bisognosi, mentre tanto lui che la
sua famiglia si contentavano di ruvidi indumenti di cotone e d'una
pagnotta di pane d'orzo. Quanto alle loro vittorie e ai loro
combattimenti, in verità la loro cavalleria raggiunse l'Africa e le
regioni estreme del Khorasan, e attraversò l'Oxus.86
Non è difficile comprendere che
l'esercito di mestiere dell'Impero bizantino e le leve feudali della
Persia non erano in grado di resistere a uomini animati da uno
spirito simile, specialmente ora che la potenza militare dei due
imperi era esausta per la grande lotta che si era da poco conclusa
tra loro. Tanto nella Siria come nell'Iraq la popolazione indigena
s'era allontanata dai suoi signori greci e persiani a causa
dell'oppressione fiscale e della persecuzione religiosa. I contadini
aramei avevano maggior numero di cose in comune con la democratica
semplicità dell'Islam primitivo che non con l'ortodossia della
Chiesa imperiale o della religione di stato zoroastrica, e se
continuarono a rimanere in una posizione d'inferiorità, per lo meno
i cristiani monofisiti e nestoriani erano alla pari coi loro aborriti
oppressori. Ma la conquista fu un disastro completo per la cultura
nazionale persiana e per le fiorenti città greche della Siria
settentrionale e della costa, le quali ultime non dovevano
risollevarsi mai più.
Cosi i pochi anni del califfato di Omar
(634-43) avevano trasformato l'Islam in un immenso impero, che
abbracciava la Siria, l'Iraq e l'Egitto, oltre la penisola arabica;
ma proprio quest'espansione fu fatale alla teocrazia originaria. Gli
Arabi erano divenuti i dominatori di una vasta popolazione soggetta,
che conservava la sua vecchia religione, ma era tenuta a pagare un
tributo individuale e non poteva portare armi. La società era divisa
cosi' in due classi, i guerrieri musulmani, e i tributari :cristiani,
contadini zoroastriani e cittadini. A costoro s'aggiunse presto una
terza classe musulmana di convertiti non arabi, i mawali o
clienti. Omar tentò di conservare la semplicità e l'eguaglianza che
erano state l'ideale di Maometto, vietando ai guerrieri di possedere
le terre conquistate e assegnando loro un regolare soldo pagato dal
tesoro pubblico. Le guarnigioni principali erano accampate nelle
città di Kufa, presso Ctesifonte, e di Fostat, presso il Cairo,
donde dovevano custodire i nuovi territori conquistati. Ma tenere a
freno dalla lontana Medina queste schiere turbolente di fanatici non
era cosa facile, e le antiche rivalità delle tribù ricominciarono a
far capolino. Da una parte, c'era il partito dell'antica aristocrazia
tribale guidato dalla casa di Umayyah; dall'altra, il partito fedele
agli ideali originari dell'Islam, gli accoliti del Profeta e i suoi
compagni d'esilio; e, a loro volta, questi si dividevano in coloro
che appoggiavano i diritti del suo parente più prossimo, il cugino e
genero 'Ali ibn Abi Talib, e i rigidi puritani, i cui principi erano
altrettanto democratici quanto teocratici, si che non riconoscevano a
nessuno un diritto personale al califfato. Erano questi i Kharigiti o
secessionisti, ma essi amavano denominarsi i "venditori",
Shurat, i venditori della propria vita per la causa di Dio, con
allusione a un passo del Corano: "In verità, dei credenti Dio
ha comperato la potenza e la sostanza, a condizione del compenso in
Paradiso. Sul sentiero di Dio essi combatteranno, e uccideranno e
saranno uccisi : è una promessa, poiché è garantito nella Legge e
nel Vangelo e nel Corano, e chi più fedele al suo impegno che Dio?
Gioisci dunque del contratto che hai stretto, perché questa sarà la
somma beatitudine" 87.
Questa posizione è rappresentata oggi non soltanto dai loro
discendenti diretti, gli Ibaditi dell'Arabia meridionale, ma più
ancora dal moderno movimento wahabita, che tenta di restaurare la
semplicità primitiva dell'Islam ed ha di nuovo quasi riunito
l'Arabia e scacciato il re del Hegiàz dalle città sante della Mecca
e di Medina.
Da questi tre partiti nacquero tutte le
guerre civili e le contese che lacerarono l'originaria unita
dell'Islam e impressero un segno profondo sulla storia futura. Il
califfo Othman, successore di Omar e capo degli Ommiadi (Omayyadi) e
dell'aristocrazia della Mecca, venne ucciso dai partigiani della
rigida tradizione musulmana. Dei suoi successori, 'Ali abbandonò
Medina per Rurali, mentre Mu'awiyah, il più potente dei membri della
famiglia omayyade, tenne Damasco e la Siria. Nel 661, 'Ali venne
assassinato da un puritano fanatico, e il califfato cadde nelle mani
degli Ommiadi, dai quali il secondo figlio di 'Ali, al-Husain, nipote
di Maometto, venne sconfitto e ucciso a Kerbela nel 681 : evento che
ancor oggi viene commemorato in tutto il mondo sciita, nella festadi
Ashura, col più vivo cordoglio e i gesti di mortificazione più
stravaganti. Cosi trionfò nell'Islam il principio laico, e Damasco
divenne la capitale di un grande stato orientale sotto il dominio
ereditario della dinastia ommiade. Le frontiere di questo stato
vennero allargate, a oriente fino a incontrare quelle dell'Impero
cinese, e a occidente fino alle coste dell'Atlantico: in un solo anno
(711) ai domini del califfo vennero aggiunti Sind e la Spagna.
A quest'espansione s'accompagnò la
rapida trasformazione della cultura musulmana. I califfi ripresero
gli antichi metodi di governo bizantini e persiani. I funzionari
inferiori erano quasi tutti indigeni, e dapprima il greco e il
persiano furono le lingue amministrative. La corte di Damasco era il
centro di una cultura brillante, e grandi edifici come la moschea di
Omar a Gerusalemme e la grande moschea di Damasco segnano il sorgere
dell'architettura e dell'arte islamiche sulla base della tradizione
siro-bizantina.
Cosi il periodo ommiade (661-750) segna
il trionfo finale di quella reazione orientale di cui abbiamo
descritto il progresso. La Siria, l'Egitto e la Mesopotamia erano
state strappate ai loro padroni greci e iranici, ed erano divenute
centro di un omogeneo impero semitico fornito di una propria
religione e cultura, e la cui potenza si estendeva dall'Atlantico
all'Oxus. L'Impero d'Oriente parve giunto sull'orlo della rovina e
l'intero mondo civile sul punto di diventare musulmano. Persino nel
mondo cristiano gl'influssi orientali avevano dappertutto il
sopravvento. L'era dei califfi siriaci vide anche l'Impero di Oriente
governato da una dinastia siriaca 88
e la Chiesa occidentale diretta da un pontefice siriaco 89,
mentre il massimo pensatore cristiano e l'ultimo dei Padri greci era
il siro Giovanni Mansur, chd era stato direttore del dicastero del
fisco sotto Walid I e i suoi successori. Nel secolo VII, e non nel V,
dobbiamo collocare il termine dell'estrema fase della civiltà
mediterranea antica, - l'era dell'Impero cristiano, - e l'inizio del
Medioevo.
IX. L'ESPANSIONE DELLA CULTURA MUSULMANA
Durante i secoli IX e X la civiltà
musulmana raggiunse il suo pieno sviluppo, e tutto il mondo
dell'Islam, dalla Spagna al Turkestan, assistette alla più brillante
fioritura culturale che abbia mai conosciuta. Ma questa cultura non
era puramente musulmana, e tanto meno araba, di origine. Era un
prodotto cosmopolitico, a creare il quale tutti i popoli e le culture
soggette, siriaca, persiana, spagnola, berbera e turca, contribuirono
ciascuna per la sua parte. Le fondamenta di questa struttura erano
state gettate dalle conquiste dei primi quattro califfi e
dall'organizzazione politica degli Ommiadi a Damasco, ma soltanto con
la caduta degli Ommiadi, nel 747, cominciò la grande era della
cultura cosmopolitica.
II movimento che portò al potere la
nuova dinastia della casa di Abbas fu dovuto in gran parte al
malcontento che le province orientali nutrivano per la dominazione
puramente araba del califfato siriaco. Fu nelle province orientali
dell'Impero, nel Khorasan, che cominciò la rivolta contro gli
Ommiadi, e il suo successo segnò la fine del periodo puramente arabo
della cultura islamica. Il califfato si trasferì dalla Siria nella
Mesopotamia, da tempo immemorabile il centro della civiltà e degli
imperi dell'Oriente. Qui venne edificata nel 752 da al-Mansur Bagdad,
la nuova capitale, che ereditò il prestigio, e fino a un certo punto
anche le tradizioni, della monarchia sassanide 90.
Sovente il governo finiva nelle mani di vizir di sangue persiano,
come la grande famiglia dei Barmecidi sotto Harun ar-Rashid e Fadl
ibn Sahl sotto al-Ma'mun; e la vita di società alla corte e. nella
capitale durante l’intero periodo subì profondi influssi persiani.
Letterati persiani o semi-persiani ebbero una parte preminente nella
cultura maomettana, come, per esempio, Abu Nuwas (m. 810), il poeta
di corte di Harun ar-Rashid, e Kisai, precettore del califfo
al-Ma'mun. Quest'ultimo era lui stesso figlio di una donna persiana,
e durante il suo regno (813-33) il predominio dell'influsso persiano
a corte fu più assoluto. Tuttavia, questo era solo uno degli
elementi della nuova civiltà cosmopolitica. La Mesopotamia era
soprattutto il punto d'incontro di culture differenti, la siriaca, la
persiana, l'araba e la bizantina, e più ancora, di differenti
religioni. E non soltanto era il centro del giudaismo e del
cristianesimo nestoriano, ma qualsiasi genere di setta e di eresia vi
era rappresentata : dal monofisismo e dal manicheismo sino a quegli
strani relitti della tradizione gnostica e pagana che erano i Mandei
di Babilonia e gli astrolatri di Harran.
Il paese era un palinsesto sul quale
ogni civiltà sin dal tempo dei Sumeri aveva lasciato una traccia. In
un'atmosfera simile, al popolo dominante non riusciva facile
conservare l'intransigente ortodossia e il costume puritano
dell'Islam primitivo. La voluttuosa e sofisticata società della
capitale abbaside s'abbandonava non soltanto al vino e alla .musica,
ma anche ai piaceri di una sbrigliata curiosità intellettuale e di
una libera discussione religiosa. Al-Ma'mun era chiamato per beffa "
il commendatore dei miscredenti ", e secondo lo spiritoso
epigramma citato dal Kremer, non si poteva essere alla moda se non ci
si professava eretici.
O
Ibn Ziyad, padre di Ja'far!
Tu
professi esternamente una credenza diversa da quella che nascondi nel
cuore.
Esteriormente,
secondo le tue parole, tu sei un zindiq [manicheo], ma intimamente tu
sei un rispettabile musulmano.
Tu
non sei per nulla zindiq, ma desideri passare per uno alla moda. 91
Queste condizioni spiegano il carattere
proprio della nuova civiltà del periodo abbaside. Sebbene questa
fosse araba di lingua e maomettana di religione, il suo contenuto
intellettuale era derivato dalle più antiche civiltà assorbite
nell'impero mondiale dei califfi. Ciò è vero specialmente nel caso
della nuova filosofia e scienza araba che si formò in questo periodo
e che doveva esercitare un influsso cosi grande su tutto il mondo
medievale. Per più di quattro secoli il predominio intellettuale del
mondo fu dei popoli islamici; dagli Arabi trasse origine la
tradizione scientifica dell'Europa occidentale. Tuttavia, i risultati
scientifici e filosofici della cultura islamica debbono ben poco agli
Arabi e all'Islam. Non fu una creazione originale, ma uno sviluppo
della tradizione ellenistica, che venne incorporata nella cultura
islamica per opera di uomini di sangue aramaico e persiano. Con
l'unica ma importante eccezione di al-Kindi, "il filosofo degli
Arabi", gli Arabi ebbero pochissima parte nel movimento. Questo
produsse i suoi frutti più ricchi proprio sulle frontiere
dell'Islam: nell'Asia centrale con al-Farabi, Avicenna e al-Biruni, e
nella Spagna e nel Marocco con Averroè e Ibn Tufail.
Le origini del movimento si trovano fra
i cristiani babilonesi di lingua siriaca e i pagani "sabei"
di Harran, che fecero da intermediari fra la cultura greca e quella
islamica. La scuola nestoriana di Jundi-Shapur, presso Ctesifonte,
rampollo della scuola di Nisibi, aveva ereditato le tradizioni dei
dotti e dei traduttori siriaci del secolo VI, ed era un centro di
studi tanto scientifici come teologici. Da essa i filologi arabi di
Bassora ricevettero le loro prime nozioni di logica aristotelica; ed
era pure rinomata come scuola di medicina. Con la fondazione di
Bagdad la posizione di medico di corte venne occupata da cristiani
nestoriani, e furono essi gli autori delle prime traduzioni arabe di
opere scientifiche greche. Al-Ma'mun diede pubblico appoggio alla
loro attività fondando a Bagdad nell'832 la scuola e l'osservatorio
noti come " la Casa della Sapienza ", che affidò alla
direzione del medico nestoriano Yahyà ibn Masawaihi. L'attività
della scuola toccò il suo massimo sviluppo sotto il discepolo di
Yahyà, Hunain ibn Ishaq (809-77), che non fu solo il più grande dei
traduttori siriaci, ma altresì l'autore di molte opere originali 92.
Attraverso lui e la sua scuola, una gran parte della letteratura
scientifica greca, compresi Galene ed Euclide, e buona parte
dell'opera di Platone, di Aristotele e dei commentatori neoplatonici
di questo vennero rese accessibili al mondo islamico. Durante lo
stesso periodo gli scritti di al-Khwarizmi e dei tre fratelli della
famiglia Banu Musa 93
gettavano le fondamenta della matematica e dell'astronomia arabe. In
questo campo, tuttavia, la dipendenza dalla tradizione ellenica fu
meno totale, per merito della scienza indiana che si era diffusa a
Bagdad negli ultimi anni del secolo VIII. Al-Khwarizmi, che scrisse
sotto la protezione di al-Ma'mun, si giovò nelle sue opere di questa
nuova scienza, soprattutto ne trasse l'importantissimo uso del
sistema decimale e dello zero; e da lui l'Europa medievale derivò il
nome del nuovo sistema numerico (algorismus), come anche le prime
nozioni scientifiche di algebra94
. Ciò nonostante, l'astronomia e la matematica arabe si fondarono
essenzialmente sulla tradizione greca; ed anche qui la sua
trasmissione fu dovuta soprattutto alle fatiche dei traduttori
siriaci, specie dei cristiani Hunain ibn Ishaq e Qusta ibn Luqa
(verso l’835), e dei pagani "sabei" Thabit ibn Qurra
(835-900) e al-Battani (Albatenio) (verso 1'850-928), che fu uno dei
maggiori astrologi del mondo islamico 95.
L'incorporazione e la restituzione
della tradizione ellenica avvenute in questo modo erano,
naturalmente, unilaterali e incomplete. Non si tenne nessun conto
della poesia e del dramma greco. L'influsso letterario si limitò
alla prosa, e ciò nonostante fu minimo, per quanto sia facile
incontrare nella letteratura araba tracce della tradizione retorica
greca, per esempio in al-Giahiz, il mulatto guercio, che fu il
massimo stilista ed erudito del secolo IX 96.
Ma dal punto di vista della scienza e della filosofia il recupero del
retaggio greco fu quasi totale. Qui i musulmani ripresero la
tradizione dov'era stata abbandonata nel secolo VI dalle scuole di
Atene e Alessandria, e perseguirono quel medesimo ideale di
riconciliazione o accostamento dell'aristotelismo e del neoplatonismo
che era stato la mira costante degli ultimi pensatori greci, Ma,
sebbene gli elementi essenziali della sintesi fossero già raccolti,
essi la attuarono con una vigoria di pensiero e una sottigliezza
intellettuale che rendono l'opera loro una delle più compiute e
simmetriche costruzioni filosofiche che siano mai state create. Il
moderno spirito europeo è cosi avvezzo a considerare come campi
indipendenti e autonomi della conoscenza la religione e la metafisica
e le diverse scienze naturali, che ci è difficile comprendere un
sistema nel quale fisica e metafisica, cosmologia ed epistemologia
erano tutte combinate in una sola unita, organica. Questo fu,
tuttavia, l'ideale del filosofo arabo, il quale vi riuscì a un punto
tale che la restituzione della cultura ellenica non risultò una
congerie di frammenti miscellanei di erudizione, ma un compiuto
sistema della conoscenza, ogni elemento del quale era inseparabile
dal tutto.
Ma l'universalità e la consistenza di
questa sintesi resero inevitabile un conflitto con la dottrina
ortodossa dell'Islam, L'austera semplicità della religione del
Corano, che insegnava come all'uomo spettasse non di discutere la
natura di Dio ma di ubbidire alla sua legge, nulla aveva di comune
col meticoloso intellettualismo dei filosofi. La visione ellenica di
una legge cosmica universale, intelligibile all'intelletto umano, non
lasciava campo alla credenza semitica in un Dio personale che
governasse il mondo e le sorti degli uomini con l'arbitrario
despotismo di un monarca orientale. La seconda portava, in
definitiva, al rigetto del principio di causalità e dell'esistenza
di un ordine necessario nella struttura dell'universo; la prima al
determinismo scientifico che aveva trovata la sua espressione
classica nella cosmologia aristotelica. Come scrive il Duhem:
Aristotele
e i suoi commentatori più esatti, come Alessandro di Afrodisia e
Averroè, insegnavano che ogni dio è un'intelligenza eternamente
immobile, semplice motore di una materia primordiale altrettanto
eterna, e causa prima e finale delle necessarie e perpetue
rivoluzioni celesti; insegnavano che queste rivoluzioni determinano
in un infinito ricorso ciclico tutti gli eventi del mondo sublunare;
che l'uomo, inserito nella catena di questo assoluto determinismo,
non ha se non l'illusione della libertà; e che esso non ha un'anima
immortale, o piuttosto che è temporaneamente animato da
un'intelligenza indistruttibile, ma in pari tempo impersonale e
comune a tutto il genere umano 97.
Ma, sebbene questa teoria fosse
incompatibile sia con l'islamismo quanto col cristianesimo, non
mancava di partigiani nel mondo islamico.
Nel secolo IX, il paganesimo I astrale
dell'Asia occidentale era una tradizione ancor viva, e i suoi addetti
erano tuttora orgogliosi della loro antica cultura, come si vede
dalle baldanzose parole di Thabit ibn Qurra :
Noi
siamo gli eredi e la progenie del paganesimo che si è diffuso
trionfalmente per il mondo. Felice colui che per amore del paganesimo
porta il suo fardello senza stancarsi. Chi ha incivilito il mondo e
costruite le sue città, se non i capitani e i re del paganesimo? Chi
ha gettato i porti e scavato i canali? I gloriosi pagani hanno
fondato tutto quanto. Furono essi a scoprire l'arte di sanare le
anime, ed essi a rivelare l'arte di guarire il corpo e a riempire il
mondo d'istituti civili e della sapienza che è il più grande dei
beni. Senza paganesimo il mondo sarebbe vuoto e immerso nella miseria
98.
Erano stati infatti i pagani a fondare
la scienza quale la conoscevano gli Arabi; e questi ora avevano
ricondotta dopo il suo lungo soggiorno fra i Greci la tradizione
della sapienza antica alle città sacre della Babilonia dov'era nata.
Poiché Thabit era un uomo di Harran, la figlia di Ur dei Caldei, i
cui templi tenevano tuttora viva la tradizione che risaliva
ininterrotta fino al remoto passato sumerico. È impossibile
comprendere la civiltà del periodo abbaside senza ammettere ch'essa
non fu una creazione puramente islamica, ma la fase culminante di un
processo di evoluzione culturale durato più di tre millenni. Un
impero dopo l'altro era sorto e caduto, ma ogni volta l'antica
cultura mesopotamica aveva riasserita la sua potenza e imposta la sua
tradizione sullo spirito dei vincitori.
È vero che l'Islam ortodosso si rese
conto del pericolo che lo minacciava, e fece tutto quanto potè per
reprimere l'influsso di questa tradizione straniera. La nuova
filosofia infatti era anche più pericolosa per l'Islam medievale che
non fosse alla cristianità medievale l'averroismo, e in Oriente non
ci fu un san Tommaso d'Aquino che conciliasse l'ortodossia
aristotelica con quella teologica. Per qualche tempo i teologi
liberali della scuola mutazilita fecero del loro meglio per colmare
l'abisso fra l'ortodossia tradizionale e il pensiero filosofico. Ma
questo movimento dovette la sua origine all'influsso della teologia
cristiana più che a quello della scienza greca, e fu il tentativo di
pensatori come an-Nazzam di venire a patti col pensiero greco a
concorrere più d'ogni altra cosa a screditare il movimento. La
reazione ortodossa sotto il califfo al-Mutawakkil nell'834 portò
alla caduta dei Mutaziliti, che avevano goduto il favore di al-Ma'mun
e dei suoi immediati successori, e alla persecuzione di filosofi come
al-Kindi. Da allora l'ortodossia islamica ricadde in un rigido
tradizionalismo, che ricusò di adattarsi alla filosofia e tenne
testa a tutte le obiezioni dei razionalisti con la formula "Bila
kaif " ("credi senza domandare").
Nondimeno la vittoria dei teologi fu
una vittoria puramente teologica. Si rivelò impotente a reprimere
nella cultura islamica la tendenza cosmopolitica che aveva distrutto
la supremazia dell'elemento arabo e aveva scatenate le forze
straniere e centrifughe del mondo orientale. Nel secolo IX tutte
queste forze sotterranee delle culture passate - l'ellenismo e il
paganesimo dei filosofi, l'illuminismo delle sette gnostiche, il
socialismo rivoluzionario dei Mazdakiti - risalirono alla superficie
e minacciarono di sconvolgere le fondamenta stesse dell'Islam, già
scosse dalle divisioni interne della comunità musulmana.
Sin dal secolo VII il problema della
legittima successione al califfato era stato una fonte incessante di
contrasti e di scismi per l'Islam. Un gruppo numeroso aveva sempre
tenuto fede ai diritti di 'Ali, il cugino e genero di Maometto. Si
credeva che il Profeta stesso alla sorgente di Quum, nell'ultimo anno
della sua vita, lo avesse designato come suo fiduciario e successore;
e, di conseguenza, che tutti i califfi non discendenti da lui e non
appartenenti alla santa casa del Profeta fossero impostori, privi di
qualsiasi legittimo titolo all'obbedienza dei musulmani. Fu questa
l'origine del Sih'at 'Ali, il partito di 'Ali, che ancora oggi conta
press'a poco settanta milioni di aderenti nella Persia, nell'India e
nell'Iraq, i quali riconoscono soltanto i discendenti di 'Ali - i
Dodici Imam, -. come califfi autentici. Questo partito sciita trovò
appoggio specialmente fra i discendenti dei popoli vinti, che avevano
portato nell'Islam l'antica credenza orientale nel carattere sacro
della regalità e dei suoi diritti inalienabili : il concetto del
diritto divino dei re, in contrasto con la primitiva teoria islamica
che derivava l'autorità dalla comunità. Inoltre, quest'idea si era
mescolata con tradizioni e credenze di carattere più trascendente,
come la dottrina gnostica o manichea della manifestazione in forma
umana dei divini coni, e con la credenza iranica nella venuta di un
re salvatore; il Saoshyant. Sotto l'influsso di queste concezioni la
figura alquanto prosaica di 'Ali andò circondandosi di un alone
religioso. Egli si trasformò in un santo ed eroe quasi divino, il
più santo e il più sapiente degli uomini e la luce di Dio. Cosi la
casa di 'Ali divenne oggetto di una devozione che fuse la romantica
lealtà del giacobita inglese con la fede messianica del fanatico
religioso.
Tuttavia, la storia di questo partito è
una serie ininterrotta di rovesci immeritati. Ogni tentativo di
affermare i loro diritti fu una vana speranza che terminò in un
disastro, e nemmeno vivendo nell'oscurità essi evitarono di cadere
vittime del veleno e degli attentati. Gli Abbasidi si servirono di
loro per rovesciare gli Ommiadi, salvo a metterli poi in disparte
nell'ora della vittoria. Finalmente nell'873 il ramo principale degli
Alidi si spense con la scomparsa del dodicesimo imam Muhammad ibn
Hasan, un ragazzo di dieci anni, che il califfo al-Mutamid tentò di
trucidare.
Ma nemmeno questo bastò a estinguere
le speranze degli sciiti. Ci si rifiutò di credere che l'imam fosse
veramente morto, giacché si riteneva che, in mancanza di un imam
autentico, "il mondo non sarebbe durato un batter di palpebra".
Il ragazzo non era morto, ma solamente "nascosto"; e dal
suo nascondiglio egli vigila tuttora sul mondo e guida le cose dei
credenti sino al giorno in cui ritornerà trionfalmente a restaurare
l'Islam e riempire la terra di giustizia come ora essa è piena
d'ingiustizia. Cosi questo infelice ragazzo scomparso tanto
misteriosamente da più di un millenio è divenuto una delle figure
più famose della storia mondiale. Oggi, agli occhi di più di
settanta milioni di persone, egli è il Mahdi, il Maestro del Secolo,
il Giusto Signore, il Difensore, Colui che deve risorgere, la
Salvezza di Dio. I sovrani di Persia sin dal secolo XVI detengono il
potere come suoi luogotenenti e subordinati, e in pegno della loro
dipendenza hanno presa l'abitudine di tenere sempre pronto per il suo
atteso ritorno un cavallo sellato e bardato.
Ma, sebbene sia questa la fede della
gran maggioranza dei moderni sciiti, non fu affatto l'unica forma che
prese il movimento. Sorsero innumerevoli altri pretendenti alla
successione di 'Ali, e parecchie delle dinastie musulmane, compresi
gli Idrisidi del Marocco e gli imam Sauditi dello Yemen attuale,
ripetono la loro origine da questo tronco. Ma il movimento di tutti
più grande e che produsse gli effetti più profondi sul mondo
islamico, fu quello dell'Ismà'ilyyah, "la setta dei Sette",che
si fondava sulle rivendicazioni dei discendenti del settimo Imam:
Gia'far as-Sadiq.
Sembra che il fondatore di questa
setta, Abdullah ibn Mamun, abbia concepito l'idea di coalizzare tutte
le forze del malcontento intellettuale e sociale in una vasta
cospirazione sotterranea contro il califfato abbaside e l'Islam
ortodosso. Le dottrine e i metodi di propaganda della setta ci sono
noti principalmente attraverso le notizie dei suoi avversari, ma è
chiaro che il movimento in sostanza era sincretistico e fondeva le
idee neoplatoniche dei filosofi con le tradizioni gnostiche
conservate dai Manichei e da sette minori come i Mandei e i
Bardesaniani. Come gli gnostici, gli Ismailiti professavano che
l'universo è emanato dal Dio ignoto e inaccessibile attraverso una
gerarchia di emanazioni successive. Queste sono in numero di sette e
corrispondono ai sette eoni o cicli di processo temporale, in
ciascuno dei quali l'Intelletto universale torna a manifestarsi in
forma umana. Queste sette manifestazioni sono i sette "parlanti"
(Nutiq): Adamo, Noè, Abramo, Mosè, Gesù, Maometto e Ismail il
Messia, il Maestro del Secolo. Corrispondono a queste, sette
manifestazioni dell'Anima cosmica - i "taciturni” o "basi"
o assistenti, - la cui funzione è di rivelare agli eletti il senso
esoterico della dottrina dei Natiq; cosi Aronne si aggiunge a Mosè,
Pietro a Gesù, e 'Ali a Maometto.
Tutte queste rivelazioni,
successivamente incarnate nelle diverse religioni mondiali, si
sommavano e completavano nell'insegnamento ismailita nel quale ogni
velame era rimosso. Ma questo insegnamento era essenzialmente
esoterico e veniva impartito totalmente solo a coloro che avessero
superato i sette gradi di iniziazione che costituivano la gerarchia
ismailita. Solo quando il discepolo si era abbandonato corpo e anima
all'imam e al suo rappresentante - il d’ai o missionario - gli
veniva rivelato il Ta'lim, la dottrina segreta. L'adepto veniva
allora emancipato da ogni dottrina positiva e da ogni legge morale e
religiosa, giacche aveva ormai penetrato il senso intimo che giace
nascosto sotto i velami del dogma e del rito in tutte le religioni
positive. Poiché tutte le religioni sono ugualmente vere ed
ugualmente false per lo “gnostico", l'iniziato ismailita che
unico comprende il .segreto supremo della divina Unità : che Dio è
Uno perché Dio è Tutto, e che ogni forma del reale non è che un
aspetto dell'Essere divino.
Ma questa esoterica teosofia non è che
un lato del movimento ismailita. Esso comprende anche una
rivoluzionaria tendenza sociale simile a quella che aveva ispirato i
più antichi movimenti di Mazdak nel secolo VII, e di Babak il
Khurramita, il famoso capo dei " Rossi " (al-Muhammira) nel
IX. Era, in sostanza, la ricomparsa sotto nuova forma di quella
misteriosa "religione bianca" che aveva già causato tanti
torbidi e tanto spargimento di sangue. Questa volta, tuttavia, il
movimento non fu diretto da fanatici ignoranti come Babak e
al-Muqanna, "il profeta velato del Khorasan", ma da
intelletti lungimiranti e capaci. Dal loro nascondiglio in una oscura
cittadina siriana 99,
i grandi maestri degli Ismailiti controllavano l'attività di
un'immensa organizzazione segreta e spedivano loro emissari in tutte
le direzioni.
Durante gli ultimi trent'anni del
secolo IX il movimento si diffuse in lungo e in largo per tutto il
mondo islamico. Un ramo della setta, i Càrmati, fondò a al-Bahrain,
sulla sponda arabica del Golfo Persico, un notevole stato semi
comunistico di briganti, che durante il secolo X esercitò il regno
del terrore sull'Arabia. Bassora venne saccheggiata da costoro nel
924, Kufa nel 930, e finalmente essi atterrirono tutto il mondo
islamico conquistando la Mecca, massacrandone gli abitanti e
asportandone un immenso bottino, compresa la stessa sacra pietra nera
della Kaaba.
Intanto il Grande Maestro, essendo
stato scoperto il suo quartier generale, nel 907 aveva trasferito la
sua attività in Tunisia, dove si proclamò al-Mahdi e fondò il
califfato fatimita, che a poco a poco venne a comprendere l'intera
Africa del Nord. Nel 967, dopo la conquista dell'Egitto e il
trasferimento della capitale al Cairo, l'Impero fatimita era divenuto
lo stato più ricco e più potente del mondo musulmano. Fra le sue
dipendenze si contavano la Siria e la Sicilia, e, grazie alla
propaganda ismailita, possedeva aderenti e agenti segreti in ogni
parte del mondo islamico. I due primi sovrani fatimiti dell'Egitto,
al-Mu'izz (953-75) e Nizar al-'Aziz (976-96), furono sovrani capaci e
lungimiranti che resero l'Egitto il più prospero paese dell'Oriente.
Ma il membro più celebre della dinastia fu il sinistro al-Hakim
(990-1021), che fu insieme un mostro di crudeltà e un illuminato
patrono della cultura. Nonostante le sue atrocità, al-Hakim
abbracciò la dottrina ismailita estrema con maggiore entusiasmo di
qualunque altro membro della dinastia. Egli proclamò la propria
divinità, e i suoi seguaci gli resero onori divini. Oggi ancora egli
è adorato dai Drusi del Monte Libano come la suprema manifestazione
del divino intelletto e il compendio finale della rivelazione 100.
Dopo al-Hakim, la storia della dinastia
fatimita non presenta più se non malgoverno e decadenza. Nondimeno,
il suo prestigio esteriore non fu mai cosi alto come durante il regno
del debole al-Mustansir (1030-94), che venne riconosciuto califfo
nelle città sante dell'Arabia, e per un certo tempo persino a
Bagdad, la stessa capitale abbaside. La devozione che la dinastia
ispirava fra molti sciiti ci è mostrata dai seguenti versi del
grande poeta persiano Nasir-i Khusraw, che trascorse una vita di
travagli e di privazioni al servizio della causa fatimita:
Dio,
sul cui nome sia gloria, mi ha esentato e liberato,
in
questa molesta vita di transito, dalle cose necessarie ai più.
Ringrazio
l'Onnipotente che mi segnò una facile via
verso
la Fede e la Saggezza e mi apri la Porta della Grazia,
e
che nella sua misericordia infinita mi ha reso tale nel mondo
che
il mio amore per la sacra Casa è chiaro come il
sole
a mezzodì 101.
Non meno devoto alla causa fatimita fu
il famoso al-Hasan ibn as-Sabbah, che s'impadronì della fortezza
rupestre di Alamut in Persia nel 1090 e organizzò la "nuova
propaganda" di metodico assassinio in nome del figlio maggiore
di al-Mustansir, Nizar. Questo ramo degli Ismailiti raggiunse una
considerevole celebrità grazie al terrorismo che il Vecchio della
montagna e i suoi emissari, i Fidais, esercitarono nella Siria
durante il periodo delle crociate. Sopravvisse al ramo principale dei
Fatìmiti ed esiste tuttora come setta khogia, il capo della
quale, l'Agha Khan Muhammad, una ben nota figura della società
inglese, discende in linea diretta dall'ultimo dei " grandi
maestri " di Alamut e dalla stessa dinastia fatimita.
Nel frattempo, il califfato abbaside
subiva un processo di dissolvimento politico. Sin dalla metà del
secolo IX, i califfi erano caduti sempre più sotto la dipendenza
degli schiavi e mercenari turchi che formavano la loro guardia del
corpo, mentre le province lontane affermavano la propria autonomia
sotto la guida di dinastie locali. La Spagna si era dichiarata
indipendente già nel 755, sotto un superstite degli Ommiadi, e
questo stesso processo andò sviluppandosi a poco a poco in ogni
regione dell'Islam, finché il califfato non ebbe perso ogni potenza
reale e conservò solamente una specie di primato religioso come
rappresentante dell'Islam sunnita ortodosso. Nel secolo X, però,
anche quest'egemonia nominale venne minacciata dallo sviluppo degli
sciiti che comprendevano le più importanti dinastie dell'Oriente : i
Samanidi, che dalla loro capitale di Buchara governavano il Khorasan
(compreso il moderno Turkestan), gli Zaiditi e Ziaridi delle province
caspie, e i Buwaydhi della Persia occidentale e di Mossul. Nel 945 i
Buwaydhi si resero addirittura padroni di Bagdad, e per più di un
secolo i califfi non furono altro che marionette nelle mani di una
dinastia persiana e sciita. Questo stesso secolo vide non soltanto
raffermarsi della potenza fatimita dell'Africa del Nord, ma anche il
sorgere di un terzo califfato in Spagna, fondato nel 929 dal più
grande degli Ommiadi occidentali : 'Abd ar-Rahman III di Córdova.
Tuttavia, questa perdita dell'unità
politica non danneggiò il progresso della cultura musulmana, e il
periodo della decadenza del califfato fu anche l'età d'oro della
letteratura e della scienza. Il sorgere delle nuove dinastie favorì
lo sviluppo di centri locali di cultura, e il secolo X vide gli inizi
della rinascita persiana alla corte samanide di Buchara e il sorgere
della nuova cultura ispano-arabica in Occidente, mentre la corte
degli Hamdanidi di Aleppo era il centro di uno sviluppo ancor più
brillante della cultura araba in Siria. La scienza e la filosofia,
che erano state scoraggiate dalla reazione ortodossa del califfato
abbaside, fiorirono sotto il liberale patronato dei principi sciiti.
Fu l'età di al-Farabi (m. 950) e di Ibn Sina (Avicenna) (980-1037),
il più grande dei filosofi orientali; di ar-Razi (Rhazes) (865-925),
il medico, e di al-Biruni (973- 1048), l'astronomo e cronologo, le
cui opere sulla cultura indiana e sulla cronologia delle nazioni
antiche sono i più notevoli risultati scientifici dell'epoca. È un
fatto curioso che questa medievale resurrezione del pensiero
ellenistico abbia avuto il suo centro nell'antico regno greco della
Battriana, poiché, eccettuato ar-Razi, tutti gli scrittori che
abbiamo testé menzionati erano nativi delle terre intorno all'Oxus,
la regione di Buchara, Khiva e Samarcanda. Qui l'unione della
tradizione neoplatonica con la religione dell'Islam produsse la sua
più nobile espressione con i grandi poeti persiani del basso
Medioevo, Gialal ad-din Rumi di Balkh e Giami di Harah.
Nondimeno, i secoli X e XI furono
soprattutto un'età cosmopolitica, in cui la gara delle dinastie
locali nel proteggere la letteratura e il sapere, il numero delle
scuole e delle biblioteche, le attività mercantili, e il sorgere
delle grandi confraternite sufi, simili agli ordini religiosi
della cristianità medievale, contribuirono al moltiplicarsi dei
rapporti e alla varietà in seno all'unità nella cultura islamica. I
dotti e gli uomini di lettere viaggiavano in tutte le parti del mondo
orientale, come al-Biruni, il primo che fece uno studio scientifico
della religione e della cultura indiane, e al-Mas'udi, che dalla sua
sete di sapere fu condotto dal Caspio sino a Zanzibar e da Ceylon
sino al Mediterraneo.
Il carattere enciclopedico della
cultura del periodo risulta non solo dalle grandi storie universali
di at-Tabari (838-923), e di al-Mas'udi (m. 956), ma meglio di tutto
dal Fihrist di Ibn an-Nadim (m. 955), "un catalogo dei libri di
tutte le nazioni in ogni ramo del sapere, con particolari biografici
intorno agli autori e compilatori dagli inizi di ogni scienza
inventata sino all'epoca presente". Esempio singolare, questo,
non soltanto della ricchezza letteraria della cultura araba durante
il suo maggiore sviluppo, ma anche dell'impoverimento e della
degenerazione che la colpirono più tardi.
