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Attualità del tomismo
●Nell’attuale disordine ed instabilità degli spiriti la dottrina
tomistica, che eleva a scienza filosofica i princìpi insegnati dal senso comune
ad ogni uomo, conserva tutte quelle verità immutabili ed ordinate senza le quali
è impossibile conoscere la realtà che ci circonda, la natura dell’uomo e la
spiritualità della sua anima, l’esistenza di Dio e qualcosa della sua essenza,
l’arte di vivere bene in ordine al Fine ultimo. Se non esistono nozioni
immutabili, crolla la stabilità dei giudizi razionali e dei dogmi soprannaturali
della religione cristiana. Il giudizio (p. es. ‘l’anima è immortale’) è
un’affermazione che unisce due concetti o nozioni. Se le nozioni (‘anima’ e
‘spirituale’) non sono precise, definite ed immutabili, il giudizio sarebbe
infondato a sua volta e il ragionamento (concatenazione di due giudizi dai quali
si trae una conclusione) non giungerebbe a nessuna conoscenza certa, ma sarebbe
sconclusionato e porterebbe disordine e sconclusionamento in ogni sfera
dell’essere ed agire umano.
●Dal punto di vista del realismo della conoscenza, secondo cui “la
verità è la conformità del pensiero alla realtà oggettiva” e per il principio di
non-contraddizione, due sistemi filosofico-teologici che si oppongono non
possono essere veri entrambi; l’uno è vero, l’altro è falso. Invece dal punto di
vista dell’immanentismo moderno, secondo cui “la verità è la conformità del
pensiero alle esigenze della vita”, la verità muta incessantemente col cambiare
dei bisogni soggettivi dell’uomo. Quindi la verità non esiste, ma diviene o si
fa incessantemente. Assieme alla definizione della verità di ordine naturale
cambia anche il dogma e la verità della religione rivelata, che - essendo
costantemente mutevole - cessa di essere vera. Allora non vi è più verità e
non-contraddizione, ma tutto è relativo, soggettivo e contraddittorio. La Fede
cattolica viene rimpiazzata dal sentimentalismo soggettivistico e diventa
un’esperienza di vita religiosa, che evolve costantemente secondo gli umori
dell’uomo. L’attualità e la necessità urgente del ritorno al tomismo consistono
nel porre rimedio al disordine intellettuale, morale e spirituale, che
scaturisce dalla instabilità o moto perpetuo degli spiriti. San Pio X diceva che
“il male di cui soffre il mondo moderno è soprattutto un male dell’intelligenza:
l’agnosticismo” (Pascendi, 1907). Dall’agnosticismo si passa al
relativismo e al soggettivismo assoluti. È per questo che il magistero della
Chiesa da Leone XIII (Aeterni Patris, 1879) sino a Giovanni Paolo II
(CIC, 1983; Fides et ratio, 14/9/2011) ha ribadito la necessità di
conoscere la dottrina del Dottore Comune o ufficiale della Chiesa ed aderirvi.
San Pio X ha insistito nel corso del suo pontificato, dalla Pascendi sino
al Giuramento anti-modernista, nell’insegnare che “allontanarsi dalla
metafisica tomistica comporta un grave detrimento e pericolo”. La vita può
essere considerata realisticamente come oggettivamente fondata nella realtà. In
tal caso l’azione è vera e buona se ordinata realmente e oggettivamente al fine
ultimo. Questo può essere giudicato come vero solo se corrispondente al reale e
non ai bisogni soggettivi di ogni uomo, che cambiano continuamente. Quindi anche
in questo caso si ritorna alla definizione classica di verità e si abbandona
quella pragmatistica ed immanentistica di Maurice Blondel e dei modernisti.
L’azione vera e buona si ridefinisce in rapporto al vero Fine ultimo (S. Th.,
I-II, q. 19, a. 3, ad 2) e non viceversa, come vorrebbe Blondel, altrimenti
resteremmo impantanati nell’agnosticismo relativistico e soggettivistico.
●L’immutabilità dell’essere, come atto ultimo di ogni essenza, fonda
l’immutabilità e stabilità dei giudizi filosofici e delle formule dogmatiche. Se
l’essere mutasse continuamente secondo le esigenze della vita dell’uomo, i
giudizi razionali e le definizioni dogmatiche sarebbero fragili ed in constante
evoluzione. Il verbo essere, che è l’anima, il gancio o il ponte che unisce un
soggetto a un predicato, deve dare immutabilità ad un giudizio. Ora se l’essere
muta continuamente, se anche le nozioni (predicato e soggetto) cambiano
costantemente, i giudizi, i ragionamenti razionali e le definizioni dogmatiche o
di Fede cambierebbero costantemente e continuamente, nulla sarebbe più vero e
stabile sia nell’ordine della ragione che in quello della Fede. Per fare un
esempio sarebbe come se si tentasse di tenere immobilmente unite le onde del
mare mediante un gancio elasticizzato che è in continuo movimento come le onde
stesse. Invece una nave può essere fissata sulle onde del mare mediante
un’ancora reale e salda, che si aggancia sul fondale di terra, sotto il fluire
delle onde. Questa è la differenza che intercorre tra la “filosofia” moderna del
divenire e quella classica e scolastica dell’essere. Perciò la verità si deve
definire in rapporto all’essere, come fa la metafisica dell’esse ut actus
e il conseguente realismo della conoscenza (agere et cognoscere sequuntur
esse). La filosofia dell’azione e del divenire non dà nessuna certezza e
stabilità, ma pone solo dubbi, agitazioni e squilibri intellettuali e morali.