Anche più interessante dal punto di
vista storico è la collana enciclopedica di una cinquantina di
scritti di filosofia e scienza, noti come i Trattati dei Fratelli
della Purezza, che furono composti a Bassora verso la fine del
secolo X. Pare che essi rappresentino gli insegnamenti esoterici dei
gradi superiori della setta ismailita, che altrimenti ci sono in gran
parte noti dagli accenni dei loro antagonisti. Questi trattati,
sebbene dal punto di vista scientifico siano assai inferiori agli
scritti di Avicenna e di altri grandi filosofi, mostrano una fusione
del pensiero ellenistico e della religione orientale anche più
completa. Era loro deliberato proposito purificare l'Islam dalla
superstizione e dall'irrazionalità e svelare il messaggio esoterico
nascosto sotto il velo del dogma ortodosso. Secondo il loro
insegnamento, tutte le cose sono dovute all'azione dell'Anima
cosmica, che per mezzo delle sfere celesti esercita la sua potenza su
tutti gli esseri terreni. "Questa potenza è chiamata Natura dai
filosofi, ma la religione le da il nome di Angelo. L'Anima universale
è una, ma possiede molte potenze che sono diffuse in ogni pianeta,
in ogni animale, in ogni pianta, in ogni minerale, nei quattro
elementi e in tutto ciò che esiste nell'universo". Quel che noi
chiamiamo l'anima individuale è semplicemente la potenza dell'Anima
cosmica che informa e dirige l'individuo, e per conseguenza quella
resurrezione di cui parlano i teologi non è altro se non il distacco
dell'Anima cosmica dal corpo materiale con cui è temporaneamente
connessa: in altre parole, la morte di questo corpo : e allo stesso
modo la resurrezione generale è il separarsi dell'Anima cosmica
dall'universo risico col quale è connessa, vale a dire la morte del
mondo. E con queste dottrine essi combinavano la credenza nel
movimento ciclico con cui il mondo segue il movimento circolare dei
cicli, e ritorna ogni 36.000 anni al punto di partenza. Solo per i
saggi non c'è ritorno, esclusi i Fratelli, la cui missione è di
guidare gli uomini a questa liberazione finale.
Sappi
- essi scrivono - che noi costituiamo la società dei Fratelli della
Purezza, sinceri, puri e generosi; noi fummo in passato nella caverna
del nostro Padre; poi i tempi mutarono, trascorsero le ere ed è
venuto il tempo della promessa. Ci siamo ridestati dopo che i
dormienti hanno finito il loro ciclo e, da dispersi sulla terra come
eravamo prima, ci siamo riuniti, secondo la promessa, nel regno del
Grande Maestro della Legge. E abbiamo veduta la nostra città
spirituale sospesa nell'aria, donde i nostri progenitori e i loro
discendenti vennero scacciati per l'inganno dell'antico avversario. E
citiamo le parole di Pitagora: "Se tu compi ciò che ti
consiglio, allorquando sarai separato dal corpo sussisterai
nell'aria, senza più cercare di ritornare all'umanità né di subire
un'altra volta la morte" 102.
Queste idee erano largamente diffuse
nel mondo islamico dei secoli X e XI, e costituiscono lo sfondo
esoterico o religioso della più elevata cultura filosofica e
scientìfica. Esse appaiono nella nobile Ode sull'Anima di
Avicenna e nel Diwan di Nasir-i Khusraw, e se ne possono
persino trovare tracce nell'opera del poeta cieco Abu'l-'Ala al
Ma'arri (973-1057), che combino le idee pitagoriche e il fatalismo
scientifico dei Fratelli della Purezza con un pessimismo e
scetticismo profondi, che non hanno l'eguale in tutta la letteratura
araba.
In Occidente la scuola di Abenmasarra
(883-931), il mistico di Córdova, rappresenta una tendenza di
pensiero consimile, mentre sappiamo che gli stessi Trattati dei
Fratelli della Purezza giunsero assai per tempo in Ispagna per mezzo
del viaggiatore d astronomo spagnolo Maslama di Madrid (m. 1004) e di
al-Kirmani di Saragozza, grazie ai quali essi esercitarono un
influsso considerevole sul pensiero medievale spagnolo.
Ma questa civiltà brillante e
sofisticata conteneva ormai i germi della dissoluzione. La sua
mollezza e il suo scetticismo furono fatali a quello spirito di
puritanesimo militante che aveva fatto la forza dei primitivi
musulmani, e le sue tendenze centrifughe indebolirono la solidarietà
politica dell'Islam. Gli ispiratori della cultura islamica, gli Arabi
e i Persiana abbandonavano il loro potere a popoli più rudi e più
virili, come i Turchi, che fondarono il regno di Ghazna
nell'Afghanistan alla fine del secolo X e il grande sultanato
selgiuchida di Persia e Asia Minore in quello successivo. Questa non
tu del tutto una disgrazia, poiché i popoli nuovi infusero un
novello vigore nelle languenti forze dell'Islam e diedero l'avvio a
un nuovo fiotto di conquiste che irruppe, a Oriente, sull'India
settentrionale e, a Occidente, sull'Asia Minore. Ma questa espansione
esterna venne accompagnata da un abbassamento e da un impoverimento
della cultura islamica. Il geloso despotismo e la rigida ortodossia
di sovrani barbarici come Mahmud, "il distruttore d'idoli"
di Ghazna, male si associavano col libero pensiero e con la cultura
cosmopolitica di dotti persiani come Avicenna e al-Biruni, che ne
dipendevano. Cosi l'avvento dell'egemonia turca nell'Islam fu seguito
dalla vittoria dell'ortodossia sunnita sul sincretismo religioso
degli sciiti e dal graduale decadere del movimento scientifico e
filosofico. La cultura persiana continuò a fiorire per qualche tempo
sotto i sultani selgiuchidi, grazie all'illuminata politica dei loro
vizir persiani, come il famoso Nizam al-Mulk (1017-92), fondatore
della scuola Nizamiyyah di Bagdad e protettore del poeta astronomo
Omar Khayyam. Ma il periodo creativo del pensiero orientale era
finito. Soltanto nell'estremo Occidente, nella Spagna e nel Marocco,
la filosofia e la scienza musulmane godettero un breve periodo di
brillante espansione prima dell'eclisse definitiva del secolo XIII.
Eppure la cultura islamica conservo la
sua preminenza per tutto l'alto Medioevo, e non solo in Oriente, ma
anche nell'Europa occidentale. Nell'istante stesso in cui la
cristianità pareva sul punto di soccombere agli assalti simultanei
di Saraceni, Vichinghi e Magiari, la cultura musulmana del
Mediterraneo occidentale entrava nella fase più brillante del suo
sviluppo. Nel secolo X, sotto i califfi di Córdova, la Spagna
meridionale era la regione più ricca e più popolosa dell'Europa
occidentale. Le sue città, coi loro palazzi e le scuole e i bagni
pubblici, somigliavano ai centri dell'Impero romano più che ai
miserabili gruppi di tuguri di legno che sorgevano in Francia e in
Germania sotto il riparo di un'abbazia o di una roccaforte feudale.
La stessa Córdova era la città più grande d'Europa dopo
Costantinopoli, e si dice che contenesse 200.000 case, 700 bagni
pubblici, e botteghe che davano lavoro a 13.000 tessitori, nonché ad
armaioli e a cuoiai la cui perizia era celebre in tutto il mondo
civile. Non meno progredita era la cultura intellettuale della Spagna
musulmana. Principi e governatori musulmani facevano a gara nel
proteggere dotti, poeti e musicisti, e si dice che la biblioteca del
califfo di Córdova contenesse 400.000 manoscritti.
Noi siamo cosi avvezzi a considerare la
nostra come la cultura essenziale dell'Occidente che ci riesce
difficile capacitarci come ci sia stato un tempo in cui la regione
più civile di tutta l'Europa occidentale era una provincia di
cultura esotica, e il Mediterraneo, culla della nostra civiltà,
correva il rischio di diventare, un mare arabo. In verità, è molto
sbrigativo identificare la cristianità con l'Occidente e l'Islam con
l'Oriente, in un'epoca in cui l'Asia Minore era ancora una terra
cristiana, e la Spagna, il Portogallo e la Sicilia erano centri di
una fiorente cultura musulmana. Questa, tuttavia, era la situazione
nel secolo X, ed ebbe un effetto profondo sullo sviluppo del mondo
medievale. La cultura occidentale crebbe all’ombra della più
progredita civiltà islamica , e fu da quest'ultima, più che non
dal mondo bizantino, che la cristianità medievale recuperò la sua
parte dell’eredità scientifica e filosofica greca.
Solamente nel secolo XIII, dopo l'era
delle crociate e la grande catastrofe delle invasioni mongoliche,
l'incivilimento della cristianità occidentale cominciò a
raggiungere, in una relativa eguaglianza, quello dell'Islam; e anche
allora restò pervaso d'influssi orientali. Soltanto nel secolo XV,
con il Rinascimento e la grande espansione marittima degli stati
europei, l'Occidente cristiano acquistò quella supremazia nella
civiltà che oggi consideriamo come una sorta di legge di natura.
X. IL RINASCIMENTO BIZANTINO E IL RISVEGLIO DELL'IMPERO D'ORIENTE
Mentre il mondo islamico produceva la
brillante civiltà dei secoli IX e X, la cultura bizantina non era né
decadente né stazionaria. Sebbene per un certo tempo ci fosse stato
un reale pericolo che l'Impero soccombesse alle forze vittoriose
della rinascita orientale, le sue tradizioni di disciplina e di
ordine civile e la forza del suo fondamento religioso lo misero in
grado di sopravvivere alla crisi. Gradualmente l'Impero bizantino
recuperò la posizione perduta nel secolo VII, finché non divenne
ancora una volta la massima potenza militare ed economica del
Mediterraneo orientale.
Ma sotto molti aspetti si trattò di un
nuovo impero. Tanto la sua cultura quanto la sua organizzazione
politica e sociale erano state toccate a fondo dalla crisi
attraversata. Lo stato burocratico fondato da Diocleziano e da
Costantino era perito nel secolo che seguì a Giustiniano, e gran
parte della più antica tradizione di cultura scomparve con esso. Fu
durante quel periodo, piuttosto che nel tempo delle invasioni
germaniche o in quello della conquista turca, che tanta parte del
retaggio intellettuale del mondo antico andò perduta. Mentre i
contemporanei di Giustiniano conservavano ancora gran parte delle
tradizioni intellettuali dell'epoca alessandrina, gli uomini del
secolo IX possedevano della letteratura greca classica, a parte
qualche storico ed enciclopedista, poco più di quanto possediamo noi
oggi. Ciò fu dovuto in parte alla perdita di Alessandria e delle
città costiere della Siria, come Gaza, che erano i principali centri
degli studi classici; ma il motivo fondamentale del mutamento fu
l'orientalizzazione della cultura bizantina, di cui abbiamo già
descritto lo sviluppo. Questo processo toccò il suo culmine nel
secolo VII, quando le province orientali e meridionali vennero invase
dagli Arabi, e i Balcani dai Bulgari e dagli Slavi. Quando l'Impero
venne ricostituito nel secolo VIII, era uno stato essenzialmente
asiatico, fondato sui soldati e sui contadini delle province
anatoliche e armene. L'antica organizzazione provinciale era
scomparsa e ne avevano preso il posto i nuovi "temi"
militari, i cui comandanti riunivano l'autorità civile a quella
militare. Sotto gli imperatori-soldati isaurici ed armeni,
specialmente Leone III (717-41), Costantino V (741-75), e Leone
l'Armeno (813-20), gli elementi sia militari sia orientali della
cultura bizantina raggiunsero una preponderanza assoluta; quella
tradizione di scienza e di ellenismo, che l'antico servizio civile
aveva mantenuta, scomparve quasi del tutto, e, come era già accaduto
in Occidente, la Chiesa divenne la principale rappresentante della
cultura letteraria.
Le stesse tendenze si mostrarono anche
nella vita religiosa dell'Impero. La perdita delle province orientali
lo aveva liberato dalla sua lunga lotta coi monofisiti, ed esso era
più che mai uno stato chiesastico unitario, i cui aspetti laici e
religiosi erano quasi indistinguibili. Ma un latente antagonismo
perdurava tuttora fra gli elementi orientali ed ellenici della vita
religiosa dell'Impero, e il tentativo della nuova dinastia orientale
d'imporre la propria politica religiosa alla Chiesa bizantina
condusse a una lotta accanita e gravida di conseguenze. Agli storici
occidentali la controversia "iconoclastica , più ancora delle
eresie cristologiche che la precedettero, è sempre apparsa una vuota
contesa intorno a quisquilie ecclesiastiche, e sembra assurdo che una
questione simile avesse il potere di scuotere cosi a fondo la società
bizantina. Ma sotto il superficiale contrasto c'era il medesimo
antagonismo profondamente radicato fra due culture e due tradizioni
spirituali che abbiamo già descritto trattando del movimento,
monofisita. In verità, la disputa delle immagini implicava principi
anche più fondamentali che non le controversie del passato. Dietro a
essa non c'erano le esplicite dottrine di una scuola teologica, ma un
vago e informe spirito di settarismo orientale che respingeva
l'intero sistema del dogma ellenico.
Fin dai tempi più antichi era esistito
sulle frontiere orientali un tipo di cristianesimo settario che con
l'ortodossia occidentale non aveva nulla in comune. Contro la
dottrina nicena dell’omousìa, esso considerava Cristo come
una creatura adottata da Dio con la discesa dello Spirito santo.
Respingeva l'insegnamento sacramentale della Chiesa e l'uso di forme
e cerimonie esterne, caldeggiando un ideale religioso puramente
spirituale e interiore. La materia era il male, e ogni ossequio
prestato a oggetti materiali era essenzialmente idolatrico. L'acqua
del battesimo era "acqua di bagno e nulla più"; la croce
materiale era uno strumento maledetto, e la sola vera Chiesa era
invisibile e spirituale. Tutta questa corrente d'idee non derivava
dal manicheismo, per quanto i manichei stessi ne fossero senza dubbio
influiti. Derivava da una tradizione ancora più antica,
rappresentata da Bardesane, da qualcuna delle sette gnostiche ed
encratiche, e anche dal messalianismo.
In tempi successivi sarebbe comparsa in
Occidente sotto la forma del movimento "càtaro" medievale,
e ancora oggi sopravvive nelle bizzarre dottrine di oscure sette
russe come i molokany, i duchoborcy e i chlysty.
L'anello di congiunzione tra le fasi
più antiche e quelle successive di questo grande movimento religioso
si può trovare nell'eresia pauliciana, che fece la sua apparizione
nell'Armenia bizantina verso la metà del secolo VII e fu per più di
due secoli una potenza vigorosa e combattiva sulle frontiere
orientali dell'Impero. Fu da questa regione che trasse origine la
nuova dinastia e non è impossibile che lo stesso Leone III abbia
sentito l'influsso di quelle idee. Inoltre, la sua lotta coi
musulmani e il suo tentativo di raggiungere l'unità religiosa
dell'Impero con la conversione forzosa degli ebrei e dei montanisti
gli avevano fatto comprendere l'intensità dell'avversione orientale
al culto delle immagini che nel culto ortodosso aveva una parte cosi
grande.
Per conseguenza, nel 725, "l'imperatore
inaugurò la sua politica iconoclastica di riforme ecclesiastiche e
s'impegnò in quella lotta con la Chiesa destinata a durare più di
un secolo (725-843). Da una parte, stavano l'imperatore, l'esercito e
le province orientali, dall'altra, i monaci, il papato e l'Occidente;
anzi l'ostilità delle province europee alla politica imperiale fu
così forte che produsse tanto in Italia come in Grecia malcontento e
rivolta. Così la controversia implicò, da una parte, una lotta fra
gli elementi orientali e quelli occidentali della cultura bizantina,
e, dall'altra, una lotta fra il potere secolare e quello
ecclesiastico, che il Diehl ha paragonato alla lotta per le
investiture del secolo XI in Occidente. L'opposizione religiosa
vedeva nel movimento iconoclastico quel medesimo spirito che stava
dietro all'eresia monofisita: il rifiuto orientale di ammettere la
dignità della creazione materiale e la sua capacità a divenire
veicolo dello spirito, soprattutto nell'incarnazione, manifestazione
visibile del Verbo divino nella carne umana. Non era forse Cristo,
secondo le parole di san Paolo, l'immagine della divinità
invisibile? E la manifestazione visibile del Verbo divino nella carne
non implicava la santificazione delle cose materiali e la
rappresentazione visibile delle realtà spirituali? Questo principio
era nel cuore stesso del cristianesimo ellenico, e le estreme forze
della cultura ellenica si raccolsero in difesa delle immagini sacre.
Ne furono capi i monaci, ma c'erano anche artisti, poeti e letterati;
di fatto, campioni del partito anti-iconoclastico come Giovanni
Damasceno, Teofano lo storico, Giorgio Sincello, Niceforo Patriarca e
soprattutto Teodoro Studita, furono in sostanza gli unici
rappresentanti della letteratura bizantina in quel secolo oscuro 103.
Di conseguenza, non è una semplice
coincidenza che il trionfo finale degli adoratori delle immagini
fosse seguito da un risveglio dell'arte e dell'erudizione, poiché la
loro vittoria fu l'aspetto religioso di una generale rinascita della
cultura greca e del venir meno degli influssi orientali che per quasi
tre secoli avevano avuto il sopravvento. La cultura non stette più
relegata nei monasteri, giacché il servizio civile recuperò la sua
antica posizione di rappresentante della tradizione classica e
dell'erudizione secolare. L'Università di Costantinopoli venne
rifondata da Barda nell'803 e divenne il centro del risveglio
ellenico. Dal secolo IX al XII una serie di grandi dotti si dedicò
con ardore allo studio dei classici e al recupero dell'antica
sapienza: Fozio e Areta nel secolo IX; Suida l'enciclopedista e
Costantino Cefala, l'editore dell’ Antologia Greca, nel X;
Michele Psello, Giovanni Mauropode, Giovanni Italo, Cristoforo di
Mitilene e molti altri nel XI. Fu questo il momento culminante della
rinascita bizantina, e il suo massimo rappresentante, Psello, ha
tutte le caratteristiche degli umanisti italiani: il culto romantico
dell'antichità, soprattutto dell'antica Atene, la devozione per
Omero e Platone, l'imitazione zelante dei modi stilistici classici, e
non ultime, la vanità e la litigiosità del letterato. Ma non fu
un'età di genio creativo. I suoi prodotti tipici furono i grandi
lessici e le enciclopedie, come la Biblioteca di Fozio, il
Lessico di Suida e le compilazioni di Costantino
Porfirogenito, opere che somigliano alle enciclopedie letterarie
della Cina più che a qualunque altro prodotto della letteratura
moderna. Tuttavia, nonostante la mancanza di originalità, fu un'età
di cultura raffinata e sofisticata, e non è difficile comprendere il
disprezzo di un dotto come Fozio, nel secolo IX, o di un'erudita
principessa come Anna Comnena, nel XII, per la crudezza e la barbarie
della contemporanea civiltà dell'Europa occidentale.
La medesima tendenza verso un ritorno
alla tradizione ellenica, che ispirò la rinascita dell'erudizione
bizantina, è segnata con forza non minore nel campo dell'arte. Si
ebbe una reazione dall'astratto simbolismo dell'arte orientale, verso
l'ideale naturalistico e rappresentativo della tradizione
ellenistica. Tanto la pittura quanto l'intaglio in avorio rivelano
forti tracce d'influsso classico, e le illustrazioni di manoscritti
come il famoso Salterio di Parigi sono di stile schiettamente
ellenistico. Ancor più curiosa la tendenza, che si rivela in qualche
manoscritto dei secoli XI e XII, a illustrare le opere dei Padri con
scene tratte dalla mitologia pagana, come le leggende di Artemide e
Atteone, o di Zeus e Semele, o la danza dei Cureti. E, a parte questi
esempi d'imitazione diretta degli antichi soggetti e modelli, non vi
è penuria d'ispirazione classica nell'arte di questa nuova epoca.
Persino l'arte religiosa della Chiesa, che dal tempo della sconfitta
degli iconoclasti fu dominata da ideali teologici e subordinata a uno
stretto schema liturgico e dogmatico, non andò immune da
quest'influsso, e i mosaici più belli del periodo – quelli della
chiesa di Dafni presso Eleusi - sono pienamente ellenici nella
simmetria della loro composizione e nella statuaria dignità di
atteggiamenti e di gesti.
In architettura, d'altra parte,
l'influsso dell'Oriente è tuttora preponderante, e il nuovo modello
di chiesa che rimase tipico del più tardo sviluppo bizantino aveva
una struttura cruciforme con cinque cupole, che potrebbe essere
originaria dall'Armenia. Ma persino qui possiamo rintracciare
l'influsso dello spirito ellenico nel fatto che la decorazione non è
più confinata all'interno dell'edificio secondo il modo orientale,
ma straripa nel portico e sulla facciata, come vediamo in San Marco
di Venezia, che è forse il più bell'esempio che ci resti
dell'architettura bizantina di questo tempo. E che un cosi magnifico
esemplare dell'arte bizantina si trovi in Occidente è una prova
della rinnovata vitalità della cultura imperiale. Difatti non c'è
nessun'altra epoca, compresa persino quella di Giustiniano, in cui
l'influsso dell'arte bizantina fosse tanto diffuso. Esso penetrò in
Europa in molte forme differenti e per strade diversissime, dal Mar
Nero fino a Kiev e all'interno della Russia, attraverso l'Adriatico
nell'Italia orientale e settentrionale e dai monasteri greci della
Calabria a Monte Cassino e a Roma.
Questa rinascita della cultura
bizantina fu accompagnata da un corrispondente risveglio politico.
Ancora una volta l'Impero volse il viso verso l'Occidente e divenne
una grande potenza europea. Gli imperatori isaurici avevano già
fermato l'avanzata dell'Islam e restaurato la potenza militare di
Bisanzio, ma il recupero delle province europee da Stato impedito
dall'ascesa dell'impero carolingio in Occidente e dalla comparsa di
una formidabile potenza barbarica nei Balcani. I Bulgari erano, come
i Magiari, un popolo di origine mista, finnica e unna, che avevano
fatto parte della confederazione delle tribù unne nella Russia
meridionale durante i secoli V e VI. Durante il declino dell'Impero,
nel secolo VI, costoro si erano stabiliti a sud del Danubio,
nell'antica provincia della Mesia, come signori di una popolazione
slava soggetta. Gli imperatori isaurici avevano fermato la loro
avanzata e avevano impiantato colonie militari di eretici pauliciani
nell'Armenia per guardare la frontiera. Al principio del secolo IX,
tuttavia, Krum, il khan dei Bulgari, aveva profittato della
distruzione della potenza avara compiuta da Carlo Magno per fondare
al posto di questa un nuovo impero, che si estendeva dal Mar Nero a
Belgrado e dal Danubio alla Macedonia. Da allora, per due secoli, i
Bulgari furono la minaccia più seria che toccasse fronteggiare
all'Impero. Essi sconfissero ripetutamente gli eserciti bizantini e
misero a repentaglio la stessa Costantinopoli. Ciò nonostante non
poterono sfuggire all'influsso della cultura più elevata con cui le
loro conquiste li misero a contatto, e nell'864 Boris, il khan dei
Bulgari, accettò la fede cristiana.
Fondatori del cristianesimo slavo
furono i santi Cirillo e Metodio, "gli apostoli degli Slavi",
dedicatisi alla conversione della Moravia; ma, nonostante l'appoggio
del papato, essi non riuscirono a sormontare la opposizione della
Chiesa e dello stato carolingio; e fu nei Balcani, specialmente in
Bulgaria, che l'opera loro portò i suoi veri frutti. Qui,
soprattutto durante il regno del più grande dei sovrani bulgari, lo
zar Simeone (893-927), venne formandosi per mezzo di traduzioni dal
greco una letteratura slava, e fu fondata una nuova cultura
cristiano-slava, che più tardi si trasmise alla Russia come ai
popoli balcanici 104.
Ma il nuovostato bulgaro cristiano non era tanto forte da sostenersi
contro la crescente potenza degli imperatori macedoni. La Bulgaria
orientale venne conquistata negli anni 963-72 da Niceforo Foca e
Giovanni Zimisce, e l'opera loro venne completata dal loro grande
successore, Bastilo "il Bulgaroctono", che spense le ultime
faville dell'indipendenza bulgara nel 1018, annettendosi il regno
occidentale o macedone.
Cosi l'Impero bizantino aveva
riconquistato ancora una volta le sue vecchie frontiere europee,
perdute dal tempo di Giustiniano; ma questa estensione territoriale
lo rimise a contatto coi bellicosi popoli d'oltre Danubio, che
continuavano a fare scorrerie nelle province balcaniche, come avevano
fatto nei secoli V e VI. I Magiari, che nell'Ungheria avevano preso
il posto degli Avari, andavano invero diventando rapidamente uno
stabile stato cristiano, ma i nomadi Patzinachi occupanti la steppa
russa erano un perpetuo flagello per le terre balcaniche, come erano
Stati in passato gli Unni. La minaccia di questi nomadi fu tuttavia
diminuita da una nuova potenza che si formò alle loro spalle nella
Russia occidentale. Questo stato russo doveva la sua origine alle
compagnie di avventurieri scandinavi (Ros) che si erano stanziate fra
le tribù slave e avevano ottenuto il controllo della via commerciale
dal Baltico al Mar Nero. Ogni estate le loro imbarcazioni
discendevano il Dnepr da Kiev con carichi di schiavi, pellicce e
cera, per i mercati di Bisanzio o per quelli del regno cazaro che
controllava la via dal Volga al Mare d'Azov. Come i Vichinghi
occidentali, erano pirati oltre che mercanti, e per tutto il secolo X
compirono ripetute scorrerie sulle coste del Mar Nero e persino
contro Costantinopoli. Di queste le più formidabili furono le grandi
spedizioni del principe di Kiev, Igór, nel 941 e nel 944, seguite
dalla conclusione di un nuovo trattato e dalla ripresa di amichevoli
rapporti fra i Russi e l'Impero bizantino. Durante la seconda metà
del secolo X, sotto la moglie di Igór, la principessa cristiana
Olga, sotto suo figlio Svjatoslav e sotto Vladimiro il Grande
(980-1015) la potenza russa andò crescendo a spese dei vicini,
sinché giunse a soppiantare l'impero cazaro del Volga come massima
potenza politica e commerciale del Nord. L'Impero bizantino riuscì a
frustrare il tentativo di Svjatoslav di conquistare negli anni 967-71
la Bulgaria e di stabilire la capitale a sud del Danubio; e da allora
i rapporti fra le due potenze divennero stabilmente più intimi e più
amichevoli. Infine, nel 988, Vladimiro, il figlio di Svjatoslav,
stipulò con l'imperatore Basilio II un trattato, per cui accettava
di ricevere il battesimo e fornire all'Impero un corpo di 6.000
soldati ausiliari, che fu l'origine della famosa guardia
"varangiana", a patto di avere la mano di Anna, sorella di
Boris. Ma soltanto quando i Russi esercitarono una grave pressione
sull'Impero conquistando Cherson, l'estremo relitto degli antichi
stabilimenti greci a nord del Mar Nero, Basilio mantenne questa
clausola del trattato. Così fu aperta la via alla conversione degli
Slavi del Nord, e la Russia entrò a far parte del mondo ortodosso.
Durante il secolo successivo l'influsso
bizantino ebbe un effetto profondo sulla società russa. I vescovi e
i maestri della nuova chiesa erano tutti greci (molti tra loro nativi
di Cherson), e portarono con sé nel Nord le tradizioni religiose e
artistiche della chiesa bizantina e la scrittura e la letteratura
cristiano-slava, che sarebbero stati degli elementi fondamentali
nella cultura russa. Le chiese e i monasteri di Kiev, con i loro
affreschi e mosaici schiettamente bizantini, testimoniano della forza
di questo movimento nei secoli XI e XII. L'influsso si estese non
soltanto ai vecchi centri russi del Nord, come Novgorod e Pskov, ma
anche, nel corso del secolo XII, alle nuove terre del Nord-Est, la
regione di Suzdal e di Mosca, che doveva divenire più tardi il
centro della vita nazionale russa.
Questa espansione esteriore
dell'influsso bizantino fu il più notevole risultato del periodo
medio-bizantino. Disgraziatamente la conquista spirituale del mondo
slavo fu controbilanciata dal declino di ogni influsso sull'Occidente
e da un crescente distacco della Chiesa orientale da quella
occidentale. Gli ultimi anni del periodo macedone videro consumarsi
lo scisma tra l'Impero bizantino e il papato. I germi di questo
processo avevano radici profonde nella storia bizantina. La causa
vera dello scisma non fu la disputa tra Michele Cerulario e Leone IX,
e nemmeno la controversia teologica sulla processione dello Spirito
Santo, sorta ai tempi di Fozio; bensì le crescenti divergenze
culturali fra l'Oriente e l'Occidente. Il nuovo patriottismo ellenico
della rinascita bizantina fece sì che le classi dirigenti
dell'Impero d'Oriente considerassero Romani e Franchi come barbari, e
la graduale emancipazione di Roma e dell'Esarcato da ogni dipendenza
politica dall'Impero offri nuove ragioni per questo atteggiamento.
Già nel secolo VIII l'imperatore Leone III aveva privato il papato
di ogni giurisdizione sopra le sedi dell'Illirico e dell'Italia
meridionale, e confiscato i patrimoni della Chiesa romana in Oriente.
Così il Patriarcato bizantino s'identificò con la Chiesa
dell'Impero, e la rivalità fra il patriarca ecumenico di
Costantinopoli e il papa della vecchia Roma divenne allora più netta
che mai.
Questa rivalità non era un fatto
nuovo: risaliva alle origini stesse del patriarcato bizantino. San
Gregorio di Nazianzo aveva satireggiato l'ardore patriottico con cui
i vescovi orientali a Costantinopoli nel 381 rivendicavano la
superiorità religiosa dell'Oriente sull'Occidente 105;
e tanto in quel concilio quanto in quello di Calcedonia si era fatto
il tentativo di equiparare la posizione ecclesiastica della nuova
Roma a quella dell'antica. Per tutti i secoli precedenti, Roma e
Costantinopoli si erano continuamente scontrate in questioni
dogmatiche; anzi, dal secolo IV al IX, gli anni nei quali erano state
in scisma non erano meno di quelli nei quali erano state in comunione
fra loro 106.
Nondimeno, questi stessi scismi
contribuirono a preservare il prestigio di Roma in Oriente, dato che
i difensori dell'ortodossia, dai tempi di Atanasio a quelli di
Teodoro Studita, considerarono il papato come il baluardo della loro
causa contro i tentativi del governo imperiale di imporre alla Chiesa
le sue concezioni teologiche. Soltanto dopo la fine dell'epoca delle
controversie teologiche e lo stabilirsi definitivo dell'ortodossia
questo legame unitario andò allentandosi, e si fece sentire più
acutamente la divergenza di cultura e di consuetudini ecclesiastiche.
Appunto in quel periodo Roma perse il suo legame politico con
l'Impero bizantino e si associò strettamente alla potenza rivale dei
Franchi. I Bizantini erano disposti ad accettare il papato come
arbitro supremo in materia di fede e come rappresentante
dell'autorità apostolica entro la Chiesa imperiale, ma non ad
ammettere la superiorità di una Chiesa straniera e "barbarica"
sulla Chiesa dell'Impero. L'accettazione del dominio franco in Italia
e l'incoronazione di Carlo a imperatore romano agli occhi dei
Bizantini furono una manifestazione di scisma laico che doveva
trovare il suo complemento naturale in uno scisma religioso. E,
mentre Roma nel secolo VIII era ancora quasi bizantina di cultura e
di pensiero, la Chiesa franca possedeva già una tradizione diversa.
Le usanze caratteristicamente occidentali che provocarono l'ostilità
bizantina, come l'aggiunta al Credo del "filioque” e l'uso di
pane azzimo nell'eucarestia, erano di origine franca e avevano fatta
la loro prima apparizione nell'estremo occidente, in Spagna e in
Britannia.
A parte la questione della processione
dello Spirito Santo, che acquistò solo per gradi quel significato
che doveva avere nelle controversie successive, tutti gli argomenti
in discussione erano punti di rituale che allo spirito moderno
sembrerebbero d'importanza trascurabile107.
Ma la religione bizantina era tutta cosi impregnata di pietà
liturgica e di misticismo rituale, che l'uniformità del rito vi
aveva un'importanza specialissima. Mentre la Chiesa occidentale era
una chiesa di molti riti e di giurisdizione unica, l'unità della
Chiesa orientale era soprattutto un'unità di rito. Già sin dal
secolo VII il concilio trullano aveva tentato d'imporre l'osservanza
dei suoi canoni alla Chiesa occidentale, e questa pretesa non era mai
stata completamente abbandonata. Anzi, Michele Cerulario nel 1054
vedeva nel concilio frullano del 692 l'inizio dello scisma fra le due
Chiese.
I Franchi, per parte loro, erano
altrettanto intransigenti, e Carlo Magno e i suoi vescovi presero un
atteggiamento molto aggressivo verso la Chiesa bizantina. Roma,
d'altra parte, teneva un posto intermedio fra
l'antica cultura bizantina e quella del
nuovo mondo occidentale, e il papato dapprima tentò di far da
mediatore fra le due; ma siccome Roma veniva sempre più attratta
nell'orbita dell'Impero carolingio e della sua cultura, questa
posizione divenne insostenibile.
Nella seconda metà del secolo IX
avvenne la prima rottura seria quando Niccolò I, il precursore dei
grandi papi medievali, entrò in conflitto con Fozio, il tipico
rappresentante della rinascita bizantina; e, sebbene lo scisma che ne
derivo fosse relativamente breve, la restaurazione dell'unità fu
superficiale e malsicura. Essa ormai non poggiava più sull'ideale
dell'unità spirituale, ma sulla fragile base della politica
imperiale. Il partito monastico della Chiesa orientale, che nel
secolo VIII guardava a Roma come al suo massimo appoggio nella lotta
per la libertà della Chiesa contro il cesaropapismo degli imperatori
iconoclasti, non poteva sperare più nulla dal papato del secolo X,
divenuto il fantoccio delle fazioni locali o degli imperatori
germanici 108.
Il partito era ormai in grado di fare assegnamento sui propri mezzi,
e il monachesimo bizantino tornò a fiorire, non soltanto a
Costantinopoli, sul monte Olimpo in Bitinia e sul monte Athos, ma
nell'Italia stessa, dove san Nilo fondò il monastero basiliano di
Grottaferrata a poche miglia da Roma. E, se l'elemento monacale non
conservò la sua antica simpatia per il papato, l'elemento
burocratico laico dal quale uscivano tanti dei capi della Chiesa
bizantina 109
gli fu assolutamente ostile. Soltanto il desiderio degli imperatori
di mantenere, per ragioni politiche, amichevoli rapporti col papato
valse a preservare l'unità della Chiesa. Il declino dell'Impero
carolingio aveva ravvivato le ambizioni bizantine in Italia, e sin
dal tempo di papa Giovanni VIII il papato aveva assunto una
considerevole importanza nella diplomazia bizantina. Di conseguenza i
rapporti tra le due Chiesa oscillavano secondo i mutamenti della
situazione politica, e una rottura completa tra Roma e l'Oriente,
come minacciò di avvenire nel 1009, non fu incoraggiata
dall'imperatore, cui occorreva l'appoggio del papato nei suoi
progetti di restaurazione bizantina in Italia.
In quelle condizioni, tuttavia, da un
momento all'altro lo scisma era inevitabile, e venne precipitato nel
1054 dall'azione di Michele Cerulario, la cui autorità personale e
la cui ambizione furono abbastanza forti da scavalcare i desideri
dell'imperatore. Ciò nonostante, nemmeno questa rottura sarebbe
stata definitiva, se non avesse coinciso con raffermarsi della
potenza normanna e la perdita dei possedimenti bizantini nell'Italia
meridionale. Da allora in poi l'Oriente ebbe a fronteggiare la
crescente minaccia di una aggressione occidentale, e la controversia
religiosa fra le Chiese bizantina e latina s'identificò con la causa
del patriottismo bizantino e della conservazione politica.
All'inizio del secolo XI, tuttavia,
nessuno avrebbe potuto prevedere il fato che pendeva sul mondo
bizantino. L'Impero di Oriente non era mai apparso più forte o più
prospero che negli ultimi anni di regno dell'imperatore Basilio II.
Esso superava di gran lunga l'Europa occidentale per ricchezza e
civiltà, e la conquista della Bulgaria e la conversione della Russia
offrivano nuove occasioni di espansione culturale. Erano state
gettate le fondamenta allo sviluppo di una nuova cultura
slavo-bizantina nell'Europa orientale che per il futuro pareva non
meno promettente del corrispondente sviluppo romano-germanico in
Occidente. Accadde però che il primo venne prematuramente fermato e
soffocato, mentre il secondo era destinato a dare origine al moto
universale della civiltà occidentale moderna.
Questo contrasto fu in parte dovuto a
cause esteriori. Dopo la fine del secolo x la cultura dell'Europa
occidentale, nonostante la sua tardività, fu libera di seguire il
corso del suo sviluppo, mentre quella dell'Europa orientale rimase
costantemente esposta a interruzioni violente dall'esterno. Non erano
trascorsi cinquant'anni dalla morte di Basilio II che l'Impero
bizantino aveva perduto le province orientali per opera dei Turchi
Selgiucidi, e le sue comunicazioni con la Russia; erano messe a
repentaglio dalle rinnovate incursioni dei Patzinachi e dei Tatari
kumani usciti dalle steppe del Nord. Nel secolo successivo queste
invasioni discussero quasi la promettente cultura russo-cristiana di
Kiev, e spostarono il centro di gravita della Russia slava verso
nord-est, - la regione di Vladimir e di Mosca, - mentre un secolo
dopo anche questi territori restavano sommersi dalla conquista
mongola. E finalmente, nel secolo XIV i Turchi ottomani entravano in
Europa e, posto fine alla breve storia della Serbia medievale,
distruggevano totalmente gli estremi avanzi della potenza bizantina
scampati agli assalti dei sovrani normanni e angioini dell'Italia
meridionale e alle conquiste dei crociati francesi e degli
avventurieri e mercanti italiani.
Ma queste cause esterne, per quanto
importanti, non bastano a spiegare il prematuro arresto e declino
della cultura dell'Europa orientale. La cultura bizantina aveva
conservato le tradizioni della civiltà classica assai più
compiutamente dell'Occidente latino, ma non seppe propagarle né
passarle a nuovi popoli. La cultura più elevata restava patrimonio
di una classe ristretta e coltissima, legata alla corte e alla
capitale; e i popoli slavi ereditarono solamente gli elementi
religiosi e artistici della cultura bizantina. Di conseguenza, quando
venne la fine, il retaggio intellettuale del pensiero e delle lettere
greche venne ripreso non dalle culture dell'Europa orientale, ma
dalle loro antiche nemiche e antagoniste dell'Occidente latino.
La cultura bizantina preservò
fedelmente la sua tradizione originale, ma fu impotente a creare
nuove forme sociali e nuovi ideali di cultura. La sua vita spirituale
e sociale era colata nello stampo fisso dello stato chiesastico
bizantino, e quando questo cadde non restò base alcuna per un nuovo
sforzo sociale. In Occidente, d'altra parte, nell'alto Medioevo non
esisteva nessuno schema politico fisso simile a quello della cultura
bizantina. La società era ridotta ai suoi nudi elementi, e cosi
povero e barbarico lo stato da non essere in grado di mantenere le
forme superiori della vita civile. Alla Chiesa piuttosto che allo
Stato gli uomini chiedevano una guida culturale; e, grazie alla sua
indipendenza spirituale, la Chiesa possedeva una forza d'iniziativa
sociale e morale che in Oriente mancava. Cosi, la civiltà
dell'Europa occidentale, benché fosse assai meno elevata di quella
dell'Impero bizantino, era una forza dinamica e non statica, che
esercitava un influsso trasformatore sulla vita sociale dei popoli
nuovi. In Oriente esisteva un organo di cultura che tutto
abbracciava, l'Impero; ma in Occidente ogni paese e quasi ogni
regione aveva i propri centri di vita culturale nelle chiese e nei
monasteri locali, che non erano, come in Oriente, interamente
dedicati all'ascesi e alla contemplazione, ma erano pure organismi di
attività sociale. L'ideale bizantino è simboleggiato dal sublime
isolamento del Monte Athos, un mondo a parte dalla comune vita degli
uomini; quello dell'Europa occidentale dalle grandi abbazie
benedettine, che furono, come quella di San Gallo, i principali
centri della cultura occidentale o, come quella di Cluny, la sorgente
di nuovi movimenti, i quali esercitarono un profondo influsso sulla
società medievale.