Così tutti i surrogati di filosofia che si allontanano dall’essere (scotismo e
suarezismo), pur non cadendo esplicitamente negli eccessi dell’errore
soggettivistico, sono ‘armi spuntate’ con cui non si riesce a debellare l’errore
e il pervertimento dell’agire umano e la degenerazione dell’eresia modernistica.
●L’attuale confusione dell’intelletto, dello spirito e della morale, che
è penetrata sin dentro il Santuario, richiede da parte dell’uomo la necessità di
tornare al tomismo e da parte di Dio un’azione enormemente prodigiosa come
quella del diluvio universale: “A mali estremi, estremi rimedi”. Senza
quest’intervento straordinario di Dio l’uomo non potrebbe uscire dal “pozzo
dell’abisso” di cui parla l’Apocalisse e che venne già citato ad
esempio della gravità dell’errore del cattolicesimo liberale da Gregorio XVI
nella sua enciclica Mirari vos del 1832.
●Siccome la modernità a partire da Cartesio ha soppresso la relazione
essenziale della ragione con l’essere extramentale o reale, l’intelletto umano
non può più conoscere con certezza nulla di oggettivo, non riesce a fondare
un’etica naturale e non giunge ad elevarsi dalle creature al Creatore. Il
cogito moderno-cartesiano parte dall’ego e si ripiega
‘ego-isticamente’ su se stesso per avviarsi verso un’esistenza disperata,
che al contrario della grazia è avangusto delle pene dell’inferno.
L’esistenzialismo disperato della filosofia nichilistica contemporanea e
post-moderna è l’esatto ribaltamento della dottrina ascetica e mistica, la quale
conduce l’anima all’unione con Dio, tramite lo sviluppo della grazia, che è
semen gloriae aeternae o avangusto della vita eterna. L’uomo non vive
più per Dio, ma per se stesso (idealismo) o per il nulla (nichilismo) e si avvia
verso l’autismo scisso dalla realtà o l’auto-distruzione. Il tomismo corrisponde
ai bisogni profondi e veri del mondo attuale, poiché restituisce l’amore della
verità, senza la quale non si può ottenere la carità soprannaturale e l’unione
con Dio “Luce intellettual piena d’amore” (Dante), che solo può dare la
pace all’animo umano, il quale è aperto all’infinito e “non trova requie se non
in Dio” (S. Agostino) conosciuto, amato e servito.
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I principi fondamentali del
tomismo
1°) Il tomismo è
la metafisica che considera ogni cosa in rapporto o alla luce dell’essere
come atto ultimo e non in rapporto al movimento, all’io, all’azione.
2°) Esso risolve
tutti i grandi problemi mediante la distinzione di materia/forma,
potenza/atto, essenza/essere dando il primato alla forma, all’atto
e soprattutto all’essere, perfezione ultima di ogni altra perfezione. L’essenza
creata e finita (anche quella angelica) non è il suo atto di essere, ma lo
riceve e lo partecipa, essendo realmente distinta da esso. Solo Dio è l’Essere
per sua essenza; ogni altro ente per partecipazione riceve ab Alio
l’essere nella sua essenza creata e finita. S. Tommaso insegna esplicitamente
che “l’essere è la realtà più perfetta, […] l’attualità di tutte le cose
e delle forme stesse” (S. Th., I, q. 4, a. 1, ad 3).
3°) Distingue
nettamente essere come atto ultimo, che perfeziona anche le essenze,
dall’esistenza, che è il prodotto o l’effetto dell’essere attuante
un’essenza dando così luogo al fatto o effetto o prodotto di ex-sistere
dell’ente; ossia l’ente esce fuori dal nulla essendo causato efficientemente
dall’essere, che perfeziona l’essenza e la rende ente esistente in atto e
realmente.
4°) È essenzialmente teocentrico, poiché afferma il primato
dell’atto sulla potenza e Dio è Atto puro da ogni potenzialità; inoltre afferma
il primato dell’essere su ogni essenza e Dio è l’Essere per essenza. Siccome
l’uomo è composto di materia e forma, di potenza e atto, di essenza ed essere,
egli è essenzialmente distinto da Dio, assolutamente semplice e privo di ogni
composizione, e perciò l’unico centro e fine è Dio (“Rex et Centrum omnium
cordium”) e non l’uomo, che è solo un mezzo ordinato al fine e sottomesso a
lui. Solo il tomismo, a differenza dello scotismo e del suarezismo “scarsamente
reattivi verso le tesi più arrischiate e sovversive” (Reginaldo
Garrigou-Lagrange, Essenza e attualità del tomismo, Brescia, La Scuola,
1947, p. 32) riesce a confutare ogni forma, sia pur soltanto tendenziale, di
panteismo ed ogni tentativo di far coincidere teo e antropo/centrismo, tentativo
riportato in auge dall’insegnamento pastorale del concilio Vaticano II (cfr.
Giovanni Paolo II, 1980, “Dives in misericordia” n.° 1), che su questo punto è
in contraddizione con la sana ragione, la Tradizione apostolica e il magistero
costante della Chiesa.
5°) L’essere per
il tomismo non è univoco (come dicono Scoto e Suarez), ma analogo. Se l’essere
fosse univoco, si ricadrebbe nell’errore del monismo di Parmenide (ripreso da
Spinoza e dall’immanentismo moderno) già risolto da Aristotele nella
Metafisica con la dottrina della distinzione reale tra potenza ed atto.
Infatti ciò che è univoco viene diversificato solo da differenze estrinseche a
lui. Ora al di fuori dell’essere non c’è nulla. Quindi tutto sarebbe una sola
cosa: mondo e Dio. Da questa divergenza tra tomismo e scolastica decadente
(scotismo e suarezismo), che si trova all’inizio della metafisica o della
definizione della natura dell’essere, che pian piano ci fa scendere all’Essere
stesso sussistente, si giunge alla divergenza, che si situa al vertice della
metafisica o teologia naturale: per S. Tommaso solo in Dio l’essenza e l’essere
sono la stessa cosa (S. Th., I, q. 3, a. 4), mentre per scotismo e
suarezismo anche nelle creature essenza ed essere non sono realmente distinti,
ma solo logicamente. Perciò con la loro teoria filosofica come si può confutare
il panteismo di Baruch Spinoza e di tutta la filosofia immanentistica, secondo
cui l’essere appartiene per natura alla sostanza creata e quindi esiste una sola
sostanza ed un solo essere, che sarebbero Dio e il mondo?
6°) Per S. Tommaso
solo Dio, l’Atto puro, è il suo proprio essere per essenza. Quindi
l’Essere divino non è ricevuto in nessuna potenza o essenza ed è illimitato ed
infinito (S. Th., I, q. 3 a. 4; ivi, q. 7, a. 1). L’essere è
l’ultima attualità o perfezione di ogni altra perfezione. L’Angelico trascende
Platone ed Aristotele, che si son fermati all’idea ed all’essenza senza risalire
all’essere che le ultima.
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L’essere come vertice della filosofia di tomistica e l’essenzialismo
aristotelico
S. Tommaso,
perciò, è il filosofo dell’essere come atto ultimo di ogni essenza, forma
e perfezione. Per essenzialismo (o formalismo) si vuol intendere
la filosofia aristotelica, che si ferma all’essenza o alla forma e
non giunge all’atto ultimo di ogni essenza, forma e perfezione, che è l’atto
di essere. Attenzione! Il tomismo verace, che non si ferma all’essenzialismo
o studio dell’essenze, ma lo trascende arrivando all’essere, il quale è la
perfezione dell’essenza, non significa neppure ‘esistenzialismo
contemporaneo’ o studio dell’esistenza concreta del singolo individuo con i suoi
problemi esistenziali, ma neanche ‘esistenzialismo classico-antico’, che viene
da ex-sistere ossia uscir fuori dal nulla e dalla propria causa e si
ferma allo studio del fatto di esistere degli enti finiti. Il tomismo
genuino non nega la positività ontologica dell’essenza o forma dei vari
enti e neppure la necessità di studiare l’esistenza positiva e reale
dell’ente creato che è il fatto di esistere, il quale è il semplice
risultato della presenza reale e positiva dell’ente nella realtà e non va
confuso con l’atto di essere, che è l’ultima perfezione metafisica di ogni forma
o essenza, termine della metafisica tomistica, la quale trascende Platone ed
Aristotele. Tra essere come atto ultimo ed esistere come prodotto dell’essere
informante un’essenza passa la stessa differenza che tra causa ed effetto. Ora
la causa non è l’effetto e quindi l’essere non è l’esistenza. Purtroppo questa
verità fondamentale del tomismo è stata trascurata dalla terza scolastica e
padre Cornelio Fabro ne ha fatto il suo cavallo di battaglia.
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L’atto
d’essere
L’Angelico insegna che «l’essenza, prima di avere l’atto di essere,
non esiste ancora» (De Pot., q. 3, a. 5, ad 2) e che «è necessario
che l’atto stesso di essere stia all’essenza, la quale è realmente distinta da
esso, come l’atto alla potenza» (S. Th., I, q. 3, a. 4. Cf. De
spir. Creat., a. 1). L’ente è composizione fra essere
partecipato (atto) ed essenza (potenza). Ne proviene che l’autentico
atto di essere (esse) non va mai confuso col fatto
dell’esistenza (ex-sistere), la quale è il semplice risultato,
prodotto o ‘effetto’ della presenza dell’ente nella realtà, che non può
assurgere alla dignità di atto metafisico, il quale è causa di esistenza.
Ossia l’essenza che riceve l’essere come suo atto ultimo produce o dà luogo
all’ente, il quale è realmente esistente nella realtà (ex-sistit, esce
dal nulla ed entra nella realtà), grazie all’essere che attua ultimamente
un’essenza. Il semplice fatto dell’esistenza o di essere presente nella
realtà si può predicare anche dei difetti, delle malattie, della morte e dei
peccati: tutti danni o deficienze degli enti, esistenti, ma non certo perfezione
di enti o ‘enti in senso proprio’. Analogamente il poter fare il male è soltanto
segno o difetto di libertà, la quale consiste essenzialmente nel poter fare il
bene. Quindi il peccato o male morale è difetto o deficienza di vera libertà,
come la malattia è difetto di salute, ma anche segno di presenza nella realtà o
esistenza dell’ente ammalato (essentia) e non ancora morto (habens
esse). Al contrario, la possibilità di peccare è il più grave limite della
nostra libertà. Si pensi, per esempio, alla possibilità di un ingegnere di
uccidere i cittadini, sbagliando i calcoli del cemento. L’ingegnere perfetto,
invece, è colui che non sbaglia i calcoli e fa vivere tranquilli i cittadini,
così l’uomo perfetto è colui che non pecca o non agisce moralmente male e fa il
bene.