TERZA PARTE - LA FORMAZIONE DELLA CRISTIANITA’ OCCIDENTALE
XI. LA CHIESA OCCIDENTALE E LA CONVERSIONE DEI BARBARI
La caduta dell'Impero d'Occidente nel
secolo V non sfociò nell'immediata formazione di un'unità culturale
indipendente nell'Europa occidentale. Nel secolo VI la cristianità
occidentale dipendeva ancora dall'Impero d'Oriente, e la cultura
occidentale era un caotico miscuglio di elementi barbarici e romani
privi ancora di ogni unità spirituale e di ogni principio interiore
di ordine sociale. La temporanea rinascita della civiltà nel secolo
VI fu seguita da un secondo periodo di declino e d'invasioni
barbariche che ridusse la cultura europea a un livello assai più
basso che nel secolo V. Ancora una volta la crisi si sviluppò sul
Danubio. La seconda metà del regno di Giustiniano aveva assistito a
un progressivo indebolimento delle frontiere, e le province
balcaniche erano rimaste esposte a una serie d'invasioni distruttive.
I Gepidi, un popolo germanico-orientale alleato dei Goti, avevano
preso il posto degli Ostrogoti nella Pannonia, mentre gli Unni
Kotriguri tenevano il basso Danubio e spingevano le loro scorrerie
fino alle porte di Costantinopoli. Nella loro scia vennero gli Slavi,
che ora per la prima volta emergono dall'oscurità preistorica che
avvolge le loro origini. Minacciato da tanti pericoli, il governo
imperiale fu incapace di difendere militarmente le sue frontiere e si
affidò alla diplomazia. Indusse gli Utiguri della steppa del Kuban
ad attaccare i Kotriguri; mise gli Éruli e i Longobardi contro i
Gepidi, e gli Avari contro i Gepidi e gli Slavi. Così nel 567, dopo
la morte di Giustiniano, gli Avari si unirono ai Longobardi per
distruggere il regno gepido, e il governo di Giustino II, sperando di
recuperare Sirmip all'Impero, abbandonò i Gepidi al loro destino. Ma
qui i Bizantini esagerarono in furberia, perché Baian, il gran khan
degli Avari, non era un soldato qualunque, di cui la diplomazia
imperiale potesse tirare i fili, ma uno spietato conquistatore
asiatico del tipo di Attila e di Genghiz Khan. Invece che con uno
stato germanico relativamente stabile l'Impero aveva a che fare
adesso con un popolo di nomadi bellicosi, il cui dominio si estendeva
dall'Adriatico al Baltico.
Sotto la loro pressione la frontiera
del Danubio finì col cedere, e le province illiriche, che da quasi
quattro secoli erano il fondamento della potenza militare dell'Impero
e la culla dei suoi soldati e dei suoi governanti, vennero occupate
da popoli slavi che dipendevano dagli Avari.
Ma l'Impero non fu la sola potenza a
soffrirne. Tutta l'Europa centrale divenne preda dei conquistatori
asiatici. Le loro scorrerie giunsero fino alle frontiere del regno
franco. Gli Svevi settentrionali furono costretti a evacuare le terre
fra l'Elba e l'Oder, e là Germania orientale venne colonizzata dai
sudditi slavi degli Avari. Così, dei popoli germanici-orientali che
precedentemente avevano dominato l'Europa orientale dal Baltico al
Mar Nero non rimasero che i Longobardi, e questi furono abbastanza
prudenti da non fare concorrenza ai loro alleati asiatici. Subito
dopo la caduta del regno gepido evacuarono le loro terre sul Danubio
e calarono in Italia. Qui l'Impero si rivelò di nuovo incapace di
proteggere i suoi sudditi. La Lombardia e tutto l'interno della
penisola furono occupati dagli invasori, e i Bizantini mantennero il
loro dominio solamente sui territori costieri, le isole venete,
Ravenna e la Peritapoli, il ducato di Roma, e Genova, Amalfi, Napoli.
Questo fu il colpo estremo alla
declinante civiltà dell'Italia, e non c'è da stupirsi che agli
uomini di quel tempo paresse vicina la fine del mondo. Gli scritti di
san Gregorio Magno riflettono le spaventose sofferenze e il profondo
pessimismo del tempo. Egli giunge a dare il benvenuto alla peste che
devastava allora l'Occidente, come a un rifugio dagli orrori che lo
circondavano. "Quando consideriamo il modo come altri uomini
sono morti, troviamo un sollievo riflettendo alla specie di morte che
ci minaccia. Quali mutilazioni, quali crudeltà non abbiamo vedute
inflitte agli uomini, alle quali la morte è l'unico rimedio e fra le
quali
la vita era una tortura! " 110.
Egli vede la profezia di Ezechiele della pentola bollente avverarsi
nel fato di Roma :
Di
questa città è stato ben detto : " La carne è bollita e le
ossa entro di essa"... Poiché dov'è il Senato? Dov'è il
Popolo? Le ossa sono tutte consunte, la carne è dissoluta, tutta i a
pompa delle dignità di questo mondo è passata. Il corpo intero e
bollito. Eppure, anche noi che restiamo, pochi come siamo, siamo
tuttavia quotidianamente colpiti dalla spada, siamo quotidianamente
oppressi da innumerevoli afflizioni. Si dica dunque: "Mettete la
pentola anche vuota sui carboni". Poiché il Senato non è più,
e il Popolo è perito, e tuttavia il dolore e l'affanno sono
quotidianamente moltiplicati fra i pochi che restano. Roma è, per
cosi dire, già vuota e bruciata. Ma che bisogno c'è di parlare di
uomini quando, mentre cresce l'opera della rovina, noi vediamo perire
persino le case? Per questo e stato bene aggiunto riguardo la città
già vuota: "Che il suo bronzo bruci e si fonda". Ormai
anche la pentola si consuma, nella quale vennero prima distrutte la
carne e le ossa...111.
Ma il peggio non era ancora venuto. Nel
secolo VII gli Arabi conquistano l'Africa bizantina, la provincia più
civile dell'Occidente, e la grande Chiesa africana, la gloria della
cristianità latina, scompare dalla storia. Al principio del secolo
VIII il fiotto dell'invasione musulmana si abbatte sulla Spagna
cristiana e minacciò la stessa Gallia. La cristianità era ormai
un'isola sperduta fra il Mezzogiorno musulmano e il Settentrione
barbarico.
Eppure, proprio in quest’epoca di.
universale, rovina e distruzione vennero gettate le fondamenta della
nuova Europa, da uomini come san Gregorio, che non miravano a
costruire un nuovo ordine sociale, ma che, siccome il tempo
stringeva, si travagliavano per la salvezza degli uomini in un mondo
moribondo. E proprio quest'indifferenza per i risultati temporali
diede al papato l'energia di diventare, nella decadenza generale
della civiltà europea, un centro di riorganizzazione delle forze
della vita. Come nelle parole dell'iscrizione che papa Giovanni III
collocò nella Chiesa dei Santi Apostoli : "In un'età angusta,
il papa si mostrò più generoso, e sdegnò di essere abbattuto,
benché cadesse il mondo" 112.
Nel momento stesso in cui cadeva
l'Impero in Occidente, sant'Agostino nel suo grande libro De Civitate
Dei aveva esposto, il programma che doveva ispirare gli ideali dei
tempi nuovi. Egli presentava tutta la storia come l'evoluzione di due
opposti principi incarnati nelle due società antagoniste, la città
celeste e la città terrena, Sion e Babilonia, la Chiesa e il Mondo.
L'una non poteva attuarsi in modo compiuto sulla terra, era "in
via", la sua patria era celeste ed eterna; l'altra trovava la
sua attuazione nella prosperità terrena, nella sapienza e nella
gloria umane; era fine e giustificazione a se stessa. Lo Stato, a
dire il vero, non era condannato come tale. In quanto cristiano, esso
serviva ai fini della città celeste. Ma era una società
subordinata, era servo e non padrone: gli era superiore la società
spirituale. Appena lo Stato viene in conflitto con la potenza
superiore, appena si pone come fine a se stesso, esso s'identifica
con la città terrena e perde ogni diritto a una sanzione più alta
che non sia la legge della forza e dell'interesse egoistico. Senza la
giustizia, che cos'è un grande regno se non una grande rapina,
"magnum latrocinium" ? Conquistare o essere conquistato non
fa né bene né male a nessuno. È un mero spreco d'energia, un gioco
di mentecatti per un inutile premio. Il mondo terreno è privo di
sostanza e transitorio, la sola realtà per cui vale la pena di
affaticarsi è quella eterna : la Gerusalemme celeste, "la
visione della pace".
Quest'ideale della supremazia e
indipendenza del potere spirituale trovò la sua espressione
soprattutto nel papato 113.
Già prima della caduta dell'Impero il vescovo di Roma godeva di una
posizione unica quale successore e rappresentante di san Pietro. Roma
era il "seggio apostolico" per eccellenza, e in virtù di
quest'autorità era intervenuta risolutamente contro Costantinopoli e
Alessandria nelle controversie dottrinali dei secoli IV e V. Il
declino dell'Impero in Occidente aumentò naturalmente il suo
prestigio, giacché il processo per cui il vescovo divenne il
rappresentante della tradizione romana nelle province conquistate fu
assai più accentuato nell'antica capitale. La vecchia tradizione
imperiale fu continuata nella sfera della religione. Nel secolo V san
Leone Magno, parlando al suo popolo nella festa dei santi Pietro e
Paolo, poteva dire : "Sono essi [gli imperatori] che ti hanno
portata tanta gloria come nazione sacra, come popolo eletto, come
città regale e sacerdotale, affinché tu potessi divenire la
capitale del mondo per la santa sede di san Pietro, ed esercitare un
più ampio dominio per la divina religione che non per l'autorità
terrena" 114.
Il papa era tuttora un suddito leale
dell'imperatore e considerava la causa dell'Impero inseparabile da
quella della religione cristiana. La liturgia accoppia insieme "i
nemici del nome romano e gli avversari della fede cattolica", e
il Messale romano ancora oggi contiene una preghiera per l'Impero
romano: "che Iddio possa sottomettere all'imperatore tutte le
nazioni barbare, per la nostra pace perpetua". Ma dopo
l'invasione longobarda e l'età di san Gregorio, l'effettiva autorità
del governo imperiale in Italia si trovò ridotta a un'ombra, e
ricadde sul papa ogni responsabilità per la salvezza di Roma e il
sostentamento dei suoi abitanti. Roma divenne, come Venezia o
Cherson, una specie di membro semindipendente dello stato bizantino.
Rimaneva come una porta aperta fra l'Oriente civile e il barbaro
Occidente; era un punto d'incontro dell'uno e dell'altro, senza
appartenere esattamente a nessuno dei due.
Questa posizione anomala fu molto
favorevole all'esercizio dell'influsso papale sui regni barbarici
dell'Occidente, dato che il papato ritraeva prestigio dal suo legame
con l'Impero d'Oriente senza correre il pericolo di venire
considerato uno strumento della politica imperiale, e fu cosi che i
re franchi accettarono senz'obiezione che il vescovo di Arles
ricevesse la carica di vicario apostolico per la Chiesa della Gallia.
Tuttavia, il potere del papato, e con
esso quello della Chiesa universale, era assai limitato dalle
debolezze interiori delle Chiese locali. La Chiesa del regno franco,
specialmente, soffriva dello stesso processo d'imbarbarimento e
decadenza culturale che affliggeva tutta la società.
Il vescovo divenne un magnate
territoriale, come il conte, e quanto maggiori erano le sue ricchezze
e la sua potenza, era maggiore il pericolo che la carica si
secolarizzasse. La monarchia non aveva nessuna intenzione diretta
d'immischiarsi nelle prerogative della Chiesa, ma era naturale che
pretendesse di fare essa le nomine a una carica che aveva una parte
così importante nell'amministrazione del regno. Ora, i suoi
candidati erano sovente di un carattere assai dubbio, come i "vescovi
briganti" Salonio e Sagittario, di cui descrive le gesta
Gregorio di Tours (lib. IV, cap. 42; V, cap. 20). Inoltre, la
trasformazione dello Stato in società agraria e il declino
progressivo della città ebbero un effetto deleterio sulla Chiesa,
poiché l'influsso delle campagne, barbariche e semipagane, giunse a
predominare su quello delle città. Infatti, mentre nell'Oriente il
cristianesimo era anzitutto penetrato nelle campagne, e i contadini
erano, se mai, più cristiani dei cittadini, nell'Europa occidentale
la Chiesa s'era sviluppata nelle città, non riuscendo in questo modo
a fare una grande impressione sui campagnoli e sulla gente del
contado. Costoro erano i "pagani", che, alla maniera dei
contadini, restavano attaccatissimi alle loro usanze e credenze
antichissime, ai loro riti della seminagione e della mietitura, alla
venerazione degli alberi e delle sorgenti sacre.
Eppure, l'etica fondamentale della
nuova religione non era per nulla estranea alla vita contadinesca. I
suoi inizi si erano svolti tra i pescatori e i contadini della
Galilea, e l'insegnamento, evangelico è pieno di immagini del campo,
dell'ovile e del vigneto. Semplicemente, al cristianesimo occorreva
un nuovo organo, oltre l'episcopato cittadino, perché potesse
permeare la campagna. Ora, nell'istante stesso in cui la conversione
dell'Impero allacciava più strettamente la Chiesa alla politica
cittadina, un nuovo movimento distoglieva gli uomini dalla città.
Gli eroi della seconda epoca cristiana, i successori dei martiri,
furono gli asceti: gli uomini che allontanarono deliberatamente da sé
tutto il retaggio della cultura cittadina, allo scopo di vivere una
vita di fatiche e di preghiera nelle condizioni più semplici
possibili.
Nel secolo IV i deserti dell'Egitto e
della Siria si popolarono di colonie di monaci ed eremiti, che
divennero scuole di vita religiosa per tutte le province dell'Impero
e per i popoli limitrofi dell'Oriente. Ma, in Occidente, benché gli
ideali fondamentali fossero gli stessi, la differenza delle
condizioni sociali costrinse i monasteri ad assumere un diverso
atteggiamento nei riguardi della società che li circondava.
Nei territori rurali dell'Occidente il
monastero era l'unico centro di vita e d'insegnamento cristiano, e fu
ai monaci piuttosto che non ai vescovi e al loro clero che toccò in
definitiva il compito di convenire la popolazione campagnola pagana o
semipagana. La cosa è evidente già sin dal secolo IV, nella vita
del fondatore del monachesimo gallico, il grande Martino di Tours, ma
il massimo sviluppo del movimento fu dovuto all'opera di Giovanni
Cassiano, che mise la Gallia in diretto contatto con la tradizione
monastica del deserto egiziano, e a sant'Onorato, il fondatore di
Lérins, che divenne nel secolo V il massimo centro monastico
dell'Europa occidentale e fonte di un duraturo influsso.
Ma l'influsso del monachesimo acquistò
la sua maggiore importanza nelle terre celtiche dell'estremo
Occidente, recentemente convertite. Gli inizi del movimento monastico
in quella zona risalgono al secolo V, e probabilmente devono la loro
origine all'influsso di Lèrins, dove san Patrizio aveva studiato
negli anni che precedettero il suo apostolato e dove nel 433 un
monaco britannico, Fausto, aveva tenuto la carica di abate.
Ma, benché san Patrizio avesse
introdotto la vita monastica in Irlanda, la sua organizzazione
ecclesiastica segui le linee tradizionali dell'organizzazione
episcopale, come fu della Chiesa britannica nel Galles. Tuttavia,
siccome il vescovo romano era sempre un vescovo cittadino, il normale
sistema di organizzazione ecclesiastica non trovava nessuna base
sociale naturale nelle terre celtiche, dove l'unità sociale non era
la città ma la tribù. Di conseguenza, la grande estensione
dell'influsso e della cultura monastica nel secolo VI fece si che il
monastero prendesse il posto del vescovato come centro di vita e
organizzazione ecclesiastica. Il movimento ebbe inizio nel Galles
meridionale, dove il monastero di Sant'Illtyd nell'isola di Caldey
divenne una grande scuola di vita monastica secondo il modello di
Lérins, fin dai primi anni del secolo VI. Da questo centro il
risveglio monastico si diffuse per tutta la Britannia occidentale e
la Bretagna, per opera di san Samson, san Cadoc di Liancarvan, san
Gilda e san David. Inoltre il grande sviluppo del monachesimo
irlandese che ebbe luogo nel secolo VI sotto i "santi del
secondo Ordine", fu strettamente connesso con questo movimento
115.
San Finiano di Clonard (m. 549), il
principale iniziatore del nuovo tipo di monachesimo, era in stretti
rapporti con san Cadoc di Liancarvan, e con san Gildas; e attraverso
lui e i suoi discepoli, soprattutti san Ciaran di Clonmacnois (m.
549), san Brandano di Clonfert e san Colomba di Derry e Iona, la
tradizione monastica di Sant'Illtyd e della sua scuola si diffuse in
Irlanda. L'importanza di questo movimento fu letteraria oltre che
ascetica, poiché la scuola di Sant'Illtyd e San Cadoc coltivava le
tradizioni delle antiche scuole di retorica, insieme a quelle della
mera dottrina ecclesiastica, e incoraggiava lo studio della
letteratura classica.
Questa l'origine del movimento
culturale che produsse le grandi scuole monastiche di Clonard e
Clonmacnois e Bangor, e mise l'Irlanda, dalla fine del secolo VI,
alla testa della cultura occidentale. Tuttavia, è probabile che il
suo sviluppo debba altresì qualcosa alle tradizioni indigene, perché
gli Irlandesi, diversamente dagli altri popoli barbarici, possedevano
una nativa tradizione di dottrina, rappresentata dalle scuole dei
poeti o Filid, che godevano di considerevoli ricchezze e autorità
sociale. Le nuove scuole monastiche in un certo senso sottentravano
al retaggio di questa tradizione indigena, e furono in grado di
sostituire le vecchie scuole dei druidi e dei bardi come organi
intellettuali della società irlandese. Gradualmente la cultura
classica importata nei monasteri cristiani si mescolò alla
tradizione letteraria indigena, e sorse una nuova letteratura
dialettale, ispirata in parte dall'influsso cristiano, ma fondata
anche su native tradizioni pagane. Per quanto questa letteratura sia
giunta a noi specialmente attraverso versioni medioirlandesi dell'età
medievale, è indubbio che la sua creazione originale risale ai
secoli VII e VIII, - l'età aurea della cultura irlandese cristiana,
- e che la tradizione letteraria dell'Irlanda medievale ha profonde
radici nel passato preistorico. Il suo esempio più stupefacente è
il grande epos o saga in prosa - il Tàin Bó Cualnge - che ci
riporta al Medioevo e, di là dalla tradizione classica, all'età
eroica della cultura celtica, e serba memoria di uno stadio sociale
che somiglia a quello del mondo omerico. Così non ci furono brusche
fratture tra la vecchia tradizione barbarica e quella della Chiesa,
come avvennero altrove, e fra la Chiesa e la società tribale celtica
si ebbe una fusione singolarissima, che non ebbe l'eguale nel resto
dell'Europa occidentale. L'organizzazione gerarchica episcopale della
Chiesa, comune al resto della cristianità, qui fu interamente
subordinata al sistema monastico. Naturalmente i vescovi continuarono
a esistere e a conferire gli ordini/ma non erano più i dirigenti
della Chiesa.
I monasteri erano non soltanto grandi
centri di vita religiosa e intellettuale; ma anche centri di
giurisdizione ecclesiastica. L'abate era il dirigente della diocesi o
paroichia, e teneva di solito nella sua comunità uno o più
vescovi per adempiere alle necessarie funzioni episcopali, tranne i
casi in cui era vescovo egli stesso. Anche più straordinario è il
fatto che questa specie di giurisdizione quasi episcopale a volte fu
esercitata da donne, perché la sede di Kildare era una dipendenza
del grande monastero di Santa Frigida e veniva retta insieme dal
vescovo e dalla badessa, sicché era, secondo la frase del biografo
di lei, "una sede nello stesso tempo episcopale e verginale"
116
.
I monasteri erano strettamente. legati
alla società tribale, giacché l'usanza prevalente se non universale
era di scegliere l'abate nel clan a cui apparteneva il fondatore.
Così il Libro di Armagh ricorda nel secolo IX che la chiesa
di Trim era stata retta per nove generazioni dai discendenti di quel
capitano che ai tempi di san Patrizio aveva dotato la sede. Allo
stesso modo i primi abati di lona appartenevano alla famiglia di san
Colomba, la stirpe regale degli Ui Niall del Nord 117.
Come organizzazione e modo di vita i
monaci irlandesi avevano una stretta somiglianza con i loro prototipi
egiziani. Essi gareggiavano coi monaci del deserto per il rigore
della disciplina e l'ascetismo della vita. I loro monasteri non erano
grandi edifici come le posteriori abbazie benedettine, ma
consistevano in gruppi di capanne e di piccole cappelle, come i laura
egiziani, ed erano circondati da un rath o terrapieno. Inoltre, essi
conservavano l'idea orientale della vita eremitica come il culmine e
il fine dello stato monastico. In Irlanda, tuttavia, quest'ideale
assunse una forma peculiare che non si trova in altri luoghi. Era
normale per i monaci dedicarsi a una vita di volontario esilio e di
pellegrinaggio. Il caso ricordato nella Anglo-Saxon Chronicle
(891 circa), dei tre monaci "che partirono dall'Irlanda sopra
una barca priva di remi perché volevano vivere in stato di
pellegrinaggio per l'amor di Dio, senza curarsi dove", e tipico
di questa concezione. Essa portò a un movimento di viaggi e di
esplorazioni che si riflette in forma leggendaria nelle avventure di
san Brandano il navigatore. Quando i Vichinghi scoprirono l'Islanda,
trovarono che i "papi" irlandesi c'erano già stati prima
di loro, e ogni isola dei mari settentrionali aveva la sua colonia di
asceti. Gli informatori di Dicuil, il geografo carolingio, avevano
navigato fin oltre l'Islanda e raggiunto i mari glaciali artici.
Ma la vera importanza di questo
movimento sta nell'impulso ch'esso diede all'attività
missionaria,***e m come missionari che i monaci celti portarono il
loro più seno contributo alla cultura europea***. Le colonie
monastiche di san Colomba a Iona e del suo omonimo Colombano a
Luxeuil furono il punto di partenza di una grande espansione del
cristianesimo. Al primo si dovette la conversione della Scozia e del
regno di Northumbria, al secondo il risveglio del monachesimo e la
conversione dei residui clementi pagani del regno franco. Luxeuil,
coi suoi seicento monaci, divenne la metropoli monastica dell'Europa
occidentale e il centro di una grande attività colonizzatrice e
missionaria. Moltissimi dei grandi monasteri medievali, non soltanto
della Francia ma anche delle Fiandre e della Germania, debbono la
loro fondazione alla sua opera - per esempio, Jumièges,
Saint-Vandrille, Solignac e Gorbie in Francia; . Stavelot e Malmedy
nel Belgio; San Gallo e Disentis in Svizzera; e Bobbio, l'ultima
fondazione di Colombano in persona, in Italia. Attraverso tutta
l'Europa centrale gli erranti monaci irlandesi hanno lasciato le loro
tracce, e la Chiesa germanica venera tuttora tra i suoi fondatori i
nomi di san Kilian, san Gallo, san Fridolino e san Corbiniano.
È facile comprendere quale influsso
abbia esercitato questo movimento sulle campagne. Esso fu
essenzialmente rurale, evitando le città e cercando le più selvagge
regioni delle foreste e del monti. Ben più che non la predicazione
di vescovi e preti venuti dalla lontana città, la presenza di queste
colonie di asceti nerovestiti deve aver colpito lo Spirito dei
campagnoli col senso di una nuova potenza, di gran lunga più forte
delle divinità naturali dell'antica religione contadina. Inoltre, i
monaci irlandesi erano essi stessi campagnoli e provavano un
sentimento profondo per la natura e per le creature selvatiche. Il
biografo di Colombano riferisce come, attraversando il suo eroe la
foresta, gli scoiattoli e gli uccellini venivano a farsi carezzare da
lui e folleggiavano e sgambettavano con grande gioia, come cuccioli
che giocano col padrone" 118.
Invero, le leggende di questi santi
monaci sono piene di un sentimento della natura quasi francescano.
Non si può negare che l'ideale monastico celtico fosse quello del
deserto; essi amavano la foresta o, meglio ancora, le isole
disabitate e inaccessibili, come Skellig Michael, che è una delle
più solenni località monastiche, proprio come ancora oggi i monaci
orientali scelgono il monte Athos o la Meteora. Ciò nonostante, le
colonie monastiche erano necessariamente costrette a intraprendere
l'opera dei contadini, disboscare la selva e dissodare il terreno. Le
vite dei santi monaci del periodo merovingio, sia galli che celti,
sono piene di allusioni alle loro fatiche agricole - all'opera di
disboscamento e di riadattamento delle campagne abbandonate durante
il periodo dell'invasione.
Molti di essi, come san Walaric,
fondatore di Samt-Valery-sur-Somme, erano di origine contadina.
Altri, per quanto nobili di nascita, spesero la vita intera a
lavorare da contadini, come san Teodolfo, abate di Saint-Thierry
presso Reims, che non si diede mai tregua e il cui aratro dai
contadini venne appeso in chiesa come reliquia.
A questi uomini fu dovuta la vera
conversione delle campagne, poiché essi vivevano cosi vicino alla
cultura contadina da potervi infondere lo spirito della nuova
religione. Fu per opera loro che il culto dedicato prima agli spiriti
della natura venne trasferito ai santi. Le sorgenti sacre, gli alberi
sacri e le pietre sacre, non persero la devozione del popolo, ma
vennero consacrati alle nuove potenze e illustrati con nuovi ricordi.
I contadini dei dintorni di Reims rendevano onore a un albero sacro,
che si diceva germogliato miracolosamente dal pungolo che quello
stesso san Teodolfo aveva piantato in terra. Nelle regioni
occidentali le croci di pietra dei santi presero il posto dei menhir
del culto pagano 119,
allo stesso modo che il grande tumulo di Carnac era stato incoronato
della cappella di San Michele e un dolmen a Ploucret trasformato in
una cappella dei Sette Santi. Solo con molta difficoltà la Chiesa
riuscì ad abolire le antiche usanze pagane, e ciò essa fece
solitamente sostituendo la vecchia cerimonia idolatrica con una
cristiana. L'affermazione del Liber Pontificalis che san Leone
abbia istituito le cerimonie della Candelora per porre fine ai
Lupercalia è forse erronea, ma pare vero che le grandi
litanie e le processioni del 25 aprile abbiano preso il posto dei
Robigalia, e la festa della Colletta o Oblatio quello
dell'inizio dei Ludi Apollinares. Anche più singolare è la
corrispondenza fra le Ceneri e le stagionali feriae pagane
della mietitura, della vendemmia e della seminagione. Specialmente la
liturgia delle Ceneri dell'Avvento è piena di allusioni alla
seminagione, che essa associa col mistero del divino Natale. "II
seme divino discende, e mentre i frutti del campo sostentano la
nostra vita terrena, questo seme venuto dall'alto da all'anima nostra
il cibo dell'immortalità. La terra ha prodotto il suo grano, il suo
vino e il suo olio, e ora s'avvicina l'ineffabile Natale di colui che
attraverso la sua pietà impartisce il pane della vita ai figli di
Dio" 120.
Ma questa trasfigurazione liturgica
dello spirito del culto della vegetazione era troppo spirituale per
giungere alla mente del campagnolo. A dispetto di tutti gli sforzi
della Chiesa, gli antichi riti pagani sopravvissero e in tutta
l'Europa i contadini continuarono ad accendere i falò estivi la
vigilia di san Giovanni e a praticare in primavera il rito magico
della fertilità 121.
Oggi ancora, come ha mostrato Maurice Barrès nella Colline
inspirée, le sinistre potenze dell'antica religione
naturalistica sono latenti nelle campagne europee, e pronte a
riaffermarsi non appena il controllo del nuovo ordine si rilassi.
Nondimeno è notevole che proprio in quelle regioni dove le
sopravvivenze esterne delle usanze pagane saltano di più agli occhi,
come nella Bretagna e nel Tirolo, l'etica cristiana ha toccato più a
fondo la vita dei contadini. Poiché il cristianesimo è riuscito a
riplasmare questa cultura paesana. Le antiche divinità scomparvero e
i luoghi a loro sacri vennero riconsacrati ai santi della nuova
religione. È vero che il culto dei santuari locali e i loro
pellegrinaggi diedero occasione a ogni sorta di bizzarre
sopravvivenze, come vediamo ancor oggi nei Perdoni bretoni, ma fu
proprio questa continuità di cultura - quest'associazione
dell'antica con la nuova - ad aprire la mente dei contadini a
influssi cristiani che in altro modo non vi sarebbero entrati. E in
tempi successivi la scomparsa delle antiche Usanze campagnole è
stata sovente accompagnata da una ripresa di paganesimo assai più
remoto di quello dei resti archeologici.
Ma 1'evangelizzazione dell'Europa
rurale durante il periodo merovingio, non è se non uno dei servizi
che il monachesimo rese alla civiltà europea. Esso era pure
destinato a riuscire il principale agente del papato nella sua opera
di riforma ecclesiastica e ad esercitare un influsso vitale sulla
restaurazione politica e culturale della società europea. Lo stesso
periodo che vide l'ascesa del monachesimo celtico in Irlanda, fu
contrassegnato in Italia da un nuovo sviluppo del monachesimo, che
doveva avere un'importanza storica anche maggiore. Ciò fu opera di
san Benedetto, "il patriarca dei monaci d'Occidente", che
fondò verso l'anno 520 il monastero di Monte Cassino. Fu lui il
primo ad applicare all'istituzione monastica il genio latino
dell'ordine e della legge, e a completare quella socializzazione
della vita monastica che era stata iniziata da san Pacomio e da san
Basilio. L'ideale dei monaci del deserto era quello di un'ascesi
individuale, e i loro monasteri erano comunità di eremiti.
Quello dei benedettini era un ideale
essenzialmente cooperativo e sociale : suo fine non era di produrre
eroiche gesta ascetiche, ma di coltivare la vita ordinaria, "la
scuola del servizio del Signore". In confronto con le regole di
Pacomio e di san Colombano, quella di san Benedetto appare moderata e
facile, ma essa implicava un grado assai più alto di organizzazione
e di stabilità. Il monastero benedettino era un piccolo Stato in
miniatura, con una gerarchia e una costituzione fissa e una vita
economica organizzata. Fin dall'inizio fu una corporazione terriera,
che possedeva Ville, servi della gleba e vigneti, e l'economia
monastica occupa un posto più ampio nella regola di san Benedetto
che in qualunque altra regola precedente. Di qui l'importanza del
lavoro in cooperazione, che riempiva una parte cosi grande della vita
del monaco benedettino, poiché san Benedetto s'ispirava agli ideali
esposti nel trattato di sant'Agostino De Opere monachorum e detestava
come lui i monaci oziosi e "girovaghi" che tanto avevano
contribuito a gettare il discredito sul monachesimo in Occidente.
Ma il primo dovere del monaco non era
il lavoro manuale, bensì la preghiera, soprattutto l'ordinaria
recita dell'uffizio divino, che san Benedetto chiama "il lavoro
di Dio". Né lo studio era trascurato. Furono i monasteri a
tenere viva la tradizione classica dopo la caduta dell'Impero.
Infatti l'ultimo rappresentante in Occidente della tradizione colta
del servizio civile romano, Cassiodoro, fu anche fondatore di
monasteri e autore del primo programma di studi monastici. È vero
che l'ostentata cultura letteraria del vecchio rètore di Vivarium
era assai diversa dall'austera semplicità e spiritualità che
ispirava la regola benedettina, ma il monachesimo occidentale doveva
ereditare entrambe le tradizioni.
Sotto l'influsso del papato la regola
di san Benedetto divenne il modello romano di tutta la vita monastica
e, in definitiva, il tipo universale del monachesimo d'Occidente 122.
Dopo l'espansione celtica venne l'organizzazione latina.
L'inizio di questa missione benedettina
mondiale fu dovuto all'azione di san Gregorio, lui stesso monaco
benedettino. Dal monastero benedettino sul Celio sant'Agostino e i
suoi monaci partirono per la loro missione di conversione
dell'Inghilterra, e il monastero benedettino di Canterbury,
probabilmente la prima fondazione benedettina fuori d'Italia, divenne
il punto di partenza di un movimento di organizzazione e unificazione
religiosa che creò in Occidente un nuovo centro di civiltà
cristiana.
L'apparire nel secolo VII della nuova
cultura anglo-sassone è forse l'evento più importante fra l'età di
Giustiniano e quella di Carlo Magno, perché reagì profondamente
sull'intero sviluppo continentale.
Nelle sue origini questa cultura è
debitrice in ugual misura verso le due forze che abbiamo descritto -
il movimento monastico celtico e la missione benedettina romana.
L'Inghilterra settentrionale fu il terreno comune di entrambe, e qui
sorse la nuova cultura cristiana negli anni fra il 650 e i1 680, per
merito della reciproca azione e fusione dei due elementi. Il
cristianesimo era stato introdotto nella Northumbria dal romano
Paolino, che battezzò il re Edwin nel 627 e stabilì la sede
metropolitana nella vecchia città romana di York, ma la sconfitta
che il pagano Penda e il gallese Cadwallon inflissero a Edwin ridusse
temporaneamente in rovina la Chiesa anglica. Questa venne ristabilita
da re Osvaldo nel 634 con l'aiuto di sant'Aidan e dei missionari
celtici che egli portò da Iona a Lindisfarne, e per tutta la durata
del suo regno predominò l'influsso celtico. Ma solo col sinodo di
Witby, nel 664, il partito romano finalmente trionfò, grazie
all'intervento di san Vilfrido, che dedicò la sua vita lunga e
burrascosa al servizio dell'unità romana. A lui e al suo amico e
collega, san Benedetto Biscop, si deve la introduzione del
monachesimo benedettino nell'Inghilterra settentrionale. Né la loro
attività fu unicamente d'importanza ecclesiastica; essi furono
missionari della cultura, oltre che della religione, e a loro è
dovuta la nascita di una nuova arte anglica. Dai loro molti viaggi a
Roma e in Gallia riportarono abili artigiani, architetti e musici,
oltreché libri, quadri, indumenti; e le loro abbazie di Ripon e
Hexham, Wearmouth e Jarrow, furono i grandi centri della nuova
cultura. Contemporaneamente, una opera consimile veniva effettuata
nel Sud dall'arcivescovo greco-siriano Teodoro e dall'abate africano
Adriano, inviati da Roma nel 668. In loro noi possiamo osservare
l'apparizione di una nuova ondata di cultura più elevata venuta
dall'Oriente; ciò che spiega in gran parte la nascita
dell'erudizione anglo-sassone e la superiorità del latino di Beda e
di Alcuino sul barbaro stile di Gregorio di Tours o del celtico
autore della Hisperica Famina. La cultura superiore era sopravvissuta
specialmente nelle province bizantine dell'Africa e dell'Oriente, e
la bufera dell'invasione araba aveva portato in Occidente un afflusso
di profughi, che ebbero nel secolo VII press'a poco la stessa
funzione dei profughi greci di Costantinopoli nel XV. Dal 685 al 752
la Sede romana fu occupata da una serie di Greci e Siri, molti dei
quali erano personaggi notevolissimi, e l'influsso orientale toccò
il suo culmine, non soltanto a Roma, ma in tutto l'Occidente.
Nell'arte anglica di quel periodo l'influsso orientale è
singolarmente profondo. Press'a poco dopo l'anno 670, probabilmente
come risultato dell'attività di Benedetto Biscop, troviamo, in luogo
dell'antica arte germanica, una nuova scuola di scultura e
decorazione, d'ispirazione prettamente orientale, fondata sul motivo
siriaco del pampino intrecciato con figure di uccelli o di animali,
come si vede nella grande serie di croci angliche, specialmente
quelle famose di Ruthwell e Bewcastle, che risalgono probabilmente ai
primi anni del secolo VIII.
Che anche nella Northumbria esistesse
una scuola d'arte irlandese è provato dal meravig|ioso Vangelo di
Lindisfarne, ma non vi sono tracce di un suo influsso
sull'architettura ne sulla scultura 123.
D'altra parte, l'arte dell'Inghilterra sassone è molto più
composita e mostra l'influsso non soltanto dello stile orientale,
nelle sue forme cosi northumbriche come merovinge, ma anche dell'arte
irlandese.
Nondimeno, dietro tutti questi influssi
stranieri si trova un fondamento di cultura indigena. La stessa età
e la stessa regione che produssero le croci angliche videro anche
sorgere una letteratura anglo-sassone. Fu l'epoca in cui l'antica
storia pagana di Beowulf ricevette la sua forma letteraria; e anche
più caratteristici del loro tempo furono i poeti cristiani, Caedmon,
il pastore dell'abbazia di Whitby, la cui storia romantica ci è
conservata da Beda, e Cynewulf, l'autore di vari poemi che ci son
pervenuti (tra cui Andreas, Elene, Juliana), e forse anche del nobile
Sogno della Croce, una citazione del quale è scolpita sulla croce di
Ruthwell.
Il sorgere di questa letteratura
dialettale deve senza dubbio qualcosa all'influsso dell'Irlanda,
dove, come abbiamo veduto, avveniva in quel tempo uno sviluppo
notevole della cultura cristiana dialettale. Ma la letteratura
anglo-sassone ha un forte carattere distintivo che non è né celtico
né teutonico, ma tutto suo. È contrassegnata da una caratteristica
malinconia che non ha nulla in comune con la "malinconia
celtica" della tradizione letteraria. È la malinconia di un
popolo che vive tra le rovine di una civiltà morta, e i suoi
pensieri si appuntano sulle glorie del passato e la vanità delle
imprese umane 124.
Ma questa tradizione indigena non è
necessariamente anglo-sassone: può darsi che risalga anche più
lontano. Il Collingwood ha spiegato che l'improvvisa fioritura
dell'arte anglica è dovuta a una rinascita dello spirito creativo
del popolo vinto 125,
e questo sembra anche più probabile nel caso dei maggiorenti della
religione e della cultura. L'assenza quasi totale di ogni avanzo di
stabilimenti anglici pagani a nord del Tees, in Bernicia, il centro
della potenza northumbrica ai giorni di sant'Osvaldo, è
particolarmente degna di nota. Essa ci suggerisce la probabilità di
una sopravvivenza di elementi indigeni proprio nella regione che ebbe
una parte cosi grande nella storia della cultura anglica, cioè il
Tyneside e l'estremità orientale del vallo romano 126.