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Dall’ente ultimato dall’essere a
Dio
È pertanto chiaro che la partecipazione degli enti all’essere (“l’ente è
un’essenza avente o partecipante l’essere”) può farci risalire a Dio, secondo
l’insegnamento di S. Tommaso: «Alla struttura metafisica di ogni ente per
partecipazione consegue la sua dipendenza causale, o creaturale, dall’Altro»
(Cf. S. Th., I, q. 44, a. 1, ad 1; ivi, ad 2). Ossia l’ente per
partecipazione dipende e riceve l’essere dall’Ente per essenza o Dio. Appunto su
tale partecipazione si fonda la “quarta via” tomistica nella quale Dio è
qualificato come “causa dell’essere”, ovvero Creatore, di tutti gli enti
(S. Th., I, q. 2, a. 3). Questo atto di essere, trascende ogni essenza e
forma, per cui si deve parlare del supremo atto metafisico di essere. Il termine
“ente” esprime anzitutto e soprattutto l’essenza partecipante l’atto di essere
(Cfr. In I Sent., d. 8, q. 4, a. 2; De Ver., q. 1, a. 1, ad 3). Ed
è perciò stesso che l’ente per partecipazione, costituito dall’essere
partecipato e dall’essenza, fonda il primo collegamento della dipendenza
causale, o creaturale, di ogni ente finito dall’Essere infinito. Così il
vero essere da San Tommaso è riconosciuto come il costitutivo metafisico proprio
di Dio (“Ego sum qui sum”; “Javeh”); il Quale, appunto per questo,
è la Causa dell’essere, e dunque il Creatore, di tutti gli enti. Non è
difficile, allora, vedere che l’onnipresenza creatrice di Dio negli enti
presuppone ed esige la sua infinita trascendenza su di essi tutti (Cf. S.
Th., I, q. 4, a. 2, ad 3; ivi, I, q. 11, a. 4, ivi, I, q. 8,
aa. 1-4; ivi, I, q. 105, a. 5).
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Analogia di attribuzione e di
proporzionalità
Questa trascendenza di Dio sul creato fonda anche l’analogia delle
creature con il Creatore: «somiglianza dissomigliante» e
«dissomiglianza somigliante». Infatti ogni creatura è più o meno simile a
Dio in virtù del suo atto di essere partecipato; ed è più o meno dissimile a Dio
in séguito alla sua essenza. Di qui la distinzione tra l’analogia di
attribuzione intrinseca rispetto a quella di proporzionalità. L’analogia di
proporzionalità (il sasso, l’albero l’animale, l’uomo e l’angelo, sono
analoghi a Dio relativamente al fatto di esistere) accentua specialmente
l’infinita distanza metafisica degli enti da Dio (infatti le loro essenze
sono infinitamente lontane da quella divina). Invece l’analogia di
attribuzione (l’essere appartiene essenzialmente a Dio e solo per
partecipazione alle creature anche se realmente e formalmente o intrinsecamente)
accentua primariamente la dipendenza causale, o creaturale, degli enti da
Dio (Cf. S. Th., I, q.3, a. 7, ad 1; ivi, I, q. 13, a. 5;
Comp. Th., c. 130, n. 261). Non bisogna perciò contrapporre i due
concetti di analogia, ma servirsene secondo i loro rispettivi compiti e scopi
(primo: accentuare l’infinita distanza metafisica degli enti da Dio;
secondo: sottolineare la dipendenza causale degli enti da
Dio).
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S. Tommaso, Platone e
Aristotele
S. Tommaso trascende Platone, giunto soltanto all’essenzialismo
dell’‘idea’, come pure Aristotele, fermatosi all’essenzialismo della
‘forma’ e della ‘sostanza’, da entrambi presentate senza il
riferimento al vero essere, che le perfeziona ed ultima. È S. Tommaso che
trascende questi due filosofi elevando al vertice dell’essere come atto che
perfeziona idea e sostanza quanto c’è di valido in entrambi gli indirizzi (Cf.
De Subst. sep.,c. 3). Si dovrebbe dunque distinguere il tomismo genuino
dall’essenzialismo del platonismo e dell’aristotelismo per farlo emergere nella
sua genialità originale di atto di essere, perfezione ultima di ogni forma.
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Intelletto e
volontà
La volontà è una tendenza, un desiderio o un appetito razionale, il
quale segue la conoscenza intellettuale ed è specificata dall’oggetto conosciuto
dall’intelletto e presentatole come buono, anche se in realtà non lo è (bene
apparente, male reale). Infatti l’oggetto della volontà è il bene anche solo
apparente e non può essere il male in quanto male, perché ciò sarebbe contrario
alla natura della volontà. Ma un oggetto, prima di ‘essere buono’, deve
‘essere’ o ‘esistere’. Quindi in questo senso la
volontà dipende dall’intelligenza: l’intelletto conosce l’essere o la natura
intima e vera del suo oggetto, mentre la volontà tende all’essere buono o
presentatole come tale. Ora ontologicamente l’essere è anteriore
all’essere buono. Perciò in senso assoluto l’intelletto precede la
volontà.
Tuttavia quando l’oggetto (per esempio Dio) è più nobile dell’anima
umana in cui risiedono l’intelligenza e la volontà, allora - in rapporto a
questo oggetto - la volontà è superiore all’intelligenza. Infatti, l’atto
intellettivo di conoscere “attira” a sé gli oggetti conosciuti perché la loro
rappresentazione entra psicologicamente o logicamente (non fisicamente)
nell’intelletto. Perciò Dio è conosciuto secondo le capacità finite e limitate
dell’intelletto umano, ossia è rimpicciolito al livello delle nostre idee o
concetti intellettuali. La ragione umana può conoscere con certezza l’esistenza
di Dio, mediante un sillogismo che parte dagli effetti (creature) per risalire
alla Causa prima incausata (Creatore); può giungere a conoscere anche qualche
proprietà, nome o attributo di Dio (Essere, Bene, Vero…), ma non tutta la sua
Natura, che, essendo infinita, sorpassa illimitatamente le capacità conoscitive
dell’intelletto umano ed è infinitamente sproporzionata alla finitezza del
concetto intellettuale. L’uomo non può formarsi un’idea adeguata di Dio,
altrimenti coglierebbe la sua Essenza infinita e il suo intelletto dovrebbe
essere infinito, come vogliono gli ontologisti, ma ciò è evidentemente falso.
Solo in Paradiso i Beati vedono Dio faccia a faccia nella sua Essenza come è, ma
grazie al Lumen gloriae, che è dato da Dio all’intelletto del Beato e lo
sopraeleva soprannaturalmente alla capacità di cogliere intellettualmente e
intuitivamente la Natura infinita di Dio (Visione beatifica). L’atto della
volontà, che è una tendenza verso un oggetto presentatole come buono, esce,
invece, fuori di essa per unirsi all’oggetto conosciuto e amato come buono e
possederlo o fruire della sua bontà. Perciò già in terra, quando la volontà ama
o desidera Dio, è perfezionata, cresce di grado, poiché esce da sé tende e
aderisce ad un oggetto infinitamente più nobile di sé.
Tuttavia bisogna fare attenzione: intelletto e volontà
non si possono considerare come due agenti separati, ma sono due facoltà di un
solo uomo, facoltà distinte ma non separate, che invece di contrapporsi devono
collaborare intimamente (come l’analogia di proporzionalità e quella di
attribuzione). Intelletto e volontà sono intimamente legate nella medesima
azione: «l’intelletto sa che la volontà vuole e la volontà vuole che
l’intelletto conosca» (S. Th., I, q. 82, a. 4, ad 1). Esse sono legate
nella libera scelta di un fine, che già Aristotele chiamava “intellezione
appetitiva e appetito intellettivo” (Etica Nicomachea, IV, 2).
Cronologicamente l’intelletto precede. Infatti la volontà è un appetito o una
tendenza razionale, che segue cioè la conoscenza dell’intelletto. Negli scritti
di San Tommaso d’Aquino si trova una certa evoluzione o precisazione del suo
pensiero. Sino al 1270 (Somma Teologica e De Veritate) l’Angelico
attribuisce alla volontà la causalità efficiente e all’intelletto la causalità
finale. Invece con la questione De Malo (q. 6, articolo unico) del 1271
san Tommaso specifica: alla volontà spetta la causalità efficiente e
finalizzante; all’intelletto spetta la causalità specificante e formale,
estrinseca o esemplare, con la quale l’intelletto presenta alla volontà,
specificandola, un oggetto conosciuto come bene, un esemplare, un modello o un
esempio da volere, il quale è condizione essenziale affinché il bene eserciti la
sua attrazione (quale modello) sulla volontà e la volontà eserciti la sua
causalità finale e tenda a volere il fine o bene propostole come modello
dall’intelletto. Ora il bene è il fine, ma il bene è oggetto della volontà e non
dell’intelletto. Infatti ogni bene conosciuto finitamente dall’intelletto (fosse
anche Dio) non esercita un’attrazione determinante sulla volontà, che resta
indifferente e libera ed è lei a scegliere un bene o un altro bene (reale o
apparente) come suo fine. Cajetanus scrive: “voluntas ex se sola flectit
judicium quo vult” (In Primam partem, q. 82, a. 4). Quindi il bene,
anche se prima è stato presentato dall’intelletto come esempio, esercita una
causalità finale solo dopo che è stato scelto liberamente dalla volontà. La
proposta o l’illuminazione (come quella di un faro), che rende possibile o
occasiona la scelta del bene, viene dall’intelletto, però la scelta o il rifiuto
(il movimento avanti o indietro, come quello del motore) vengono dalla volontà,
non ciecamente, ma razionalmente poiché la scelta è libera e volontaria, ma
valutata e deliberata dall’intelletto: prendo o scelgo con la volontà ciò che
con l’intelletto ho valutato come bene per me. Perciò è l’intelletto -
nell’ordine statico - che illumina la volontà come causa formale estrinseca o
esemplare, che specifica la volontà, presentandole il suo oggetto: l’essere
conosciuto come buono, anche se in realtà è cattivo (S. Th., q. 9, a. 1),
ma non bisogna misconoscere che la volontà - nell’ordine dinamico o attivo -
muove l’intelletto come causa efficiente e finale (S. Th., I, q. 82, a.
4; De Veritate, q. 22, a. 12) sia applicandolo a questo oggetto
(matematica) o a quest’altro (filosofia) sia facendogli ponderare il lato buono
di un bene finito oppure quello cattivo, poiché l’ente-bene finito è sempre un
bonum mixtum malo. L’intelletto offre alla volontà i princìpi o le
conoscenze (l’esempio o il modello) per poter tendere verso qualcosa (“niente è
voluto se prima non è conosciuto”), le presenta l’essere conosciuto come buono,
ma tale presentazione è solo ‘conditio sine qua non’ affinché il
bene possa attrarre la volontà. Perciò ogni atto di volontà procede -
cronologicamente innanzitutto e materialmente - da un atto dell’intelletto;
tuttavia è la volontà che tende poi - formalmente ed efficacemente - all’atto
finale dell’intelletto, che è la beatitudine, e in questo senso l’atto di
volontà è superiore a quello d’intelletto (S. Th., I-II, q. 4, a. 4, ad
2; Ivi, q. 99, a. 1, ad 3). Perciò la volontà realizza ultimamente l’uomo
intero offrendogli il suo fine, che è il bene e la felicità (causalità finale);
essa è principio di ogni agire (causalità efficiente) e in questo senso la
volontà muove l’intelletto (S. Th., I-II, q. 9, a. 1, ad 3), ma la
volontà tende all’atto finale dell’intelletto, che è la beatitudine (S. Th.,
I-II, q. 4, a. 4, ad 2).