La stessa cosa vale, in grado minore,
per il Wessex, essendo tanto Aldelmo quanto Bonifacio nativi di
regioni non occupate dai Sassoni nei primi tempi. L'entusiasmo degli
Anglosassoni neoconvertiti per la cultura latina e per l'ordine
romano non può essere stato meramente fortuito. Un uomo come Beda,
che rappresenta il più alto grado raggiunto dalla cultura in
Occidente tra la caduta dell'Impero e il secolo IX, non può essere
stato un prodotto artificiale di una missione italiana fra barbari
germanici. La comparsa di un tipo simile, per esempio in Danimarca,
anche dopo che questa si fu convertita, sarebbe inconcepibile.
La conversione degli Anglosassoni
produsse in Inghilterra un mutamento cosi vitale perché significava
il riaffermarsi dell'antica tradizione culturale dopo la temporanea
vittoria della barbarie. Fu questa la ragione per cui la cultura
cristiana e monastica raggiunse in Inghilterra un'indipendenza e
autonomia come non possedette sul continente, tranne che in Spagna
per qualche tempo. Nei domini franchi la monarchia conservava tuttora
un po' del prestigio dello Stato antico, e, come abbiamo veduto,
esercitava un controllo considerevole sulla Chiesa. In Inghilterra,
la Chiesa incarnava l'intero retaggio della cultura romana di fronte
ai deboli e barbarici staterelli fondati sulle tribù. Fu la Chiesa,
più che lo Stato, ad aprire la strada verso l'unità nazionale
attraverso la sua organizzazione generale, i suoi sinodi annuali e la
sua tradizione amministrativa. Nella sfera politica la cultura
anglosassone fu singolarmente sterile di risultati. La Northumbria
cadde in uno stato di debolezza e d'anarchia molto prima che l'arte e
la cultura anglica tramontassero. La concezione popolare
dell'Anglosassone come una specie di John Bull medievale è
singolarmente in contrasto con la verità storica. Dal lato materiale
la civiltà anglosassone fu un fallimento; la sua maggiore industria
sembra sia stata la manifattura e l'esportazione di santi, e persino
Beda sentì il bisogno di protestare contro l'eccessivo moltiplicarsi
di fondazioni monastiche, che indebolivano seriamente le capacità
militari dello Stato 127.
Ma, d'altra parte, non c'è mai stato
un tempo in cui l'Inghilterra abbia avuto un influsso più grande
sulla cultura continentale. Nell'arte e nella religione,
nell'erudizione e nella letteratura, gli Anglosassoni del secolo VIII
furono alla testa del loro tempo. In un'epoca che la civiltà
continentale era discesa al suo più basso livello, la conversione
degli Anglosassoni segnò la ripresa della marca. I pellegrini
sassoni si affollavano a Roma come al centro del mondo cristiano, e
il papato trovò fra i monaci e i missionari anglosassoni i suoi
alleati e servitori più devoti.
Le fondamenta del tempo nuovo vennero
gettate dal maggiore di tutti, san Bonifacio di Creditori,
"l'apostolo della Germania", un uomo che ebbe nella storia
d'Europa un influsso più profondo di qualunque altro Inglese che sia
mai esistito. Diversamente dai suoi predecessori celtici, non fu un
missionario isolato, ma uno statista e un organizzatore, che si
dimostrò soprattutto un servitore dell'ordine romano. A lui si deve
la fondazione della Chiesa tedesca medievale e la definitiva
conversione dell'Assia e della Turingia, il cuore della terra
tedesca. Con l'aiuto dei suoi monaci e monache anglosassoni egli
distrusse gli ultimi fortilizi del paganesimo germanico e innalzò
abbazie e vescovati sul sito degli, antichi Folkburg e
santuari pagani, come Buraburg, Amoneburg e Fulda.
Quando tornò da Roma nel 739, si servi
della sua autorità di vicario papale in Germania per riorganizzare
la Chiesa bavarica e stabilire le nuove diocesi, che ebbero tanta
importanza nella storia tedesca. Infatti la Germania d'oltre Reno era
ancora una terra senza città, e fondare nuovi vescovati significava
creare nuovi centri di vita culturale. Per opera di san Bonifacio la
Germania cominciò a diventare un membro vivente della società
europea.
Si debbono a quest'influsso
anglosassone i primi inizi di una cultura dialettale in Germania 128.
Non è soltanto il fatto che i missionari anglosassoni abbiano
portato con sé la loro usanza di accompagnare i testi latini con
glosse vernacole, né che i primitivi monumenti della letteratura
tedesca - la vecchia Genesi sassone e l'epica religiosa del Heliand
- sembrino derivare dalla tradizione letteraria anglosassone. Ma
piuttosto perché l'idea stessa di una cultura dialettale era
estranea alle tradizioni della Chiesa continentale e fu il prodotto
caratteristico delle nuove culture cristiane dell'Irlanda e
dell'Inghilterra, donde venne trasmessa al continente dal movimento
missionario del secolo VIII.
Ma, in più, Bonifacio fu il
riformatore dell'intera Chiesa franca. La decadente dinastia
merovingia aveva già abbandonato la sostanza del suo potere ai
maestri di palazzo, i quali, nonostante il loro valore militare che
nel 735 salvò la Francia dalla conquista araba, per la cultura non
avevano fatto nulla, e avevano soltanto accresciuta la degradazione
della Chiesa franca. Carlo Martello si era servito di abbazie e
vescovati per ricompensare i suoi partigiani laici, e aveva
effettuato una secolarizzazione generale dei beni ecclesiastici. Come
scriveva Bonifacio al papa : "La religione è calpestata. I
benefizi si danno a laici avidi oppure a chierici licenziosi e
pubblicani. Tutti i loro delitti non impediscono loro di giungere al
sacerdozio; e infine, salendo di grado come crescono nel peccato,
diventano vescovi, e quelli tra loro che si possono vantare di non
essere adulteri o fornicatori sono ubriaconi, cacciatori arrabbiati e
soldati che non hanno ritegno a versare sangue cristiano" 129.
Nondimeno, i successori di Carlo Martello, Pipino e Carlomanno,
furono favorevoli alle riforme di Bonifacio. Munito di speciali
poteri come legato della Santa Sede e rappresentante personale del
papa, questi si pose a disfare l'opera di secolarizzazione della
Chiesa franca.
In una serie di grandi concili tenuti
fra il 742 e 747, Bonifacio restaurò la disciplina nella Chiesa
franca e la condusse ad avere strettissimi rapporti con Roma. È vero
ch'egli non riuscì a mettere in pratica tutto il suo programma volto
a stabilire un regolare sistema di appelli dalle autorità locali a
Roma e a far riconoscere i diritti del papato nell'investitura dei
vescovi. Ma Pipino, quantunque maldisposto a cedere il controllo che
aveva sulla Chiesa franca, appoggio san Bonifacio nella riforma della
Chiesa e accettò il suo ideale di cooperazione armonica fra lo stato
franco e il papato. Da allora in poi la dinastia carolingia doveva
essere la patrona del movimento di riforma ecclesiastica, e trovare
nella Chiesa e nella cultura monastica la forza che le occorreva per
la sua opera di riorganizzazione politica. Furono infatti i monaci
anglosassoni, e soprattutto san Bonifacio, a concepire per primi
quell'unione dell'iniziativa teutonica e dell'ordine latino che è la
sorgente di tutto lo sviluppo culturale del Medioevo.
XII. LA RESTAURAZIONE DELL'IMPERO D'OCCIDENTE E LA RINASCITA CAROLINGIA
L'importanza storica dell'età
carolingia trascende di gran lunga le sue realizzazioni materiali. Il
poco maneggevole impero di Carlo Magno non sopravvisse a lungo al suo
fondatore, e non raggiunse mai veramente l'organizzazione economica e
sociale di uno stato civile. Eppure, malgrado questo, esso segna il
primo emergere della cultura europea dal crepuscolo di un'esistenza
prenatale alla coscienza della vita attiva. Sinora i barbari erano
passivamente vissuti del capitale che avevano ereditato dalla civiltà
da loro saccheggiata; allora cominciarono finalmente a cooperare con
essa in un'attività sociale creatrice. Il centro della civiltà
medievale non doveva trovarsi sulle sponde del Mediterraneo, ma nelle
terre settentrionali fra la Loire e il Weser, che erano il cuore dei
domini franchi. Fu questo il centro formatore della nuova cultura, ed
è qui che le nuove condizioni che avrebbero regolato la storia della
cultura medievale trovano la loro origine. L'ideale dell'Impero
medievale, la posizione politica del papato, l'egemonia tedesca in
Italia e l'espansione della Germania verso oriente, le fondamentali
istituzioni tanto religiose quanto politiche della società medievale
e l'incorporazione della tradizione classica nella sua cultura, tutto
ha il suo fondamento nella storia del periodo carolingio.
Il carattere essenziale della nuova
cultura fu quello religioso. Mentre lo stato merovingio era stato
essenzialmente laico, l'impero carolingio fu una potenza teocratica:
l'espressione politica di un'unità religiosa. Questa trasformazione
nel carattere della monarchia si rivela nelle circostanze effettive
che insediarono la nuova dinastia; giacché Pipino ottenne
l'autorizzazione del papa per la sua deposizione dell'antica dinastia
e venne unto re nel 752 da san Bonifacio, secondo il rito religioso
d'incoronazione che s'era sviluppato sotto l'influsso della Chiesa
nell'Inghilterra anglosassone e nella Spagna visigotica, ma che
sinora era rimasto sconosciuto tra i Franchi. Cosi la legittimazione
della casa Carolingia suggellò quell'alleanza tra monarchia franca e
papato, per concludere la quale san Bonifacio aveva tanto fatto; e da
ora innanzi la monarchia franca sarà il campione riconosciuto della
Santa Sede. Il papato s'era già allontanato dall'Impero bizantino
per la politica iconoclastica degli imperatori isaurici, e
l'estinzione a Ravenna degli ultimi resti della potenza bizantina per
opera dei Longobardi, nel 751, costrinse il papa a cercare un
appoggio altrove. Nel 754 Stefano II visitò Pipino nei suoi domini,
e ne ottenne un trattato che assicurava alla Santa Sede l'esarcato e
i precedenti possessi bizantini in Italia, oltre ai ducati di Spoleto
e di Benevento. In cambio il papa riconsacrò Pipino re dei Franchi,
e gli conferì anche la dignità di patrizio dei Romani. Fu un evento
di capitale importanza, poiché segnò non solo la fondazione dello
Stato della Chiesa, che doveva durare fino al 1870, ma anche il
protettorato dei Carolingi in Italia e l'inizio della loro missione
imperiale come capi e organizzatori della cristianità occidentale.
I Carolingi erano per natura adatti a
intraprendere questa missione, giacché rappresentavano essi stessi
le due correnti della tradizione europea. Ritraevano la loro origine
tanto da vescovi e santi gallo-romani come da guerrieri franchi, e
combinavano il valore guerresco di un Carlo Martello con una vena
d'idealismo religioso, come quella che si rivela nella rinuncia di
Carlomanno al regno per chiudersi in un chiostro e nella sincera
devozione di Pipino alla causa della Chiesa. Solo però nel
successore di Pipino, Carlo Magno, ambedue questi clementi trovano
un'espressione simultanea. Carlo fu soprattutto un soldato, fornito
di un talento per la guerra e per le imprese militari che fece di lui
il massimo conquistatore del suo tempo. Ma, nonostante la sua durezza
e la sua ambizione priva di scrupoli, non fu solo un guerriero
barbarico; la sua politica s'ispirò a ideali e fini universali. Le
sue conquiste non furono il semplice compimento della tradizionale
politica franca d'espansione militare, ma anche crociate per la
protezione e l'unificazione della cristianità. Distruggendo il regno
longobardo egli liberò il papato dalla minaccia che ne aveva messo a
repentaglio l'indipendenza per due secoli, e introdusse l'Italia
nella cerchia dell'Impero franco. L'interminabile lotta coi Sassoni
nacque dalla sua risoluzione di mettere fine agli ultimi resti sia
del paganesimo germanico come dell'indipendenza sassone. La
sottomissione degli Avari negli anni 793-94 distrusse quell'asiatico
stato di briganti che avevano terrorizzata tutta l'Europa orientale,
e insieme restaurò il cristianesimo nelle province danubiane, mentre
la guerra cogli Arabi e la fondazione della Marca spagnola furono
l'inizio della reazione cristiana alla vittoriosa espansione
dell'Islam. Nel corso di trent'anni di guerra incessante, egli
allargò le frontiere della monarchia franca fino all'Elba, al
Mediterraneo e al basso Danubio, e riunì la cristianità di
Occidente in un grande stato imperiale.
L'incoronazione di Carlo come
imperatore romano e la restaurazione dell'Impero d'Occidente
dell'anno 800 concluse la riorganizzazione della cristianità
occidentale e completò quell'unione tra la monarchia franca e la
Chiesa di Roma che era stata iniziata dall'opera di Bonifacio e
Pipino. Tuttavia, sarebbe un errore supporre che l'elemento
teocratico del dominio di Carlo fosse fondato sul suo titolo
imperiale o che egli derivasse il carattere universale della sua
autorità dalla tradizione dell'imperialismo romano.
Sotto l'influsso del suo consigliere
anglosassone Alcuino, che non fu meno decisivo di quello di Bonifacio
nel periodo precedente, egli s'era già fatta un'alta opinione della
sua autorità come capo divinamente eletto del popolo cristiano. Ma
quest'ideale si fondava sull'insegnamento della Bibbia e di
sant'Agostino piuttosto che sulla tradizione classica di Roma
imperiale. Poiché, per Alcuino e gli autori dei Libri Carolini,
Roma, anche nella sua forma bizantina, era pur sempre l'ultimo degli
imperi pagani di cui parla la profezia, e la rappresentante del regno
terreno, mentre il monarca franco possedeva la superiore dignità di
sovrano e guida del popolo di Dio. Carlo era il nuovo Davide e il
nuovo Giosia; e, come quest'ultimo aveva restaurata la legge di Dio,
così Carlo era il legislatore della Chiesa e impugnava le due spade
dell'autorità spirituale e di quella temporale 130.
Quest'ideale teocratico domina ogni
aspetto del governo carolingio. Il nuovo stato franco fu, anche più
risolutamente dell'Impero bizantino, uno Stato chiesastico, i cui
aspetti secolari e religiosi erano inestricabilmente intrecciati.
Il re è il reggitore della Chiesa
oltre che dello Stato, e le sue leggi fissano le regole più rigide e
minute per la condotta del clero e la disciplina della dottrina e dei
riti. L'osservanza della domenica, l'esecuzione del canto
ecclesiastico e le condizioni per l'ammissione dei novizi nei
monasteri sono punti fissati nei Capitolari, altrettanto come la
difesa delle frontiere e l'amministrazione dei beni della corona. In
una certa occasione Carlo richiese persino da ciascuna parrocchia una
risposta scritta intorno al modo come vi fosse somministrato il
battesimo, e le risposte vennero inoltrate dai vescovi al palazzo di
Carlo, perché egli ne prendesse diretta visione.
Il governo di tutto l'Impero era
largamente ecclesiastico, poiché il vescovo partecipava alla pari
col conte all'amministrazione locale delle trecento contee in cui era
diviso l'impero, mentre il governo centrale era in gran parte nelle
mani degli ecclesiastici della cancelleria e della cappella reale 131,
l'arcicappellano essendo il principale consigliere del re e uno dei
massimi dignitari dell'Impero. Il controllo e la sorveglianza
sull'amministrazione locale erano assicurati dall'istituzione
caratteristicamente carolingia dei missi dominici, che andavano in
giro attraverso le contee dell'Impero, come i giudici d'assise
inglesi, e anche qui le missioni più importanti venivano affidate a
vescovi e abati.
Lo spirito teocratico, che ispirava il
governo carolingio appare chiaramente dal curioso discorso di uno dei
missi di Carlo, che ci è rimasto: "Siamo stati invitati qui, -
comincia, - dal nostro Signore, l'imperatore Carlo, per la vostra
salvezza eterna, e vi esortiamo a vivere virtuosamente secondo la
legge di Dio, e giustamente secondo la legge del mondo. Dovete sapere
anzitutto che bisogna credere in un solo Dio, Padre, Figlio e Spirito
Santo..." "Amate Dio con tutto il vostro cuore. Amate il
vostro prossimo come voi stessi. Fate elemosina ai poveri secondo i
vostri mezzi", e dopo aver ripassato i doveri di ogni i classe e
condizione, dalle mogli e dai figli ai monaci e conti e pubblici
funzionari, conclude: "A Dio nulla è nascosto. La vita è breve
e l'ora della morte è sconosciuta. Perciò siate sempre preparati".
132
Questo discorso è più conforme allo
stile di un cadì musulmano che di un funzionario romano: invero
l'ideale agostiniano della Città di Dio è stato trasformato con
cruda semplificazione in qualcosa di pericolosamente simile a una
versione cristiana dell'Islam, e Carlo è diventato il "commendatore
dei credenti". C'era la medesima identificazione della religione
con la politica, il medesimo tentativo d'imporre la moralità con
mezzi legali e di diffondere la fede con la guerra. Come lamentava
appunto Alcuino, la fede dei Sassoni era stata distrutta dalle
decime, e i missionari di Carlo erano ladroni (praedones) piuttosto
che predicatori (praedicatores). La religione di Carlo era come
quella dell'Islam una religione della spada, e la sua vita privata,
nonostante la sua sincera pietà, somigliava a quella di un sovrano
musulmano. Eppure, nonostante tutto, egli rivendicava una diretta
autorità sulla Chiesa e interveniva persino in questioni di dogma.
Nelle parole della sua prima lettera a Leone III, egli è "il
rappresentante di Dio, che deve proteggere e governare tutte le
membra del corpo divino", e "Signore e Padre, Re e
Sacerdote, Capo e Guida di tutti i cristiani".
Si capisce che queste pretese non
fossero troppo conciliabili con l'autorità tradizionale del papato.
Infatti, Carlo considerava il papa come un suo cappellano, e disse
chiaro e tondo a Leone III che toccava al re governare e difendere la
Chiesa, e al pontefice di pregare per essa. Così la distruzione del
regno longobardo pareva aver soltanto accresciute le difficoltà del
papato, lasciando Roma isolata fra i due poteri imperiali della
monarchia franca e dell'Impero bizantino, nessuno dei quali ne
rispettava l'indipendenza. I pericoli inerenti alla situazione si
fecero ben presto evidenti nelle dispute che seguirono al secondo
concilio di Nicea del 787. Fu questo una vittoria delle forze alleate
di Roma e dell'ellenismo sull'eresia orientale degli iconoclasti. Ma
Carlo, la cui religione aveva qualcosa di comune con la militante
semplicità degli imperatori isaurici, rifiutò di accettare le
decisioni del concilio. I Franchi non erano certo in condizione di
valutare l'importanza che aveva la questione del culto delle immagini
per i popoli di tradizione ellenica. Giacché, come ha mostrato lo
Strzygowski (per quanto non senza esagerazione), l'arte dei popoli
nordici concordava essenzialmente con quella dell'Oriente nel suo
astratto carattere grafico. Inoltre, l'influsso del Vecchio
Testamento, così forte nell'ambiente carolingio, conduceva a un
atteggiamento puritanesco nella questione del culto delle immagini
non meno che in quella dell'osservanza della domenica. Ne seguì che
Carlo in persona scese nell'aringo teologico contro Bisanzio e contro
Roma. Fece compilare dai suoi teologi una serie di trattati diretti
contro il concilio, che vennero pubblicati a nome suo come i Libri
Carolini, Mandò a Roma un missus con un capitolare di ottantacinque
riprensioni in ammonimento del papa, e finalmente, nel 794, convocò
a Francoforte un gran concilio di tutti i vescovi occidentali, nel
quale venne condannato il concilio di Nicea e furono confutate le
dottrine degli adoratori di immagini 133.
Papa Adriano si trovava in una
condizione molto difficile, per cui fu costretto a temporeggiare. Un
accordo lo legava all'impero bizantino contro il regno franco e la
Chiesa occidentale, e tuttavia i Bizantini lo avevano derubato del
suo patrimonio in Oriente e lo consideravano poco meno che uno
straniero. Nel caso di uno scisma fra Oriente e Occidente egli
sarebbe rimasto isolato e inerme. Politicamente egli dipendeva in
tutto e per tutto dalla potenza franca, e alla morte di Adriano, nel
795, il suo successore rese omaggio a Carlo come a signore.
A questo anomalo stato di cose pose
fine il riconoscimento di Carlo come Imperatore romano da parte del
papa, e la sua incoronazione a Roma il giorno di Natale del 800. È
difficile dire fino a che punto il papa abbia agito di propria
iniziativa o se fosse uno strumento di Carlo e dei suoi consiglieri
franchi. La testimonianza del biografo di Carlo, Eginardo, è
favorevole alla prima alternativa, ma gli storici moderni,
specialmente in Francia e in Inghilterra, non sono molto disposti ad
accoglierla. Certamente Carlo ci guadagnò, poiché la sua universale
autorità in Occidente ricevette adesso la sanzione della legge
romana e della tradizione. Per il papato, tuttavia, il vantaggio non
fu meno chiaro. La supremazia della monarchia franca, che aveva
minacciato di mettere in ombra quella di Roma, era adesso associata a
Roma e per conseguenza anche al papato. La soggezione politica del
papa non era più divisa fra l'autorità de jure
dell'imperatore di Costantinopoli e il potere de facto del re
franco. Come re, Carlo era rimasto al di fuori della tradizione
romana; come imperatore, entrò in un accordo giuridico definito col
capo della Chiesa. Il suo potere era pur sempre formidabile, ma non
più ormai indefinito e vago. Inoltre, l'idea dell'Impero romano era
tuttora indispensabile alla Chiesa. Era un sinonimo della civiltà
cristiana, mentre il dominio dei barbari si era cosi identificato col
paganesimo e con la guerra che la liturgia accoppiava insieme "i
nemici del nome romano e gli avversari della fede cattolica".
Per conseguenza, non è affatto improbabile che il papato, in qualità
di rappresentante dell'universalismo romano, abbia esso presa
l'iniziativa di restaurare l'Impero nell'800, come fece un'altra
volta settantacinque anni dopo nel caso di Carlo il Calvo.
Comunque ciò fosse, è cosa certa che
la restaurazione dell'Impero romano, o piuttosto la fondazione del
nuovo impero medievale, ebbe un valore religioso e simbolico che
superò di gran lunga la sua immediata importanza politica. Carlo se
ne servì, senza dubbio, come di una pedina diplomatica nei suoi
negoziati con l'Impero d'Oriente ma la sua incoronazione non portò
modificazione alcuna alla sua vita né al suo governo. Egli non tentò
mai di scimmiottare i modi di un Cesare romano o bizantino, come
fecero Ottone III e altri imperatori medievali, ma rimase un Franco
schietto, tanto nell'abbigliamento e nei modi come nelle sue
concezioni politiche. Nell'806 giunse persino a mettere a repentaglio
tutta la sua opera di unificazione imperiale dividendo, secondo
l'antica usanza franca, i suoi domini fra gli eredi invece di seguire
il principio romano della sovranità politica indivisibile; e questa
stessa tradizione si riaffermò fra i suoi successori e riuscì
fatale all'unità e alla continuità dell'Impero carolingio.
Furono gli uomini di Chiesa e i
letterati, piuttosto che i principi e gli statisti, a vagheggiare
l'ideale del Sacro Romano Impero. Per essi, questo significava la
fine dei secoli di barbarie e un ritorno all'ordine civile. Per
Eginardo Carlo era un nuovo Augusto, ed egli ne considerava l'opera
alla luce dell'ideale augusteo; mentre Modoino, vescovo di Autun,
descriveva il suo tempo come una rinascita dell'antichità classica :
Rursus in antiquos mutataque saecula mores;
aurea
Roma iterum renovata renascitur orbe.
Di fatto, benché il sapere dell'età
carolingia possa parere poca cosa in confronto a quello dei grandi
umanisti italiani, nondimeno esso segnò un'autentica rinascita, che
per lo sviluppo della cultura europea non ebbe meno importanza del
movimento più brillante del secolo XV. La raccolta degli sparsi
clementi delle tradizioni classica e patristica e la loro
riorganizzazione come base di una cultura novella fu il più grande
dei risultati dell'epoca carolingia. Questo movimento fu dovuto alla
cooperazione delle due forze che abbiamo già descritto; la cultura
monastica dei missionari anglosassoni e irlandesi e il genio
organizzatore della monarchia franca. All'inizio del secolo VIII la
cultura continentale era discesa al suo livello più basso, e la
ripresa del flusso fu dovuta all'arrivo dei missionari anglosassoni.
Bonifacio stesso era un dotto e un poeta del tipo di Aldelmo, e la
sua attività riformatrice si estese all'educazione come alla
disciplina del clero. Fu autore di un trattato di grammatica che si
basava su Donato, Carisio e Diomede, e la sua grande fondazione, il
monastero di Fulda, fu il centro di un risveglio della cultura
letteraria e della calligrafia che ebbe largo influsso in tutto il
settore orientale dei domini franchi 134.
Ma fu l'influsso personale di Carlo
Magno che diede più larga diffusione al movimento, e nulla mostra la
reale grandezza della sua indole più chiaramente dello zelo col
quale questo principe guerriero quasi illetterato si buttò all'opera
di restaurare gli studi e sollevare il livello dell'educazione nei
suoi domini. La rinascita carolingia, sia nelle lettere che
nell'arte, trovò il suo centro nella Scuola palatina e di qui si
diffuse in tutto l'Impero per mezzo dei centri monastici ed
episcopali come Fulda, Tours, le due Gorbie, San Gallo, Reichenau,
Lorsch, Saint-Wandrille, Ferrières, Orléans, Auxerre e Pavia. Da
tutte le parti del suo reame Carlo raccolse insieme dotti e teologi:
dalla Gallia meridionale, Teodulfo e Agobardo; dall'Italia, Paolo
Diacono, Pietro da Pisa e Paolino d'Aquileia; dall'Irlanda, Clemente
e Dungal; e dalla sua terra dei Franchi, Angilberto ed Éginardo. Ma,
come il primitivo movimento di riforma ecclesiastica, soprattutto
dalla tradizione culturale anglosassone il nuovo movimento derivò il
suo carattere. In Francia e in Italia, dove il latino era una lingua
vivente, esso si era contaminato al contatto dei vernacoli
imbarbariti. In Inghilterra esso era una lingua dotta, fondata sullo
studio dei modelli classici, e incoraggiava a coltivarlo
quell'entusiasmo per la tradizione romana che aveva ispirata la
cultura anglosassone fin dai giorni di san Vilfrido e di san
Benedetto Biscop.
Fu il principale rappresentante di
questa cultura anglica, Alcuino, il capo della scuola di York, a fare
da anello tra ciò che l'Halphen ha chiamato il "prerinascimento"
anglosassone e il nuovo movimento carolingio. Egli entrò al servizio
di Carlo nel 782 in qualità di direttore della Scuola palatina, e da
allora esercitò un influsso decisivo sulla politica educativa di
Carlo e sull'intero movimento letterario. Alcuino non era un genio
delle lettere; era essenzialmente un insegnante e un grammatico, che
fondava le sue dottrine sull'antico curriculum classico delle sette
arti liberali, secondo la tradizione di Boezio, Cassiodoro, Isidoro e
Beda. Ma appunto di un uomo siffatto l'età aveva bisogno; e, grazie
all'appoggio del suo regale allievo, egli poté applicare le sue idee
educative su una scala imperiale e rendere la Scuola palatina il
modello di cultura della maggior parte dell'Europa occidentale. A
lui, a quanto pare, Carlo affidò il compito di rivedere la Bibbia e
i libri del rituale e di iniziare così quella riforma liturgica
carolingia che è il fondamento della liturgia della Chiesa
medievale. Il rito romano era già stato adottato dalla Chiesa
anglosassone sotto l'influsso benedettino, e ora divenne il rito
universale dell'impero carolingio, sostituendo l'antico modo
gallicano, il quale insieme coi riti alleati ambrosiano e mozarabico
aveva regnato per tutto l'Occidente, tranne che a Roma e nella sua
giurisdizione suburbicaria. Tuttavia, la nuova liturgia carolingia
conservò tracce dell'influsso gallicano, e in questo modo un
considerevole elemento gallicano penetrò nella stessa liturgia
romana.
L'influsso di Alcuino e della cultura
anglosassone si vede pure, nella riforma della scrittura, che è uno
dei risultati più caratteristici dell'epoca carolingia. La nuova
cultura cristiana dell'Inghilterra e dell'Irlanda doveva la sua
esistenza alla trasmissione e alla moltiplicazione dei manoscritti, e
aveva raggiunto un livello di calligrafia molto elevato. Di
conseguenza, all'Inghilterra, più ancora che all'Italia, i dotti
carolingi si rivolsero per avere testi più corretti, non soltanto
per la Bibbia e per la liturgia romana, ma anche per le opere di
scrittori classici; e dotti e copisti anglosassoni e irlandesi
correvano in folla alla Scuola palatina e alle grandi abbazie
continentali 135.
Lo stesso Carlo Magno s'interessava in
modo speciale a che fosse assicurata la moltiplicazione dei
manoscritti e l'uso di testi corretti. Fra le istruzioni ai suoi
missi, c'è un capitolare De Scribis, ut non vitiose scribant,
ed egli si lagna sovente della confusione introdotta negli uffici
divini dall'uso di manoscritti corrotti. Fu in gran parte grazie ai
suoi sforzi e a quelli di Alcuino che le varie e illeggibili
scritture corsive dell'epoca merovingia vennero sostituite da un
nuovo tipo di scrittura, che divenne il modello dell'intera Europa
occidentale, escluse la Spagna, l'Irlanda e l'Italia meridionale. Era
il cosiddetto "minuscolo carolino", che sembra abbia preso
origine nell'abbazia di Corbie nella seconda metà del secolo VIII, e
raggiunse i suoi più alti sviluppi nel famoso scriptorium
dell'abbazia di Alcuino a Tours. La sua generale diffusione fu dovuta
senza dubbio al suo impiego da parte di Alcuino e dei suoi colleghi
nelle copie rivedute dei libri liturgici pubblicati con l'autorità
imperiale.
Per questo rispetto la rinascita
carolingia fu una degna precorritrice di quella del secolo XV.
Infatti essa ebbe un diretto influsso sulla formazione dell'altra,
giacché la "scrittura umanistica" del Rinascimento
italiano non è altro se non un risveglio del carattere minuscolo
carolino, che divenne così la fonte diretta del moderno stampatello
latino. Inoltre, ai copisti carolingi dobbiamo la conservazione di
gran parte della letteratura latina, e la moderna critica testuale
dei classici è tuttora largamente fondata sui manoscritti di quel
periodo giunti sino a noi.
L'influsso della rinascita carolingia
si fece ugualmente sentire nel campo dell'arte e dell'architettura.
Anche qui predominò l'influsso della tradizione imperiale, e si è
detto che Carlo Magno fu il fondatore di un'architettura "sacra
romana" come di un Sacro Romano Impero.
Ma la tradizione classica era ancora
più moribonda nell'arte che nelle lettere. Gli artisti carolingi
erano soggetti da una parte agli influssi bizantino-orientali e
persino musulmano-orientali, e dall'altra all'influsso dell'arte
mista anglo-celtica con la sua passione per l'ornato geometrico e gli
elaborati disegni a spirale e a cesello. Persino la famosa Chiesa
palatina di Carlo Magno ad Aquisgrana venne costruita su una pianta
ottagonale del tutto orientale, che derivava dall'Oriente o
direttamente o attraverso l'esempio della chiesa di San Vitale di
Ravenna; e questa pianta centrale divenne in Germania un modello
favorito degli architetti carolingi. Nondimeno, anche quest'edificio
mostra tratti classici nella sua struttura, nelle colonne, nella
fontana e nelle porte di bronzo; e ci sono altre chiese, come quella
costruita da Eginardo a Steinbach, che mantengono la tradizionale
pianta romana della basilica con abside e volta di legno 136.
Da queste chiese derivò il tardo tipo germano-romanico, con l'abside
a ogni estremità e le quattro torri, che divenne tipico della
vallata del Reno e della Lombardia.
Ma l'arte composita del periodo
carolingio si mostra nel suo aspetto migliore nelle miniature e in
genere nell'alluminatura. Le numerose scuole di pittura che
s'irraggiano dalla valle del Reno ai monasteri tedeschi, da una
parte, e a Metz, Tours, Reims e Gorbie, dall'altra, incorporano in
vario grado quegli elementi orientali e anglo-irlandesi che abbiamo
ricordato. Ma il loro aspetto più caratteristico è una tendenza a
tornare alla tradizione classica, sia nel trattamento della figura
umana che nell'uso dell'ornato a foglia d'acanto. Questa tendenza
neoclassica giunge al culmine nei manoscritti della cosiddetta Scuola
palatina, come i famosi Vangeli di Vienna, sui quali più tardi gli
imperatori germanici usarono prestare il giuramento
dell'incoronazione. Essa s'ispira chiaramente all'influsso della
rinascita bizantina, e con molta probabilità venne introdotta nel
Nord da copisti dell'Italia meridionale 137.
L'arte carolingia fu l'antenata diretta delle belle scuole di pittura
che si svilupparono in Germania, specialmente nella valle del Reno,
nel secoli X e XI, e venne ad avere cosi uno dei maggiori influssi
sulla formazione dello stile artistico del primo Medioevo.
La Rinascita carolingia raggiunse il
suo più alto sviluppo con la generazione che segui la morte di Carlo
Magno, fra gli allievi e successori di Alcuino: uomini come Eginardo,
il biografo del grande imperatore, Rabano Mauro di Fulda, e i suoi
allievi Valafrido Strabene, abate di Reichenau, e Servato Lupo, abate
di Ferrières. Tutti costoro furono grandi dotti e studiosi della
letteratura classica, e fu attraverso l'opera loro e dei loro pari
che le biblioteche monastiche e le scuole di copisti toccarono il più
alto, sviluppo. I successori di Carlo Magno, specialmente Carlo il
Calvo, continuarono a proteggere gli studi, e sotto quest'ultimo la
Scuola palatina del regno franco occidentale passò sotto la
direzione del dotto irlandese Giovanni Scoto, o Eriugena, uno dei
pensatori più originali di tutto il Medioevo. La sua filosofia,
ispirata dagli scritti di Dionigi l'Areopagita e, attraverso questi,
dei neoplatonici, somiglia a quella dei filosofi arabi ed ebrei dei
secoli X e XI piuttosto che a quella delle scuole dell'Occidente.
Anzi, uno studioso francese, Pierre. Duhem, ha scoperto ch'egli
esercitò un influsso diretto sulla filosofia dell'ebreo spagnolo Ibn
Gebirol.
Giovanni Scoto è anche notevole per la
sua conoscenza del greco, quantunque in questo egli non fosse solo.
Sapevano più o meno il greco anche altri suoi compatrioti, sopra
tutti Sedulio Scoto, ch'è fra i più interessanti dotti e poeti del
periodo e insegnò a Liegi nei decenni di mezzo del secolo IX.
Inoltre, il contatto con la cultura del mondo bizantino manteneva pur
sempre viva in Italia una certa dose di erudizione greca, come
vediamo dalle traduzioni e dall'opera storica di Anastasio
Bibliotecario, autore delle ultime parti del Liber Pontificalis,
il quale fu la figura, centrale in quell'effimero risveglio di
cultura e di attività letteraria che ebbe luogo a Roma ai tempi di
Niccolò I e di Giovanni VIII (858-82). L'altro massimo
rappresentante di questo movimento fu l'amico di Anastasio, Giovanni
Diacono, soprannominato Imonide, che portò al servizio del papato
una devozione entusiastica per la cultura classica e per Roma come
erede della tradizione latina. La sua vita di san Gregorio, che egli
dedicò a papa Giovanni VIII come rappresentante del "popolo di
Romolo", s'ispira a tal punto a questi ideali da trasformare
perfino san Gregorio in un papa umanista del tipo di Leone X!
Al
tempo di Gregorio, - scrive, - la sapienza si costruì, per cosi
dire, visibilmente un tempio in Roma, e le sette Arti Liberali, come
sette colonne di pietra preziosa, sorressero il vestibolo della Sede
Apostolica. Non uno solo di quelli che circondavano il papa, dal più
grande al più umile, mostrava la più lieve traccia di barbarie
nella parola o nel vestire, e il genio latino nella sua classica toga
stava come di casa nel palazzo laziale 138.
Come descrizione della Roma di san
Gregorio nulla potrebbe essere più assurdo, ma tuttavia la cosa è
interessante come anticipo dell'ideale umanistico di un papato
protettore della cultura classica, che, doveva trovare la sua
realizzazione sei secoli dopo, nella Roma del Rinascimento. Comunque
sia, c'era assai poco campo per ideali simili nella Roma del secolo
IX, minacciata com'era esternamente dai Saraceni e lacerata dalle
lotte delle fazioni locali. Dopo l'assassinio di Giovanni VIII, a
Roma quel temporaneo risveglio della cultura ebbe fine, e la
tradizione classica sopravvisse soltanto nelle città del Mezzogiorno
- Napoli, Amalfi e Salerno, - dove trovarono rifugio gli ultimi
rappresentanti della cultura romana. Qui, verso la fine del secolo
IX, uno degli esuli romani compose quella curiosa elegia sulla
decadenza di Roma, che è il primissimo esempio delle invettive
contro l'avarizia e la corruzione della società romana cosi comuni
nella letteratura medievale 139.
Diversamente dalla maggioranza di queste poesie questa, tuttavia, non
è ispirata a ideali religiosi. Nel tono è del tutto laica e persino
anticlericale, e s'avvicina più allo spirito del Rinascimento
italiano del secolo XV che non a quello della rinascita carolingia
settentrionale.
Invero, solo negli stati cittadini
semibizantini d'Italia sopravviveva qualche tradizione indipendente
di cultura laica. Altrove, per tutta l'Europa centrale e
settentrionale, l'alta cultura era assolutamente limitata agli
ambienti ecclesiastici. Le città in sostanza non vi avevano nessuna
parte. Tutta la vita intellettuale era concentrata nelle abbazie e
nei palazzi reali o episcopali, che erano anch'essi come monasteri.
Per quanto il commercio e la vita cittadina non fossero cessati del
tutto, si erano ridotti a una forma rudimentale e la società era
divenuta quasi interamente agraria. L'economia tanto dell'Impero come
della Chiesa era fondata sulla proprietà terriera. La grande tenuta
o villa era organizzata come una piccola società autonoma, sotto la
direzione di un castaldo, secondo l'antico sistema di amministrazione
rurale che risaliva nelle sue grandi linee ai possessi senatori del
Basso Impero. I prodotti di queste tenute potevano sostentare il
signore e il suo seguito durante le loro visite periodiche, secondo
il sistema del "podere di una notte" degli statuti sassoni
e normanni, ma più sovente fornivano il necessario alla residenza
centrale del signore, la quale era l'apice dell'edificio economico.
Il palazzo carolingio, come ce l'hanno rivelato gli scavi tedeschi a
Ingelheim e altrove, era un vasto edificio tortuoso, fatto per
ospitare l'intero seguito della corte imperiale. Coi suoi porticati,
le sue chiese e i suoi vestiboli, somigliava a un'abbazia o al
vecchio palazzo papale del Laterano piuttosto che al tipo moderno di
residenza regale. Soprattutto, era economicamente autonomo e lo
circondavano le dimore e le officine degli artigiani e degli operai,
le cui attività erano necessario ai bisogni della corte: birrai e
panettieri, tessitori e filatori, falegnami e artefici del metallo.
Lo stesso si dica dell'abbazia
carolingia. Non era più una colonia di asceti isolati e autonomi; ma
un grande centro sociale ed economico, proprietario di vaste tenute,
civilizzatore di territori assoggettati e teatro di una molteplice e
intensa attività culturale. I grandi monasteri tedeschi del periodo
carolingio, le origini dei quali erano direttamente o indirettamente
dovute all'opera di Bonifacio, furono come gli antichi templi-sovrani
dell'Asia Minore, ed ebbero nella vita del popolo una parte
consimile. Nel secolo VIII, la sola Fulda possedeva 15.000 campi
arabili; qualche tempo dopo Lorsch fu proprietaria di 911 tenute
nella valle del Reno. A Gorbie, oltre ai trecento monaci, c'era un
intero popolo di artigiani e dipendenti raggruppati intorno
all'abbazia. Possediamo nella famosa pianta di San Gallo del secolo
IX una rappresentazione dell'abbazia carolingia tipica: una specie di
città in miniatura che include nelle sue mura chiese e scuole,
laboratori e granai, ospedali e bagni, mulini e fattorie.
È impossibile esagerare l'importanza
dell'abbazia carolingia nella storia della civiltà medievale più
antica. Era un'istituzione fondata sopra un'economia puramente
agraria e tuttavia incarnava la più alta cultura spirituale e
intellettuale dell'epoca. Le grandi abbazie, come San Gallo e
Reichenau, Fulda e Gorbie, non erano soltanto le forze dirigenti
intellettuali e religiose dell'Europa, ma altresì i massimi centri
della cultura materiale e dell'attività artistica e industriale. In
esse si svilupparono le tradizioni dottrinali e letterarie,
artistiche e architettoniche, musicali e liturgiche, pittoriche e
calligrafiche, che furono i fondamenti della cultura medievale.
Poiché quella cultura era nelle sue origini essenzialmente liturgica
e s'accentrava nell'uffizio divino, "opus Dei", che era la
fonte e il fine della vita monastica. E, nello stesso modo, l'immensa
ricchezza dei monasteri non era semplicemente proprietà dell'abate e
della comunità, come penseremmo noi : era patrimonio del santo al
cui nome la chiesa era dedicata. Tutti i terreni di un'abbazia e
tutta la sua attività economica erano soggetti a un governatore
soprannaturale e godevano di una soprannaturale protezione. Di qui
nasceva che i servi della gleba della Chiesa appartenessero a una
categoria diversa da quelli degli altri signori; e troviamo uomini
liberi che volontariamente rinunciano alla loro libertà per farsi
"uomini dei Santi" - "homines Sanctorum" o
"sainteurs" - come li chiamavano.
È facile comprendere come i monasteri,
in queste condizioni, fossero in grado di dissodare le selve,
prosciugare le paludi e stabilire istituzioni fiorenti in luoghi
prima desolati, come l'isola di Thorney che Guglielmo di Malmesbury
descrive, in un noto passo, situata come un paradiso in mezzo a una
desolazione di paludi, coi suoi boschetti e i suoi prati, i suoi
vigneti e i suoi orti, miracolo della natura e dell'arte.
E i monasteri non erano soltanto grandi
centri agricoli, ma anche centri commerciali; e, grazie alle immunità
di cui godevano, erano in grado di stabilire mercati, di batter
moneta e persino di sviluppare un sistema di credito. Essi adempivano
in un modo primitivo la funzione di banche e società
d'assicurazione. I proprietari terrieri potevano far vitalizio o
venire a risiedere permanentemente in un monastero in qualità di
oblati 140.
Così la cultura carolingia sopravvisse
a lungo all'Impero stesso e continuò a perpetuarsi in centri
monastici come San Gallo, la dimora dei quattro Eccardi e dei due
Notkeri, quando l'Europa occidentale sprofondava nell'anarchia e
nella desolazione più atroce che abbia forse mai conosciuto. Fu
grazie all'opera dei monasteri che la cultura carolingia potè
sopravvivere alla caduta dell'Impero carolingio. Durante tutta la
tenebra e la desolazione dei cento anni di anarchia che vanno
dall'850 al 950, i grandi monasteri dell'Europa centrale, come San
Gallo e Reichenau e Corvey, tennero accesa la fiamma della civiltà,
sicché non ci furono interruzioni nella trasmissione della cultura
dal periodo carolingio a quello del nuovo impero sassone 141.
XIII. L'ETÀ DEI VICHINGHI E LA CONVERSIONE DEL NORD
Abbiamo veduto come l'Europa
occidentale raggiungesse per la prima volta l'unità culturale nel
periodo carolingio. Il sorgere dell'Impero carolingio segna la fine
di quel dualismo della cultura, che aveva caratterizzato il periodo
dell'invasione; e la piena accettazione da parte dei barbari
dell'Occidente di quell'ideale unitario affermato a un tempo
dall'Impero romano e dalla Chiesa cattolica. E così tutti gli
elementi che costituiscono la civiltà europea sono già
rappresentati nella nuova cultura: la tradizione politica dell'Impero
romano, la, tradizione religiosa della Chiesa cattolica, la
tradizione intellettuale degli studi classici e le tradizioni
nazionali dei popoli barbarici.
Nondimeno, la sintesi era molto
prematura, giacché le forze della barbarie sia interne che esterne
dell'Impero erano ancora troppo vivaci per lasciarsi assimilare del
tutto. Entro i limiti stessi del mondo carolingio, c'era un abisso
quasi incalcolabile tra l'umanesimo artificiale di uomini come
Servato Lupo e Valafrido Strabene e la mentalità del nobile
guerriero o del servo campagnolo: mentre fuori dei confini rimanevano
ancora altri popoli tuttora vergini dell'influsso del cristianesimo e
della civiltà romano-cristiana. Per queste ragioni l'età dell'unità
carolingia fu seguita da una violenta reazione, nella quale un nuovo
fiotto d'invasioni barbariche minacciò di distruggere tutta l'opera
di Carlo Magno e dei suoi predecessori, e di ridurre l'Europa in uno
stato di anarchia e di confusione anche peggiore di quello ch'era
succeduto alla caduta dell'Impero romano quattro secoli prima.
La fonte principale di questo pericolo
esterno si trovava nella Scandinavia, che da remote epoche
preistoriche era stata il centro di un movimento di cultura attivo e
indipendente. Questo centro culturale nordico aveva sempre
manifestata la tendenza a formare un mondo a parte, e dall'epoca
della migrazione dei popoli nei secoli IV e V il suo isolamento dal
resto dell'Europa si era aggravato. Le cause di questo isolamento
sono piuttosto oscure, quantunque la cessazione degli attivi rapporti
commerciali esistenti al tempo dell'Impero romano fosse senza dubbio
uno dei suoi fattori più importanti. Ancora più difficile è
spiegare l'improvviso mutamento che causò le violente esplosioni di
energia aggressiva che caratterizzarono il periodo delle invasioni
vichinghe. Dopo esser rimasti tranquilli per secoli negli angusti
confini delle terre intorno al Baltico, i popoli del nord
strariparono improvvisamente in un fiotto di espansione
conquistatrice che li portò molto oltre i limiti del mondo europeo.
Nel corso dei secoli IX e X la loro attività si estese dall'America
del Nord al Mar Caspio, e dall'Oceano Artico al Mediterraneo.
Attaccarono Costantinopoli, Pisa, la Persia settentrionale e la
Spagna musulmana, mentre le loro sedi e conquiste venivano ad
abbracciare la Groenlandia, l'Islanda e la Russia, oltre alla
Normandia e a gran parte dell'Inghilterra; dell'Irlanda e della
Scozia.
I fondamenti di imprese cosi
straordinarie vanno anzitutto cercati nelle speciali condizioni della
società e della cultura nordica. Questa era una cultura antica e per
certi rispetti sviluppatissima, che tuttavia aveva scarse possibilità
di espandersi pacificamente. Durante i secoli di isolamento, essa
aveva portato l'arte e l'etica della guerra a un grado unico di
sviluppo. La guerra non era soltanto la sorgente del potere, della
ricchezza e del prestigio sociale, ma altresì la preoccupazione
dominante della letteratura, della religione e dell'arte. Al centro
dell'organismo sociale era il condottiero guerresco o "re",
il cui potere poggiava non tanto su una base territoriale, quanto sul
suo valore personale e sulla sua facoltà di raccogliere intorno a sé
un seguito di guerrieri. Non c'erano norme fisse di primogenitura, e
ogni individuo di sangue regale o nobile aveva l'ambizione di
raccogliere un hird di seguaci, e guadagnarsi la fama, secondo
il sistema di Beowulf, con la guerra, l'avventura e l'illimitata
liberalità verso i suoi.
Beowulf,
figlio di Scyld, fu rinomato nelle terre scandinave, la sua fama si
sparse lontano. Cosi il giovane susciterà il bene con doni splendidi
tratti dai possessi del padre, sicché quando verrà la guerra
compagni volenterosi gli stiano ancora al fianco nella sua vecchiaia,
la gente lo segua. In ciascuna tribù un uomo prospererà con opere
d'amore 142.
È vero, come insiste l'Olrik 143,
che nella società nordica c'era anche un altro elemento: l'opera
costruttiva del campagnolo proprietario "che coltivava la terra
e adorava Dio". Questo elemento trova un riscontro spirituale
nel culto della antiche divinità della terra e delle potenze della
fertilità, i Vanir, - Freyz, Freyia e Njordr, - considerati di una
stirpe differente da Odino, il dio dei re, e dai guerreschi Asi 144
(Aesir). Forse per la sua connessione con l'antico santuario di
questo culto a Upsala la monarchia svedese potè stabilire cosi
presto e così solidamente la sua potenza sulle fertili terre della
Svezia orientale. Altrove, invece, e specialmente in Norvegia, pare
che i piccoli regni basati sulla tribù siano vissuti in un continuo
stato di guerra, in cui solo il migliore sopravviveva, e che la loro
esistenza stessa dipendesse, come vediamo nel Beowulf, dalle capacità
e dalla reputazione personale dei loro re guerrieri.
Non abbiamo testimonianze storiche
dirette intorno a ciò che accadde nella Scandinavia nei tempi che
corsero dalle invasioni barbariche al movimento vichingo. Fu senza
dubbio un'età d'intensa attività politica e militare, in cui i
regni più forti consolidarono gradatamente la loro potenza a spese
dei vicini. Cosi il regno dei Geat venne distrutto da quello degli
Svedesi, mentre i Juti e i Heathobard venivano assoggettati dai
Danesi, che nel secolo VIII avevano già creato un potente regno
sotto la guida di re Haraid Dente di Guerra. In Norvegia, dato il
carattere del paese, l'unità minore della tribù mantenne la sua
indipendenza sino a un periodo assai più tardo, ma la testimonianza
archeologica ci mostra che tendenze uguali operavano nei piccoli
regni di tribù della Norvegia occidentale - Romarike, Hedemark,
Ringerike e Vestfold, - dove i grandi howes, o tumuli sepolcrali dei
rè preistorici, a Raknehaug nel Romarike, a Svei nel Hedemark, e a
Borre nel Vestfold, che sono tra i più maestosi monumenti di questo
genere in tutta l'Europa, testimoniano la forza e il prestigio
crescenti del potere regio.
Senza dubbio questo sviluppo ebbe il
suo influsso sul movimento d'emigrazione e di colonizzazione che
contrassegnò il periodo vichingo, e non c'è motivo di mettere in
dubbio la sostanziale veridicità delle tradizioni islandesi
ricordate tanto minutamente da Ari il Saggio nella sua
interessantissima opera sulla occupazione dell'Islanda 145.
Ma la Norvegia occidentale, soprattutto i regni o confederazioni
aristocratiche di Rogaland e Hordaland, erano stati centri di
attività vichinga per un buon secolo, prima che re Haràld I
Haarfragre (Bella chioma) infrangesse nella battaglia di Hafrsfjord
la potenza dei hersir o capitribù occidentali. Per molto tempo
questa regione aveva posseduto una tradizione culturale sua propria,
che si distingue, nei secoli V e VI, per il suo carattere
aristocratico e per la stupefacente somiglianza che rivela con la
cultura dell'Inghilterra anglosassone, specialmente quella del
Midiand. Secondo lo Shetelig 146
queste peculiarità sono dovute al fatto che la Norvegia occidentale
era stata toccata dal medesimo fiotto d'invasione germanica che aveva
condotto gli Anglosassoni in Britannia e i Franchi e i Burgundi in
Gallia. Questi invasori dal sud avevano assoggettata la popolazione
indigena e avevano formata una classe dirigente che serbò i suoi
riti funerari e mantenne rapporti con gli altri popoli germanici
dell'Occidente, specialmente quelli dell'Inghilterra anglosassone.
Così la Norvegia occidentale era stata in contatto con le isole
britanniche parecchi secoli prima dell'era dei Vichinghi; anzi, da
questi rapporti .marittimi il paese trasse originariamente il suo
nome di Norwegr, " la via del Nord ". Probabilmente i
progressi dell'arte nautica avutisi nei secoli VII e VIII apersero la
via a spedizioni piratesche su grande scala. Ma, qualunque ne fosse
la causa, le coste delle isole britanniche dalla fine del secolo VIII
in poi furono visitate quasi ogni anno dalle flotte dei Vichinghi
norvegesi. I grandi monasteri delle isole e delle coste, che erano i
centri della civiltà cristiana nel Nord, offrivano una ricca e
facile preda agli invasori. Lindisfarne venne saccheggiato nel 793,
Jarrow nel 794 e Iona nell'802 e nell'806.
Ma i Vichinghi occidentali
concentrarono i loro attacchi sull'Irlanda. Durante la prima metà
del secolo IX l'isola intera venne invasa, sicché, secondo le parole
di un cronista irlandese, "non c'era un promontorio della terra
senza una flotta". Anche qui, furono le chiese e i monasteri a
offrire i più facili punti d'attacco, e la grande età della cultura
monastica irlandese finì in una strage e rovina universale. Il
grande capo norvegese Turgai, che cominciò fra 1'832 e 1'845 a
fondare uno stato vichingo vero e proprio in Irlanda, sembra che
abbia deliberatamente mirato a distruggere il cristianesimo
irlandese. Egli scacciò la comarba di San Patrizio da Armagli e ne
fece il centro del suo regno; mentre a Clonmacnois, il grande centro
ecclesiastico sullo Shannon, profanò la chiesa di San Ciaran e
insediò sopra l'altare la moglie, una valva o profetessa pagana. La
sua morte non servì ad arrestare lo sviluppo della potenza vichinga,
perché nell'851 Olaf il Bianco, figlio di un re norvegese, venne in
Irlanda e vi stabilì il regno di Dublino che, sotto il governo di
Ivar, "re di tutti i Nordici d'Irlanda e Britannia", e dei
suoi successori, doveva durare fino al secolo XII.
Così l'Irlanda, ch'era stata il punto
di partenza del risveglio culturale cristiano nell'Europa occidentale
dei tempi precarolingi, fu pure la prima a soccombere alle nuove
invasioni barbariche, e ben presto il suo fato venne condiviso dalla
cultura anglica cristiana, che essa aveva tanto contribuito a creare.
Nel 835 i Danesi cominciarono una nuova serie di attacchi contro
l'Inghilterra settentrionale e orientale, e nel 867 venne finalmente
distrutto il regno di Northumbria. Parve per qualche tempo che tutta
l'Inghilterra dovesse diventare una colonia vichinga. Ma, quantunque
gli sforzi di re Alfredo riuscissero a conservare l'indipendenza del
Wessex e dell'Inghilterra meridionale, tutta l'Inghilterra
settentrionale e quella orientale a nord del Tamigi venne occupata
dai Vichinghi e fu nota come il Danelaw, la "legge danese".
Né l'occupazione scandinava si limitò a quest'area, poiché tutte
le coste occidentali appartenevano alla zona d'influenza
vichingo-irlandese, e territori considerevoli nell'Inghilterra
nord-occidentale, come il Cumberland e il territorio dei laghi,
vennero occupati da coloni norvegesi.
Così, alla fine del secolo IX, si era
costituito un impero marittimo norvegese, che si estendeva
dall'Islanda e dalle Far-Oer sino al canale d'Irlanda, e abbracciava
tutte le minori isole dei mari occidentali, come anche una parte
considerevole dell'Irlanda e della Scozia e dell'Inghilterra
settentrionale.
Intanto sul continente europeo il
movimento vichingo aveva seguitò un corso un po' diverso. Qui furono
i Danesi, piuttosto che i Norvegesi, a dirigere l'impresa; e questa
volta essi avevano a che fare non con le sparse forze della società
tribale celtica, ma con la formidabile potenza dell'Impero
carolingio.
Già al tempo dei primi Merovingi, la
potenza franca per i Danesi era stata causa di apprensioni e
sospetti, come vediamo da un passo del Beowulf in cui Wiglaf ricorda
come "la simpatia del re merovingio ci è stata negata",
sin da quando Hygelac il Danese aveva invaso il territorio franco nel
520. E la tensione era stata accresciuta dalla conquista carolingia
dei territori dei Frisoni e dei Sassoni: ciò che aveva portato
l'Impero a diretto contatto con la Danimarca, e pareva minacciare la
libera esistenza dei popoli pagani del Nord. Nell'808 fra i due
popoli scoppiò la guerra. Guthred mandò una flotta a saccheggiare
la Frisia e minacciò di attaccare la stessa Aquisgrana. Ma nell'810
l'assassinio del re danese pose fine al conflitto, e nei vent'anni
successivi l'Impero ebbe da fare soltanto con scorrerie isolate di
bande vichinghe, che senza dubbio scendevano dalla Norvegia e
dall'Irlanda. Il successore di Carlo, Ludovico il Pio, tentò di
effettuare la conversione della Scandinavia con mezzi pacifici.
Coltivò amichevoli rapporti con Harald, figlio di Guthred, e
finalmente lo indusse a ricevere il battesimo a Magonza nel 826,
insieme col figlio e con quattrocento seguaci. Questi rapporti
aprirono la via alle missioni di Ebbene e di sant'Anscario in
Danimarca e in Svezia e alla fondazione di Amburgo come sede
metropolitana per le terre del Nord. Ma, sebbene sant'Anscario fosse
ben accolto dal re svedese e riuscisse a fondare una chiesa a Birka
nel cuore stesso della Scandinavia, oltre a parecchie chiese in
Danimarca, ci volevano ancora dei secoli prima che la sua opera
potesse dar frutto. La deposizione di Ludovico nell'833 segnò
l'inizio di un periodo di lotte dinastiche e di guerre civili che
lasciarono indifeso l'Impero di fronte ai suoi vicini settentrionali.
I Danesi si stabilirono nella Frisia e nell'Olanda e distrussero il
gran porto di Duurstede, presso Utrecht, che da generazioni era il
centro degli scambi commerciali col Nord.
Dopo 1'840 l'imperatore Lotario
incoraggiò gli attacchi dei Danesi contro i territori del fratello.
Da allora le invasioni vichinghe assumono un nuovo aspetto. Le
spedizioni vengono organizzate su larga scala, con flotte che contano
centinaia d'imbarcazioni, e le province occidentali dell'Impero, e
con esse l'Inghilterra, vengono sistematicamente devastate un anno
dopo l'altro. Per quasi cinquant'anni le invasioni andarono crescendo
d'intensità, sinché tutte le abbazie e le città dell'Occidente, da
Amburgo a Bordeaux, non furono messe a sacco, e grandi distese di
territorio, specialmente nei Paesi Bassi e nella Francia
nord-occidentale, furono trasformate in deserto. Persino i santi
furono costretti a lasciare i loro santuari, e qualcuna delle più
famose reliquie dell'Occidente, come il corpo di san Martino o quello
di san Cutberto, viaggiò per anni e anni da un luogo di rifugio
all'altro, via via che la marea dell'invasione saliva.
Gli sforzi dei sovrani carolingi,
soprattutto di Carlo il Calvo, i cui domini ricevettero l'urto della
bufera dall'843 all’877, furono impotenti a sostenere gli assalti
del nemico o a prevenire lo sfacelo della società.
Gli ultimi vent'anni del secolo,
tuttavia, videro una graduale ripresa di forze della cristianità. Le
faticate vittorie di re Alfredo in Inghilterra, nell'878 e nell'885;
la difesa di Parigi sostenuta dall'885 all'887 da Eude, figlio di
Roberto il Forte; e la vittoria di re Arnolfo nelle Fiandre, nel 891,
segnarono l'inizio della riscossa. Espellere interamente gli invasori
dall'Inghilterra o dalla Francia sarebbe stato impossibile, ma i
successori di re Alfredo furono abbastanza forti da imporre la loro
autorità sul Danelaw, mentre il trattato di Carlo il Semplice con
Pollone mise l'occupazione vichinga della Normandia su una regolare
base feudale e preparò il terreno all'assimilazione degli intrusi
normanni.
Tuttavia, per la cristianità non c'era
ancora nessuna speranza di pace, poiché i Vichinghi non erano i soli
nemici coi quali le toccasse misurarsi. Mentre i Vichinghi
devastavano le province occidentali, l'Italia e le coste mediterranee
erano preda dei Saraceni. Nell'827 le forze degli emiri Aglabiti, che
regnavano in Tunisia, avevano messo piede in Sicilia, e a poco a poco
inondarono tutta l'isola. Di qui passarono ad attaccare l'Italia
meridionale, e si stabilirono a Bari e sul Garigliano, di cui fecero
per mezzo secolo i' centri delle loro attività distruttrici. Il
Patrimonio papale venne traversato da bande musulmane, e nell'840
Roma stessa assalita, San Pietro saccheggiato, e violate, con grande
orrore di tutta la cristianità, le tombe degli Apostoli. Intanto, le
coste settentrionali del Mediterraneo erano esposte alle scorrerie
dei pirati musulmani della Spagna e delle isole Baleari; e questi
finirono per stabilire una base di terraferma a Frassineto, presso
Saint-Tropez. Per quasi un secolo, dall'888 al 975, questa roccaforte
fu il flagello delle terre limitrofe. Nemmeno le Alpi erano sicure,
perché i Saraceni si appostavano sui valichi svizzeri e depredavano
le comitive di pellegrini e di mercanti che entravano in Italia.
Finalmente, proprio quando cominciava
ad allentarsi la pressione dal Nord, l'Europa venne messa a
repentaglio da una nuova minaccia che veniva dall'oriente, i Magiari,
un popolo nomade di origine mista finnica e turca, come i Bulgari,
che dalle steppe dell'Asia centrale e della Russia meridionale
avevano seguito fino alla pianura ungherese le tracce dei tanti
invasori precedenti. Essi distrussero il nuovo regno cristiano degli
Slavi di Moravia, e cominciarono a devastare in lungo e in largo,
come già gli Unni e gli Avari. Saccheggiarono il territorio
orientale del regno carolingio cosi spietatamente come i Vichinghi
quello occidentale, e allargando a poco a poco il raggio delle loro
scorrerie finirono con rincontrare in Italia e in Provenza le bande
dei Saraceni rivali.
Così nella prima metà del secolo X la
civiltà occidentale era ridotta sull'orlo della rovina. Mai non era
stata cosi minacciata, nemmeno nei peggiori anni del secolo VIII,
perché allora l'attacco veniva soltanto dalla parte dell'Islam,
mentre adesso veniva da tutte le parti. La cristianità era come
un'isola circondata dai flutti minacciosi della barbarie e
dell'Islam. Inoltre, durante le prime invasioni barbariche la
cristianità poteva contare sulla sua superiorità culturale, che le
dava un prestigio agli occhi dei suoi stessi nemici. Ma adesso anche
questo vantaggio era perduto : giacché il centro della più alta
cultura dell'Occidente durante il secolo X si trovava nella Spagna
musulmana, e l'Islam era altrettanto superiore alla cristianità
occidentale nello sviluppo economico e politico come nel campo
intellettuale. In quanto esisteva ancora attività commerciale in
Europa, il merito era tutto del commercio musulmano che non
abbracciava soltanto l'Impero mediterraneo, ma si estendeva dall'Asia
centrale al Baltico attraverso il Caspio, il Volga e gli stabilimenti
commerciali russo-svedesi come Novgorod e Kiev. Questi rapporti
spiegano l'esistenza dei peculi di monete orientali, coniate nelle
zecche di Tashkent, di Samarcanda e Bagdad, cosi comuni nella
Scandinavia di quel periodo; se ne trovano tracce persino in
Inghilterra, nel tesoro di Goldsborough e nel forziere dell'esercito
vichingo della Northumbria, del 911, trovato settant'anni fa presso
Preston, che conteneva non soltanto monete ma anche numerosi
ornamenti di stile orientale. Dell'ampiezza dell'influsso orientale
in quest'epoca è una prova anche più curiosa la croce di bronzo
dorato, che ora è al British Museum, rinvenuta in un acquitrino
irlandese, che porta l'iscrizione Bismillah, - "nel nome di
Allah", - in caratteri cubici.
La sorte della cristianità non
dipendeva tanto dalle sue forze militari, quanto dalla sua capacità
di assimilare la società pagana del Nord. Se i Variaghi russi
avessero accettato la religione dei loro vicini musulmani piuttosto
che quella dei cristiani, la storia dell'Europa si sarebbe forse
svolta molto diversamente. Fortunatamente per la cristianità, la
cultura dell'Europa occidentale, anche infranta, serbava la sua
vitalità spirituale, e per i popoli settentrionali possedeva un
potere d'attrazione più grande di quello del paganesimo o
dell'Islam. Alla fine del secolo X il cristianesimo aveva già messo
saldamente piede nel Nord, e persino un rappresentante così tipico
dello spirito vichingo come Olaf Tryggvessón, non soltanto si era
convertito, ma lavorava a diffondere la fede nel caratteristico modo
vichingo 147.
Nemmeno la recrudescenza di attività
vichinga e i rinnovati attacchi di questo periodo contro
l'Inghilterra e l'Irlanda ebbero il potere di fermare il movimento.
In Irlanda la battaglia di Clontarf del 1014 mise finalmente termine
al pericolo di una conquista vichinga, mentre in Inghilterra il
successo dei Danesi servi soltanto ad affrettare il processo di
assimilazione. Infatti Canuto fece dell'Inghilterra il centro del suo
impero e governò secondo le tradizioni dei suoi predecessori
sassoni, coi quali gareggiò nella devozione verso la Chiesa e nel
favore che mostrò ai monasteri. Il suo pellegrinaggio a Roma negli
anni 1026-27, dove assistette all'incoronazione dell'imperatore
Corrado II, fu uno degli eventi più significativi di quel periodo,
poiché segnò l'incorporazione dei popoli nordici nella vita della
cristianità e la loro accettazione del principio dell'unità
spirituale. Ciò trova espressione nel codice di leggi che Canuto
promulgò in Inghilterra negli ultimi anni del suo regno, perché
questo codice mostra meglio di qualsiasi altro documento del tempo
quanto fosse assoluta la fusione degli aspetti laici e religiosi
dello Stato e come il diritto pubblico della cristianità fosse
divenuto l'ossatura della nuova società postbarbarica che sorgeva
nell'Europa medievale.
Così le invasioni vichinghe riuscirono
in definitiva un vantaggio per l'Europa, giacché infusero vita ed
energia nuove alla civiltà alquanto anemica e artificiale del mondo
carolingio. I discendenti dei Vichinghi divennero i campioni della
cristianità, come vediamo soprattutto nel caso dei Normanni, capi e
organizzatori del nuovo movimento d'espansione occidentale, che
comincia nel secolo XI. Guadagno tuttavia che non andò senza
perdite, giacché implicò la scomparsa della tradizione di una
cultura nordica indipendente. Tanto in Normandia come in Inghilterra
e in Russia, gli Scandinavi emigrati assorbirono la cultura
dell'ambiente e a poco a poco furono del tutto sommersi nella società
che avevano conquistato. Persino la Scandinavia perse rapidamente la
sua indipendenza culturale, e a suo tempo doveva diventare una
provincia estrema della cristianità germanica.
Soltanto nell'estremo occidente, nel
territorio coloniale norvegese che si estendeva dalla Groenlandia e
dall'Islanda al Mare d'Irlanda, le vecchie tradizioni dell'età
vichinga sopravvissero e diedero origine a una cultura brillante e
originale, interamente diversa da tutto ciò che si poteva trovare
nell'Europa continentale. Tuttavia, neanche qui l'elemento nordico
rimase solo, ma venne a contatto con un'altra cultura che, come esso,
sinora s'era tenuta in disparte dalla principale corrente dello
sviluppo occidentale: la cultura dell'Irlanda celtica148.
In questo settore i coloni vichinghi costituivano la classe
dirigente, ma la massa della popolazione restava celtica, e i
contatti e i matrimoni misti tra. i due popoli erano considerevoli.
In questo modo nel secolo IX sorse una cultura mista celtico-nordica,
che reagì sulle culture-madri così dell'Irlanda come della
Scandinavia. Se ne vede chiaramente l'influsso nel nuovo stile del
periodo Jellinge del secolo X, che produsse un notevole sviluppo
nell'arte decorativa scandinava. Qui non ci sono dubbi sulla sorgente
e sull'entità dell'influsso straniero. Ma le cose vanno diversamente
per il problema dell'influsso celtico sulla letteratura scandinava,
che è sempre stato argomento di controversia. E il curioso è che i
dotti scandinavi sono stati i massimi sostenitori della teoria
dell'influsso celtico, mentre gli scrittori inglesi si sono quasi
fatto un punto d'onore nazionale di rivendicare il carattere
puramente nordico della letteratura scandinava.
Così il Vigfusson ascriveva tutta la
più grande poesia dell’Edda a una scuola di scrittori
appartenenti alla cultura mista celtico-nordica delle isole
occidentali, e parimenti riteneva molti dei tratti caratteristici
della letteratura islandese, e soprattutto la creazione della saga in
prosa, dovuti all'influsso celtico e all'esistenza di un elemento
celtico fra la popolazione. La teoria del Vigfusson sull'origine
"occidentale" dei poemi eddici viene ora generalmente
respinta, tranne nel caso della Rigsthula, che mostra
indubbiamente tracce di un forte influsso irlandese. D'altra parte,
la sua opinione intorno all'influsso celtico sulla cultura islandese
è ancora condivisa da molti, e si fonda su argomenti. molto solidi.
Molti dei coloni emigrati in Islanda venivano dalle isole del sud e
portarono con sé mogli o schiavi irlandesi, mentre qualcuno di loro
aveva un nome celtico, e qualche altro, come la famosa Aud la Ricca,
vedova di Olaf il Bianco, re di Dublino, o Helge, nipote di
Caerbhall, re di Ossory, erano addirittura in certo modo cristiani 149.
L'elemento celtico della popolazione però non consisteva soltanto di
schiavi, dato che il Landnamabok descrive come Aud provvedesse
di terre i suoi liberti celti, e gli alberi genealogici ricordati in
quest'opera e nelle saghe mostrano che alcune delle più nobili
famiglie dell'Islanda avevano nelle vene sangue celtico 150.
Cosi non sembra ragionevole dubitare
dell'esistenza di un elemento celtico nella cultura islandese, che si
rivela tanto nel carattere del popolo quanto nelle sue composizioni
letterarie. Infatti gli elementi che distinguono la letteratura
islandese dalla più antica tradizione comune ai popoli teutonici,
cioè lo sviluppo della saga o epos in prosa e la elaborata poesia in
rima degli scaldi, sono precisamente quelli che contraddistinguono la
letteratura irlandese 151.
Nondimeno, la possibilità che il genio
islandese, come quello di quasi ogni altra grande cultura che il
mondo ha veduto, sia sorto da un terreno fertilizzato dalla
mescolanza di due differenti razze e tradizioni culturali, non toglie
nulla all'originalità dei suoi risultati creativi. Anche se la
letteratura islandese deve ai Celti l'uso della prosa narrativa,
nulla potrebbe essere più lontano dalla fantasiosa retorica e dalle
gesta magiche dell'epica irlandese che il sobrio realismo e la
precisione psicologica delle saghe islandesi. Mentre la prima sembra
trasportare il lettore indietro nei secoli verso un mondo svanito,
queste ultime, nel loro atteggiamento dinanzi alla vita e alla
natura, appaiono più moderne di qualunque altra opera della
letteratura medievale.
È vero che i frutti più maturi di
questa tradizione sono rappresentati dalle grandi saghe in prosa del
secolo XIII, - l'età di Snorri e di Sturla, - che stanno fuori dal
nostro periodo; ma esse sono fondate direttamente sulle tradizioni
dell'età vichinga e, soprattutto, del secolo che va dal 930 al 1030,
quello che gli Islandesi stessi chiamarono "l'età di quando si
fecero le saghe". Fu l'età delle eroiche figure le cui imprese
sono ricordate nelle saghe : vichinghi come Egill Skallagrimsson,
uomini di legge come Njal, re come Olaf Tryggvessón e Olaf il Santo,
e marinai ed esploratori come gli uomini che colonizzarono la
Groenlandia e raggiunsero l'America del Nord.
Inoltre quell'età non soltanto
continuò a vivere nella successiva tradizione delle saghe, ma è
pure rappresentata dalla contemporanea poesia di scaldi come Egill
Skallagrimsson e Kormac e dal compimento della più antica poesia
eroica. L'Islanda non fu soltanto la creatrice della saga, ma anche
la conservatrice dell'Edda; a essa andiamo debitori di pressoché
tutto ciò che sappiamo delle credenze e delle idee morali e
spirituali dell'età dei Vichinghi. La data dei poemi eddici è da
molto tempo oggetto di controversia, ma è indubbio che coincide
approssimativamente con tutto quanto il periodo vichingo. C'è
davvero un abisso fra la semplicità e la crudezza barbariche delle
poesie più primitive, come il Lamento di Atli o il Lamento di
Hamdir, e la sublime visione cosmica della Voluspà; ma attraverso
tutte quante possiamo seguire lo sviluppo dello stesso ideale morale
e della stessa concezione della realtà. La concezione eddica della
vita, è senza dubbio aspra e barbarica, ma è anche eroica nel senso
più ampio della parola. Anzi, è qualcosa di più che eroico, poiché
le nobili viragini e i sanguinari eroi dell'Edda possiedono una
qualità spirituale che nel mondo omerico manca. La poesia eddica ha
maggior numero di cose in comune con lo spirito di Eschilo che con
quello di Omero, sebbene nel loro atteggiamento religioso vi sia una
differenza caratteristica. I suoi eroi non perseguono, come i Greci,
la vittoria e la prosperità come fini per sé stanti. Essi guardano,
oltre il risultato immediato, a una prova ultima per la quale il
successo non significa nulla. La sconfitta, non la vittoria, è il
contrassegno dell'eroe.
Donde l'atmosfera di fatalismo e di
angoscia nella quale si muovono le figure del ciclo eroico. I
Nibelungi, come gli Atridi, sono condannati al delitto e alla rovina
dalle potenze oltremondane, ma non c'è in essi ombra di hybris: lo
spirito di presuntuosa fiducia nella prosperità. Hogni e Gunnar, o
Hamdis e Sorli, sanno benissimo che vanno incontro alla morte, e
vanno verso il loro destino ad occhi aperti. Non c'è nessun
tentativo, come nella concezione greca, di giustificare dinanzi
all'uomo le vie degli dèi, e di vedere nei loro atti la
rivendicazione di una giustizia esterna, giacché gli dèi sono
coinvolti nelle spire del fato come gli uomini. Anzi, gli dèi
dell'Edda non sono più le disumane divinità naturali dell'antico
culto scandinavo. Essi si sono umanizzati, e in un certo senso
spiritualizzati, tanto che sono divenuti anch'essi partecipi del
dramma eroico. Sostengono una guerra perpetua con le potenze del
caos, nella quale non sono destinati a trionfare. Le loro vite sono
ottenebrate dalla prescienza di una catastrofe definitiva, il
crepuscolo degli dèi, il giorno in cui Odino incontrerà il Lupo.
Soltanto qui c'è campo per una sorta di teodicea, poiché la
condotta apparentemente arbitraria che gli dèi tengono con gli eroi
si può spiegare come richiesta dal bisogno che hanno di alleati
umani. Come per esempio nell’Eiriksmal, dove Odino permette
che Eric perisca prima del tempo, "perché non si può certo
sapere quando il Lupo grigio sopraggiungerà nella dimora degli dèi".
Questa concezione del mondo, che è
unica, trova la sua più alta espressione nella grande apocalissi
nordica della Vóluspà, probabilmente composta da un poeta islandese
verso la fine del periodo vichingo. In questo poema le crudezze
dell'antica mitologia pagana hanno ceduto il posto a una concezione
della natura quasi filosofica, probabilmente dovuta al contatto con
la superiore cultura cristiana. I primi versi 152
specialmente, che descrivono il caos primordiale, somigliano in modo
straordinario ai versi in antico alto-tedesco della preghiera di
Wessobrunn:
"Terra non c'era, né alto cielo,
né colle, né pianta. Non risplendeva il sole, la luna non dava
luce, né il mare splendido. Allora c'era il Nulla, infinito,
immobile, e un Dio onnipotente, il più mansueto degli uomini”153.
E similmente la descrizione finale del
crepuscolo degli dèi sembra abbia tratto qualcuno dei suoi colori
dalla figurazione cristiana del giudizio universale. Nondimeno, ci
sono nel poema elementi che non appartengono né al mondo del
pensiero cristiano né a quello della religione naturalistica
scandinava. Soprattutto, è strano trovare nella Voluspà un'idea,
che ci sembra cosi difficile e riposta, com'è quella dell'eterno
ritorno: la rinascita del mondo e la ripetizione di tutto ciò che è
avvenuto prima.
Gli
asi s'incontrano sui prati d'Ida:
…………………………………….
raccontano
un'altra volta grandi imprese del passato,
rileggono
antiche rune incise da Odino.
Strano
e meraviglioso, sulle zolle trovano
fra
l'erba, dopo tanto, le pezze d'oro,
le
pedine che possedevano, nell'alba dei giorni 154
.
Ma in tutti i poemi eddici non cessa di
farci stupire la mescolanza di un profondo pensiero e di una
mitologia primitiva, di un sublime eroismo e di una crudeltà
barbarica, che paiono contraddistinguere lo spirito vichingo. Allo
stesso modo, ci riesce difficile conciliare la brutalità selvaggia
dell'eroe della Saga di Egil con l'intenso sentimento
personale della sua grande lirica sulla morte dei figli, il
Sonatorrek, la cui composizione, secondo la saga, gli ridiede
il gusto di vivere, dopo che aveva deciso di uccidersi 155.
E questa contraddizione non è meno profonda nella storia della
stessa società islandese, in cui il più aspro ambiente possibile
produsse uno sviluppo di cultura cosi notevole.