*
La vera
libertà
Nella produzione dell’atto libero vi è un influsso reciproco
tra intelletto e volontà. Ambedue sono facoltà di un unico uomo e sarebbe falso
ipostatizzare intelletto e volontà come due soggetti agenti per se sussistenti,
di cui l’uno propone e l’altro dispone separatamente. Invece il soggetto che
razionalmente propone e liberamente dispone è l’uomo. L’uomo sceglie il fine o
bene e per mezzo del suo intelletto e della sua volontà muove l’intelletto come
causa efficiente a conoscere un oggetto piuttosto che un altro e infine spinge
l’intelletto ad emettere l’ultimo giudizio pratico. La scelta deliberata e
consapevole (volizione o elezione) costituisce l’atto libero con cui un uomo
accetta (o respinge) un determinato bene finito come in concreto per lui fine
buono e ultimo, in cui trovare la felicità. La fase decisiva della produzione
dell’atto libero è una scelta che è dovuta all’uomo, il quale si serve assieme
dell’intelletto e della volontà: «la scelta è o un’intellezione appetitiva o,
meglio, un appetito intellettuale, e il principio che opera tale scelta è
l’uomo» (Aristotele, Etica Nicomachea, VI, 2). La scelta è un atto di
giudizio voluto o di volizione ragionata. Il giudizio o
valutazione è atto dell’intelletto. Per giungere alla scelta libera, che è atto
di volontà, bisogna arrivare dal ‘giudizio speculativo’, che mi presenta un
oggetto (“ricchezza”) come felicità/bene/fine in maniera assolutamente astratta,
universale, valida per tutti o teorica, a quello ‘speculativo-pratico-prossimo’,
ove la volontà spinge l’intelletto a ‘deliberare’ (decidere, interrogarsi o
stabilire) quale mezzo prendere (“lavorare o rubare”) considerando (valutando o
giudicando) se l’oggetto (“ricchezza”) sia veramente fine buono per me e la mia
felicità, concretamente, qui e adesso. L’intelletto delibera mentre la volontà
ancora si frena o si inibisce di prorompere in un atto di adesione definitiva
che vuole ultimamente un mezzo (“non-rubare, ma lavorare”), come atto a cogliere
il fine/bene/felicità. Inoltre è la volontà che spinge efficientemente
l’intelletto a concentrare la sua attenzione su un aspetto o un altro del bene
in considerazione (“ricchezza”) e a deliberare o decidere in maniera più
approfondita quale mezzo prendere (“non-rubare”) per giungervi. Quindi si giunge
al ‘giudizio pratico-pratico’ o ultimo pratico, che è la scelta concreta libera
e cosciente (o il rifiuto) del mezzo (“non-rubare”) atto a farmi cogliere il
fine/bene/felicità (“ricchezza”). Tale bene, che è conosciuto dall’intelletto
finitamente ed è così presentato alla volontà, viene scelto dalla volontà come,
concretamente, qui e adesso, un bene totale o fine ultimo, in cui trovare la
beatitudine. Questa scelta è un giudizio pratico dell’intelletto, che mi fa dire
“per me hic et nunc la ricchezza è il bene assoluto, il mio fine ultimo
in cui troverò la felicità e per giungervi debbo “non-rubare”, ma lavorare. Ora
in questo ‘giudizio pratico-pratico’ intervengono cronologicamente assieme
intelletto e volontà, ma l’intelletto influisce sulla volontà come causa
esemplare o formale estrinseca (“non-rubare” è l’esempio, il modello da seguire
e volere per essere felici o ricchi); tuttavia il giudizio intellettivo diviene
pratico-pratico o ultimo poiché la volontà liberamente spinge l’intelletto a
dare l’assenso ad esso e poi la volontà lo accetta come bene
totale o fine ultimo. Infatti, trattandosi di un bene finito, che è sempre unito
ad un certo lato spiacevole (bonum mixtum malo), la deliberazione
dell’intelletto (stabilire quale mezzo prendere: “rubare/non-rubare”) da sé sola
non può concludersi a un giudizio definitivo o ultimo. Vi è indeterminazione da
parte dell’oggetto buono che è finito, ma vi è auto-determinazione della
volontà. Infatti “libero arbitrio” significa che la volontà è arbitra o sceglie
di prendere un mezzo (“non-rubare”) più che un’altro (“rubare”), senza essere
determinata dal giudizio speculativo o intellettuale. L’atto libero è
primariamente, formalmente e sostanzialmente un atto di volontà, ossia emesso
dalla volontà, che è illuminata secondariamente, materialmente e accidentalmente
dall’intelletto quale causa esemplare. Allora è la volontà che spinge come causa
efficiente e finale l’intelligenza a soffermarsi su un dato aspetto del mezzo in
questione e a giudicarlo come hic et nunc il migliore per me
(“non-rubare”) ponendo fine alla ‘deliberazione’ intellettuale e giungendo alla
‘scelta libera’ della volontà. Siccome manca l’evidenza intellettuale di fronte
ad un bene finito, allora è la volontà che liberamente muove l’intelletto ad un
‘assenso’ giudicativo e ‘sceglie’ liberamente. Questa scelta, compiuta sotto
l’influsso mutuo dell’intelletto e volontà, è formalmente atto della
volontà sia perché la scelta non è atto intellettuale ma volitivo, sia perché la
causalità efficiente della volontà sull’assenso intellettivo è più importante di
quella esemplare illuminatrice dell’intelletto sulla volontà. Una volta posto
questo ‘giudizio pratico-pratico’ su un dato mezzo come atto hic et ninc
a farmi cogliere il bene totale e fine ultimo in cui essere felice, allora la
volontà vuole immancabilmente tale mezzo, poiché è appetito razionale,
altrimenti sarebbe appetito irragionevole e dall’altra parte rinuncerebbe alla
sua felicità, al fine ultimo e al bene totale, ossia vorrebbe il ‘male in quanto
male’, ma ciò ripugna alla natura della volontà che è ordinata al bene. La
libertà deriva, dunque, dalla mancanza di proporzione tra la volontà razionale,
che è specificata da un Bene universale, e un bene finito e particolare, che è
buono sotto un aspetto e non-buono sotto un altro aspetto e assolutamente
sproporzionato alla ampiezza illimitata della volontà specificata dal Bene
universale (De Veritate, q. 22, a. 5). Amare Dio, che in sé è infinito ma
è conosciuto da me finitamente, è un qualcosa che ha il rovescio della medaglia
(bene in sé, misto a male per me). Infatti per amare Dio debbo rinnegare il mio
amor proprio e quindi è un bene reale che a me e al mio egoismo appare come un
“male” apparente (S. Th. I, q. 83, Ivi, I-II, q. 10, aa. 1-4).