Fu veramente uno dei miracoli della
storia che quest'isola desolata, popolata da pirati e avventurieri in
rivolta persino contro le catene sociali della Norvegia vichinga,
abbia potuto produrre un'alta cultura e una letteratura che nel suo
genere è la più grande dell'Europa medievale. È come se la Nuova
Inghilterra avesse dato origine alla letteratura elisabettiana o il
Canada francese a quella del "gran secolo". Ma, come ha
detto W. P. Ker, l'apparente anarchia della società islandese è
ingannevole. "L'occupazione d'Islanda ha l'aria di un tuffo
furibondo d'iracondi e intemperanti capitani, lontano dall'ordine, in
una truce e temeraria terra della Cuccagna. La verità e che questi
ribelli e la loro comunità erano più equilibrati, più chiaramente
consapevoli dei propri fini, più severi critici dei propri risultati
che non qualsiasi altra comunità della terra dopo la caduta di
Atene" 156.
Era una società profondamente aristocratica, in cui quasi ogni
famiglia possedeva una grande tradizione sociale; e la stessa
lontananza dal resto del mondo e la sua mancanza di ricchezza
materiale la portavano a coltivare intensivamente le proprie
tradizioni e le risorse della vita interiore.
Ci sembra quasi una giustificazione
delle più eccessive richieste del separatismo nazionalistico,
trovare questa ultima Thule del mondo abitabile, questa società
esiliatasi volontariamente dall'unità europea, che tuttavia produce
i primissimi e più precoci frutti della moderna cultura europea.
Pure, lo stupefacente risultato del nativo genio nordico non ci deve
far dimenticare che la cultura islandese nel suo stadio maturo
dovette qualcosa di molto essenziale al mondo esterno. L'influsso del
cristianesimo in Islanda non fu, come certi scrittori vorrebbero
farci credere, un elemento superficiale ed esteriore della vita del
popolo; ma ebbe un'importanza fondamentale per quella cultura. È
vero che l'accettazione del cristianesimo, approvata dall'Althing nel
1000, come ricorda l’Islendingabók, ci appare come una
faccenda piuttosto tiepida e "politica", e che gli apostoli
della nuova fede, come Thangbrand e persino lo stesso Olaf
Tryggvessón, non sono precisamente modelli di purezza evangelica. Ma
nemmeno Costantino, Teodosio o Carlo Magno furono tali. L'arbitrio e
l'individualismo della società vichinga erano per loro natura
sfavorevoli alla stretta osservanza della legge sia morale sia
rituale della Chiesa, e devono aver prodotto molti bizzarri tipi di
cristiani, come il poeta Thormod, che fece voto di digiunare per nove
giorni festivi e mangiar carne per nove giorni di digiuno se gli
riusciva di ammazzare il suo nemico, e che rispose alla scandalizzata
protesta del capocuoco di sant'Olaf dicendo : "Cristo e io
saremo sempre buoni amici, quando non ci sia tra noi che una mezza
salsiccia" 157.
Ma questo è solo un lato del quadro.
La conversione dell'Islanda non fu soltanto una questione di
convenienza politica; fu l'accettazione di un ideale spirituale più
alto, quale si rivela nell'attitudine di Hialte, l'oratore cristiano
dell'Althing nel 1004 :
I
pagani convocarono molta gente e deliberarono di sacrificare due
uomini di ciascun distretto e di chiedere agli dèi pagani di non
tollerare che il cristianesimo si diffondesse nella terra. Ma Hialte
e Gizor tennero un'altra riunione di cristiani e deliberarono di fare
anch'essi altrettanti sacrifici umani come i pagani. Parlarono cosi :
"I pagani sacrificano gli uomini peggiori e li precipitano da
rocce o dirupi, ma noi sceglieremo i migliori e li chiameremo un
pegno di vittoria da offrire al nostro Signore Gesù Cristo, e ci
obbligheremo a vivere meglio e meno peccaminosamente che in passato,
e Gizor e io ci offriremo come pegno di vittoria del nostro
distretto" 158.
Di fatto, gli elementi più elevati
della stessa cultura islandese quali li rappresentavano uomini come
Njàl, il paciere, e Gisli Sursson e l'autore della Voluspà, avevano
ormai superato la barbarie dell'antica società pagana, la sua
pratica del sacrificio umano e dell'infanticidio e la sua insistenza
sul dovere della vendetta del sangue.
L'ideale vichingo era per sé troppo
sterile e distruttivo per essere capace di produrre i più elevati
frutti della cultura. Esso acquistò il suo più alto valore
culturale soltanto dopo che ebbe accettata la legge cristiana e fu
disciplinato e affinato da un secolo e più di civiltà cristiana.
Fra l'età dei Vichinghi e le guerre civili e le vendette del periodo
Sturlung, intercorse un periodo di pace e di pietà, durante il quale
i capi del popolo erano ecclesiastici come il grande vescovo Gizor il
Bianco, san Giovanni di Holar e san Thorlac di Scalholt. Come dice la
Khristni-Saga, "il vescovo Gizor [1082-1118] mantenne
nella terra una tale pace, che non esistevano più odi fra i capi, e
quasi nessuno portava più armi. La maggior parte degli uomini
addetti al culto erano chierici e sacerdoti consacrati, quantunque
fossero capi”. Fu questa la società che creò la nuova tradizione
letteraria, ed è bene ricordare che i suoi fondatori, Saemund
Sigfùsson e Ari il Saggio, erano entrambi sacerdoti e dotti, il
primo dei due avendo addirittura fatti i suoi studi a Parigi. Ad Ari
noi dobbiamo non soltanto quanto sappiamo degli inizi dell'Islanda e
delle sue istituzioni, ma anche la creazione di quello stile
letterario che rese possibile l'opera di Snorri Sturluson e dei
grandi scrittori di saghe. Ma questa cultura cristiana islandese,
come quella del regno anglico di Northumbria quattrocento anni prima,
è essenzialmente transitoria. È l'istante nel quale il morente
mondo del barbarico Nord viene a fuggevole contatto con la nuova
coscienza dell'Europa cristiana. Esso è seguito da un repentino
declinare, in cui l'elemento anarchico della società nordica, che
non poteva più trovare sfogo in un'aggressione diretta verso
l'esterno, si rivolge contro se stesso e si distrugge. Qui, come in
Norvegia, la classe aristocratica, che era l'erede e custode delle
vecchie tradizioni, venne spazzata via dalle guerre civili e dalle
confische, e già nel secolo XIII il mondo vichingo sprofonda nel
pacifico ristagno di una società contadina immiserita.
XIV. LA NASCITA DELL'UNITÀ MEDIEVALE
La bufera d'invasioni barbariche che si
abbatte sull'Europa nel secolo IX, sembra sufficiente di per sé a
spiegare il prematuro declino dell'impero carolingio e la
dissoluzione dell'unità occidentale da poco raggiunta. Tuttavia, è
facile esagerarne l'importanza. Lungi dell'esser questo il solo
influsso operante, pare anzi quasi certo che le fortune dell'Impero
carolingio avrebbero seguito lo stesso corso anche se non gli fosse
toccato subire gli attacchi di Vichinghi e Saraceni.
I germi della decadenza erano inerenti
allo stato carolingio fin dalla sua origine. Infatti, nonostante la
sua apparenza maestosa, esso era una struttura eterogenea, priva di
ogni organico e unitario principio inferiore. Affermava di essere
l'Impero romano, ma di fatto era la monarchia franca, e incarnava
quindi due principi contraddittori: l'universalismo delle tradizioni
romana e cristiana, da una parte, e il particolarismo delle tribù
dell'Europa barbarica, dall'altra. Di conseguenza, nonostante il suo
nome, somigliava ben poco all'Impero romano o agli stati inciviliti
dell'antico mondo mediterraneo, e aveva assai più tratti comuni con
quei barbarici imperi di Unni, di Avari e di Turchi occidentali, che
erano il frutto effimero della conquista militare, e si succedettero
così rapidamente in questi secoli ai confini del mondo civile.
L'Impero romano dei Carolingi era un
impero romano senza la legge né le legioni di Roma, senza l'Urbe e
senza il Senato. Era una massa informe e disorganizzata, senza centri
nervosi urbani e senza circolazione di vita economica. I suoi
funzionari non erano né magistrati civici né impiegati civili
competenti, ma semplici magnati territoriali e capitani con qualcosa
del capotribù. E tuttavia, esso era anche l'incarnazione e
l'esemplificazione di un ideale, e quest'ideale, malgrado il suo
apparente fallimento, si dimostrò più duraturo e persistente di
ogni altro risultato militare o politico di quel periodo. Sopravvisse
allo stato cui aveva dato origine e durò attraverso l'anarchia che
venne dopo, finché divenne il principio del nuovo ordine che doveva
sorgere in Occidente nel secolo XI.
I difensori di quest'ideale furono gli
alti ecclesiastici carolingi, che ebbero una parte così importante
nell'amministrazione dell'Impero e nella determinazione della
politica imperiale dai tempi di Carlo Magno a quelli di suo nipote
Carlo il Calvo.
Mentre i conti e i magnati laici
rappresentavano per la massima parte interessi locali e territoriali,
i capi del partito ecclesiastico impersonavano l'ideale di un impero
universale che fosse incarnazione della unità cristiana e difesa
della fede. Agobardo di Lione osa persino contestare il tradizionale
principio franco della legge personale e chiedere l'elaborazione di
un'universale legge cristiana ad uso dell'universale comunità dei
Cristiani. In Cristo, egli dice, non c'è più né Ebreo né Gentile
né barbaro né Scita né Aquitano né Longobardo né Burgundo né
Alemanno. "Se Iddio ha sofferto affinché la muraglia di
separazione e d'inimicizia scomparisse e tutti quanti si
riconciliassero nel suo corpo, l'incredibile varietà di leggi che
regna non soltanto in ciascuna regione o città ma nella stessa casa
e persino alla stessa tavola, non sarà in contrasto con questa
divina opera di unificazione?" 159.
Cosi l'imperatore non era più il
capitano e il duce ereditario del popolo franco; ma una figura quasi
sacerdotale, unta per grazia di Dio affinché regnasse sul popolo
cristiano e guidasse e proteggesse la Chiesa. Ciò implica, come
abbiamo veduto, una concezione strettamente teocratica della
regalità, per cui l'imperatore carolingio, non meno del basileus
bizantino, era considerato il vicario di Dio e il capo cosi della
Chiesa come dello stato. Onde Sedulio Scoto (verso l'850) parla
dell'imperatore come di chi è ordinato da Dio come vicario nel
governo della Chiesa e ha ricevuto autorità su entrambi gli ordini
dei dirigenti e dei sudditi, mentre Cathulf giunge sino a dire che il
re fa le veci di Dio dinanzi al suo popolo, di cui dovrà rendere
conto il giorno del giudizio, laddove il vescovo viene soltanto dopo,
come semplice rappresentante di Cristo 160.
Ma la teocrazia carolingia differiva da
quella bizantina in quanto era una teocrazia ispirata e controllata
dalla Chiesa. Non disponeva, come l'Impero d'Oriente, di una
burocrazia laica; il posto di quest'ultima era tenuto
dall'episcopato, dalle cui file erano tratti i più fra i consiglieri
e i ministri dell'imperatore. Di conseguenza, non appena venne meno
il pugno di ferro di Carlo Magno, l'ideale teocratico portò
all'esaltazione del potere spirituale e clericalizzò l'Impero,
invece di subordinare la Chiesa al potere laico.
I capi del partito del clero erano
personaggi che avevano avuto una parte importante all'inizio del
nuovo Impero, soprattutto i nipoti di Carlo Magno, Adalardo e Wala di
Corbie e Agobardo di Lione; e, durante i primi anni di Ludovico il
Pio, nonostante la temporanea disgrazia di Adalardo nell'814, i loro
ideali furono molto in auge. Nell'816 il carattere sacro dell'Impero
venne solennemente riaffermato con la incoronazione di Ludovico fatta
a Reims da papa Stefano, e l'anno dopo l'unità dell'Impero venne
garantita dalla costituzione di Aquisgrana, che scartò le antiche
norme di successione franche a favore del principio romano della
sovranità indivisibile. Lotario sarebbe succeduto al padre come
unico imperatore, e, quantunque i suoi fratelli Pipino e Ludovico
dovessero ricevere in appannaggio dei regni in Aquitania e in
Baviera, erano strettamente subordinati alla supremazia imperiale.
Questa sistemazione rappresentò il
trionfo dell'ideale religioso dell'unità sopra le forze centrifughe
della vita nazionale; e per conseguenza quando Ludovico, istigato
dalla seconda moglie, Giuditta di Baviera, tentò di non tenerne
conto, allo scopo di provvedere un terzo regno per il loro figliolo
Carlo, si trovò di fronte la risoluta resistenza non solamente di
Lotario e delle altre parti interessate, ma anche dei capi del
partito ecclesiastico. Per la prima volta la Chiesa intervenne in
modo decisivo nella politica europea, con la parte da essa sostenuta
nei drammatici eventi che culminarono nella temporanea deposizione di
Ludovico il Pio ncll'833. L'importanza di quest'episodio è stata
obnubilata dalla naturale simpatia che gli storici hanno sentito per
lo sventurato Ludovico, abbandonato dai seguaci e umiliato dai figli,
allo stesso modo di re Lear. Di conseguenza, gli storici negli
avvenimenti di Colmar, "il Campo delle menzogne", non hanno
veduto altro che un obbrobrioso atto di tradimento dettato
dall'egoismo e dall'avidità. Tuttavia, l'opposizione a Lodovico
allora non fu soltanto l'opera di prelati e di cortigiani
opportunisti; ma nacque dall'azione di idealisti e riformatori che
impersonavano quanto c'era di più alto nella tradizione carolingia,
uomini come Agobardo, Wala, Pascasio Radberto, il teologo, Bernardo
di Vienna ed Ebbone di Reims, l'apostolo del Nord. Il disinteresse e
la sincerità di questi uomini risultano evidenti dagli scritti dello
stesso sant'Agobardo e di Pascasio Radberto, che fu anch'egli
testimonio personale degli avvenimenti, e la cui vita di Wala –
l’Epitaphium Arsenii - viene considerata dal Manitius come una
delle opere più notevoli del periodo carolingio 161.
Agobardo era il rappresentante della
tradizione occidentale di Tertulliano e di sant’Agostino nella sua
forma più intransigente 162,
ed è notevole per il vigore col quale denunciò le superstizioni
popolari, come la credenza negli stregoni e la pratica del giudizio
di Dio, e difese i diritti della Chiesa e la supremazia del potere
spirituale. Anche Wala difese gli stessi principii, ma in modo meno
intransigente. Egli considerava le disgrazie dell'Impero come dovute
soprattutto al crescente movimento di secolarizzazione che induceva
l'imperatore a usurpare i diritti della Chiesa, mentre i vescovi si
dedicavano ai pubblici affari. Questo, tuttavia, non gli impedì
d'intervenire nella questione della successione imperiale, dato che
ai suoi occhi l'unità e la pace dell'Impero non erano una semplice
questione di politica secolare, bensì un problema morale, in cui
perciò la Chiesa aveva il diritto e il dovere di pronunciarsi, anche
se ciò implicava un giudizio sullo stesso imperatore. Di
conseguenza, quando papa Gregorio IV, che aveva accompagnato Lotario
a Colmar, esito a violare la tradizionale concezione bizantina della
prerogativa imperiale, furono Wala e Radberto che lo rassicurarono 163
ricordandogli il suo diritto, come vicario di Dio e di san Pietro, di
giudicare tutti e non venire giudicato da nessuno, e insomma lo
persuasero a prendere la direzione dei maneggi che culminarono nella
deposizione dell'imperatore 164.
Questo episodio segna una nuova
affermazione della supremazia del potere spirituale su quello
temporale e del diritto della Chiesa a intervenire nelle faccende
dello Stato, che già adombra i successivi sviluppi del Medioevo. Ed
è significativo che esso fosse provocato non dal papato ma dal clero
franco, e fosse strettamente connesso con la nuova concezione
teocratica dello stato implicita nell'Impero carolingio. Lo Stato non
era più considerato come qualcosa di distinto dalla Chiesa, con
diritti e poteri indipendenti. Era esso stesso una parte, o piuttosto
un aspetto, della Chiesa, che, secondo le parole di una lettera dei
vescovi a Ludovico il Pio nell'829, era "un unico corpo
sottoposto a due personaggi supremi: il re e il sacerdote”. Così
lo Stato non può più identificarsi col mondo e venir considerato
come essenzialmente a-spirituale; ma diventa organo del potere
spirituale nel mondo. Nondimeno, la concezione più antica era
penetrata così a fondo nel pensiero cristiano, soprattutto per opera
di sant'Agostino, che soppiantarla del tutto non si poteva, e cosi
per tutto il Medioevo, mentre lo Stato insisteva sul suo divino
diritto di rappresentare Dio nel campo temporale, era sempre
possibile a menti religiose considerarlo come un potere profano e
terreno che non aveva parte nel sacro patrimonio della società
spirituale.
Senza dubbio, nell'età carolingia,
finché l'Impero durò unito, l'imperatore venne effettivamente
considerato il rappresentante del principio unitario e il capo della
società tutta. Ma, con la divisione del retaggio carolingio tra i
figli di Ludovico, non fu più così, e da allora in poi fu
l'episcopato il custode dell'unità imperiale e l'arbitro e il
giudice fra i principi rivali. Il massimo rappresentante di questa
tendenza nella seconda metà del secolo IX fu il grande arcivescovo
del regno franco occidentale, Incmaro di Reims, che fu un temibile
campione sia dei diritti della chiesa contro le autorità laiche sia
della causa della pace e dell'unità dell'Impero. Ma questi stessi
principi erano ammessi dai sovrani medesimi, specialmente da Carlo il
Calvo, che nei termini più inequivocabili riconobbe la sua
dipendenza dal potere ecclesiastico, nel manifesto che pubblicò
nell'859, quando venne fatto un tentativo di deporlo. Egli si appella
al carattere sacro dell'autorità che ha ricevuto come re unto, e
aggiunge: "Da questa consacrazione nessuno mi può deporre,
almeno senza l'udienza e il giudizio dei vescovi, dal ministero dei
quali sono stato consacrato re, poiché essi sono i Troni di Dio sui
quali Dio siede e coi quali pronuncia il suo giudizio. Al loro
paterno consiglio e al loro meritato giudizio io sono sempre stato
disposto a sottomettermi, e mi sottometto adesso" 165.
Qui vediamo la cerimonia
dell'incoronazione, che fino allora era stata di un'importanza molto
secondaria, diventare il fondamento ultimo del potere sovrano. Di
fatto, proprio su questo lo stesso Incmaro fonda il suo argomento
della supremazia del potere spirituale, poiché, se sono i vescovi a
creare il re, essi gli sono superiori, e la sua potenza è uno
strumento nelle mani della Chiesa, che la Chiesa deve dirigere e
indirizzare al vero fine. Ma l'ideale di Incmaro di un impero
teocratico controllato da un'oligarchia episcopale implicava un
conflitto, da una parte, con l'autorità universale della Santa Sede,
dall'altra, con le pretese d'indipendenza dei vescovi locali.
Nell'interesse di questi ultimi vennero compilate le
Pseudo-Decretali, uscite sotto il nome di Isidoro Mercatore,
probabilmente a Le Mans, o altrove nella provincia di Tours, fra gli
anni 847 e 852. Furono esse la più importante falsificazione del
periodo carolingio, ma non costituirono affatto un fenomeno
eccezionale, poiché i dotti di quell'epoca si dedicavano alla
falsificazione di documenti ecclesiastici ed agiografici con non
minore entusiasmo e con scrupolo morale non maggiore di quello che i
dotti del Rinascimento avrebbero mostrato nell'imitazione di opere
dell'antichità classica. L'atteggiamento di quell'epoca verso la
storia era invero così radicalmente diverso dal nostro che ci riesce
difficile tanto condannarli come scusarli. Nel caso delle
Pseudo-Decretali, tuttavia, il movente è più che chiaro. L'autore
desiderava fondare con testimonianze particolareggiate e
inequivocabili i diritti dell'episcopato locale ad appellarsi
direttamente a Roma contro il proprio metropolitano, e salvaguardare
l'indipendenza della Chiesa contro il potere secolare. Ma per quanto
grande fosse la loro importanza nel successivo sviluppo della legge
canonica e nel progresso dell'accentramento ecclesiastico del
Medioevo, è impossibile considerarle direttamente responsabili
dell'incremento di prestigio che il papato acquistò nel secolo IX
nell'Europa occidentale. Esse furono, più che una causa, un
risultato di quello sviluppo che aveva le sue radici nelle condizioni
da noi descritte.
E ancor meno possiamo attribuire un
qualsiasi influsso sulla politica papale all'altra grande
falsificazione di quel tempo, - la Donazione di Costantino, - poiché
sembra che fosse sconosciuta ai papi del secolo IX, e fu soltanto
alla metà dell'XI che a Roma cominciarono a servirsene in appoggio
di più vaste rivendicazioni papali. In verità e tuttora molto
incerto quando o dove fosse composta e a quale scopo. L'antica
ipotesi che sia stata macchinata a Roma nel secolo VIII (verso il
775), per assicurare l'indipendenza degli stati della Chiesa, viene
sovente messa in dubbio ormai, e pare invece possibile che essa
risalga al periodo delle Pseudo-Decretali. Forse l'ipotesi più
plausibile è che sia opera di quell'abile e sinistro Anastasio
Bibliotecario, che l'avrebbe composta negli anni successivi all'848,
quando Egli era esule da Roma e intrigava con Ludovico II per il
trono papale 166.
Un atto simile s'accorda bene con l'ambizione smisurata e gli
interessi storici di quel dotto privo di scrupoli, per quanto a prima
vista paia contraddittorio coi suoi rapporti con Ludovico II.
Nondimeno, quest'ultimo era certo disposto ad esaltare il papato,
quando giovasse ai suoi fini, specialmente contro le pretese
antagonistiche dell'Impero bizantino, e fu lui effettivamente il
primo ad asserire l'opinione, adottata dai posteriori canonisti
medievali, che l'imperatore debba la sua dignità all'incoronazione e
alla consacrazione da parte del papa 167.
Cosi la nuova posizione di egemonia sociale sull'Europa occidentale
che il papato acquistò in questo periodo fu più imposta ad esso
dall'esterno che non assunta per iniziativa sua. Come scrivono i
Carlyle a proposito della nascita del potere temporale : "Chiunque
studii la corrispondenza papale e il Liber Pontificalis del secolo
VIII, si renderà conto, crediamo, che la direzione della res publica
romana in Occidente fu piuttosto imposta loro [ai papi] che non
deliberatamente cercata. Solo lentamente e con molta riluttanza essi
si staccarono dalla tutela bizantina, poiché dopo tutto, facendo
parte come esseri civili dello Stato romano, preferivano quello
bizantino al barbarico" 168.
Allo stesso modo, nel secolo IX, il
papato si assoggettò al controllo dell'Impero carolingio e accettò
perfino la Costituzione dell'824 che rendeva l'imperatore padrone
dello Stato romano e gli dava l'effettivo controllo dell'elezione
pontificale. Nondimeno, questo legame con l'Impero carolingio
accrebbe di per sé l'importanza politica del papato, e,
indebolendosi e dividendosi sempre più l'Impero, il papato sali al
grado di supremo rappresentante dell'unità occidentale. Ci fu così
un breve periodo, fra la scomparsa politica del papato sotto Carlo
Magno e Lotario e il suo asservimento alle fazioni locali nel secolo
X, in cui esso parve pronto a sostituire la dinastia carolingia alla
direzione della cristianità occidentale. Il pontificato di Niccolò
I (858-67) adombra le gesta future del papato medievale. Niccolò
tenne testa ai più grandi personaggi del suo tempo, agli imperatori
d'Oriente e d'Occidente, a Incmaro, capo dell'episcopato franco, a
Fozio, il massimo dei patriarchi bizantini, e riuscì ad affermare
l'autorità spirituale e l'indipendenza della Santa Sede anche quando
l'imperatore Ludovico II tentò d'imporgli la sua volontà con l'uso
della forza armata.
I suoi successori furono incapaci a
sostenere una posizione cosi elevata. Nondimeno, sotto Giovanni VIII
(872-82), il papato era l'ultimo baluardo che restasse all'Impero
carolingio, e fu grazie all'iniziativa personale del papa che Carlo
il Calvo venne incoronato imperatore nel 874, e Carlo il Grosso
nell'881. Questa finale restaurazione dell'Impero fu tuttavia poco
più di un gesto vuoto di significato. Si era ormai tanto lontani
dall'impero di Carlo Magno quanto il debole ed epilettico Carlo il
Grosso era diverso dal suo grande avo. In sostanza l'Impero non
rappresentava più una realtà politica e non era più in posizione
tale da poter fare il custode della Chiesa e della civiltà. "Abbiamo
cercato la luce, - scriveva il papa, - ed ecco le tenebre! Cerchiamo
soccorso e non osiamo uscire dalle mura della città dove regna una
bufera intollerabile di persecuzione, poiché né il nostro figliolo
spirituale, l'imperatore, né alcuno di alcuna nazione ci porge
aiuto". Nell'882 Giovanni VIII cadde vittima dei suoi nemici, e
Roma divenne teatro di un carnevale di strage e di intrighi, che
toccò il suo culmine nella macabra farsa dell'896, quando il
cadavere di papa Formoso venne dissotterrato e sottoposto a una
parodia di processo dal suo successore Stefano VI, che pochi mesi
dopo doveva anch'egli morire assassinato. Così il papato e l'Impero
scivolavano insieme nell'abisso di anarchia e di barbarie che
minacciava d'inghiottire tutta quanta la civiltà occidentale.
Sarebbe difficile esagerare l'orrore e
la confusione dell'età tenebrosa che seguì al fallimento
dell'esperimento carolingio, Gli atti del sinodo di Troslé del 909
ci danno un'idea della disperazione dei capi della Chiesa franca
dinanzi alla prospettiva dell'universale rovina della società
cristiana. "Le città - scrivevano - sono spopolate, i monasteri
abbattuti e arsi, il paese ridotto alla desolazione". "Come
i primi uomini vivevano senza legge né timor di Dio, abbandonati
alle loro passioni, così ora ciascuno fa ciò che sembra bene a lui
solo, sprezzando le leggi umane e divine e i comandamenti della
Chiesa. I forti opprimono i deboli; il mondo è pieno di violenza
esercitata sui poveri e di saccheggio dei beni ecclesiastici".
"Gli uomini si divorano l'un l'altro come i pesci nel mare ".
Infatti la caduta dell'Impero implicava
non soltanto la scomparsa della malsicura unità dell'Europa
occidentale, ma la dissoluzione della società politica e il
frantumarsi degli stati carolingi in una massa disorganizzata di
unità regionali. Il potere passava nelle mani di chiunque fosse
abbastanza forte da difendere se e i suoi dipendenti da un attacco
esterno. Fu questa l'origine delle nuove dinastie locali e
seminazionali che fecero la loro comparsa nell'ultima parte del
secolo IX per opera di uomini come Roberto il Forte, fondatore della
casa capetingia, che combatté coraggiosamente contro i Vichinghi
della Loira e della Senna; come Bruno, duca di Sassonia, che difese
la sua terra contro i Danesi e i Vendi; come Bosone di Provenza, che
fu incoronato re dai vescovi e dai nobili della Borgogna nell'879,
perché occorreva loro un protettore contro i Vichinghi del Nord e i
Saraceni del Mediterraneo. Ma questi regni non erano meno deboli e
malsicuri degli stati carolingi, poiché erano esposti alle medesime
forze centrifughe che avevano distrutto l'Impero. Durante la seconda
metà del secolo IX i funzionari locali si erano emancipati dal
controllo del governo centrale, e le cariche di conte e di duca erano
divenute benefici ereditari e usurpavano tutte le prerogative della
regalità. Di fatto il conte, a tutti gli effetti pratici, era re nel
suo pagus o cantone. Il solo principio della nuova società
era la legge della forza e il suo correlativo - il bisogno di una
protezione. La libertà personale cessava di essere un privilegio,
poiché l'uomo senza signore era ormai un uomo senza protettore. Così
la lealtà e l'omaggio divennero i rapporti sociali universali, e la
proprietà della terra fu gravata d'un intrico di diritti e di
obbligazioni, personali, militari e giuridiche. Nello stesso modo le
chiese e i monasteri furono costretti a cercarsi dei protettori, e
questi "avvocati" - Vogte, avoués - acquistarono
praticamente il controllo sopra le terre e i fittavoli dei loro
clienti. Insomma, lo stato e la sua pubblica autorità vennero
assorbiti nel potere territoriale locale. L'autorità politica e la
proprietà privata andarono confuse insieme nel nuovo rapporto
feudale, e i diritti di giurisdizione e l'obbligo del servizio
militare cessarono di essere obblighi pubblici universali, e furono
connessi alla terra come privilegi od oneri di un particolare regime.
Ma, sebbene quest'evoluzione verso il
feudalesimo fosse la caratteristica dell'epoca, il feudalesimo del
secolo X era ancora lontano da quel sistema simmetrico ed
elaboratamente organizzato che si trova nel Libro del Giudizio o
nelle Assise di Gerusalemme. Era quella un'organizzazione assai più
rilassata e primitiva, una sorta di compromesso tra le forme dello
stato territoriale organizzato e le condizioni di vita della società
tribale. L'artificiale accentramento amministrativo del periodo
carolingio era scomparso, e rimanevano soltanto i nudi clementi della
società barbarica : i legami della terra e del sangue e il vincolo
che congiungeva il capo ai guerrieri. Così il legame sociale che
manteneva insieme la società feudale era la fedeltà dei guerrieri
verso il loro capotribù piuttosto che verso la pubblica autorità
dello Stato; anzi, la società del secolo X era per un certo aspetto
più anarchica e barbarica dell'antica società tribale, perché,
tranne in Germania, dove l'antica organizzazione per tribù
conservava ancora la sua vitalità, la legge tradizionale e lo
spirito sociale della società primitiva erano scomparsi, mentre la
cultura e l'ordine politico del regno cristiano erano troppo deboli
per prenderne il posto.
Nondimeno, la Chiesa si manteneva, e
continuava a tenere in vita le tradizioni d'una civiltà superiore.
La cultura intellettuale e la vita civica sopravvissero solo in
quanto strettamente dipendenti dalla società ecclesiastica. Infatti
lo stato aveva perduto ogni contatto con la tradizione cittadina ed
era divenuto interamente agricolo. Re e nobili vivevano un'esistenza
quasi nomade, sostentandosi con i prodotti delle loro terre e
girovagando successivamente da un possedimento all'altro. Una società
simile non sapeva che farsene di città se non a scopi puramente
militari, e le cosiddette città che sorsero in questo periodo, come
le burgen delle Fiandre e della Germania e i burhs
dell'Inghilterra anglosassone, erano infatti anzitutto fortezze e
luoghi di ricovero, come i fortilizi delle tribù di un tempo più
antico. Le città del passato, d'altra parte, avevano ora acquistato
un carattere quasi interamente ecclesiastico. Secondo le parole del
Pirenne, "un governo teocratico aveva sostituito completamente
il regime municipale dell'antichità". Le governava il vescovo,
e la loro importanza era dovuta alla sua cattedrale, alla sua corte e
ai monasteri compresi nella cerchia delle mura cittadine o, come
Saint-Germain-des-Prés a Parigi e Westminster a Londra, nelle loro
immediate vicinanze. Esse erano il centro amministrativo della
diocesi e delle tenute episcopali e monastiche, e la loro popolazione
consisteva quasi interamente del clero e di tutti i suoi dipendenti.
Per provvedere ai bisogni di costoro si teneva il mercato, e le
grandi ricorrenze dell'anno ecclesiastico attiravano un largo
afflusso di gente dall'esterno. Erano in sostanza città sacre più
che organismi politici e commerciali 169.
Allo stesso modo la Chiesa, e non lo
stato feudale, era il vero organo della cultura. Lo studio, la
letteratura, la musica e l'arte, tutto esisteva principalmente nella
Chiesa e per la Chiesa, che era la rappresentante tanto della
tradizione latina di cultura e di ordine come degli ideali morali e
spirituali del cristianesimo.
Inoltre, tutti i servizi sociali che
noi consideriamo funzioni naturali dello Stato, per esempio
l'educazione, l'assistenza ai poveri e la cura dei malati, venivano
adempiti, quando venivano adempiti, dalla Chiesa. Nella Chiesa
ciascuno aveva il suo posto e poteva rivendicare un diritto di
cittadinanza spirituale, laddove nello stato feudale i contadini non
avevano né diritti né libertà e venivano considerati
essenzialmente come beni, come parte degli accessori indispensabili
all'attrezzatura del podere.
È impossibile comprendere la primitiva
cultura medievale per analogia con le condizioni moderne, che sono
fondate sul concetto dell'unica società di uno stato sovrano che
tutto include. Nella primitiva Europa medievale esistevano di fatto
due società e due culture. Da una parte, c'era la società pacifica
della Chiesa, accentrata nei monasteri e nelle città episcopali, che
ereditava la tradizione della tarda cultura romana. Dall'altra, c'era
la società guerriera della nobiltà feudale e dei suoi dipendenti,
la cui vita trascorreva in guerre e ostilità private incessanti.
Sebbene quest'ultima fosse esposta all'influsso personale della
società religiosa, i cui dirigenti erano spesso legati di parentela
coi suoi rappresentanti, questi appartenevano a un ordine sociale più
primitivo.
Essi erano i successori delle vecchie
aristocrazie delle tribù dell'Europa barbarica, e la loro morale era
quella del guerriero della tribù. Nel migliore dei casi sapevano
mantenere in una certa rozza misura l'ordine interno e proteggere i
loro sudditi dalle aggressioni esterne. Ma troppo sovente essi erano
soltanto dei barbari e dei predoni, che vivevano nelle loro fortezze,
come scrive un cronista medievale, "quasi belve nei loro
covili”, e ne sbucavano per dare alle fiamme i villaggi dei vicini
e imporre riscatti ai viandanti.
Il problema vitale del secolo X era se
questa barbarie feudale sarebbe riuscita a conquistare e assorbire la
società pacifica della Chiesa, o se quest’ultima avrebbe
trionfato, imponendo i propri ideali e la propria superiore cultura
alla nobiltà feudale, come aveva fatto in passato con le monarchie
barbariche degli Anglosassoni e dei Franchi.
A prima vista questa speranza sembrava
anche più incerta che non fosse nell'epoca che aveva seguito le
invasioni barbariche. Perché adesso la stessa Chiesa correva il
pericolo di inabissarsi nel fiotto della barbarie e dell'anarchia
feudale. Principi e nobili approfittavano della caduta dell'Impero
per spogliare le chiese e i monasteri delle ricchezze accumulatevi
durante il periodo precedente. In Baviera, Arnolfo effettuò una
generale secolarizzazione dei beni ecclesiastici, come aveva fatto
Carlo Martello nel regno franco verso la fine del periodo merovingio,
e i monasteri bavaresi persero la maggior parte dei loro possedimenti
170.
In Occidente le cose andavano anche
peggio, perché i monasteri erano stati quasi distrutti dalle
devastazioni degli uomini del Nord e la feudalizzazione del regno
franco occidentale aveva lasciata la Chiesa alla mercé della nuova
aristocrazia militare, che si servì dei suoi beni per creare nuovi
feudi da investirne i seguaci. Ugo Capeto fu abate laico della
maggior parte delle più ricche abbazie dei suoi domini, e la stessa
politica venne adottata su minor scala da ogni signore locale.
Così lo sviluppo del feudalesimo aveva
ridotto la Chiesa a uno stato di debolezza e di disordine anche
maggiori di quelli che esistevano nel decadente stato merovingio
prima della venuta di san Bonifacio. I vescovi e gli abati ricevevano
come gli altri feudatari l'investitura dal principe, e occupavano i
loro benefici come "feudi spirituali" in cambio del
servizio militare. Le alte cariche erano divenute prerogativa dei
membri dell'aristocrazia feudale, molti dei quali, come Arcimbaldo,
arcivescovo di Sens nel secolo X, profondevano i redditi delle loro
diocesi con le amanti e i compagni di bisboccia. Nemmeno nei
monasteri si osservava più con rigore la regola della castità,
mentre il clero secolare viveva apertamente in stato coniugale e
sovente passava le parrocchie ai figli.
Ma la cosa peggiore di tutte era che la
Chiesa non poteva più guardare a Roma per trarne una norma morale e
una guida spirituale, giacché lo stesso panato era caduto vittima
del medesimo morbo che minava le chiese locali. La Santa Sede era
diventata un giocattolo fra le mani di una oligarchia immorale e
truculenta, e sotto il dominio di Teofilatto e delle donne della sua
casa, soprattutto della grande senatrice Marozia, amante, madre e
assassina di pontefici, toccò il più basso livello della
degradazione.
Ciò nonostante, lo stato delle cose
non era così disperato come si sarebbe potuto desumere dallo
spettacolo di tutti questi scandali e abusi. Essi erano come le
doglie di parto di una nuova società, e i nuovi popoli dell'Europa
cristiana dovevano nascere proprio dalle tenebre e dalla confusione
di quel secolo X. I risultati della cultura carolingia non andarono
interamente perduti. Ne rimase la tradizione, capace d'innestarsi
un'altra volta sulle circostanze delle società regionali e
nazionali, dovunque vi fosse una forza costruttiva che sapesse
servirsene. E le forze dell'ordine trovarono un centro di riunione e
un principio d'autorità soprattutto nell'ideale carolingio di una
regalità cristiana. L'istituzione regia era la sola che fosse comune
alle due società e incorporasse le tradizioni di entrambe le
culture. Poiché il re, mentre era il diretto successore del
capotribù e duce guerresco della società feudale, ereditava pure la
tradizione carolingia della monarchia teocratica e possedeva un
carattere quasi sacerdotale grazie ai riti sacri dell'incoronazione e
dell'unzione. Egli era il naturale alleato della Chiesa, e trovava
nei vescovi e nei monasteri i massimi fondamenti del suo potere.
Questo duplice carattere della regalità medievale e rappresentato da
due tipi di sovrani nettamente contrastanti. Ci sono i re guerrieri,
come Sveno di Danimarca o Harald Hadraga, cui una nominale
professione di cristianesimo non impedisce di seguire in tutto le
tradizioni del guerriero barbarico; e ci sono i re pacifici e i santi
coronati, come Venceslao di Boemia, Edoardo il Confessore e Roberto
II di Francia, che sono in tutto e per tutto i servitori della
società spirituale e vivono sul trono la vita dei monaci. Ma è raro
trovare l'uno o l'altro dei due elementi in una forma cosi pura come
in questi esempi, e il tipo normale del sovrano medievale include i
due caratteri, come si vede nel caso di monarchi come sant'Olaf e
Canuto, gli imperatori sassoni e i grandi re del Wessex.
Questi ultimi sono specialmente
importanti, poiché furono i primi a tentare l'opera di ricostruzione
nazionale nello spirito della tradizione carolingia e a inaugurare
quell'alleanza tra monarchia e chiesa nazionale che è il tratto
caratteristico del periodo. Questa fusione fu così completa nel
Wessex, che i sinodi e i concili della chiesa anglosassone andarono
sommersi nelle assemblee laiche, e la legislazione ecclesiastica dei
secoli X e XI fu opera del re e del suo consiglio, nel quale tuttavia
gli uomini di chiesa ebbero un posto preminente. Allo stesso modo fu
il re a prendere l'iniziativa della riforma della Chiesa e della
restaurazione della vita monastica, andata quasi distrutta per le
invasioni danesi. Inoltre è nel Wessex che possiamo osservare molto
più chiaramente che altrove il formarsi di una nuova cultura
dialettale, sulla base della tradizione carolingia e sotto la
protezione della monarchia nazionale. Infatti le notevoli traduzioni
di san Gregorio, Orosio, Boezio e Beda, che re Alfredo compì con
l'aiuto di dotti forestieri, "Plegmund il mio arcivescovo, e
Asser il mio vescovo, e Grimbald e Giovanni, miei sacerdoti”,
rappresentano sostanzialmente un deliberato tentativo di adattare la
cultura classica cristiana, fino allora confinata entro il mondo
internazionale della cultura latina, alle esigenze della nuova
cultura nazionale 171.
Giacché mi sembra bene, - egli scrive
nella sua prefazione al Liber regulae pastoralis di san Gregorio, -
che anche noi trasportiamo qualcuno dei libri che tutti dovrebbero
conoscere in quel linguaggio che tutti comprendiamo, per fare in modo
così (come non sarà difficile con l'aiuto di Dio purché abbiamo
pace), che tutta la gioventù dell'Inghilterra, i figli di uomini
liberi che ne hanno i mezzi, siano messi a studiare prima che vengano
in età di far altro, e tanto che sappiano leggere bene l'inglese;
quelli poi che si vorranno educare ancora e portarli a un grado più
alto siano successivamente istruiti nel latino.
Quest'opera di restaurazione,
inaugurata nel regno anglosassone da Alfredo e dai suoi successori,
venne perseguita su una scala molto più vasta e con risultati più
durevoli dai re sassoni della Germania. In verità è possibile che
questi ultimi debbano qualcosa all'esempio dei loro predecessori
inglesi, poiché Enrico l'Uccellatore s'imparentò con la casa di
Alfredo sposando suo figlio Ottone I alla figlia di Athelstan; e ci
sono tratti nella sua politica dove gli storici hanno veduto
l'influsso di precedenti anglosassoni 172.
Tuttavia, personalmente Enrico era un barbaro illetterato, che non si
curava della cultura, che mostrava poco favore alla Chiesa, e
governava la Germania come il capo guerriero di una confederazione di
tribù. La sua potenza poggiava non sulla pretesa universalistica
della monarchia carolingia, ma sulla lealtà dei suoi compagni
sassoni, che conservavano tuttora la loro antica organizzazione e le
loro tradizioni in forma più pura che qualunque altro popolo della
Germania. La forza di questa solidarietà tribale la si può vedere
nella Storia dei Sassoni di Widukind, tutta pervasa di uno
spirito di pretto patriottismo di tribù, sebbene sia opera di un
monaco di Corvey, centro della cultura ecclesiastica della regione, e
sia stata composta dopo la resurrezione dell'Impero 173.
Fu il figlio di Enrico I, Ottone I, a
ritrovare per primo la tradizione carolingia, che fuse col
patriottismo tribale del popolo sassone. In contrasto col padre,
Ottone non si accontentò dell'elezione dei suoi magnati laici, ma
ebbe cura di farsi incoronare e ungere secondo i solenni riti
ecclesiastici ad Aquisgrana, l'antica capitale dell'Impero, e
inaugurò quella politica di stretta cooperazione con la Chiesa che
avrebbe reso l'episcopato il più solido fondamento del potere regio.
Assai più che non sotto l'Impero carolingio, l'episcopato divenne un
organo di governo secolare. Infatti il vescovo non fu più soltanto
un coadiutore e sovrintendente del conte locale, ma aveva assorbito
le funzioni e i privilegi di quest'ultimo e cominciava ad assumere il
duplice carattere del vescovo-conte medievale governatore di un
principato ecclesiastico. Questo sistema era naturalmente
inconciliabile con l'indipendenza spirituale della Chiesa e col
principio canonico dell'elezione vescovile, dato ch'era essenziale
per il sovrano avocare a sé la nomina dei vescovi, divenuti gli
unici strumenti fidali dell'amministrazione regia. In Lorena, per
esempio, teneva il ducato Bruno arcivescovo di Colonia e fratello di
Ottone I, ed erano i vescovi ad avere il controllo della riottosa
nobiltà feudale e mantenevano l'autorità regia in tutto il
territorio.
Tuttavia, questa fusione della Chiesa
col potere regale non portò soltanto alla secolarizzazione della
prima, ma sollevò la monarchia dall'angusto ambiente della politica
barbarica e la mise a contatto con la società universale della
cristianità d'Occidente. Nonostante la sua debolezza e degradazione,
il papato restava alla testa della Chiesa, e il sovrano che volesse
controllare la Chiesa nei suoi stessi domini, era costretto ad
assicurarsi la cooperazione di Roma. E anche a parte ciò, tutto il
peso dell'esempio e della tradizione carolingia spingevano il nuovo
regno verso Roma e la corona imperiale.
I moderni storici nazionali possono
considerare la restaurazione dell'Impero come un lamentevole
sacrificio dei genuini interessi del regno germanico a un ideale
assurdo. Ma, per gli statisti del tempo, la cristianità era
altrettanto reale quanto la Germania, e la restaurazione della
monarchia carolingia in Germania trovò il suo naturale compimento
nella restaurazione dell'Impero cristiano. E’ vero che dalla morte
dell'ultimo imperatore nominale era trascorso un intervallo di
trentasette anni, ma per la maggior parte di questo periodo Roma era
stata nelle mani di Alberico, il maggior personaggio della casa di
Teofìlatto, e costui era stato abbastanza torte da tenere a distanza
i possibili rivali ed eleggere una successione di papi non indegni
del loro ufficio. Tuttavia suo figlio, l'infame papa Giovanni XII,
non seppe prendere il posto del padre e s'indusse invece a seguire
l'esempio dei papi del secolo VIII, e a invocare l'aiuto del re di
Germania contro il re d'Italia.
Di conseguenza, Ottone I non s'impegno
affatto in un'avventura nuova, ma ricalcò semplicemente un cammino
ben noto e familiare, quando rispose, come tanti sovrani avevano
fatto prima di lui, all'appello del papa, e nel 961 scese in Italia
per ricevervi la corona imperiale.
Tuttavia, la sua venuta portò un
profondo mutamento nella situazione europea. Ancora una volta
l'Europa settentrionale veniva messa a contatto col mondo incivilito
del Mediterraneo dal quale era stata separata per tanto tempo.
Infatti l'Italia, a dispetto del suo disordine politico, stava
finalmente iniziando un periodo di risveglio economico e culturale.
Le ricche città mercantili del Mezzogiorno e dell'Adriatico, -
Napoli, Amalfi, Salerno, Ancona e Venezia, - erano in stretto
rapporto con la più elevata civiltà del Mediterraneo orientale, e
come cultura erano largamente bizantine. Il loro influsso ebbe un
effetto stimolatore sulla vita economica e sociale del resto della
penisola, specialmente sulle città della pianura lombarda e della
Romagna.
E questo risveglio della cultura
italiana si accompagnò con una rinascita del sentimento nazionale e
delle antiche tradizioni civiche. Venezia sorgeva allora nello
splendore della gioventù sotto il primo dei suoi grandi dogi, Pietro
Orseolo II, mentre persino uomini come Alberico e Crescenzio
tentavano di rievocare la memoria della passata grandezza di Roma.
Nelle città italiane le antiche
tradizioni di cultura laica vivevano ancora. Esse sole in tutto
l'Occidente possedevano ancora scuole dove i grammatici alimentavano
i vecchi ideali delle scuole classiche di retorica. Queste
producevano dotti come Liutprando di Cremona, Leone di Vercelli, e
Stefano e Gunzone di Novara, che in fatto d'erudizione rivaleggiavano
coi dotti monaci del Nord, e se li lasciavano di gran lunga alle
spalle quanto a prontezza d'ingegno e acerbità di lingua, come si
vede nella stupefacente epistola in cui Gunzone sommerge sotto un
torrente d'erudizione e d'impertinenze un disgraziato monaco di San
Gallo, che aveva osato criticare la sua grammatica. La continuità
degli influssi classici e persino pagani nella cultura italiana
appare anche dalla curiosa storia di Vilgardo, il grammatico di
.Ravenna, che fu un martire della fede nell'ispirazione letterale dei
sacri poeti Grazio, Virgilio e Giovenale; e prende una forma anche
più seducente nell'incantevole poesia O admirabile Veneris
idolum, composta da un ignoto scriba di Verona. Senza dubbio
questo non e se non uno degli aspetti della cultura italiana, che non
mancava certamente di clementi religiosi. Proprio questo poeta che ho
ricordato adesso fu altresì, secondo il Manitius, l'autore di O
Roma nobilis, classica espressione dell'ideale cristiano di Roma;
e il medesimo ideale ispira una notevole poesia sulla processione per
la festa dell'Ascensione - Sancta Maria quid est? - che risale
all'età di Ottone III ed è quasi l'unico prodotto letterario che
possediamo della cultura romana di quel tempo 174.
Tuttavia, come poi nel secolo XV, il
risveglio della cultura italiana e la sua totale indipendenza dal
Nord s'accompagnarono senza dubbio con un moto di decadenza religiosa
e di disordine morale. La Santa Sede s'era fatta schiava del
nepotismo e delle fazioni politiche, e aveva perduta la sua posizione
internazionale nella cristianità. La sua situazione si faceva tanto
più pericolosa, in quanto la Chiesa d'Oltralpe andava pervadendosi
dei nuovi ideali morali del movimento di riforma monastica e aveva
cominciato a riordinarsi per conto suo. Nel concilio di Saint-Basle
de Verzy, nel 991, i vescovi francesi dichiararono apertamente di
esser convinti della bancarotta del papato. "Da simili mostri
(come papa Giovanni XII o Bonifacio VII), rigonfi della loro
ignominia e nudi d'ogni dottrina umana o divina, gli innumerevoli
sacerdoti di Dio sparsi per il mondo, eminenti per la loro sapienza e
le loro virtù, dovranno legalmente dipendere? - domanda il loro
oratore, Arnoul d'Orleans. - Ci pare di assistere alla venuta
dell'Anticristo, poiché questa è la fine di cui parla l'apostolo,
non delle nazioni, ma delle Chiese" 175.
Se l'Italia fosse rimasta isolata
dall'Europa settentrionale, Roma avrebbe gravitato naturalmente verso
l'Impero bizantino, che era infatti la deliberata politica di
Alberico e di altri capi dell'aristocrazia romana, e ci sarebbe stato
un vero pericolo che il secolo XI vedesse uno scisma, non tra Roma e
Bisanzio, ma tra l'antico mondo mediterraneo e orientale e i giovani
popoli dell'Europa settentrionale. Questo pericolo tuttavia non poté
avverarsi. Il movimento riformatore settentrionale non si volse
contro il papato, come poi nel secolo XVI, ma gli divenne alleato e
cooperò con esso al rinnovamento della vita religiosa della
cristianità occidentale; e il primo rappresentante di questo moto
che occupasse il trono papale e preparasse la strada per la nuova era
fu quello stesso che aveva rappresentato il partito gallicano al
concilio di Saint-Basle e registrate le sue dichiarazioni antiromane,
Gerberto d'Aurillac.
Mutamento questo che non avrebbe mai
potuto avvenire se non fosse esistito l'Impero d'Occidente. Fu
l'avvento dell'Impero a scuotere il papato dal suo asservimento alle
fazioni locali, e a restituirlo all'Europa e a se stesso. È vero che
la restaurazione sulle prime non parve altro che un asservimento dei
papato a un principe tedesco invece che a un magnate locale.
Tuttavia, le nuove condizioni trasformarono irresistibilmente
l'orizzonte della politica imperiale e additarono scopi più vasti e
più universali. A poco a poco l'Impero perse il suo carattere
sassone e divenne una potenza internazionale. Ottone I sposò
l'italo-borgognona regina Adelaide, mentre il loro figlio Ottone II
divenne marito d'una principessa greca, Teofano, che portò con sé
in Occidente le tradizioni della corte imperiale bizantina. Cosi il
rampollo del loro matrimonio, Ottone III, riuniva nella sua persona
la duplice tradizione dell'Impero cristiano nella sua forma
carolingia e in quella bizantina. Da sua madre e dal greco-calabrese
Filagato egli ricevette l'influsso della più elevata cultura del
mondo bizantino, mentre il suo precettore Bernardo di Hildesheim, che
era a un tempo un dotto, un artista e un uomo di stato, rappresentava
quanto c'era di meglio nella tradizione carolingia del Nord. Inoltre,
Ottone III fu assai sensibile ai più elevali influssi spirituali del
tempo, come vediamo dalla sua personale amicizia con sant'Adalberto
di Praga e dai suoi rapporti coi maggiori asceti d'Italia, san
Romualdo e san Nilo.
Non c'è da stupire che, con un
carattere e un'educazione simili, Ottone III abbia concepito un
imperialismo più bizantino che germanico, e abbia dedicato la sua
vita a realizzarne le rivendicazioni e gli ideali universali. Fu
avendo lo sguardo fisso a questo scopo ch'egli interruppe una
tradizione secolare, per eleggere papa, invece di un membro del clero
romano, il suo giovane cugino Brunone. Ma non in Brunone, bensì in
Gerberto, il più dotto e brillante studioso del suo tempo, egli
trovò uno spirito veramente fraterno, capace a cooperare con lui
nell'opera della sua vita. Sinora egli era stato conscio
dell'inferiorità della cultura occidentale di fronte alla civiltà e
alla raffinatezza greca. Fu Gerberto a insegnargli che il vero erede
della tradizione romana era l'Occidente e non Bisanzio, e a
ispirargli il desiderio di recuperare l'antico retaggio.
Non
si creda in Italia - scriveva Gerberto - che soltanto la Grecia possa
vantare la romana potenza e la filosofia del suo imperatore. Nostro,
sì, nostro, è l'Impero romano! La sua forza e fondala sulla fertile
Italia, sulla popolosa Gallia e Germania e sugli intrepidi regni
degli Sciti. Nostro Angusto sei tu, o Cesare, imperatore dei Romani
che, uscito dal più nobile sangue della Grecia, superi i Greci in
potenza, domini i Romani per diritto ereditario e vinci entrambi in
sapienza e in eloquenza 176.
Di conseguenza, quando la morte
prematura di Brunone rese possibile a Gerberto di succedergli col
nome di Silvestro II, Ottone col suo aiuto si diede a mettere in atto
i progetti di rinnovare l'Impero e riportare Roma al posto che le
spettava come città imperiale e centro del mondo cristiano. È vero
che questo tentativo, e anche più le forme bizantine in cui
s'incarnò, ha suscitato le beffe dei moderni storici, che non ci
vedono se non una puerile mistificazione, ammantata in addobbi
bizantini 177.
Ma, in realtà, la politica di Ottone, per quanto priva di risultati
pratici, ebbe un significato storico ben maggiore di tutti i riusciti
maneggi dei politici del tempo, poiché segnò il sorgere di una
nuova coscienza europea. Tutte le forze che avevano contribuito a
formare l'unità dell'Europa medievale vi sono rappresentate: le
tradizioni bizantine e carolingie dell'Impero cristiano e
l'universalismo ecclesiastico del papato, gli ideali spirituali dei
riformatori monastici come san Nilo e san Romualdo, lo spirito
missionario di sant'Adalberto, l'umanesimo carolingio di Gerberto e
la devozione nazionale di italiani come Leone di Vercelli all'idea
romana. Cosi essa segna il punto in cui le tradizioni del passato
confluiscono e vanno sommerse nella nuova cultura dell'Occidente
medievale. Essa guarda indietro a sant'Agostino e a Giustiniano, e
innanzi, a Dante e al Rinascimento. È vero che l'ideale di Ottone
III, dell'Impero come comunità dei popoli cristiani governata dalle
concordi e interdipendenti autorità dell'imperatore e del papa, era
destinato a non attuarsi mai nella pratica; nondimeno, esso serbò
una specie d'esistenza ideale pari a quella di una forma platonica,
che di continuo doveva cercare una materiale realizzazione nella vita
della società medievale. Poiché l'ideale di Ottone III era
precisamente il medesimo che doveva ispirare il pensiero di Dante; e,
in tutti i secoli che seguirono, fornì una formula intelligibile in
cui l'unità culturale dell'Europa del Medioevo, trovò
un'espressione cosciente. Né fu così sterile di risultati pratici
come di solito si crede, perché i brevi anni del congiunto governo
di Ottone e di Gerberto videro nascere i nuovi popoli cristiani
dell'Europa orientale. Si deve alla loro azione, ispirata in parte
dalla devozione che Ottone portava alla memoria del suo amico boemo
sant'Adalberto, se i Polacchi e gli Ungari videro finire la loro
dipendenza dalla chiesa di stato tedesca e ricevettero
un'organizzazione ecclesiastica propria, condizione indispensabile
per l'indipendenza delle loro culture nazionali.
E questo fatto segna una modificazione
essenziale nella tradizione imperiale carolingia. L'unità della
cristianità non era più concepita come quella di un'autocrazia
imperialistica, una sorta di zarismo germanico, ma come una società
di liberi popoli sotto la presidenza del papa e dell'imperatore di
Roma. Fin allora convertirsi al cristianesimo voleva dire perdere
l'indipendenza politica e vedere distrutta la propria tradizione
nazionale. Per questo i Vendi e gli altri popoli baltici avevano
opposto una resistenza cosi ostinata alla Chiesa. Ma la fine del
secolo X vide la nascita di una nuova serie di stati cristiani, che
si stendevano dalla Scandinavia al Danubio. Il secolo XI vide la fine
del paganesimo nordico e l'incorporazione di tutta l'Europa
occidentale nella cristianità. E, nello stesso tempo, il lungo
inverno della "età oscura " volgeva al suo termine, e
dappertutto in Occidente si agitava una vita novella, si destavano
nuove forze sociali e spirituali, e la società occidentale emergeva
dall'ombra dell'Oriente e prendeva il suo posto come organismo
indipendente a fianco delle più antiche civiltà del mondo
orientale.
CONCLUSIONE
È impossibile tirare una netta linea
divisoria fra un periodo e l'altro, soprattutto nella storia di un
processo cosi vasto e complesso com'è la nascita di una civiltà, e
per conseguenza la data che ho scelto a segnare il termine di questa
scorsa è una faccenda di utilità pratica piuttosto che di
definizione scientifica. Ciò nonostante, e indubbio che il secolo XI
segnò un periodo decisivo nella storia europea, con la fine della
"età oscura " e l'apparizione della cultura occidentale. I
precedenti risvegli culturali del tempo di Giustiniano o di Carlo
Magno erano stati parziali e temporanei, ed erano stati seguiti da
periodi di declino, ciascuno dei quali era parso sul punto di ridurre
l'Europa a uno stadio di barbarie e di confusione anche peggiore di
quanti non ne avesse mai conosciuto.
Ma col secolo XI comincia un moto di
progresso che dura poi quasi senza interruzione fino ai tempi
moderni. Questo movimento si rivela con nuove forme di vita in ogni
campo di attività sociale, nel commercio, nella vita cittadinesca e
nell'organizzazione politica, come nella religione, nell'arte e nelle
lettere. Esso sta a fondamento del mondo moderno non soltanto perché
creò istituzioni che sarebbero rimaste tipiche della nostra cultura,
ma soprattutto perché formò quella società di popoli che, più di
ogni semplice unità geografica, è quanto chiamiamo "Europa".
Questa nuova civiltà tuttavia era
ancora ben lungi dall'abbracciare l'Europa tutta quanta, o per lo
meno tutta l'Europa occidentale. All'inizio del secolo XI l'Europa
era pur sempre suddivisa, come era stata per secoli, in quattro o
cinque diverse province culturali, fra le quali la cristianità
occidentale non sembrava affatto la più potente né la più
incivilita. C'era la cultura nordica dell'Europa nord-occidentale,
che giusto allora cominciava a divenire parte del mondo cristiano,
serbando tuttavia un'indipendente tradizione di cultura. Nel Sud
c'era la cultura occidentale musulmana della Spagna e dell'Africa
settentrionale, che in sostanza comprendeva l'intero bacino del
Mediterraneo occidentale. In Oriente, la cultura bizantina dominava i
Balcani e l'Egeo e aveva ancora presa in Occidente, attraverso
l'Italia meridionale, l'Adriatico e le città mercantili italiane,
come Venezia, Amalfi e Pisa; mentre più a nord, dal Mar Nero al Mar
Bianco e al Baltico, il mondo degli Slavi, dei Balli e dei popoli
ugro-finnici era tuttora in gran parte pagano e barbarico, per quanto
cominciassero a toccarlo influssi della cultura bizantina del Sud,
della cultura nordica della Scandinavia e della cultura musulmana
dell'Asia centrale e del Caspio.
Così quella cultura che consideriamo
come tipicamente occidentale ed europea era tutta racchiusa entro i
confini dell'antico impero carolingio, e aveva il suo centro negli
antichi territori franchi della Francia settentrionale e della
Germania occidentale. Nel secolo X, come abbiamo veduto, era
compressa da ogni lato e tendeva persino a contrarre le sue
frontiere. Ma il secolo XI vide la ripresa della marca e il rapido
espandersi in tutte le direzioni di questa cultura centrale del
continente. In Occidente la conquista normanna strappò l'Inghilterra
dalla sfera culturale nordica che per due secoli aveva minacciato di
assorbirla, e la incorporò alla società continentale; a
settentrione e a oriente questa medesima conquista ottenne a poco a
poco il predominio sugli Slavi occidentali e col suo influsso
culturale penetrò nella Scandinavia; mentre a Sud si pose con
l'energia dei crociati alla grande impresa di ritogliere il
Mediterraneo alla potenza islamica.
In questo modo i popoli dell'Impero
franco imposero la loro egemonia sociale e i loro ideali di cultura a
tutti i popoli circostanti, cosicché l'unità carolingia può senza
esagerazione venir considerata la base e il punto di partenza di
tutto quanto lo sviluppo della civiltà occidentale nel Medioevo. È
vero che l'Impero carolingio aveva da tempo perduto la sua unità, e
Francia e Germania si tacevano sempre più consapevoli delle loro
differenze nazionali. Entrambe, tuttavia, si volgevano indietro a
guardare alla medesima tradizione carolingia, e la loro cultura era
composta dei medesimi clementi, per quanto ne fosse diversa la
proporzione. Esse erano sempre, in essenza, il regno franco
occidentale e quello orientale, sebbene, come fratelli che prendono
da due diversi rami della famiglia, fossero più spesso consapevoli
delle differenze che non della somiglianza. Nei due casi, tuttavia,
la direzione spirituale fu privilegio delle regioni intermedie, di
quei territori dell'Impero che erano più latinizzati, e quelli della
Francia dove l'elemento germanico era più forte: la Francia
settentrionale, la Lorena e la Borgogna, le Fiandre e la valle del
Reno. Soprattutto, fu a capo del movimento di espansione la
Normandia, dove gli elementi nordici e quelli latini erano in più
reciso contrasto e a più immediato contatto.
Questo territorio mediano, che si
estendeva dalla Loira al Reno, fu la vera patria della cultura
medievale e la fonte delle sue creazioni caratteristiche. Esso fu la
culla dell'architettura gotica, delle grandi scuole medievali, del
movimento di riforma monastica ed ecclesiastica e dell'ideale delle
crociate. Fu il centro del tipico sviluppo dello stato feudale, del
movimento comunale nord-europeo e dell'istituto della cavalleria.
Fu qui che venne finalmente raggiunta
una completa sintesi del Nord germanico e dell'ordine spirituale
della Chiesa e delle tradizioni della cultura latina. L'età delle
crociate vide apparire un nuovo ideale etico e religioso, che
rappresenta la trasposizione in forme cristiane dell'antico ideale
eroico della cultura guerresca nordica. Nella Chanson de Roland
troviamo gli stessi sentimenti che ispiravano l'antica epica pagana :
la fedeltà del guerriero al suo signore, la gioia della guerra per
la guerra, e soprattutto la glorificazione della sconfitta onorevole.
Ma ora tutto ciò è subordinato al dovere di servire la cristianità
e messo a contatto con gli ideali cristiani. Il caparbio rifiuto di
Rolando di suonare il corno è interamente nella tradizione, della
vecchia poesia, ma nella scena della morte al posto dello sdegnoso
fatalismo degli eroi nordici come Hogni e Hamdis c'è l'atteggiamento
cristiano della sottomissione e del pentimento. "Verso la terra
di Spagna egli volse la faccia, sicché Carlo e tutto il suo esercito
potessero scorgere ch'era morto da valoroso vassallo con la faccia
rivolta al nemico. Poi si confessò, pieno di santo zelo, e levò il
suo guanto al cielo in pegno dei suoi peccati" 178.
È vero che l'ideale eroico aveva già
trovata un'espressione nella letteratura dei popoli cristiani,
soprattutto nel nobile lamento di Maldon con quei grandi versi: "La
mente sarà più risoluta, il cuore più indomito, il coraggio più
grande, via via che perderemo la forza". Ma qui per ora troviamo
ben poca traccia di sentimento cristiano 179.
Sopravvive intatta l'antica tradizione. Invero, per tutta la "età
oscura" la società occidentale fu caratterizzata da un dualismo
etico che corrispondeva a un dualismo culturale. C'era un ideale per
il guerriero e un altro ideale per il cristiano, e il primo
apparteneva ancora in ispirito al mondo barbarico del paganesimo
nordico. Solo nel secolo XI la società militare venne incorporata
nell'organismo spirituale del mondo cristiano sotto l'influsso
dell'ideale delle crociate. L'istituto della cavalleria è il simbolo
della fusione delle tradizioni nordiche e cristiane nell'unità
medievale, ed essa rimarrà tipica della società occidentale dal
tempo della Chanson de Roland sino al giorno in cui, durante il
passaggio della Sesia, nei tempi di Lutero e di Machiavelli, il suo
ultimo rappresentante, Baiardo, "il buon cavaliere", morirà
come Rolando col viso rivolto verso gli Spagnoli. Il Medioevo è
infatti l'epoca del cattolicesimo nordico, e durò solamente finche
durò l'alleanza tra il papato e il Nord: un'alleanza che era stata
inaugurata da Bonifacio e Pipino, e rassodata dall'opera del moto
settentrionale di riforma ecclesiastica nel secolo XI, moto ch'ebbe
la sua origine nella Lorena e nella Borgogna. Quest'alleanza fu
spezzata per la prima volta da un altro Bonifacio e da un altro re
dei Franchi, alla fine del secolo XIII, ma, sebbene dopo di allora
non si ricostituisse mai più interamente, tuttavia rimase la pietra
angolare dell'unità occidentale, sino a quando il papato non divenne
una potenza del tutto italiana e i popoli del Nord cessarono di
essere cattolici.
Ma, sebbene la cultura medievale fosse
la cultura del Settentrione cristiano, la sua faccia, come quella di
Rolando, era rivolta verso il Sud islamico, e non c'era terra dal
Tago all'Eufrate dove i guerrieri nordici non avessero versato il
loro sangue. Principi normanni regnavano in Sicilia e ad Antiochia,
principi lorenesi a Gerusalemme e a Edessa, principi borgognoni nel
Portogallo e ad Alene, principi fiamminghi a Costantinopoli; e i
ruderi dei loro castelli nel Peloponneso, in Cipro e in Siria,
testimoniano ancora della potenza e dell'iniziativa dei baroni
franchi.
Questo contatto con la superiore
civiltà del mondo islamico e bizantino ebbe un influsso decisivo
sull'Europa occidentale, e fu tra i più importanti clementi che
contribuirono allo sviluppo della cultura medievale. Esso si rivelò,
da una parte, nella formazione della nuova cultura aristocratica
cortigiana e della nuova letteratura dialettale, e, dall'altra,
nell'assimilazione della tradizione scientifica greco-araba e nella
formazione di una nuova cultura intellettuale d'Occidente180.
Questi influssi rimasero vivi finche non li arrestò la rinascita
della tradizione classica, che coincise con la conquista turca
dell'Oriente e la separazione dell'Europa occidentale dal mondo
islamico. Con la fine del Medioevo, l'Europa volse la schiena
all'Oriente e cominciò a guardare all'Atlantico.
Così l'unità medievale non era
duratura, perché fondata sull'unione della Chiesa e dei popoli
nordici con un lievito d'influssi orientali. Tuttavia, il suo
tramonto non significò la fine dell'unità europea. Al contrario, la
cultura occidentale divenne più autonoma, più autosufficiente e più
occidentale che mai. La perdita dell'unita spirituale non implicò la
separazione dell'Occidente in due unità culturali esclusive e
nemiche, come sarebbe certamente accaduto se essa fosse successa
quattro o cinque secoli prima. A dispetto della separazione
religiosa, l'Europa conservo la sua unità culturale, ma stavolta
fondata più su una tradizione intellettuale comune e una comune
fedeltà alla tradizione classica che non su una fede comune. La
grammatica latina prese il posto della liturgia latina come legame di
questa unità intellettuale, e il dotto e il gentiluomo presero il
posto del monaco e del cavaliere come figure rappresentative della
cultura occidentale. I quattro secoli di cattolicesimo nordico e
d'influsso orientale vennero seguiti da quattro secoli di umanesimo e
di autonomia occidentale. Nei nostri giorni l'Europa è minacciata
dalla fine della cultura aristocratica e laica su cui si fondava la
seconda fase della sua unità. Sentiamo di nuovo il bisogno di
un'unità spirituale o almeno morale. Siamo coscienti
dell'insufficienza di una cultura puramente umanistica e occidentale.
Non possiamo pili appagarci di una civiltà aristocratica, che trova
la sua unità in cose esteriori e superficiali, e trascura le
esigenze più profonde della natura spirituale dell'uomo.
E, nello stesso tempo, non abbiamo più
l'antica fiducia nell'innata superiorità della civiltà occidentale
e nel suo diritto a dominare il mondo.
Siamo consapevoli dei titoli delle
razze e delle culture soggette e sentiamo la necessità di una
protezione, contro le forze insorgenti del mondo orientale, come di
un più stretto contatto con le sue tradizioni spirituali. In che
modo queste necessità possano venire soddisfatte, o se sia possibile
soddisfarle, per ora lo possiamo soltanto congetturare. Ma è bene
ricordare che l'unità della nostra civiltà non poggia soltanto
sulla cultura laica e sul progresso materiale degli ultimi quattro
secoli. Ci sono in Europa tradizioni più profonde di queste; e
dobbiamo risalire oltre l'Umanesimo e i trionfi superficiali della
civiltà moderna, se vogliamo scoprire le fondamentali forze sociali
e spirituali che lavorarono alla formazione dell'Europa.
1
T. MOMMSEN, Romische Gcschichte, V, p. 102 della traduzione inglese
(London 1886).
2
Per esempio, la tesi di JOSEF STRZYGOWSKI nel suo Altai-Iran, e i
suoi libri più recenti.
3
Le truppe ausiliarie aggregate alla legione si reclutavano invece
fra la popolazione meno romanizzata delle province più lontane. Ma
erano anch'esse comandate da ufficiali romani e ricevevano la
cittadinanza al termine dei loro venticinque anni di servizio.
4
In Egitto l’artaba di grano, che nel secolo il valeva 7 od
8 dracme, non costava meno di 120.000 dracme al tempo di Diocleziano
(cfr. ROSTOVTZEFF, Social and Economic History of the Roman Empire,
Oxford 1926, p. 419).
5
ROSTOVTZEFF, Op. cit., cc. X e XI.
6
“ Journal of Egyptian Archaeology ", VI, p. 164.
7
MARC. AUR., I, 14.
8
Cfr. il passo di PRUDENZIO,
Contra Symmachum, II, 816-19: "La romanità differisce dalla
barbarie come un uomo differisce da un bruto, e quegli che ha la
favella dal mutolo, e il cristianesimo dal paganesimo ". Cfr.
anche la lettera di Gregorio Magno a Leonzio (Ep. XI, 4).
9
C'è tuttavia una notevole
eccezione, l'opera di SALVIAMO, De Gubernatione Dei, che condanna
inflessibilmente i vizi della società romana e fa persino
l'apologia dei barbari. C'era, come ho mostrato altrove, nel
cristianesimo dell'epoca una sotterranea corrente di ostilità
all'Impero romano e alla civiltà laica. Questa corrente raggiunge
la sua più forte espressione fra i donatisti, ma non è del tutto
assente dalle opere di sant'Agostino. Ctr.
A Monument to St Augustine, pp. 36 e 52-64.
10
Dumque offers victis proprii consortia jurisUrbem fecisti quod prius
orbis erat. RUTILIO N., Itìn., 63-
11
Haec est in gremio victos quae sola
recepit Humanumque genus communì nomine fovit.CLAUDIAN.,
De consulatu Stìlichonis, 150. Cfr. BOISSIER, La fin du Paganisme,
Paris 1891, II, pp. 137, 252.
12
Contra Symntachum, II, 578-636.
13
Qualis Berecyntia mater Invehitur curru
Phrygias turrita per urbes Laeta deum partu, centum complexa nepotes
Omnis caelicolas, omnis supera alta tenentis.
Acn., VI, 785.
15
Negli anni più recenti è stata dedicata un'attenzione particolare
ai Mandei o "cristiani di san. Giovanni" della Babilonia
meridionale, l'unica di queste sette che sia sopravvissuta fino ai
tempi moderni. Il Lidzbarski e il Reitzenstein hanno cercato di
dimostrare che questa setta era originariamente connessa agli Esseni
e ai discepoli di Giovanni Battista,
e che per conseguenza gli scritti mandei hanno somma importanza
per il problema delle origini cristiane. S. A. PALLIS, tuttavia,
ha mostrato (nei suoi Mandacan Studies, 1919) che le somiglianze col
giudaismo sono superficiali e di origine relativamente recente e il
mandeismo è nella sua essenza una setta gnostica che
successivamente, nell'epoca sassanide, cadde sotto l'influsso d'idee
zoroastriane. Egli respinge altresì la più antica teoria di Brandt
che lo strato fondamentale delle credenze mandee sia basato
sull'antica religione babilonese.
16
I Petr., II, 9.
17
Ciò è cosi chiaro, che Sohm si spinse
fino a considerare questa epistola come il punto di partenza della
concezione giuridica della Chiesa, che a suo parere sostituì
bruscamente la più antica concezione "carismatica". Ma,
come fa osservare Harnack, la concezione di una divina autorità
apostolica è antica quanto la Chiesa stessa e compare abbastanza
chiaramente nel decreto del concilio di Gerusalemme (Act., XV,
23-27).
18
I Clemente XX, XXXVII, XL-XLIV,
ecc.
19
"Con la sua [della chiesa dì Roma] tradizione e con la sua
fede annunciata agli uomini, a noi trasmessa dalla successione dei
vescovi, possiamo confondere tutti coloro che comunque, per
capriccio o per vanagloria o cecità o perversità d'animo, si
adunano dove non dovrebbero. A questa Chiesa, in ragione della sua
più antica origine, è necessario che tutte le chiese, vale a dire
i fedeli, da ogni parte facciano capo, dove la tradizione degli
Apostoli e sempre stata mantenuta da coloro che vengono da ogni
parte " (IREN., Adversus haereses, III, III).
L'espressione "propter potentiorem
principalitatem" che ho tradotto come "più antica
origine" è alquanto discussa. Spesso è stata tradotta come
"più potente comando" o come "autorità preminente"
(per esemplo, nella traduzione della Biblioteca Anti-Nicena, vol I,
p. 261). Ritengo quasi indubbio che principalitas significhi **** e
alluda alle origini della sede, come nel passo di Cipriano. Ep.,
LIX, 13, "navigare audent ad Petri cathedram et Ecclesiam
principalem unde unitas sacerdotalis exorta est", dove
"principalem" significa la chiesa originaria o
primitiva.È lo stesso argomento di cui Optato e sant'Agostino si
sarebbero serviti contro i Donatisti, come nei versi :
Numerate
sacerdotes vel ab ipsa Petri sede,
et
in ordine ilio patrum quis cui successit videte:
ipsa
est petra quam non vincunt superbae infernorum portae.
Psalmus c. partem Donat.
18.
20
II problema è stato discusso recentemente da Normali Baynes nella "
Raleigh Lecture " del 1929. Egli sostiene che il motivo
dominante della vita di Costantino fu la sua n convinzione di una
personale missione a lui affidata dal Dio cristiano ", ch'egli
" fini per identificarsi col cristianesimo, con la Chiesa
cristiana, e la fede cristiana "; e che credeva che la
prosperità dell'Impero fosse legata all'unità della Chiesa
cattolica. Così l'ideale bizantino di un Impero romano fondato
sulla fede ortodossa e congiunto alla Chiesa ortodossa ha la sua
origine nella visione di Costantino- Cfr. N. H. BAYNES, Costantine
the Great and the Christian Chnrch, in " Proceedings of the
British Academy ", XV (con note bibliografiche sull'argomento,
molto nutrite).
21
Oratio de laudibns Constantini, XVI.
22
Contra Celsum, III, 29, 30. Cfr. BATIFFOL,
L'Églìse naissante, c. VII.
23
Sant'IppoIito è l'ultimo cristiano romano che scriva in greco.
Novaziano alla metà del secolo III scrive già in latino, per
quanto il greco sia probabilmente durato come linguaggio liturgico
fino al secolo seguente.
24
Scrive il Harnack : "In tutti i casi fu un istituto politico,
inventato dal più grande dei politici, una spada a due tagli che
proteggeva la pericolante unità della Chiesa a prezzo della sua
indipendenza " (Lehrbuch der Dogmengeschichte, III, p. 127
della traduzione inglese).
25
Cfr. H. GELZER, Die Konzilien als Reichsparlamente in Ausgewahlte
keine Schrìften (1907). Egli sostiene che i concili
seguivano nella loro composizione e nelle forme procedurali il
precedente del Senato antico.
26
II padre Cabrol ha dimostrato come il ciclo liturgico si sviluppò
dalle cerimonie locali connesse coi luoghi santi, in Gerusalemme,
nel secolo IV. Le cerimonie della settimana santa a Roma erano
originariamente un'imitazione di questo ciclo locale, e il gruppo dì
chiese intorno al Laterano, Santa Maria Maggiore, Santa Croce in
Gerusalemme, Sant'Anastasia, ecc. in cui venivano eseguite queste
cerimonie, riproduceva i santuari dei Luoghi santi di Gerusalemme
(CABROL, La Origines liturgiques, Conf. VIII).
27
"Que l'on eut été bien inspiré,
si au lìeu de tant philosophcr sur la terminologie, d'opposer
l'union physiquc a l'union hypostatique. Ics deux natures qui n'en
font qu'une a l'unique hypostase qui rcgit Ics dcux natures, on se
fùt un peu plus preoccupé de choses moins sublimes et bien
autrement vitales. On alambiquait l'unite du Christ, un mystère; on
sacrifiait l'unite de l'Eglise, un devoir "
(L. DUCHESNE, Églises séparées, p. 57).