Ora, se è l’intelletto a presentare alla volontà un oggetto come indifferente,
ossia finito e quindi buono sotto un aspetto e non-buono sotto un altro aspetto,
è, invece, la volontà che fissa l’intelletto a considerare l’aspetto buono in sé
o sgradevole per me dell’oggetto conosciuto e a farmi giudicare
pratico-praticamente e perciò scegliere liberamente l’uno o
l’altro (S. Th., I-II, q. 57, a. 5, ad 3um; Ivi, q. 58, a. 5):
“Video meliora proboque, sed deteriora sequor”; “vedo le cose
buone e le approvo speculativamente, ma praticamente faccio quelle
cattive”. «C’è qui un influsso reciproco tra intelletto e volontà,
come una specie di matrimonio tra le due facoltà» (R. Garrigou-Lagrange, La
sintesi tomistica, Brescia, Queriniana, 1953, p. 203; Id., Dieu, son
existence et sa nature, Parigi, Beauchesne, 1928, pp. 590-657). Ora il male
morale consiste proprio nella difformità tra giudizio speculativo e libera
elezione della volontà. Per cui il male morale o peccato non è ignoranza
(Socrate), ma cattiva volontà.
*
L’uomo è intelligente e libero, non
è solo intelletto né è sola volontà
Tomisticamente non bisogna mai dimenticare che è tutto l’uomo anima e
corpo, con l’intelletto, la volontà, la sensibilità e le passioni (“nihil in
intellectu quod prius non fuerit in sensu”; “nulla entra nell’intelletto
se prima non passa attraverso i sensi”), che conosce e vuole ed agisce, per
cui bisogna educare la sensibilità e le passioni ad obbedire alla volontà, e
questa all’intelletto e viceversa. Padre Reginaldo Garrigou-Lagrange scrive: «se
nego il valore dell’intelligenza retta, comprometto la bontà dell’azione libera
e volontaria. La volontà deve essere educata, illuminata e rettificata dalla
sana e retta intelligenza e dal giudizio speculativo vero circa il Fine ultimo.
Non si può amare Dio, Sommo Bene e Vero, senza la retta conoscenza della realtà.
Tuttavia, l’intelletto pratico, che sceglie i mezzi, dipende dalla buona
volontà. Ognuno giudica praticamente secondo la propria tendenza: se
l’inclinazione del proprio appetito sensibile o razionale è cattiva
(l’ambizioso), il giudizio pratico non è retto (per me qui e adesso è bene
rubare). La verità del giudizio dell’intelletto pratico dipende dalla buona
volontà» (La sintesi tomistica, Brescia, Queriniana, 1953, p. 203).
*
L’importanza di una buona
volontà
San Tommaso insegna: «Penso […] perché voglio pensare»
(De malo, q. 6, a. 1; Summa contra Gent., lib. I, cap. 72). Se mi
manca la buona volontà non metto a frutto l’intelligenza o la metto malamente a
frutto per fare il male. Perciò si potrebbe vedere l’assioma nihil volitum
nisi praecognitum anche dal lato opposto del nihil cognitum nisi
praevolitum. Se non voglio pensare o conoscere, non penso e non conosco.
Entrambe sono veri: l’intelletto è il faro dell’auto ma se non voglio girare la
chiave del motore ed accendere le luci, il faro resta spento. Come pure, se
accendo solo il motore senza illuminare la strada, mi schianto sicuramente,
poiché la volontà è una facoltà cieca. Per cui bisogna coordinare e far
collaborare intelletto e volontà senza contrapporle. «Mediante la volontà ci
gioviamo di tutto ciò che si trova in noi. Per cui è chiamata buona non la
persona intelligente, ma quella che ha la buona volontà» (S. Th., I,
q. 5, a. 4, ad 3). Infatti la nostra anima mantiene la grazia infusa da Dio in
forza della buona volontà (S. Th., I, q. 83, a. 2, sed contra). La
libertà vera consiste nella scelta libera di voler amare Dio e «più amiamo
Dio, più siamo liberi» (In III Sent., dist. 29, a. 8, quaestiunc. 3,
n. 106, sed contra). Per cui «la vera libertà è libertà dal
peccato; mentre la vera schiavitù è la schiavitù del peccato» (S. Th.,
II-II, q. 183, a. 4). Se l’intelligenza rende l’uomo dotto, la volontà lo fa
virtuoso. Il peccato, perciò, è l’obitorio della vera libertà. “Il vero
filosofo è colui che ama Dio” (S. Agostino, De Civitate Dei,
l. VIII, c. 1); “L’unica libertà è la vittoria sul peccato” (Cornelio
Fabro, Vangeli delle Domeniche, Segni, 2011, II ed., p. 273); «L’uomo
poco sapiente e di scarsa intelligenza ma timorato di Dio, è migliore di chi è
molto intelligente ma trasgredisce la legge divina» (Sir., XIX, 21).
Come d’altra parte insegna anche il Vangelo: è “la Verità che vi farà liberi”,
poiché chi cade nell’errore è schiavo di esso; “Caritatem facientes in
veritate” (San Paolo). Perciò non si può disgiungere la retta conoscenza
dalla buona volontà. “Ubi justitia et veritas, ibi caritas”.
*
Non separiamo ciò che Dio ha
unito
Ecco l’importanza di non separare ciò che Dio ha unito in
matrimonio: intelletto e volontà, ma di farli cooperare unitamente e
subordinatamente come causa formale estrinseca che illumina (intelletto) ed
efficiente e finale che muove (volontà) l’uomo a conoscere il vero e ad agire
bene. L’uomo è composto di anima (in cui si trovano l’intelletto e la volontà) e
corpo (in cui vi sono la conoscenza sensibile: sensi esterni, interni e
l’appetito sensibile: irascibile e concupiscibile). La sola intelligenza senza
la buona volontà porta al male, la sola volontà senza conoscenza è cieca e
devia, sbanda, si schianta. Inoltre le passioni sensibili debbono essere educate
a rispondere positivamente alla buona volontà per essere applicate alla
conoscenza del vero. Altrimenti prendono il sopravvento e trascinano
l’intelletto e la volontà verso oggetti falsi e cattivi. Occorre coltivare il
corpo con i suoi sensi esterni (vista, tatto, gusto, olfatto e odorato) ed
interni (memoria e fantasia…), l’appetito sensibile (irascibile e
concupiscibile), le passioni (ira, odio, amore, timore…); poi l’intelletto a
conoscere il vero e rifiutare il falso ed infine la volontà ad amare il bene ed
odiare il male. “Fa il bene ed evita il male, questo è tutto l’uomo”. Non siamo
solo ‘ragione pura’, nemmeno ‘volontà assoluta’, neppure solo istinti, sensi,
passioni, ma un misto di queste cose che debbono lavorare assieme,
subordinatamente a farci cogliere il nostro vero Fine ultimo conosciuto ed
amato. L’Imitazione di Cristo ci insegna che il giorno del Giudizio non
ci verrà chiesto ciò che abbiamo letto, detto o scritto, ma ciò che abbiamo
voluto e fatto. L’ideale è la retta scienza accompagnata dalla buona volontà
(“doctus cum pietate, pius cum doctrina”), conoscere per amare e voler
conoscere per poter amare sempre meglio. Senza dimenticare che abbiamo un corpo
con i suoi sensi e le passioni, che vanno educate e innalzate dalla conoscenza
amorosa del Fine ultimo e non represse, altrimenti scoppiano e si rivoltano.
“Chi vuol far l’angelo, finisce per diventare una bestia”. L’uomo è un’unità
sostanziale di anima e corpo, sensibilità, intelletto/volontà e tutto deve
essere utilizzato in armonia e gerarchia allo scopo finale. L’uomo completo
dovrebbe tendere, pian piano e soprattutto con l’aiuto di Dio, ad acquisire una
intelligenza profonda, chiara, riflessiva, penetrante, agile, viva e
rapida, non superficiale, non fredda, arida o egoista, ma accompagnata da un
caldo e intenso amore di Dio e del prossimo ed una volontà forte, ferma,
costante, attiva e tenace, non timida, ma impavida e accompagnata dalla bontà di
cuore, evitando la pignoleria e la meticolosità ristrette, la durezza,
l’ostinazione, l’insensibilità. Infine la sensibilità, controllata da
intelletto e volontà, dovrebbe arricchire l’appetito irascibile con la
benignità, la serenità, la compassione, l’affabilità e l’espansività, senza
durezza di cuore e l’appetito concupiscibile con la padronanza di sé e la
flemma, la costanza, la metodicità, la perseveranza e la prudenza, schivando
l’angelismo come pure la schiavitù o la dipendenza dalle passioni o dagli
istinti disordinati. Per cui intelletto, volontà e sensibilità debbono
concorrere al perfezionamento dell’uomo assieme e subordinatamente.
*
Senza metafisica crolla la
morale
Tolto l’ordine metafisico è tolta la normatività, la responsabilità,
l’imputabilità e perciò vengono meno le basi dell’ordine morale. Così come tolto
l’essere vien meno anche l’agire. Parimenti è tolto l’ordine della libertà:
nella scelta del fine la volontà muove se stessa e precede l’intelletto.
L’autentica filosofia non si riduce affatto a un esercizio di pensiero, pur
indispensabile, ma è esercizio di buona volontà disposta ad accogliere e
riconoscere la verità dell’ente, dell’atto di essere e soprattutto dell’Essere
perfettissimo. “Il vero filosofo è colui che conosce alla luce della Causa
prima, giudica rettamente e ordina ogni cosa al proprio fine e soprattutto la
sua vita, vivendo virtuosamente”.
Mi sembra che questi possano essere considerati i rudimenti essenziali
della metafisica e dell’etica tomistica, che ci aiutano a conoscere il
vero per vivere bene e cogliere il nostro Fine. Che Dio ci
conceda di poter conoscere sempre meglio tali princìpi per metterli in pratica e
giungere a vederlo faccia a faccia.
d. CURZIO NITOGLIA
29 ottobre 2011
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