28
L'arretratezza e l'isolamento dell'Occidente in fatto di teologia
appaiono da questo, che sant'Ilario stesso ammette di non aver mai
sentito parlare del Credo niceno fino all'epoca del suo esilio nel
356 (De Synodis, 91).
29
Possiamo anche ricordare l'introduzione in Occidente, fatta da
Ilario e Ambrogio, della poesia liturgica.
30
La lettera ci è conservata in greco da ATHANAS., Historia
Arianorum, 44. Seguo la versione francese del Tillemont in Mémoires,
VII, p. 313.
31
Contra Costantium imperatorem, 5.
32
De Fide, II, XVI, 136, 142.
33
AMBROS., Ep., XXIV, 4, 5.
34
Cfr. intera la sua orazione in lode dì Costantino. Egli scrive, ad
esempio: "Permetti che ti esponga, vittorioso e potente
Costantino, qualcuno dei misteri della Sua santa verità; non perché
presuma d'istruire te che sei direttamente istruito da Dio, né di
svelarti quelle segrete meraviglie che Egli Stesso, non per mezzo né
per opera umana ma attraverso il nostro comune Redentore e la luce
frequente della Sua Divina presenza, ha da tempo rivelato e aperto
alla tua vista; ma nella speranza di guidare gli indotti alla luce
della verità e chiarire, davanti a coloro che non le conoscono, le
cause e i motivi delle tue pie azioni". Cap. XI.
35
AMBROS., Ep., LI, 11.
36
Dogmengeschichte, III, p. 226 della traduzione inglese. Egli poi
continua: “Tuttavia questo alone non fu abbastanza splendido da
rivestire il suo possessore di un'autorità ìndiscutibile.
Piuttosto, fu cosi nebuloso che era possibile non farne caso senza
andar centro allo spirito della Chiesa universale ". Gli
storici ecclesiastici greci, Socrate e Sozomene, entrambi laici e
uomini di legge, sono testimoni imparziali della posizione accordata
a Costantinopoli alla sede romana nel secolo V, secondo quanto
rileva Harnack (ibid., n. 2), Cfr. BATIFFOL, Le Siege apostolique,
pp. 411-16.
37
Sat., XV, 110-12.
38
Quest'ideale di un'educazione liberale data dal tempo dei sofisti
stessi, specialmente di Ippia di Elide, ma fu soltanto al tempo di
Marziano Capella e degli scrittori del Basso Impero che venne
definitivamente fissato il numero delle, arti liberali. La
suddivisione fra trivio e quadrivio è ancora posteriore, e dovuta
probabilmente alla Rinascenza carolingia. D'altra parte, l'idea
medievale delle arti liberali come essenzialmente propedeutiche - in
preparazione della teologia - è molto antica, dato che risale a
Posidonio e Filone, dai quali passò ai dotti cristiani di
Alessandria. Cfr. NORDEN, Die antike Kunstprosa,
pp. 670-79.
39
I Coritnth., I, 20-27.
40
TERTULL., De testimonio animae, I.
41
AUGUST., Ep., XVI.
42
Philocalia, XIII, I.
43
GREGOR. TAUM., Oratio prosphonetica ac panegyrica in Origenem, XIII.
44
Dialogus de claris oratoribus, 30.
45
Ep., XXII. Cfr. RUFIN., Apol., II, 6, e la risposta di san
Gerolamo, Apol., I, 30-31, III, 32.
46
Dalla prefazione alle Hebraicae Quaestiones In Genesim, app. P., p.
105. “Se un uomo come Cicerone - dice, - non ha potuto sfuggire
alle critiche, quale meraviglia se i sozzi porci grugniscono contro
un poveretto come me!"
47
RUFIN., Apol., II, 8.
48
Per esempio Erasmo parla di Gerolamo come di "quell'uomo
celeste, di tutti i cristiani senza discussione il più dotto e il
più eloquente... Quale ammasso non c'è nelle sue opere di
antichità, di letteratura greca, di storia! Eppoi, quale stile!
Quale padronanza della lingua, dove si lascia di gran lunga alle
spalle non solo tutti gli autori cristiani, ma sembra gareggiare con
Cicerone stesso" (Ep., 134). Come gli umanisti, Gerolamo mette
alla berlina i suoi avversari con soprannomi tratti dalla
letteratura classica. Rufino è Luscio Lavinio o Calpurnio Lanario
(da Sallustio), Pelagio e i suoi sostenitori sono Catilina e
Lentulo. Nella lite famosa fra Poggio e Francesco Filelfo,
quest'ultimo si richiamò effettivamente ai precedenti di Gerolamo e
Rufino, per giustificare la violenza delle sue invettive.
49
Peristephanon, II, 433
50
Ibid., 517.
51
Peristephanon, IV, 196.
52
Sermo, 141.
53
Cfr. per esempio, De Trinitate, VIII, 5
54
AUGUST., Confessiones, V, III. Cfr. ibid., X, xxxv.
55
II Macalister scrive: "Un tuath era una comunità, non
necessariamente unita da legami di sangue, e perciò non designabile
come tribù, che e sempre termine equivoco dovunque sia usato in
riferimento all'Irlanda celtica “ (The Archaeology of Ireland, p.
25). Ma, come abbiamo già detto, la tribù non è necessariamente
un tutto familiare. Nella maggioranza dei casi essa consiste, come
in Irlanda, di un certo numero di questi gruppi o sette.
56
L'importanza dell'elemento celtico nella Dacia e nelle terre
danubiane e ben dimostrata dal Parvan (V. PARVAN, Dacia, cap. IV,
Carpatho-Danubiani and Celts).
57
II Parvan (pp. cit., p. 166) insiste in modo particolare sulla
cooperazione di elementi celtici e romani nella cultura dell'Impero
nell'Europa centrale. "Ancora una volta una grande unità
celtica traversante l'Italia settentrionale fece la sua comparsa in
Europa, ma stavolta il vantaggio fu di Roma, Da Lugdunum in Gallia a
Sirmio presso la foce del Tibisco, noi vediamo un mondo intero
servirsi di un'unica grande linea di comunicazione alla quale
convergono tutte le altre strade sia dal Reno e dal Danubio celtici
che dall'Italia latina. Ciascun paese traversato da questa via
poderosa tanto più fioriva, in quanto partecipava della prosperità
del tutto".
58
SHETELIG, Prehistoìre de la Norvege, Oslo 1926, pp. 154-59.
59
Cfr. M. ROSTOVTZEFP, Iranians and Greeks in South Russia, Oxford
1922.
60
Recenti scrittori continentali, come DOPSCH (Grundlagen, I, pp.
341-45), Schumacher (III, p. 275, ecc., pp. 351-56), vorrebbero far
derivare il Hufe germanico (ingl. hide), dalla sors del colono
romano, la quale consisteva in appezzamenti separati di terra
coltivabile, con diritto di pascolo e di uso comune,
61
Le tombe sarmatiche contengono persino suppellettili di origine
cinese, come else di giada e, in un caso, anche uno specchio di
bronzo.
62
I Romani avevano già cominciato a riconoscere l'importanza della
cavalleria pesante. Costanzo II nel 351 andò debitore della sua
vittoria di Mursa ai suoi corazzieri, i " catafratti ".
63
Cfr. C. JULLIAN, Histoire de la Gaule, VII, cap. VII.
64
Ep., 123, 15-16.
65
OROSIO, VII, 48.
66
GREG. TUR., II, 37.
67
THURLOW LEEDS, Archaelogy of Anglo-Saxon Setllements, pp. 58 ecc., e
R. SMITH,
Guide to Anglo-Saxon Antiquities, pp. 25 e 34.
68
Questo parallelismo è discusso con abbondanza di note
bibliografiche da E. KORNEMANN, in GERCKE e NORDEN, vol. III (Die
ròmìsche Kaìserseit, appendice 4, Nuova Roma e Nuova Persia).
69
Si è trovata argenteria bizantina, che risale al secolo VI, a Perm
nella Russia orientale.
70
La vita di san Giovanni Elemosinario, scritta da Leonzio di
Neapolis, menziona il caso di una nave frumentaria che nei primi
anni del secolo VII venne sospinta a occidente fino in Britannia,
donde ritornò con un carico di stagno.
71
Questi erano così numerosi che Ammiano Marcellino si lagna che il
servizio imperiale dei trasporti fosse completamente disorganizzato
a causa delle schiere di vescovi che viaggiavano per ogni dove sui
mezzi di trasporto governativi (AMM. MARCELL., XXI, 16, 18).
72
Codex Theodosianus, XVI, I, 2.
73
La diocesi civile era un gruppo di province sottoposte a un vicario.
Delle cinque diocesi dell'Oriente, l'Egitto con cinque province
corrisponde al Patriarcato di Alessandria, l'Oriente con quindici
province al Patriarcato di Antiochia, mentre l'Asia il Ponto e la
Tracia con un totale di ventotto province vennero in definitiva a
formare il Patriarcato di Costantinopoli.
74
Per esempio, i Dionysiaca di Nonno di Panopoli (secolo V); il Ratto
di Elena di Colluto di Licopoli (secolo VI); l’Ero e Leandro di
Museo, e i perduti poemi epici di Trofiodoro.
75
Le Systeme du Monde, Paris 1913, capp. V e VI; II, cap. X,
ecc.
76
Per esempio, i versi di Agatia e Teetcto Scolastico su Priapo
all'Ancoraggio, Anth. Pal., X, 14 e 16, e la dedica a Pan, di
Agatia, Anth. Pal., VI, 79.
77
Egli influì persino l'Occidente attraverso primitive cronache
medievali come il Chronìcon Palatinum del secolo VIII. Cfr.
KRUMBACHER, op. cit., pp. 327-31.
78
Syrìac Documents in Ante-Nicene Christian Library, vol. XX, p. 129.
79
Syriac Documents, p. 114.
80
Op, cit, p. 12l,
81
I parabolani originariamente erano lana sorta di ambulanza cui
spettava di occuparsi dei malati e degli appestati. Ma essi
giustificavano il proprio titolo - " gli ardimentosi " o "
i temerari "- facendo da caporioni alla plebe di Alessandria in
ogni subbuglio religioso, e riuscivano una fonte costante di
preoccupazioni per l'autorità civile. Cfr. Codex Theodosianus, XVI,
2.
82
Certi storici moderni, come E. Schwartz, tendono a esagerare il
motivo politico nella condotta di Atanasio e dipingerlo soprattutto
come un ambizioso gerarca. Ma non c'è dubbio ch'egli trovò il suo
più potente alleato nel sentimento nazionale del popolino egiziano.
Come scrive il Duchesne, " tout
ce que l'Egypte comptait d'honnétes gens était pour lui. C'etait
le defenseur de la foi, le pape legitime, le pere commun; c'etait
aussi, grande recommandation, l'ennemi, la victime du
gouvernement... Sauf quelques dissidents qui ne se montraient que
derriere les uniformes, la population etait centierement a ses
ordres " (Histoire ancienne de
l'Èglise, II, p. 268).
83
The Rhythms of Ephrem the Syrian, traduzione inglese di J. Morris
nella Oxford Library
of the Fathers, pp. 102, 95, 87.
84
Sulle origini di questa civiltà araba meridionale, cfr. il mio Age
of the Gods (1928), pp. 78-79, 115-16, 410.
85
Cfr. Sura, IX, 90-105. Per esempio, "Gli Arabi del
deserto sono ostinatissimi nell'incredulità e nella dissimulazione,
e non si può credere che saranno mai consapevoli delle leggi che
Iddio ha mandato dall'alto al suo apostolo".
86
Citato in BKOWNE, History of Persian Literature, I, 188-89.
87
Sura, IX, 102.
88
Gli Isaurici (717-802) erano oriundi di Germanicea, nella Commagene.
89
Fra il 685 e il 741 ci furono cinque papi siriaci: Giovanni V,
Sergio I, Sisinnio, Costantino c Gregorio III.
90
Ibn Hazm (994-1064), che come Spagnolo è parziale per la famiglia
ommiade, scrive quanto segue; "Gli Ommiadi erano una dinastia
araba, non avevano residenze né cittadelle fortificate; ciascuno di
loro abitava la sua villa dove viveva prima di diventare califfo;
non si compiacevano che i musulmani rivolgessero loro la parola come
gli schiavi al padrone, né baciassero il terreno davanti a loro, o
i loro piedi... Gli Abbasidi, al contrario, erano una dinastia
persiana sotto la quale il sistema arabo delle tribù, come l'aveva
regolato Ornar, andò in pezzi; i Persiani del Khorasan furono i
veri padroni e il governo divenne dispotico come ai tempi di Khusraw
", Citato da DE GOEJE nell’Encyclopaedia Britannica 11, V, p.
426.
91
VON KREMER, Kulturgeschichtliche Streifzuge, pp. 41-42, citato da E.
G. BROWNE, History of Persian Literature, I, 307.
92
Era noto all'Europa medievale sotto il nome di Johannitius, e la sua
introduzione a Galeno fu uno dei primi libri arabi tradotti in
latino.
93
Gli autori del Liber Trium Fratrum, tradotto da Gherardo di Cremona.
94
II suo trattato di algebra venne tradotto da Roberto di Chester nel
1145, mentre la traduzione della sua opera aritmetica Algorismi de
numeris Indorum è dovuta probabilmente ad Adelardo di Bath. Le sue
tavole astronomiche, le tavole khorasmiane (trad. nel 1126), furono
anch'esse di grande importanza nello sviluppo della scienza
medievale.
95
La sua introduzione all'astronomia. De scientia astrorum, fu
tradotta da Platone di Tivoli nel 1116. Da lui l'Occidente derivò
anche le sue prime nozioni di trigonometria.
96
I suoi saggi sono come i modelli fissi delle scuole classiche di
retorica: perorazioni o dispute immaginarie su argomenti quali la
superiorità dei negri sui bianchi o la controversia tra l'autunno e
la primavera. Tanto la Retorica quanto la Poetica di Aristotele
erano note agli Arabi.
97
DUHEM) Le système du Monde, IV, p. 314.
98
CARRA de VAUX, Les Penseurs de l'islam, Paris 1921, II, pp. 145-46.
99
Salamìa, presso Homs.
100
Secondo la dottrina drusa, l'abitudine di al-Hakim di cavalcare un
asino, caratterizza il suo rapporto con le precedenti rivelazioni.
L'asino rappresenta i " parlanti " o Profeti dei messaggi
anteriori!
101
BKOWNE, Literary History of Persia, II, 235.
102
DIETERICI, Die Aiihandliiiigen ier ì^ivcin es-SaId in Aiiswahi,
Lcipxig 1883-86, spec. pp. 594-96, cit. da CAIRA DE VAUX, Lei
penseurs de l'islam, IV, 102-15. Cfr.
DIETERICI. Die Philosophie der Araber im IX. ti. X. ]ahrhundert,
Leipzig 1865-70, VIIT, pp. 85-115.
103
Dobbiamo far eccezione per Teofilo, l'ultimo degli imperatori
iconoclasti, che dimostrò un genuino interesse per l'arte e la
cultura e fu il protettore di due dotti iconoclasti, Leone di
Tessalonica e suo fratello il patriarca Giovanni.
104
Nello stesso tempo l'eresia pauliciana penetrò fra i Bulgari
attraverso i coloni armeni dei dintorni di Filippopoli, e diede
origine alla setta slava dei Bogomily. Si diffuse rapidamente per
tutti i Balcani, specialmente in Bosnia, dove divenne per qualche
tempo la religione nazionale; e cosi pure in Russia (fin dal 1004),
e più tardi nell'Europa occidentale.
105
È giusto, dicevano, che nella Chiesa le cose segnano il corso del
sole, e che entrambi abbiano origine nella stessa parte del mondo
dove Iddio stesso si degnò di rivelarsi in forma umana. S. GREG.
NAZ.| Carmen de vita sua, vv. 1690-93.
106
Per esempio, gli scismi ariani, 343-98; quello intorno a san
Giovanni Crisostomo, 404-15, lo scisma acaciano, 484-519; il
monotelismo, 640-81; l'iconoclastia, 726-87 e 815-43. Cosi i germi
del contrasto non si trovano né nel secolo XI né nel IX, ma
addirittura nel tempo della controversia ariana, "quella guerra
abominevole e fratricida che - come scrive il Duchesne - divise
tutta la cristianità, dalla Spagna all'Arabia, e terminò dopo
sessant'anni di scandalo, soltanto per lasciare alle generazioni
venture i germi di scismi di cui la Chiesa sente tuttora gli
effetti" (Htstoire ancienne de l'Église, II, 157).
107
Un esempio ancora più eccessivo di quest'insistenza su punti del
rituale si trova nella rubrica che appare nelle edizioni antiche del
Triodion quaresimale della domenica prima della Settuagesima, "In
questo giorno i tre volte maledetti Armeni osservano il loro
disgustoso digiuno che chiamano Artziburion. Ma noi mangiamo ogni
giorno uova e formaggio, in confutazione della loro eresia" (N.
NILLES, Kalendarium Utriusque Ecclesiae, II, p. 8). La stessa
tendenza caratterizzò nei tempi moderni la Chiesa russa, e la
massima crisi di questa nacque dalle riforme liturgiche del
patriarca Nikon.
108
Lungi dall'appoggiare il movimento riformatore nella Chiesa
orientale, il papato fu in parte responsabile della nomina del
patriarca fanciullo Teofilatto, che fu uno degli episodi più
disonorevoli in tutta la storia della chiesa bizantina del secolo X.
109
Per esempio, i patriarchi Fozio, Taraslo (784-806), Sisinio (996-98)
e Io stesso Michele Cerulario
110
Ep., X, 20.
111
Hom. in Esech., II, VI, 22-23. Cfr. la lettera di san
Colombano a papa Bonifacio IV (Ep., V). 12.
112
Largior existens angusto in tempore praesul Despexit mundo
deficiente premi.
113
" La teoria agostiniana della Civitas Dei era in germe quella
del papato medievale senza il nome di Roma. Ma in Roma era facile
fare l'aggiunta e concepire un dominio, che ancora veniva esercitato
dall'antica sede del governo, come mondiale e quasi altrettanto
autorevole come quello dell'Impero. Il retaggio delle tradizioni
imperiali di Roma, abbandonato dal ritiro del monarca secolare,
cadde per così dire sulle ginocchia del vescovo cristiano "
(C. H. TURNER in Cambridge Medieval History, I, p. 173).
114
S. LEON. MAG., Sermones, 82. Cfr. PROSPER., De Ingratis, pp. 51 sgg.
Cosi Colombano contrappone il più vasto dominio della Roma
cristiana a quello dell'Impero pagano. "Noi irlandesi, -
scrive, - siamo specialmente legati alla Sede di Pietro, e per
quanto grande e gloriosa possa essere Roma, solamente questa Sede
per noi è grande e famosa. La fama della grande città venne sparsa
lontano sul resto del mondo ma giunse a noi soltanto quando il carro
della Chiesa valicò le onde occidentali con Cristo per auriga e
Pietro e Paolo come celeri corsieri". Epistola a papa Bonifacio
(Ep., V).
115
Ci fu pure una corrente d'influsso straniero, derivata dalla
fondazione di Witherne nel Galloway da parte di san Ninian, e
rappresentata in Irlanda da sant'Enda di Aran; ma per importanza
essa è secondaria rispetto alla tradizione di Liancarvan e Clonard.
116
RYAN, Irish monasticism, pp. 170-04. Tanto singolare era la
posizione tenuta da santa Brigida che certe leggende giunsero al
punto di asserire che essa stessa aveva ricevuto la consacrazione
episcopale!
117
Ci sono anche prove elle esistevano vescovi non monastici di tribù,
poiché pare che le leggi constatino che ogni tuath deve possedere
un vescovo suo proprio, il quale occupa il secondo posto dopo il re
(RYAN, op. cit., p. 300, n. 2). Questi vescovati dei tuath furono
l'origine delle successive sedi episcopali irlandesi del Medioevo,
ma nei tempi primitivi erano assai meno importanti delle grandi
giurisdizioni monastiche, e la loro automa era indebolita
dall'esistenza dei numerosi vescovi erranti, come quelli di cui si
lagna dal continente san Bonifacio nel secolo VIII.
118
JONAS, Vita Colombani, I, 17.
119
Qualche volta, in Bretagna, lo stesso menhir venne
cristianizzato con l'aggiunta di una piccola croce.
120
citazione del Grisar (op. cit., III, 285) dal Sacramentario Leonino.
Il Grisar indica altresì la notevole coincidenza fra il passo
d'Isaia della messa per il Mercoledì delle Ceneri dell'Avvento e i
versi di Ovidio a Cerere nella ricorrenza delle feriae sementivae
(Fasti, I, v. 597).
121
Un notevolissimo esempio della sopravvivenza in veste cristiana
dell'antica cerimonia magica per la fertilità ci è stato
conservato in un complicato incantesimo anglo-sassone per la terra
sterile. Si canta la messa su quattro zolle prese dai quattro angoli
del campo, si pone incenso e Sale benedetto sull'aratro, e
tracciando il primo solco l'aratore ripete la seguente invocazione
alla Dea Madre:
Salute,
Terra, madre degli uomini.
Sii
Fruttifera nell'abbraccio di Dio
ricco
di cibo per l'uso degli uomini.
Cfr. GORDON, Anglo-Saxon
Poetry (Everyman's Library), pp. P 98-100.
122
Secondo il padre Chapman, san Benedetto compose la sua Regola come
codice ufficiale per il monachesimo dell'Occidente su suggerimento
di papa Ormisda e di Dionisio Esiguo; egli vede tracce del suo
influsso nella legislazione rnonastica di Giustiniano (Novella) e
negli scritti di Cassiodoro. Quest'opinione, tuttavia, implica serie
difficoltà. Ctr. CHAPMAN, St. Benedict and the Sixth Century
(1929), e le critiche del padre Cabrol nella " Dublin Review “,
luglio 1930.
123
È l'opinione di BRONDSTED, Early English Ornament, p. 92. Baldwin
Brown, d'altra parte, attribuisce il Vangelo di Lindisfarne alla
nativa forza creativa degli Angli.
124
Si veda, per esempio, il seguente passaggio del Vagabondo: "Così
il Creatore degli uomini desolò questa terra, fin che l'opera
antica dei giganti non fu vuotata, libera dalle orge degli abitatori
dei castelli. E allora colui che ha pensato con saggezza ai
fondamenti delle cose, e che medita a fondo questa vita tenebrosa,
nella saggezza del suo cuore spesso volge i pensieri a tante stragi
del passato e dice queste parole: "Dove è andato il cavallo?
Dove è andato il cavaliere? Dove è andato il dispensatore dei
tesori; dove il luogo del banchetto? Dove sono le gioie della sala?
Ahimè la coppa lucente! Ahimè il guerriero con la sua corazza!
Ahimè la gloria del principe! Tutto quel tempo è dileguato,
oscurandosi sotto l'ombra della notte, come se non fosse mai
esistito". GORDON, op. cit., p. 82. Cir.
anche La Rovina, Deor, II Navigatore, ecc.
125
R, G. COLLINGWOOD, Roman Britain, Oxford 1923, p. 101.
126
Cfr. THURLOW LEEDS, Tfìe Archeology of the anglo-Saxon Settlements,
pp. 70-71.
127
Epistola ad Egbertum. I monasteri laici dei quali parla Beda in
questa lettera può darsi siano stati un'istituzione celtica, ma
erano anche comuni nella Spagna del secolo VI, e san Fruttuoso di
Braga vi fa allusione nella sua regola monastica.
128
Cfr. W. BRAUNE, Angelsuchsich und Altochecdeusch, in “Beitrage sur
Geschichte der deutschen Sprache " ed. da Paul e Braune, XLIII
(1918), Pp.
361-445
129
Abbreviato da Ep., XL1X (a papa Zaccana).
130
libri Carolini. I, I, 3; II, II, 19; III, TS, ecc. Alcuino, Ep.,
198, ecc. Egli scrive che ci sono al mondo tre poteri supremi: il
papato di Roma, l'Impero di Costantinopoli e la dignità regale di
Carlo, e dei tre l'ultimo e il più alto, poiché Carlo è designato
da Cristo come capo del popolo cristiano. (Cfr.
Cambridge Medieval History, II, 617). In accordo con queste
idee Alcuino sostituì imperium christianum a Romanorum nella sua
revisione dei libri liturgici.
131
Sotto i Carolingi la Capella divenne una specie di Santo Sinodo
prendendo altresì una parte molto importante nell'amministrazione
secolare. La Capella era originariamente il corpo di ecclesiastici
che vigilavano il mantello (capa) di san Martino, il palladio del
regno franco, e che per conseguenza avevano una funzione che li
avvicinava molto alla Corte.
132
FUSTEL DE COULANGES, Les transformations de la royauté franque, p.
588.
133
Quest'atteggiamento venne mantenuto da Carlo anche negli ultimi
anni, e ripreso poi dal suo successore Ludovico il Pio, che negli
anni 824-25 cercò di fare da mediatore tra l'Impero bizantino e il
papato. Ancora nel 870 Incmaro ripudiava il secondo concilio di
Nicea e considerava ecumenico e ortodosso il concilio di
Francoforte.
134
I grandi dotti del periodo carolingio furono tutti, eccettuati
Alcuino e Teodulfo, o monaci o allievi di Fulda, per esempio,
Eginardo, Rabano Mauro, che fu abate dall'822-42, e i suoi allievi,
Valafrido Strabone e Servato Lupo.
135
Fulda, per esempio, era in gran parte una colonia anglosassone e la
scuola dei copisti, una delle più importanti di tutto il
continente, usava ancora una scrittura insulare di tipo inglese.
136
Basiliche cosiffatte erano già state costruite in Inghilterra da
Viltrido e da Benedetto Biscop, ed erano il tipo normale di chiesa
nella Gallia merovingica.
137
Cfr. A. GOLDSCHMIDT, German illumination (Carolingian Period), pp.
7-10.
138
Sed togala quiritum more seu trabeata latinitas suum Latium in ipso
latiali palatio
singulariter obtinebat (JOHANN.
DIACON., Vita Gregorii, II, 13, 14). Cfr. I. H.
DUDDEN, Gregory
the Great, I, 283,
Subdita nunc servs heu male Roma ruis.
Deseruere tui tanto te tempore reges
Cessit et ad Graecos nomen honosque tuus.
In te nobilium rectorum nemo remansit
Ingenuique tui rura Pelasga colunt.
Vulgus ab extremis distractum fartibus
orbis
Servorum servi nunc tibi sunt domini.
…………………………………………
Cfr. Poetae Aevi Carolini, ed. Traube, III,
555.
140
Cfr. BERLIERE, L'Ordre monastique, pp, 103-6 e note.
141
Nella famosa Cronaca di San Gallo scritta da Eccardo IV (secolo XI),
possediamo un quadro molto vivace della vita sociale e intellettuale
di una grande abbazia durante questo periodo. Essa ci mostra che
l'abbazia e la sua scuola erano all'apice della loro prosperità
proprio nell'epoca in cui le condizioni dell'Europa occidentale
presa nel suo insieme volgevano al peggio, cioè dall'892 al 920.
142
Anglo-Saxon Poetry (trad. R. K. Gordon), p. 4.
143
A. OLRIK, Vìkinig Civilization, pp. 102-3.
144
Dobbiamo tuttavia ricordare che nell'epoca vichinga non si
considerava dio dei contadini Freyz, ma il bellicoso Thor.
145
Lo storico dei Normanni, Dudone, attribuisce il movimento vichingo a
una crisi di sovrapopolazione, causata dall'uso della poligamia. Non
c'è dubbio che ciò ebbe un certo influsso, come vediamo
nell'episodio della lotta tra Erik Ascia-di-Sangue e gli altri figli
di Haràld I, ma la cosa si limitava alla classe governante dei re e
dei capi, dalla quale si traevano solitamente i condottieri
vichinghi.
146
H. SHETELIG, Prèhistoire de Norvege, pp. 183-88.
147
La Danimarca aveva già accettato il cristianesimo durante il regno
di Harald II Dentazzurro (950-86), che segnò altresì la creazione
di uno stato danese poderoso e unito.
148
L'Olrik scrive: "Considerato nel suo insieme, quest'elemento
irlandese nella cultura scandinava è un fenomeno a sé, che non
coincide con la principale corrente del movimento cristiano che
traversa l'Europa. Esso appare più come un arricchimento e
un'espansione di un nativo stadio nordeuropeo della civiltà che non
come un elemento della nuova tendenza che accompagna l'avvento del
cristianesimo. In quanto spazzò via qualcosa del vecchio retaggio,
questa tendenza avrebbe potuto far breccia e aprire la strada alla
nuova grande corrente; e inoltre certi impulsi cristiani emanarono
proprio dall'Irlanda. Ma in grado per lo meno uguale quest'influsso
irlandese contribuì a produrre una speciale civiltà, che in certo
modo impedì il rapido assorbimento del Nord nell'Europa cristiana"
(OLRIK, Viking Civilisation, p. 120).
149
Are Thorgikson scrive di Helge: "La sua fede era molto
composita. Egli nutriva fiducia in Cristo e trasse da lui il nome
della propria casata, eppure soleva pregare Thor nel caso di viaggi
marittimi, in gravi strette e in tutte quelle cose che riteneva per
sé di maggior momento" (Landnamabok III, XIV, 3).
150
Cfr. l'indice del primo volume delle Origina islandicae, nel quale
tutti i nomi celtici sono segnati con un asterisco.
151
Cfr. OLRIX, op. cit., pp. 107-20, dove l'autore da un'esposizione
generale dell'influsso irlandese sulla letteratura scandinava,
influsso che egli considera indiscutibile nel caso delle saghe, e
probabile tanto per la poesia eroica successiva quanto per la nuova
"poesia di corte" degli scaldi. È vero che la poesia
scaldica ha i suoi inizi nella Norvegia occidentale, ma, come
osserva l'Olrik, "il primo scaldo conosciuto, Bragi Boddason,
aveva una moglie irlandese e adopera almeno una parola irlandese nel
suo Ragnarsdrapar", mentre il suo sistema di rime richiama
quello della poesia irlandese {op. cif, p. 120).
152
Un tempo era l'età quando viveva Ymir;
né
mare né onde fresche né sabbia esisteva;
terra
non c'era né cielo in alto
ma
un abisso spalancato e in nessun luogo l'erba.
Il
sole, fratello della luna, dal sud
allungava
la destra sull'orlo del cielo;
e
non sapeva affatto dove avrebbe abitato,
la
luna non sapeva quale fosse la sua forza,
le
stelle non sapevano dove dovevano stare.
153
2 Cfr. W. P. KER, The Dark Ages, p. 240.
154
Cfr. B. S. Phillpotts, Edda and Saga, p. 137.
155
Ecco le strofe conclusive in cui Egil trova nel pensiero della sua
arte un conforto alle sue sventure. Gli epiteti dei primi versi si
riferiscono a Odino.
La
sorella del Lupo è Hel, dea
Non
adoro dunque il Fratello di Vilir,
il
Dio Altissimo, di mia volontà.
Pure
l'amico di Mimir mi ha concesso
del
bene nella disgrazia, che e meglio, penso.
La
mia Arte mi diede, il Dio delle Battaglie,
grande
nemico di Fenrir, un dono incomparabile,
e
quel carattere che tuttavia mi ha fatto
grandi
nemici fra i disonesti.
Ora
tutto è difficile. La giusta sorella del Lupo
-
Nemici del Padre di Tutto - attende sul promontorio.
Pure
sarò contento, con buona volontà
e
senza rimpianto, aspetterò che Hel venga.
Cfr. E. R. EDDISON, Egils Saga, p. 193.
156
W. P. KER, The Dark Ages, p. 314.
157
Thormod Saga in Origines Islandicae, II, 705.
158
Khristni-Saga, VIII, 7, in Origines Islandicae, I, pp. 400-l.
159
Monumenta Germaniae Historica: Epistolae (ed. Dummler).
III, pp. 159 ssg;. Cfr. HINCMAR, De raptu
viduarum, c. XII.
160
CARLYLE, Medieval Political Theory in the West, I. 259-61.
L'opinione di Cathulf è senza dubbio derivata da
AMBROSIASTER, Quaestiones Veteris et Novi Testamenti. 35 (cfr. op.
cit., I, 149)
161
MANITIUS, Geschichte (des lateinischen Literatur (des Mittelalters,
I, 405-406.
162
Agobardo fu uno dei pochi dotti di quel periodo che studiassero le
opere di Tertulliano. Cfr. MANITIUS, op. cit., I, 386.
163
“Laonde gli mostriamo certi scritti appoggiati dall’autorità
dei santi Padri e dei suoi predecessori, inconfutabili da tutti, che
il suo potere era quello di Dio e del beato Pietro che aveva
autorità su tutte le genti in nome della fede cristiana e della
pace di tutte le chiese per predicare il Vangelo e testimoniare la
Verità, e che in lui era riposta tutta la suprema autorità del
vivente potere di S. Pietro, dal quale è necessario che tutti siano
giudicati, in quanto egli non può venire giudicato da nessuno
(RADBERT, Epitaphium Arsenii, II, 16).
164
Radberto scrive:” Tunc ab eodem sancto viro [sc. Gregorio ] et
ab omnibus qui convenerant adjiucantum est quia imperium tam
praeclarum et gloriosum de manu patris ceciderat ut Augustus
Honorius [Lotharius]…eum relevaret et acciperet ", op.
cit., II, 18. Questo, tuttavia, non si riferisce al solenne giudizio
pronunciato dai vescovi riuniti a Soissons due mesi dopo, sotto la
presidenza di Ebbone e Agobardo. In quel tempo Wala e il papa si
erano ritirati disapprovando.
165
Monumenta German. Hist., sez II, vol. 11, N. 300, cap. III. Cfr.
CARLYLE,, Political Theory, I, 252. In quest'età la cerimonia e la
funzione dell'incoronazione assunse quella forma sviluppata che
doveva universalizzarsi in tutto l'Occidente durante il Medioevo e
che oggi sopravvive soltanto in Inghilterra. Il sacro rito
dell'Incoronazione e dell'unzione è di una antichità immemorabile
nel vicino Oriente, ma non è assodato quando sia passato in
Occidente. Appare per la prima volta in Spagna nel secolo VII, e
probabilmente verso la stessa data nelle Isole britanniche. Il più
antico cerimoniale esistente è quello del pontificale di Egherto
(che si fa risalire al secolo VIII), e a quanto pare fu
dall’Inghilterra, e non dalla Spagna, che il rito nel 750 venne
introdotto nel regno franco.
166
Cfr. SCHNURER, Kirche und Kultur, II, 31-54. La data più
antica è tuttavia mantenuta da Levison, Konstantinische Schenkung
und Silvester-Legend in Miscellanea Eherle II, Roma 1924. Un'altra
ipotesi è quella di Grauert, che congettura sia opera di Ilduino di
Saint-Denis, verso l’anno 816.
167
Nella lettera di Ludovico all'imperatore Basilio conservataci nel
Chronicum Salernitanum. Cfr. CARLYLE., op. cit.. I, 28.5.
168
CARLYLE, Medieval Political Theory, I, 289.
169
“Da, allora in poi le città passarono interamente sotto controllo
[da parte dei vescovi]. In esse, infatti si trovavano in realtà
solo abitanti che dipendevano più o meno direttamente dalla,
Chiesa... La popolazione era composta del clero della cattedrale e
delle altre chiese raggruppate intorno; dei monaci dei monasteri
che, specialmente dopo il secolo IX, si andavano stabilendo,
talvolta in gran numero, nel capoluogo delle diocesi; dei maestri e
degli studenti delle scuole ecclesiastiche; e finalmente dei
dipendenti e artigiani, liberi o servi, che erano indispensabili ai
bisogni del gruppo religioso e all'esistenza quotidiana del
conglomerato ecclesiastico " (H. PIRENNE, Medieval Cities. p.
66).
170
L’abbazia di Tegernsee perse non meno di 11746 dei suoi 11860
poderi (mansus). (Hauck, Kirchengestichte
Deutchlands II, 9 n. 3)
171
Un servizio consimile io compì un secolo dopo in Germania Notkero
Labeone (m. 1022), il famoso maestro della scuola di San Gallo. Egli
tradusse le opere Boezio, compresa la sua versione delle Categorie
di Aristotele, Marziano Capella e parecchi altri libri. Ma Notker se
ne sta quasi solo, perché il risveglio degli studi classici sul
continente accrebbe la supremazia del latino, e l'influsso della
cultura anglosassone, che era sempre stata favorevole al dialetto,
volgeva al tramonto.
172
Specialmente riguardo alla somiglianza che le sue norme intorno alle
Burgen e alle fortezze. della Marca Vendica hanno con le leggi di
Edoardo il Vecchio sui burhs del Danelaw. Cfr. Cambridge Medieval
History, III, p. l83 e nota.
173
Quest'assimilazione di clementi barbarici da parte della dominante
cultura monastica si vede pure nel Waltharius di Eccardo I di San
Gallo (verso il 920-30), notevole tentativo di rielaborare la nativa
tradizione della poesia eroica germanica nelle forme classiche
dell'epica latina. Ma qui l'influsso delle idee cristiane e più
forte e preannunzia l'avvento delle nuove letterature della
cristianità medioevale.
174
Stampata in F. NOVATI, I.'influsso del pensiero latino sopra la
Civiltà italiana del Medio Evo, Milano 1899, pp. 127-30.
175
GERBERTI, Acta concilii Remensis (Monumenta Germ.. Hist.
Script., 672). FLEURY, Histoire ecclesiastique L, LVII, ecc.
XXI-XXVI.
177
L'elemento bizantino alla corte di Ottone non era dovuto
all’artificiosa imitazione di un cerimoniale esotico, come hanno
supposto certi storici moderni. Esso fu il naturale risultato della
tradizione semi-bizantina della Roma del secolo x e dello stesso
Impero. Così Carlo il Calvo apparve in abito bizantino
all'assemblea di Ponthion nel 876, come segno che aveva ricevuto la
corona imperiale. Cfr. Halphen, La cour d'Othon
III a Rome-, in " Melangies d'archeologie et d'Histoire
dell'Ecole française "de Rome. XXV, 1905.
178
Chanson de Roland, vv. 2360-65- Anche i vv. 2366-96.
179
È vero però che nelle ultime parole di fìrythnoth risuona una
nota religiosa: "Ti ringrazio, o Signore dei Popoli, per tulle
le gioie che ho conosciuto nel mondo. Ora, grazioso Signore, ho
somma necessità che Tu conceda bene al mio spirito, perché la mia
anima possa salire fino a Te, possa passare in pace nella Tua
tutela, Principe degli Angeli". Ma il vertice morale della
poesia si trova piuttosto nelle estreme parole del " vecchio
compagno": "Sono vecchio di anni; non me ne andrò di qua,
ma voglio giacere al fianco del mio signore, dell'uomo che tanto
amavo”. Cfr. Anglo-Saxon Poetry (trad. R. K.
Gordon). pp. 364-67.
180
Ho discusso questi aspetti della cultura medievale in un articolo su
The Origins of the Romantic tradition, in “The Criterion ",
XI (1932), pp. 222-48, e in due articoli su The Origins Of the
European Scientific Tradition, in " The Clergy Review)', II
(1931). pp. 108-21 e 194-205.
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